Potendo, li avrei salvati, di Leonard Michaels

Autore: Leonard Michaels
Editore: Racconti Edizioni
Traduzione: Luca Briasco, Roberto Serrai
pp. 588 Euro 26,00

di Fabrizia Gagliardi


«Gli scrittori muoiono due volte, prima nel corpo, poi nelle opere, eppure tirano fuori un libro dopo l’altro, come pavoni che fanno la ruota, uno splendido lampo di colore presto trascinato di nuovo nella polvere.»
In realtà, Leonard Michaels si muove in direzione contraria, con una produzione letteraria poco compulsiva e del tutto misurata.
In Italia, abbiamo avuto occasione di immergerci in un’esperienza narrativa variegata e sorprendente grazie a Sylvia (traduzione di Vincenzo Vergiani, Adelphi, 2016), il tragico memoir intriso di anni Sessanta e Beat Generation, che racconta l’amore folle e ossessivo dell’autore con la moglie Sylvia Bloch; e Il club degli uomini (traduzione di Katia Bagnoli, Einaudi, 2018) un racconto ironico e controverso dell’identità maschile con sette uomini riuniti a condividere esperienze, lontani dal mondo femminile che permea la loro vita.
A dire la verità, la palestra letteraria dell’autore si svolge proprio sui racconti e per la prima volta in Italia, grazie a Racconti Edizioni, abbiamo a disposizione la raccolta completa con l’uscita di Potendo, li avrei salvati (traduzione di Luca Briasco e Roberto Serrai).

«La short story mi pareva molto più profonda e seria del romanzo, per questo la preferivo. Quando si scrive un racconto non sono permessi errori. È una forma pura, magica.»

I trentotto racconti interconnessi tra loro rivelano un percorso di sperimentazione che passa per la revisione ossessiva della lingua e della struttura e per l’indagine di diverse forme narrative come saggi e autobiografie. Potendo, li avrei salvati emerge come un capolavoro ineguagliato eliminando il pericolo di oblio dell’autore e affiancandolo ad autori come Roth e Cheever.
La genesi personale e finzionale di Michaels, figlio di emigrati polacchi, affonda la sua esperienza nel Lower East Side di New York. Vive in un contesto di lingue intrecciate tra yiddish e polacco, le uniche che parlerà fino all’età di sei anni quando, alla musicalità e al ritmo delle prime, unirà la conoscenza dell’inglese. Sarà proprio il talento nella scrittura a permettergli di frequentare la New York University, a conseguire un dottorato in letteratura inglese all’università del Michigan e poi a dedicarsi all’insegnamento con il trasferimento a Berkeley, California.

In effetti, i suoi racconti sono intrisi di esperienze in grandi metropoli sporche, caotiche e confusionarie, che infilano pezzi di trama proiettando la storia in un avanti psichedelico. Mentre ci trasciniamo tra un amico e un corteggiamento, tra sesso e violenza emotiva, proviamo un’infinità di contraddizioni primordiali: i personaggi di Michaels tentano di attrarsi e respingersi senza soluzione di continuità, con un tono spesso ironico, ma anche amaro e disincantato. In Going Places, la prima raccolta di racconti del 1969 che l’ha presentato al pubblico, le cornici che contornano la cruda realtà dell’esistenza umana sono definite da una grande capacità di creare atmosfere e di catturare i dettagli significativi:

Passò a prenderla al suo dormitorio, la portò al cinema e più tardi, nella sua Chevrolet presa in prestito, la condusse in campagna con frasi pesanti e coccodrillesche le comunicò il suo dolore in mezzo al granturco alieno. Lei assisté allo sfogo con rapidi e incoraggianti cenni del capo e guardò le parole che strisciavano oltre i suoi occhi e sentì la forza che si concentrava nei loro faticosi movimenti mentre il Turco si allungava verso di lei e con le labbra ancora impegnate ad articolare le parole imprimeva alle cose un significato indelebile, stuprandola e costringendola a infinite variazioni delle quali non aveva mai sentito parlare, benché fosse una gran lettrice di romanzi d’avanguardia e di commentari filosofici sulla condizione moderna…

 

La scrittura di Michaels è frenetica e immaginifica e anche in un flusso di subordinate riesce a inserire metafore senza perdere la tenuta secca e descrittiva di emozioni e rivelazioni. I protagonisti delle sue storie sono sempre in movimento nel disperato tentativo di sopprimere la solitudine, infrangere le inquietudini e scontrarsi inevitabilmente con figure che tentano di fare lo stesso: sono tutte maschere di incomprensioni e compromessi con il mondo («Accade di rado, ma a volte gli opposti si fondono nelle angolosità divisive di Manhattan e man mano che la dialettica di una contrastata individuazione si faceva più intensa, questi due opposti si fondevano sempre più strettamente»).
Ne è l’esempio Philip Liebowitz, il suo alter ego letterario, protagonista di molti racconti a partire dalla raccolta I Would Save Them If I Could (1975). In Il capitano, per esempio, Liebowitz parteciperà a una festa a casa del suo futuro capo, ma gradualmente tutto si trasforma in un teatro grottesco: la compagna del capo gli offre continuamente incontri intimi, mentre la donna che lo accompagna accetta di essere corteggiata dal padrone di casa.
In Una ragazza con una scimmia, Beard cerca di dimenticare il suo divorzio con un viaggio in Germania dove però non farà altro che riversare la sua solitudine in una dipendenza affettiva per una prostituta.

Come in un sentiero verso la maturità così la scrittura evolve e negli anni di To Feel Things (1993) e A Girl with a Monkey (2000) rallenta, riprende contatto con l’andamento riflessivo dei racconti dei primi anni fino ad arrivare a The Nachman Stories. Le sette storie di Nachman, matematico geniale e scapolo, costituiscono la perla nascosta e antiromantica della raccolta.
In La Penultima Congettura, Michaels esplora le ombre del linguaggio attraverso la sensazione di essere derubati, aggiungendo un elemento di mistero e suspense alla trama. In Crittologia, Nachman viene invitato a New York da una società di crittologia, svelando un mondo oscuro e enigmatico che si intreccia con la sua vita passata.
La complessità delle storie di Michaels è una fusione di abilità narrativa e introspezione psicologica. Ogni parola, ogni virgola, è piazzata con cura, rivelando uno scrittore attento alla forma e al rapporto con la personalità.
In questo intreccio di solitudini, presenze e assenze, coinvolgimento e distanza, emerge la vera essenza dell'autore, con le sue ferite a vista. Michaels diventa un architetto delle emozioni, plasmando personaggi che, nonostante le loro storie uniche, riflettono le sfumature universali dell'esperienza umana.
In conclusione, Potendo, li avrei salvati è molto più di una semplice raccolta di racconti. È un viaggio nel cuore e nella mente di un autore straordinario che trova finalmente il riconoscimento che merita.

I pericoli di fumare a letto, di Mariana Enriquez

Autore: Mariana Enriquez
Editore: Marsilio
Traduzione: Fabio Cremonesi
pp. 176 Euro 17,00

di Debora Lambruschini

Il perturbante, l’ossessione, i corpi e il desiderio; le rovine della città, l’adolescenza quasi mai innocente, il trauma, la denuncia sociale. Sono il fil rouge che attraversa la produzione letteraria di Mariana Enriquez e i suoi racconti incendiari, tesi tra realtà e horror, ambientazione contemporanea e contaminazioni. Di recente Marsilio ha portato in libreria nella perfetta traduzione di Fabio Cremonesi la raccolta I pericoli di fumare a letto, pubblicata per la prima volta nel 2007 e che precede quindi i racconti di Le cose che abbiamo perso nel fuoco (Marsilio, sempre traduzione di Cremonesi), un bestseller tradotto in trenta lingue. Dodici storie non pienamente mature, forse, ma parimenti esplosive, nelle quali il perturbante si mescola al quotidiano, l’horror alla denuncia sociale, la contemporaneità alla tradizione, aprendo la strada a tematiche e spunti che saranno propri della scrittura di Enriquez. Le etichette – quelle stesse che come quasi ogni autore anche la scrittrice argentina rifugge – che vi possiamo apporre collocano i racconti di Enriquez nel solco della tradizione e li avvicinano, con le dovute distinzioni, alle storie di Poe, Amparo Dàvila, Shirley Jackson per certi versi, King, Lovecraft, un repertorio classico la cui influenza è ben riscontrabile e che si rinnova in storie che a partire da questa tradizione riescono a trovare la propria dimensione, la propria ragione di essere nella contemporaneità. Ed è, forse, proprio nell’intreccio di horror e denuncia sociale, folklore e realtà quotidiana, che i racconti di Enriquez diventano qualcosa di proprio e si fanno molteplici.
La lingua è affabulatoria, la narrazione segue di volta in volta un ritmo diverso, indugia sul particolare, il dettaglio, qui e là vira sul macabro ma mai fine a sé stesso; è un ritmo che segue l’andamento della storia, le sensazioni che mira a suscitare nel lettore, si muove sapientemente tra prima e terza persona. Il mondo di Enriquez è quello della città (Buenos Aires per lo più) o delle periferie, del degrado, del male che le attraversa e corrompe, dell’alienazione, del disagio, situazione ideale dove la realtà si contamina con il mito. E dove il sovrannaturale – che a tratti sembra assumere vagamente la forma del distopico – si innesca perfettamente sulla realtà più riconoscibile e usuale, i piani della ragione e dell’invenzione che si fanno via via più confusi. È una scrittura affabulatoria che estende al massimo il potenziale dell’ambiguità, piega gli strumenti della narrazione breve e conduce il lettore in luoghi oscuri, impenetrabili, da cui è impossibile uscire.
C’è una particolare ossessione per l’adolescenza, l’età più letteraria e ammaliante: le ragazze – perché sono soprattutto donne le protagoniste – di Enriquez quasi mai innocenti, oscillano tra l’essere vittime e carnefici. Si trova già nelle prime battute de “La Vergine della cava”, il secondo racconto della raccolta:

 

Era la nostra amica “grande”, quella che ci teneva d’occhio quando uscivamo, quella che ci prestava la casa in cui potevamo farci una canna o vederci con i ragazzi. Eppure volevamo vederla rovinata,
indifesa, distrutta.
(“La Vergine della cava”, p. 17)

 

Sono la gelosia, l’ossessione, il desiderio di vendetta e un istinto animale a guidare verso la rovina e un macabro epilogo, brutale. Ecco, brutali sono i racconti di Enriquez, per l’oscurità che li attraversa, la tensione costruita con cura, la violenza pronta a esplodere. Non è la violenza di Shirley Jackson o Flannery O’Connor, ma qualcosa che si rincorre lungo tutta la narrazione, inevitabile; di Jackson, Enriquez ricorda certi meandri oscuri del cuore umano, che più di demoni e fantasmi sono gli uomini e le donne i veri artefici del male, mai davvero innocenti.
È la rovina di un quartiere perbene che di fronte al diverso mette a nudo la propria meschinità e cattiveria e non può esserci salvezza (“Il carrello”), neppure tra i non direttamente colpevoli; è una famiglia che condanna una delle figlie per liberarsi del maleficio che li affligge («Decisero di salvarsi loro, bambina», “La cisterna”); è il fanatismo di due adolescenti portato all’estremo (“Carne”).
Ci sono poi due racconti in particolare da cui emerge ancor più evidente che in altri la commistione tra horror e denuncia sociale, cui la narrativa sudamericana difficilmente può rinunciare. Se Amparo Dàvila, regina del cuento e del perturbante, nel trattare la questione femminile sceglie di calarla nel quotidiano, in stretto rapporto con il contesto sociale in opposizione ai proclami e alla patina dell’attivismo, anche Enriquez trova la propria dimensione per denunciare l’oppressione, il peso della Storia recente, le storture, i pericoli del quotidiano. Ne “Le cose che abbiamo perso nel fuoco”, lo farà con il racconto potentissimo e distopico che dà il titolo alla raccolta, dove le donne per protestare contro la violenza e i femminicidi iniziano a lanciarsi volontariamente nel fuoco, uscendone sfigurate, sopravvissute, un simbolo. In questi dodici racconti che lo precedono, il discorso sul femminile è forse meno apertamente di protesta ma ugualmente presente: è nella rappresentazione del desiderio – che sconfina nell’ossessione, nella dipendenza, nell’isolamento – , nella rottura con i modelli tradizionali di moglie e madre, nell’indugiare sui corpi, nel cannibalismo perfino delle adolescenti di “Carne”.
Il più lungo e per certi aspetti compiuto racconto de I pericoli di fumare a letto non è quello eponimo – quasi mai, dopotutto, lo è – ma “Ragazzi che ritornano”, in cui l’intreccio di distopia, folklore, horror, denuncia sociale è quantomai efficace. E parte con l’alienazione del lavoro di chi ha costantemente a che fare con la sofferenza altrui, il contesto ideale su cui si innesta il distopico:

 

Quello di Mechi era un lavoro silenzioso, la manteneva isolata: consisteva nel gestire e tenere aggiornato l’archivio dei bambini smarriti e scomparsi nella città di Buenos Aires, conservato nello schedario più grande dell’ufficio, che apparteneva al Consiglio per i diritti di bambini, bambine e adolescenti. Neppure lei aveva le idee chiare sulle reti burocratiche di consigli, centri e amministrazioni a cui faceva riferimento, e a volte faticava a capire per chi stesse lavorando […].
(“Ragazzi che ritornano”, p. 114)

 

 Un archivio perfettamente ordinato, laddove ordine nel caos generato dalla scomparsa non può esserci. La ripetitività del quotidiano mossa da qualche incontro occasionale, relazioni superficiali e fugaci. Poi, l’ossessione e la rottura dell’equilibrio: una di quelle storie, uno dei tanti volti e nomi di ragazzi scomparsi, Vanadis, si imprime nella mente della donna; una ragazza bellissima, dalla vicenda tragica, misteriosamente scomparsa. Un filmato sgranato pare indicarne la morte. Ma appena pochi giorni dopo il ritrovamento del filmato, Vanadis riappare. È proprio lei, bellissima, emaciata, silenziosa. E di lì a poco altri ragazzi e bambini scomparsi o morti, riappaiono in città.

 

Nelle settimane successive si arrivò all’isteria, e anche un po’ più in là. I ragazzi spariti dalle loro case cominciarono a ricomparire, ma non ovunque: in quattro grandi parchi della città, il Chacabuco, l’Avellaneda, il Sarmiento e il Rivadavia. Rimanevano lì, la notte dormivano fianco a fianco e non sembravano intenzionati ad andare da nessuna parte.
(“Ragazzi che ritornano”, p. 137)

 

Riapparizioni improvvise, inquietanti, e le persone in cerca di rassicurazioni accettano di buon grado spiegazioni superficiali. Ma chi sono davvero questi ragazzi? E dove può condurre l’isteria generale, la paura di qualcosa che non si comprende?
È un racconto sottilmente inquietante, che apre a molteplici spunti su tematiche differenti, dall’alienazione al controllo, i timori collettivi, la povertà, l’emarginazione, l’indifferenza, e che si regge su una struttura narrativa tradizionale, solida, in cui molto spazio è lasciato all’ambiguità, elemento fondante di questo racconto.
Ambiguità che assume sfumature differenti, inequivocabilmente politiche, in “Quando parlavamo con i morti”, il racconto che chiude la raccolta e richiama una delle pagine più oscure della storia argentina del Novecento: la dittatura militare e la questione dei desaparecidos, chiamata a gran voce, una parola che apre squarci:

 

Il fatto era che tutti sapevano che i genitori di Julita non erano morti in un incidente: i genitori di Julita non si trovavano più. Erano scomparsi. Erano desaparecidos. Non sapevamo nemmeno bene come dirlo. Julita diceva che li avevano portati via, perché così dicevano i suoi nonni.
(“Quando parlavamo con i morti”, p. 167)

Attraverso una tavola per parlare con i morti, un gruppetto di amiche cerca un contatto, una voce, una prova di come sia andata quella storia, una di molte altre. E ognuna di loro – tranne una – , per esperienza diretta o attraverso racconto di altri, porta una storia simile di persone scomparse. Fino all’ultima, misteriosa apparizione. Che mette fine a un gioco, ma non può rispondere a tutte le domande, rimaste appese ai fili della storia, rimaste sospese anche nella nostra realtà.
L’incanto è compiuto.

Dammi il tuo cuore, di Joyce Carol Oates

Autore: Joyce Carol Oates
Editore: La Nave di teseo
Traduzione: Rino Serù
pp. 348 Euro 20,00


di Fabrizia Gagliardi

Tutti noi sappiamo come si esercita il potere. Se non ne abbiamo idea, possiamo riconoscerne le conseguenze quando lo abbiamo subìto o lo abbiamo impartito.
Quasi nessuno riesce a spiegare come perderlo, perché molto spesso il mio valore – non ben identificato e scarsamente percepito – è una tacca sull’asticella immaginaria dell’altrui. Mi identifico in quello che qualcun altro può darmi o può togliermi, concedendomi qualcosa (lavoro, sesso, riconoscimento sociale) o mancando il profitto atteso, in una spirale continua di dipendenza reciproca.
Una cosa è certa: tale reciprocità forzata dal prevaricatore non è accordo, ma puntuale negazione del riconoscimento dell’altro.
In un quadro che è tragicamente attuale i racconti di Joyce Carol Oates in Dammi il tuo cuore (traduzione di Rino Serù, La nave di Teseo) arrivano come una pugnalata.
Lo scontro tra il realismo e la mancanza di percezione della finzione portano in primo piano una sensazione straniante: i dieci racconti potrebbero essere dieci pezzi di cronaca, e cioè ricostruzioni – non-fiction attenta nello stile e seducente nel susseguirsi di eventi – che provocano il dubbio di trovarsi davanti A sangue freddo di Truman Capote.

 

A un uomo come papà, e forse come Deek, è concesso un certo potere: spegnere una vita, come potresti fare (se ti sentissi cattivo e nessuno stesse guardando) schiacciando una farfalla con le ali rotte che si sta agitando vicino al tuo piede, oppure permettere a una vita di continuare.

 

In Strip poker una ragazzina rimane coinvolta nel gioco sempre più minaccioso di un gruppo di uomini. L’epilogo che il lettore pensa di intravedere, tuttavia, non avrà conseguenze così scontate.
Nelle storie della Oates i bambini e gli adolescenti sono il capovolgimento della norma e lambiscono sfumature gotiche. Sono molto simili a creature come elfi o streghe, dotati di un’innocenza melliflua, con una comprensione del mondo degli adulti che oscilla tra l’ingenuità e l’inquinamento dell’animo. In loro si percepiscono i semi dei pensieri seducenti e pericolosi del lasciarsi andare: queste piccole figure sondano e quasi desiderano la forza delle mani che li solleva come se nulla fosse, lanciano occhiate per scimmiottare il gioco della seduzione. Succede anche a Miriam in Da nessuna parte che, con le sue scorribande in compagnie maschili nella sperduta contea di Westchester, è tormentata dall’affetto dolce e ossessivo per il padre in prigione e per una madre che avverte distante.
Anche in questo caso la scrittura della Oates lascia la firma distintiva e sempre riconoscibile nella sua sterminata produzione. Come in L’altra te e Un’educazione sentimentale l’autrice abbraccia la complessità delle relazioni umane e sonda le profondità delle emozioni più oscure. Tutto passa attraverso la capacità di creare personaggi vividi e plausibili immersi in ritmi di pensieri crescenti e ossessivi.
Nel racconto che dà il titolo alla raccolta una lunga lettera di una donna rivolta a un amante del passato snocciola gradualmente scene di vita spiata dell’uomo.
Ne Il primo marito un uomo si fa prendere dalla fissazione per l’ex marito dell’attuale compagna. La sua indagine partirà da innocenti fotografie del passato, ancora conservate dalla moglie, sulle quali immaginerà risvolti erotici e ossessivi che lo porteranno sulle tracce dell’altro.

Nelle crepe di una vita densa di appuntamenti, l’ossessione per Oliver Yardman crebbe nello stesso modo in cui l’erbaccia più resistente fiorirà in un terreno scarsamente accogliente per la vita vegetale. [...]
Provò a immaginare quanto spesso Valerie sfogliasse le Polaroid nel cassetto della scrivania. Quanto frequentemente, addirittura quando erano stati freschi fidanzati, aveva chiuso gli occhi per richiamare alla mente il suo primo marito, la viziata bocca imbronciata, le mani impudenti, il pene duro pulsante sangue che non si afflosciava mai, nemmeno quando lei giaceva senza fiato e ansimante tra le braccia di Leonard dichiarando di amare lui.
Dal momento della scoperta settimane prima, a novembre, aveva cercato altre foto. Non nell’album che Valerie custodiva con apparente sincerità e orgoglio coniugale, ma nei suoi cassetti, negli armadi. Nelle regioni più remote della grande casa, dove le cose venivano riposte nelle scatole. Pensando, sagacemente, che il fatto di non aver trovato nulla non significasse che non c’era niente da trovare.

La raccolta è percorsa da una coerenza tematica, un filo conduttore di angoscia e desiderio in cui ogni racconto è un viaggio emotivo, una sfida alla percezione della realtà e una riflessione sulle distorsioni che risiedono nei recessi della psiche umana.
Oates esplora l'amore, il dolore e la perdita in modo crudo e senza compromessi. Le sue narrazioni sono intense e a tratti disturbanti, ma è proprio questa intensità che cattura l'attenzione del lettore e lo costringe a confrontarsi con la gamma completa delle emozioni umane.
Inoltre, Oates dimostra di essere una maestra nel far emergere le complesse dinamiche delle relazioni. La sua prosa è descrittiva, ricca di dettagli e si serve di metafore cangianti e indimenticabili:

Valerie, mordendosi il labbro inferiore, contraendo il volto come la Giuditta di Caravaggio mentre è intenta a staccare la testa del malvagio re Oloferne, riuscì a inserire la lama affilata, eseguire le necessarie incisioni, completare il taglio così che la carne potesse adesso essere aperta come le pagine di un libro. (tratto da Il primo marito)

 

La sua ossuta testa da ragazzo era stata rasata, come per esporre la sua vulnerabilità, fragili strati di ossa craniche sui quali un cuoio capelluto, arrossato per eruzioni cutanee e bernoccoli, sembrava essere stato calzato di precisione come la pelle di un tamburo. Una testa molto brutta, aborigena, rozzamente scolpita nella pietra e dissotterrata da secolari strati di terreno. (tratto da Tetano)


La lunga esperienza nel muoversi in narrazioni variegate, sia per genere che per forma narrativa, le permette di evocare in poche battute alcuni trucchi per trasportare il lettore direttamente nel cuore di ogni storia: i salti temporali anticipano o ritardano qualcosa che avverrà solo alla fine, l’ipotassi accelera e accresce la tensione delle scene.
Dammi il tuo cuore è una raccolta di racconti che affronta il baratro dell'esperienza umana con onestà e intelligenza. L’autrice riesce a catturare l'essenza delle emozioni in modo crudo e a offrire una prospettiva che, sebbene a volte scomoda, è incredibilmente autentica. Un'opera che chiede al lettore di scrutare le proprie paure, desideri e oscure passioni, lasciando un'impronta indelebile nella mente di chi si avventura in questo viaggio letterario.

 

Tu ed io e altri racconti, di Andrej Donatovič Sinjavskij

Autore: Andrej Donatovič Sinjavskij
Editore: Voland
Traduzione: Benedetta Lazzaro
pp. 208 Euro 18,00


di Alice Pisu

“Da quattro giorni si trova nel mio campo di osservazione. Io gli sembro un pitone, il cui sguardo a sangue freddo fa perdere i sensi al coniglio. Le idee che si è fatto su di me sono una vera sciocchezza. Ma anche volendo basarsi su queste stupide fantasie non so chi di noi tenga intrappolato chi: io lui o lui me? Entrambi siamo caduti prigionieri, incapaci di staccare l’uno dall’altro gli sguardi ormai vitrei”.

 

L’indagine sul mistero di sé e il disagio mentale domina Tu ed io di Andrej Sinjavskij, il racconto centrale che dà il titolo alla raccolta appena pubblicata da Voland nella traduzione di Benedetta Lazzaro che torna in libreria dopo oltre settant’anni dalla prima pubblicazione. I racconti fantastici firmati come Abram Terc, uscirono inizialmente in Francia per una rivista di emigrati polacchi e arrivarono al pubblico italiano nel 1962 (La gelata, trad. Maria Olsoufieva, Rizzoli).
Necessario, per comprenderne la poetica e gli ideali, addentrarsi nella vicenda privata e pubblica dell’autore, a partire dal valore assunto da uno pseudonimo divenuto il suo alter ego, grazie a cui Sinjavskij poté pubblicare all'estero narrazioni, saggi e testi caustici in contrasto con i canoni dell’epoca e con il pesante clima culturale sovietico.
A sconvolgere l’esistenza di uno degli intellettuali moscoviti più acuti del suo tempo fu il processo epocale, subito tra il 1959 e il 1960, insieme al poeta russo Julij Markovič Daniėl'. La risonanza avuta dal caso fu imponente, portò alla mobilitazione di numerosi scrittori e critici che indissero petizioni e inviarono lettere aperte per rivendicare il valore artistico delle opere contestate. Nonostante ciò, Sinjavskij fu condannato a sette anni di gulag per attività antisovietica e propaganda reazionaria contro il regime. Le dure condizioni subite non gli impedirono però di continuare a scrivere anche durante la prigionia. Una volta libero, nel 1971 si trasferì a Parigi con la sua famiglia, divenne professore di Letteratura Russa alla Sorbona e seguitò a scrivere i suoi romanzi e i suoi saggi critici firmandosi Abram Terc. Fondò e diresse con sua moglie la rivista Sintaksis, rilevante nell’accogliere le firme della dissidenza russa e dell’emigrazione. Solo nel 1990 le sue opere furono pubblicate in Russia.
La condizione di alienazione e di assenza di libertà segnarono lo scrittore nel profondo, generando la necessità di insistere su tale esperienza attraverso narrazioni capaci di compiere un superamento del dato reale e tracciare un’evoluzione dell’esperienza personale in visione artistica.
Leggere Tu ed io e altri racconti offre la possibilità di scoprire anche un racconto inedito in Italia (Pchenc) che riflette sullo smarrimento di chi è lontano dai luoghi natii ed è consapevole che non vi farà più ritorno. Il testo è incentrato su un alieno che da oltre trent’anni vive sulla Terra mascherato da gobbo contabile sessantunenne, scapolo, non iscritto al partito, che ammira segretamente il proprio corpo di rami e fronde, emblema della bellezza perduta della sua patria.
Ricorrono nei racconti temi cari all’autore: il rapporto col passato, il rilievo della letteratura nell’inviare missive nel futuro, il ruolo dell’individuo nella Storia, l’emarginazione e la follia, la relazione con il soprannaturale e la reincarnazione, le possibilità insite in ogni fine.
La scelta di Sinjavskij di allestire contesti sovietici asfittici affini ai classici della letteratura russa è indicativa di una precisa volontà di enfatizzare il fantastico a partire da quadri di miseria, disperazione, follia tragicomica e delirio. Di particolare significato l’uso sottile dell’elemento comico come strategia per amplificare il dato reale e generare una trasfigurazione grottesca.
Il racconto Grafomani è emblematico nel raccontare le vicende di un gruppo di letterati alle prese con vani tentativi di pubblicazione per case editrici e riviste sovietiche. Emergono sottotraccia profonde affinità con la vicenda personale dell’autore, vissuto in ristrettezze economiche anche a causa delle velleità letterarie del padre che non ottenne mai il successo sperato e gravò sua moglie (come accade nel racconto) della conduzione della famiglia con il suo solo stipendio.
Il degrado dello scrittore che si ritiene un “cervello geniale” dal “cuore ardente” costretto a sostentarsi con polpette avariate, tra mura sporche di unto e tracce di cimici, è reso tra toni tragicomici. La frustrazione per il mancato successo si trasforma in mania di complotto nell’invidia del successo altrui, ottenuto depredando le sue intuizioni letterarie.
Sinjavskij compie una feroce critica del sistema editoriale senza rinunciare a evidenziare la natura ridicola di sedicenti letterati, attraverso un bizzarro campionario umano di correttrici di bozze licenziate per lapsus politici, insegnanti di botanica, “vecchiette in pince-nez alla Čechov che scrivevano di allevamenti di suini”, “giovani fanciulli neofiti con riccioli alla Puškin, imitatori di Esenin”, colonnelli in pensione, ragazzi che puzzavano di “alcol, prigione e suicidio”. Quell’epopea sugli scrittori falliti che il protagonista finisce per comporre su suggerimento dell’amico Galkin sarà il suo modo di congedarsi dalla letteratura e dedicarsi alla famiglia a lungo trascurata.
Le venature grottesche nei ritratti di miseria evidenziano la natura beffarda dell’indigenza, ricordano le atmosfere insane tipiche di Dostoevskij nell’angustia inestinguibile generata dal presagio del dramma e nel succedersi all’apparenza confuso degli eventi con al centro figure contraddittorie, divorate da un opprimente senso di ingiustizia. La natura farsesca e tragica delle sue storie riserva esiti sorprendenti, tra successioni all’apparenza incoerenti o ripetizioni di scene singolarmente ordinarie ma che nella sincronia concorrono a comporre un mosaico in prosa: “[…] non sapevano di fungere da dettagli in un quadro che ero io a creare mentre li osservavo”.
L’architettura formale eletta da Sinjavskij genera a tratti un divertito smarrimento nel lettore che, come nel racconto che dà il titolo alla raccolta, crederà sino all’ultimo di seguire le vicende di due personaggi distinti. Come accade infatti anche in Tu ed io, i toni fantasmagorici permettono all’autore di esplorare la perdita di contatto con sé stessi, l’inganno del vero, affrontare le ossessioni e i disturbi dissociativi, lo sdoppiamento della coscienza, immortalare la condizione che precede la follia in contesti di pesanti discrepanze sociali che traducono la ferocia della povertà attraverso storie che riservano slanci lirici inattesi, sulla scorta dell’esempio fornito da uno dei suoi maestri, E.T.A. Hoffmann. Di stampo hoffmanniano anche la disposizione a inglobare il comico, il grottesco e il fantastico in armonia con scorci di un quotidiano in cui convivono credenze diverse e aneliti sopiti. 

“All’improvviso il mio campo visivo veniva invaso da una strada di cumuli ciechi, e una lacrima gialla, mischiata con la neve scintillante, scendeva dal mio occhio sul naso, sui lampioni e sui tetti, coperti da quella stessa neve come capanne. Ogni volta che mi riscuotevo e asciugavo col guanto l’ennesima lacrima, la natura mi dava conferma del fatto che nevicava e che avrebbe nevicato ancora a lungo,
forse per tutta l’eternità”.

Tra i racconti della raccolta assume un particolare rilievo La gelata, incentrato su un uomo dalle doti di chiaroveggenza che vive nel costante presagio di una disgrazia imminente. Verrà sequestrato dalla polizia per occuparsi in segreto di crisi diplomatiche, smascherare nemici e contribuire a risolvere questioni politiche ma perderà il suo potere alla morte dell’amata, che nonostante i suoi avvertimenti non è stata preservata dall’incidente fatale.
Il racconto riflette sulla labilità delle relazioni, sulla presenza della morte nella vita, sul peso del futuro, sull’ipocrisia sociale. La valenza del testo risiede anche nella riflessione sulla perdita di sensibilità durante la reclusione vissuta da chi, pur assolvendo un dovere civile, pensa da intellettuale e si sente a disagio nel compiere azioni dannose per le minoranze. Pur avendo consapevolezza dei benefici rispetto ad altri detenuti comuni, l’uomo finisce per annientarsi in tale condizione: si riduce a perdere ogni riferimento, destinato prima al manicomio e poi al confino.
L’ossessione per la perdita della memoria ricorre nel racconto tra pagine dalle venature spiritualistiche. Certo della reincarnazione, il protagonista teme che l’assenza del ricordo della propria storia conduca a una cancellazione ben più temibile della morte stessa. Sinjavskij ama operare forti contrasti identificando in contesti di apparente evasione l’ineluttabilità del tragico. Così, una festa di capodanno diventa lo scenario ideale per un uomo dai poteri soprannaturali che osserva i moccoli delle candele immaginando che corrispondano all’esistenza dei presenti, tra chi si spegnerà con spensieratezza e chi si renderà conto con orrore della propria condizione solo poco prima della fine.
“La morte ci separa con le barriere dell’oblio”.
Qualsiasi tema affrontato da Sinjavskij può essere osservato da angolazioni diverse grazie all’espediente fantastico e trova nella cura estrema per la parola esatta e nell’armonia della composizione una ricerca estetica nata a partire dallo studio di Majakovskij. L’irriverenza di Sinjavskij risiede nel fare propri i dettami dei grandi maestri della letteratura e dell’arte in genere, per dare forma a opere che racchiudono una verve analitica e uno spirito creativo inconfondibili, la cui direzione è palesata nell’illuminante saggio Che cosa è il realismo socialista, dai tratti dissacranti nel minare i canoni del suo tempo e esplicitare i principi della sua rivoluzione letteraria.

 

“Attualmente, io spero in un’arte fantasmagorica, con ipotesi al posto dello scopo, un’arte in cui il grottesco rimpiazzi la descrizione realistica della vita quotidiana. È l’arte che meglio risponderebbe allo spirito dell’epoca. Possano le immagini di Hoffmann, Dostoevskij, Goya, Chagall e Majakovskij, con quelle di tanti altri realisti e non realisti, insegnarci a essere veridici con l’aiuto della fantasia più assurda!”.

L'ultima auto sul Sagamore Bridge, di Peter Orner

Autore: Peter Orner
Editore: Gallucci
Traduzione: Riccardo Duranti
pp. 336 Euro 16,50


di Fabrizia Gagliardi

Le raccolte di racconti sono animali strani e rischiosi: concertano una complessità di storie diverse tra loro, le conducono sotto la rassicurazione di un filo comune, misurano i pesi dello stile per aspirare all’equilibrio, preparano il lettore a storie perfettamente riuscite da sole senza il bisogno delle altre, o forse sì.
È come se chi legge avesse a disposizione una doppia visione divisa tra tanti piccoli lungometraggi, tutti mossi a ritmi diversi ma sempre armonici tra loro da una parte, e, dall’altra, è come se stesse scoperchiando una scatola di fotografie, una di quelle disperse nella soffitta dei genitori, popolate da volti ignoti protagonisti di storie che vibrano singolarmente e riverberano nelle vite altrui.

Sono queste, a grandi linee, le sensazioni prodotte da L’ultima auto sul Sagamore Bridge di Peter Orner, pubblicato da Gallucci con la traduzione di Riccardo Duranti. L’etichetta di “uno dei maestri della short story americana” appare fuorviante – o forse bisognerebbe dire che ogni autore americano di short stories è speciale a modo suo –, ma non è un caso che Peter Orner era già entrato nel radar delle scoperte di minimum fax agli inizi degli anni Duemila con Esther Stories, la sua raccolta d'esordio segnalata dal New York Times come uno dei “libri da ricordare” del 2001, e poi con il romanzo Un solo tipo di vento (entrambi tradotti da Riccardo Duranti).

L’ultima auto sul Sagamore Bridge racchiude cinquantadue storie attraversate da fili invisibili e costanti: racconti lunghi e toccanti si alternano a vicende di una sola pagina che a loro volta lasciano spazio a storie in corsivo in prima persona. Arrivati alla fine, quando si uniranno i tasselli all'ultima pagina, le quattro sezioni del libro riveleranno il mosaico completo: la prima parte, Superstiti, ascolta le testimonianze di quello che rimane dopo un amore passato o dopo una perdita;  la Normalità tra storie di divorzi atipici, tornei tra ergastolani e impiegati silenziosi della nettezza urbana, si interroga sulla reale esistenza di una regolarità nella vita umana; la terza parte, A Mosca sarà tutto diverso, il procedimento del ricordo si avvicina alla possibilità di originare un rimpianto inascoltato e prosegue anche nella quarta parte, Il Paese di noialtri, che chiude la raccolta.
Sebbene il Sagamore Bridge suggerisca il radicarsi nelle atmosfere del Midwest, la raccolta viaggia continuamente da Chicago, città di origine dell’autore, al New England fino a una prigione sovietica e altri soggiorni occasionali, non così significativi da occupare la caratterizzazione dei protagonisti.

A muovere la narrazione di Orner è una sincera curiosità per le conseguenze più disparate del peso delle circostanze. I racconti più devastanti nascondono, nella loro lunghezza, un avvicinamento metodico all’apice e lo affrontano da diverse prospettive come, ad esempio, il racconto di un testimone, la distanza della terza persona che viene diluita mano a mano col procedere dei ricordi o, ancora, lo strappo temporale che dal passato riporta, all’improvviso, al presente.
Nel Lamento di Pumpkin una campagna elettorale seguita dal padre del protagonista segue le vicende del candidato governatore. La cronaca delle elezioni passerà gradualmente in secondo piano al momento di una dolorosa confessione: la moglie del candidato è innamorata di un altro. Qualche sospetto su chi sia il colpevole, ma quello che è stato immaginato si scoprirà solo alla fine:

Osservarono il vapore del fiato l'uno dell’altra nell’aria gelida. In confronto a lei, avvolta nel dolore e nella larga tesa del so cappello nero, l’aspetto di mio padre appariva glaciale e sparuto. Lui distolse lo sguardo da lei solo dopo che erano arrivate altre persone che le si erano accostate per porgere le condoglianze di rito. Non ho idea di quanto fosse durato il loro rapporto. Non sono neanche tanto sicuro che la cosa abbia importanza. Oppure sì? Ora so che allontanarsi da quello che si credeva fosse impossibile fare a meno è più facile di quanto immaginassi.

La scrittura di Peter Orner ha cura di essere essenziale, evita di perdersi nelle metafore ma ama definire i particolari in rapide pennellate descrittive. Tutto miscela abilmente vite e destini traghettando il clima del racconto dall’iniziale leggerezza a una recondita saggezza che arriva solo dopo aver attraversato gli stadi di bellezza e dolore.
Ne Lo stagno di Foley la spensieratezza dei giochi da ragazzi si incupisce quando uno di loro salta una settimana di scuola dopo che la sorellina annega nello stagno, passando sotto il recinto come lui le aveva insegnato. Horace e Josephine racconta l’intera parabola di una coppia di zii, uniti fino alla fine da una tenerezza profonda e reciproca.
L’intreccio è un uso sapiente di analessi e prolessi per muoversi sui binari della memoria. Non è detto però che il bagaglio emotivo dei salti temporali suggerisca uno stimolo per un’azione risolutiva: molto spesso tutto si riduce alla contemplazione della contraddittorietà umana, al fine di restituire lo strano alla sfera del familiare.
E così in Affittuari Frank salta dal presente al passato per un viaggio nei ricordi nella casa dove lui e la compagna abitavano prima della malattia di lei; in Al Fairmont Bernice rievoca il tempo in cui accoglieva le attenzioni di uomini sconosciuti in attesa del ritorno del suo marinaio; Il divorzio è la storia così poco ordinaria di due coniugi rimasti in contatto perenne anche dopo essersi lasciati.

Lei lo amava. Certe persone che s’incontrano al mondo si finisce per amarle. Ce ne sono altre che proprio non ci si riesce. A tante non diamo neanche una seconda possibilità. Perché a Gary sì? Non c’era nulla di particolare che minacciasse il loro matrimonio e forse era stato proprio questo a far loro decidere di eliminarlo formalmente davanti allo Stato del Michigan, prima che avessero un motivo reale e quantificabile nel loro intimo più profondo.

 

Nei racconti di una pagina o poco più verrebbe la tentazione di chiamare in causa Lydia Davis, solo che l’incisività e la capacità di fulminare in poche righe in Orner spesso si perde preferendo una direzione non ben precisa e un finale che, in compenso, fa collezionare una serie di mantra per la vita.

Quando chiedeva: Perché mai i nostri sogni non si accontentano della realtà? (da Il poeta)

Non capite? Il movimento è dove avviene la perdita. Se solo riuscissimo a star fermi. Ma allora come si farebbe a cercare? Come si farebbe a trovare? (da Hotel Grand Pacific, Chicago, 1875)

 

Altre volte il monologo interiore ricorda gli intrecci di Grace Paley, soprattutto nel capolavoro di stile che è L’ultima auto sul Sagamore Bridge. Qui Walt Kaplan, personaggio che appare anche in Esther Stories, inciampa e ingarbuglia il ragionamento in uno splendido avvicendarsi di ironia e suspense.

Tornare più volte su temi e argomenti già affrontati nel corso di altre opere o, addirittura, all’interno della stessa raccolta è la vera e propria sfida lanciata dall’autore. Il lettore potrebbe percepirsi come un osservatore invisibile all’interno di una casa degli specchi: continuerà a contemplare la stessa sensazione riflessa su ogni superficie. In realtà, proprio quando Orner sembra aver esaurito tutte le sfumature possibili, ecco che è in grado di presentare tutto da capo, da una prospettiva diversa.

Circo Bulgaria, di Dejan Enav

Autore: Dejan Enav
Editore: Bottega Errante
Traduzione: Giorgia Spadoni
pp. 335 Euro 20,00

di Giordana Restifo

Che cosa succede alla popolazione di un paese quando questo vive un lungo e lento momento di transizione da regime autoritario a Repubblica democratica? Negli ultimi decenni la letteratura balcanica ci ha indicato alcune risposte. La storia della Bulgaria, con le sue trasformazioni, le sue stagnazioni, il suo incedere etilico, non è dispensata dal quesito. Per farsi un’idea su come trascorre la vita del popolo bulgaro basta leggere Circo Bulgaria, raccolta di racconti di Dejan Enev, appena pubblicata nella collana Radar da Bottega Errante Edizioni e tradotta da Giorgia Spadoni.

L’opera in lingua originale risale al 2005 (intitolata inizialmente Vsički na nosa na gemijataTutti sulla prua della barca), successivamente è stata tradotta per altri lettori europei – la versione inglese (dal titolo Circus Bulgaria), curata da Kapka Kassabova, è stata finalista al Frank O’ Connor International Short Story Award nel 2011 – e all’inizio di settembre è finalmente approdata nelle nostre librerie. Nei sessantadue racconti brevi, alcuni brevissimi, della versione italiana sono condensati tutta la miseria, lo squallore, la dignità, la tristezza e la rassegnazione dei bulgari. Sono frammenti di storie che creano un ritratto incisivo del paese. Principalmente ambientate nelle vie, nelle piazze e nelle case di Sofia, che brulica di personaggi anonimi e al tempo stesso particolari. Enev, considerato uno tra gli autori bulgari contemporanei più apprezzati, colloca i suoi protagonisti anche fuori dalla capitale, sul monte Vitoša, nei paesi di Kurilo, di Mali Dren e di Staro Selo, sui sentieri attorno al Monastero di Rila, nei piccoli centri abitati e disabitati disseminati sui monti Rodopi.
Evitando l’uso di toni didascalici, Enev ci mostra la metamorfosi della Bulgaria. Con l’affermazione del regime comunista, nella prima metà del ‘900, il paese, un tempo agricolo, ha intrapreso un lungo processo verso l’industrializzazione. In quegli anni, autori come Elin Pelin e Jordan Jovkov, citati da Enev, l’uno nell’introduzione dal titolo Tutti sulla prua della bagnarola e l’altro nel racconto La rondine bianca, caratterizzavano le proprie opere con uno spiccato realismo, raccontando della Bulgaria rurale e del passaggio dalla vita nelle campagne e nei villaggi a quella nelle città. Il dualismo campagna-città in Enev non è così marcato. Il fenomeno di urbanizzazione nella sua opera si è realizzato. Se nella maggior parte dei racconti il riferimento alla trasformazione della società è velato, in Casablanca, una storia d’amore e di esproprio, invece, è esplicito:

La loro casetta era l’ultima del quartiere. In un paio di anni le erano cresciuti attorno decine di edifici residenziali a più piani, che di notte s’illuminavano come transatlantici. Solo la casetta a un piano del signor e della signora Sarafov rovinava la vista. […] Gli imprenditori erano impazienti di saperli morti, perché si era a conoscenza che i due non avevano eredi. E al posto della casetta nel giro di pochi mesi si sarebbe potuto erigere un altro condominio vertiginoso. Ma il signor e la signora Sarafov non morivano”.

La città cresce, si trasforma, lasciando dietro chi la abita, che, nel frattempo, soccombe sotto l’influsso dell’alcol (la rakija onnipresente nella letteratura balcanica non manca nemmeno in Circo Bulgaria, ma i personaggi bevono anche whisky, cognac e altri distillati e liquori), dei disturbi psichici, della povertà. Così, nei racconti di Enev il lettore incontra soldati annoiati nei loro giorni di permesso o spaesati perché appena tornati dal fronte, giovani donne (prostitute, bariste, cameriere, ballerine, impiegate di lavanderie) costrette ad avere a che fare con uomini rozzi, famiglie monche che faticosamente si reggono in piedi, giornalisti confusi dalla realtà dei fatti, pazienti e personale di cliniche psichiatriche. È verosimile che l’autore abbia attinto dalle sue precedenti esperienze lavorative per dare forma ai personaggi. Prima di diventare uno dei maestri bulgari della narrazione breve, ha svolto mansioni di operaio, imbianchino, insegnante, assistente ospedaliero notturno, redattore e giornalista.
In due aspetti, collegati tra loro, si riscontra principalmente la bravura di Enev. I racconti (o “razkazi” in bulgaro), nonostante siano concentrati nell’arco temporale della narrazione di poche giornate, riescono, invero, a fare addentrare il lettore nell’intera esistenza dei protagonisti. Arrivati al finale, di alcune storie si vorrebbe sapere di più, di altre bastano gli elementi colti durante la lettura. Non è solo grazie alla tecnica di scrittura che ci si appassiona ma anche alla caratterizzazione dei personaggi. L’autore riesce a renderli autentici, concreti, inducendo il lettore a non saper distinguere la finzione dalla realtà. Giorgia Spadoni, la sua traduttrice, ci dice:

Nel frattempo mi ero trasferita a Sofia, studiavo e lavoravo e giravo per la Bulgaria e più volte mi sono imbattuta in situazioni e persone che sembravano uscite dalle storie di Dejan, come dei déjà-vu. Belle e brutte. Divertenti e tristi. Traducevo un racconto e subito mi ritrovavo il protagonista davanti, in carne e ossa”.

Ciò accade perché il narratore deve convincere i lettori usando «il visibile, il fisico, l’eminentemente tangibile», lo spiega bene in un’intervista Isabella Zani, traduttrice di Anthony Doerr, citando proprio l’autore statunitense. Per arrivare a far percepire e assimilare quel mondo sconosciuto, reale o immaginario che sia, il racconto deve essere costellato di dettagli e particolari giusti al posto giusto.

Se da una parte, nel libro, si avverte una sempre più incalzante e incurante economia di libero mercato che travolge chi non sta al passo, dall’altra c’è la natura che evoca ricordi ancestrali. Le stelle, l’astronomia, il «grande parco Borisova Gradina» di Sofia, la miracolosa sorgente nascosta sul pendio che porta al Monastero di San Giovanni, le stelle alpine di cui è pieno «il cortile del Buon Dio» e lo scenario rurale di quei posti in cui i contadini ancora lavorano la terra da generazioni, dove sembra che il tempo si sia cristallizzato; tutto concorre a creare il contrasto tra moderno e antico.
Anche gli animali sono parte integrante della composizione, alle volte sono a subire le crudeltà degli uomini, altre volte fonte di guadagno (come l’allevamento di coccodrilli nel racconto Il padre del soldato o Cezar, la tigre ormai dismessa e venduta, in quello che presta il titolo alla raccolta, Circo Bulgaria appunto). Quando tutto sembra irredimibile, irreversibile, mentre il fallimento, la disperazione, i toni cupi e una leggera vena di umorismo nero aleggiano sui racconti, Enev inserisce uno spiraglio, una crepa di ottimismo con Il gigante: un cacciatore di orsi bruni si reca, con il figlioletto, a Mali Dren per uccidere l’orso che sta danneggiando il paese e cibandosi del bestiame degli abitanti. Padre e figlio attraversano la collina, si fanno largo «tra gli enormi alberi barbuti dai licheni», a valle c’è l’Oscuro bosco («sopravvissuto chissà come al terribile disboscamento sui nostri Balcani») e avvistano l’orso. Al momento di sparare, però, l’uomo si blocca, lui e l’animale hanno uno scambio intenso di sguardi finché quest’ultimo non va via seguito da un piccolo orsetto uscito dai cespugli.
Inoltre, nelle pagine di Enev sono presenti elementi folkloristici, culinari (come il kozunak – dolce pasquale tipico – del racconto La mia Pasqua o i kebapceta – piccole salsicce di carne mista – di Santa Marija da Staro selo), musicali, della tradizione e della cultura bulgara; espedienti che l’autore utilizza plausibilmente per rendere le sue storie più realistiche e concrete.
Infine, c’è un forte richiamo alla religione, più che altro a Dio. Nel paese, a maggioranza cristiana ortodossa e storicamente caratterizzato dalla convivenza tra cristiani, musulmani ed ebrei, sembra che avere fede in Dio, o meglio affidarsi a Dio, sia rimasta una delle poche cose da fare. C’è un passaggio in Obitorio, il racconto più lungo della raccolta, che colpisce più che negli altri:

Dio ci dà molto, ma chiede anche molto. E noi esseri umani, per avidità o egoismo o disonestà, non vogliamo pagarne il prezzo. Dio vuole la bontà da noi, Džo, una continua, raggiante bontà. Vuole che siamo generatori di bontà. Dio ha posto una concezione chiara del bene e del male. Il luogo in cui sentiamo quando facciamo del bene e quando del male si chiama anima. Si trova qui, dove c’è il diaframma”.

A pronunciare queste parole è zia Ani, una donna imponente fisicamente e caratterialmente, che ogni giorno ha a che fare con la morte, occupandosi dei corpi portati in un obitorio. Parla senza edulcorare, ma, inaspettatamente, nella fredda stanza dove lavora, nel seminterrato buio di un ospedale, mentre prova a spiegare l’esistenza di Dio al suo dipendente (nonché narratore del racconto), il suo registro cambia, s’ingentilisce. E, come se si rivolgesse anche a noi lettori, ci lascia questa chiara e pura deduzione:

La fede in Dio, la consapevolezza che esiste, non è un’illuminazione, non è un fulmine a ciel sereno. È una condizione, un dolce fardello che permette di vivere una vita piena, significativa e colma di dignità. Dio non vuole grandi opere da noi. Dio vuole una cosa sola da noi: che chiediamo sempre alla nostra anima se ciò che facciamo o pensiamo è buono o cattivo. Solo questo”.

Anche gli alberi caduti sono il bosco, di Alejandra Kamiya

Autore: Alejandra Kamiya
Editore: Ventanas Edizioni
Traduzione: Serena Bianchi
pp. 142 Euro 14,00


di Francesca Piovesan


Ventanas Edizioni, giovane casa editrice fondata da Laura Putti, porta in Italia per la prima volta, tradotta da Serena Bianchi, la raccolta di racconti Anche gli alberi caduti sono il bosco di Alejandra Kamiya.
Kamiya, nata nel 1966 a Buenos Aires da padre giapponese e madre argentina, riversa n queste pagine i due mondi a cui appartiene: il Giappone lontano con i suoi riti, i suoi valori, il senso dell’obbedienza, dell’onore e del decoro e l’Argentina, creatura ai limiti del mondo con la sua Patagonia, terra di ghiaccio e di fuoco, di cavalli che fiutano il temporale, di pescherecci che navigano il mare per mesi.
In questi dodici racconti l’autrice intreccia mirabilmente tradizione e innovazione, sapori orientali e ombre latine.
Le personagge agite, e personagge è voluto perché la maggior parte dei racconti si fonda su di loro, si stagliano all’interno di una quotidianità che passa attraverso colazioni preparate in maniera minuziosa, come in “La colazione perfetta”, dove la cucina è preludio alla tragedia:

Per preparare il miso shiru profumerai l’acqua con delle acciughine secche. Immaginerai la dolcezza del cocco danzare con  il salato delle acciughe. Come se quel mare, che accarezza i piedi delle palme, arrivasse a Tokyo, a casa tua.
Farai  attenzione a non mettere troppe acciughe nell’acqua, affinché quella danza non si trasformi in lotta.

In “I resti del segreto”, il quotidiano è il percorso di crescita di due bambine che giocano a essere altre, altre vite, altri segreti:

“Ma abbiamo una vita sola, torero”, dice Belinda mentre riordina i pacchetti di sigarette.
“No, Carmen” dice Guillermina facendo svolazzare il panno. “ne abbiamo tante, come le strade. Se non le percorriamo, le erbacce crescono e le ricoprono. Coraggio, Carmen,andiamo.”


Segreti che passano di bocca in bocca, da famiglia a famiglia, da madre a madre, per incarnarsi in lettere, missive che prendono la forma del tempo, e sveleranno il segreto finale.
Altro elemento molto caro a Kamiya è la memoria; memoria che passa attraverso il cibo come in “Riso”, dove un padre malato e la figlia ricordano le loro origini parlando delle risaie, del modo di lavare il riso, della coltura:

“Vedendo i gesti di mio padre riesco a ritornare al passato, al Giappone, alla sua storia, che è la mia”.
“Più si è pieni, più si è educati, umili. Ci si inchina come una pianta di riso sotto il peso dei chicchi”.

I racconti sono attraversati da una tensione che riporta sempre ai nomi, al nominare, al dover richiamare a se stessi per capirne e carpirne la realtà, le cose e le persone.
Come in “I nomi”, dove un fratello scappato o cacciato di casa, qui si insinua il dubbio della giovane sorella, viene dimenticato nell’atto del non nominare:

Smettemmo di nominare mio fratello il giorno stesso in cui se ne andò di casa, io avevo otto anni. E, come se con un colpo di mano le avesse portate con sé nell’oblio, anche molte delle sue cose persero il nome.


È tensione che sfocia anche nella diversità che l’autrice percepisce sempre; percepisce in Argentina da giapponese, e percepisce in Giappone da argentina. E tutto ancora gira attorno alle parole, a come vengono intese, interpretate:

Potrei fare un elenco di parole che a casa mia avevano un significato diverso da quello che avevano fuori: morte, io, inverno, altro, sale, fatica, parola, bacio, onore, nonno, attesa, tè, lavoro, mangiare, silenzio, accettare, dolore.
(da “Il parto”)

L’onore e l’accettazione sono i temi portanti del racconto più lungo della raccolta: “La buca”. Racconto in cui il protagonista è un uomo, un soldato che, durante la seconda guerra mondiale, viene lasciato su un’isola, apparentemente solo, a scavare una buca che nel corso della pagine da trincea diventerà fossato, anche con un risvolto terribile di fossa comune.
In queste venti pagine, circa, emerge tutta l’obbedienza alla Patria, tutto l’onore tipicamente giapponese, il dolore che, a un certo punto, il soldato prova nel voler trasgredire le regole dopo mesi di solitudine. L’idea che la punizione debba essere esemplare, ossia la morte.
Altro racconto insolito, perché formato principalmente da dialoghi, è “Frammenti di una conversazione”, dove viene messo in scena il rapporto di una donna matura, e poi anziana, con la suda domestica. Una quotidianità che si nutre di piccoli dispetti, rivalse e di richieste di affetto, di aiuto, dell’esserci sempre e comunque anche a discapito della propria vita personale:

Mi accolse spalle alla porta, prendendo appunti su un taccuino.
“Qual è il dramma della tua vita?” fu la prima cosa che mi disse.

“Nessuno”.
Allora si voltò e mi guardò.
“Ogni domestica ha un dramma da raccontare”.
“Io no” ribadii.
“Quindi forse non sei una domestica…”.
“È un lavoro” dissi. “Ho bisogno di soldi”.
“E questa non ti sembra una risposta drammatica?”.

 
“Anche gli alberi caduti sono il bosco” è una raccolta dove l’uso della parola è lieve ma denso, frutto di estrema cura. I personaggi vivono continue piccole epifanie che gettano nuova luce sulla loro vita privata, offrendo nuove chiavi di lettura, e togliendo dall’ombra gli angoli più bui della stanza. È Oriente e confini del mondo, civiltà giovani e culture millenarie che scambiano parole e valori.

Bestiole, di Kianny N. Antigua

Autore: Kianny N. Antigua
Editore: Arcoiris
Traduzione: Barbara Flak Stizzoli 
pp. 152 Euro 12,00

di Chiara Bianchi

«La letteratura non ha padroni, Miguel. Si lascia appartenere da chiunque abbia il coraggio di aprire un libro» [da Attivati e illustri]

Kianny N, Antigua è nata nella Repubblica Dominicana alla fine degli anni Settanta, caraibica. Ha pubblicato negli Stati Uniti, dove vive, oltre venti libri per bambini, racconti, poesie, antologie, microfinzioni e un romanzo. Ha vinto numerosi premi. È narratrice, poetessa, traduttrice ed è senza dubbio una delle penne raffinate della diaspora letteraria dominicana.
Edizioni Arcoiris porta in Italia – grazie alla traduzione di Barbara Flak Stizzoli – la sua raccolta di racconti dal titolo Bestiole.
Il termine bestia, declinato al diminutivo, in italiano così come in spagnolo, ha un’accezione quasi positiva: una bestiolina è un essere carino e piccolo, ma nell’uso familiare del termine il diminutivo veste un’opposta funzione, dispregiativa, sinonimo di ignorante.
I personaggi di questi diciotto racconti brevi sono lo specchio di ogni comportamento bestiale presente nell’essere umano: animale complesso, capace di attivare profondi meccanismi malvagi, di godere del dolore altrui. L’essere bestiole, però, passa anche attraverso scelte personali semplici dai risvolti genuinamente ignorati. Ecco che l’ignorante diviene colui che ignora la bestialità propria e altrui.


Cortázar diceva di scrivere da un interstizio.
Antigua si fa portavoce di un punto di vista laterale, da un interstizio appunto, composto da una lingua – come spiega la traduttrice nella nota finale – intrisa di domenicanismi che non trovano corrispondenza in italiano. Una miscela di identità culturali che fanno parte della complessità insita nelle terre caraibiche, nelle quali le diversità culturali e sociali innescano serie difficoltà nell’esistenza di ogni persona che quel territorio lascia o che in esso resta. La scrittrice fa della sua visione della terra d’origine e della gente il racconto rarefatto di esistenze turbate dalla violenza pubblica e privata, dal razzismo, dalla venerazione al mondo oltre confine – ovvero gli Stati Uniti – dalla frattura sociale tra ricchi e poveri, istruiti e ignoranti, ma si fa portavoce anche di aspetti divertenti e positivi, come una festa a bordo piscina, o il ricordo dolceamaro dei nonni, fino al bisogno di trasgredire che passa anche dalla sessualità.
La barriera rappresentata dalla distanza geografica, in quanto donna vissuta negli Usa, si frantuma nella scelta di scrivere in spagnolo, sua lingua madre.

 Con un piglio giornalistico, vicino ai temi sociali, Antigua apre la raccolta con Flash, il racconto della breve vita di un ragazzino ai margini della società. In Trasloco, appare la prima protagonista donna che vive sommersa da cianfrusaglie e ignora la lettera di sfratto. Un racconto dal finale surreale.
Apostata dà voce a chi è fuggito dalla morsa delle sette religiose, testimonianze assemblate da una voce narrante straziata dalla malvagità di chi distrugge famiglie e singoli individui in nome di qualcosa che, nella maggior parte dei casi, si chiama Dio Denaro.
Espulsi dal paradiso sposta l’attenzione sul tradimento e sull’amore tra due amanti, carico di illusione e di ripensamenti: «finiremo all’inferno» chiosa la protagonista, come se ciò che sta vivendo fosse davvero il paradiso.
Follower estremizza, ma senza troppo andare lontano da abituali notizie sui giornali, la presenza dei social nel quotidiano. La scelta di guardare ogni cosa attraverso lo scatto di un selfie sembra essere non solo un modo per cavalcare l’onda della popolarità, di essere testimoni di eventi straordinari, ma anche un modo per raccontare l’immensa solitudine che popola le vite nel contemporaneo: «connettermi con la natura e condividere un altro scenario con voi, i miei follower», la vita registrata attraverso l’hashtag.
Timberland ha come protagonista un ragazzo che presto lascerà il paese per raggiungere suo zio a New York. Il processo di americanizzazione inizia con il nuovo look e l’invio da parte di suo zio di un paio di scarponi marca Timberland. La conquista della ragazza dei suoi sogni terminerà con un finale inatteso.
Attivati e illustri è un dialogo tra un professore in attesa di cattedra e Miguel, un «mangiatore di libri», i quali discorrono di letteratura ispanica (dando anche a noi lettori occidentali spunti di lettura) fino a che un terzo personaggio, una persona qualunque, si introduce facendo l’unica domanda a cui il professore non sa o non vuole rispondere.
La polemica nei confronti della letteratura e del mondo dei libri continua anche in Opera prima, in cui è protagonista una scrittrice esordiente in viaggio verso la sua prima presentazione, descritta come una vicenda di rara innocenza adulta. Anche in Il Terrore [Lato B] ritroviamo una scrittrice in viaggio in treno. Le domande sul finale lasciano aperte numerose questioni.  
In Gioco di bambola la protagonista è una ragazzina abbandonata da sua madre, con le sue nuove Barbie – una bianca e una nera – e i dispetti poderosi nei confronti della sua amica Ive, quasi da profilo serial killer.
Diversi temi sono ricorrenti: l’abbandono materno – spesso legato alla ricerca di un modo per lasciare il paese – che torna anche nel racconto Mamma: qui, la protagonista tratteggia sua nonna come una madre usando infinita dolcezza persino descrivendo dettagliatamente il suo sorriso. In Di piatti e di persiane un’adolescente alle sue prime esperienze amorose e sessuali, in assenza di sua madre, e accudita da sua nonna rivela il sapore di una crescita personale che va al di là delle scelte genitoriali e trova luce nell’amicizia; quest’ultima è tema principale anche di Come la prima volta, dove protagonisti sono due bimbi piccoli e le loro conversazioni multilingue, l’intrusione di un terzo bambino incrina il loro equilibrio amicale, ma un gesto estremo riporta tutto nella giusta prospettiva.

Le donne sono predilette protagoniste di una serie di racconti dai temi forti: Con un nodo in gola, Topi, Da quando ho iniziato, E c’erano le autostrade del sud raccontano storie di depressione post-partum – lacrime amare sono quelle della protagonista di Con un nodo in gola che tracolla in un mondo insondato e prestazionale nel suo flusso di in-coscienza – di violenza domestica e sessuale. In Dietro la tenda, si racconta di un rapimento e di una segregazione che sfocia in violenza fisica.

 

Non mi difendo, ho imparato da molto tempo che quando gli uomini hanno quel gelo negli occhi sono capaci di tutto per ottenere ciò che vogliono, ciò di cui il loro pene ha bisogno. [da Dietro la tenda]

 

Donne in lotta, case infestate dai topi, segregazioni domestiche messe in atto da familiari o da sconosciuti sono temi comuni a un’altra scrittrice capostipite della forma breve, Pauline Melville (i suoi racconti sono stati pubblicati in Italia da Tamu Edizioni nella raccolta Uno di questi due paesi è immaginario) che in comune con Antigua ha le origini caraibiche. I temi in Melville sono politici e si fondono in una narrazione dagli elementi prettamente fantastici, in Antigua il fantastico lascia il posto a un sottile surrealismo che incontra, in un’esplosione di verità, la realtà cronachistica.

Antigua è capace di descrivere in poche memorabili righe tanto le caratteristiche del personaggio quanto la sua condizione interiore, permettendo a chi legge di vedere i suoi personaggi muoversi nello spazio del racconto e di connettersi a loro. Il linguaggio quotidiano, un abile e sottile umorismo, vari esperimenti ritmici e un’impercettibile poesia sono gli ingredienti che, sommati alla conoscenza della tecnica narrativa della forma breve, fanno di questa raccolta di racconti un formidabile riuscito esempio.
E per citare ancora Cortázar «Un racconto si muove su quel piano dell’uomo dove la vita e l’espressione scritta di quella vita ingaggiano una lotta fraterna […] e il risultato di tale lotta è il racconto stesso, una sintesi vivente e insieme una vita sintetizzata, qualcosa come un incresparsi d’acqua dentro un bicchiere, una fugacità in una permanenza».
E permanenti restano queste diciotto vite raccontate.

Che cosa fa la gente tutto il giorno?, di Peter Cameron

Autore: Peter Cameron
Editore:
Adelphi
Traduzione:
Giuseppina Oneto
pp.
188 Euro 18,00

di Debora Lambruschini

A metà maggio, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, la raccolta di racconti Che cosa fa le gente tutto il giorno?, Peter Cameron ha trascorso un paio di settimane in Italia, incontrando lettori e giornalisti durante le tappe del suo tour partito da Torino. Un’intervista a tu per tu era stata concordata anche per Cattedrale, ma un piccolo intoppo di salute mi ha impedito di incontrarlo. Mi sono ritrovata quindi a leggere la raccolta consapevole di uno scambio mancato tra me e l’autore, di una serie di domande che sarebbero rimaste lì appese, ma che forse in un certo senso hanno anche amplificato la portata della lettura stessa, attraversata da molti interrogativi e spunti su cui soffermarsi nel tentativo di decifrare gli spazi bianchi della narrazione e le implicazioni di queste storie. Quello che so è che le dodici storie qui riunite nell’ottima traduzione di Giuseppina Oneto – tutte in precedenza apparse su rivista tranne quella che dà il titolo alla raccolta – è nel senso di smarrimento che contengono, nell’incapacità di comprendersi davvero e nel ritratto delle umane incertezze che dialogano con il lettore, proprio in quello spazio che “manca” alla narrazione e sì, al confronto con chi le ha scritte. Una raccolta eterogenea, pura – per fare un esempio tra le ultime raccolte lette, penso a Cose dell’altro mondo di Elizabeth McCracken – in cui si rintracciano alcune tematiche e spunti ricorrenti ma ogni storia resta autonoma e auto definita. E sono racconti che ben si inseriscono nella bibliografia di Cameron, scritti tra il 1984 e il 2014 e che attraversano quindi molta vita e molta produzione letteraria. Non sono la prova letteraria migliore dell’autore, che a mio avviso si muove più agilmente nel romanzo (nonostante la sua prima pubblicazione sia stata appunto una raccolta di racconti, One way or another, 1986), ma ne rappresentano una parte importante e riconoscibile, attraversate da una comune postura autoriale, un certo sentire, una direzione di sguardo. Temi e spunti che si ritrovano nelle narrazioni dell’autore statunitense e quella prosa dall’eco british, influenzata dagli studi in letteratura inglese e dal lungo soggiorno a Londra, di una certa attitudine letteraria: la prosa misurata, le atmosfere rarefatte, la cura particolare per i dialoghi – anche se poi è proprio l’incapacità di comprendersi dei personaggi uno dei cardini della narrazione.
Diceva Cortàzar che il racconto è paragonabile alla fotografia – il romanzo invece al cinema – per quella «rigorosa limitazione previa», che è propria del mezzo espressivo e del modo in cui il fotografo lo utilizza: ecco, i racconti di Cameron ben si legano a questo concetto e della fotografia anche come influenza e ispirazione ne sono esempio. A partire da “Una famiglia perbene” che è esplicitamente ispirato a una fotografia di Richard Tuschman, a sua volta influenzato dai quadri di Edward Hopper (cui dedica la serie fotografica “Hopper Meditations”): la caducità dell’essere umano, la distanza tra io interiore e frenesia della società moderna, solitudini e distanze, atmosfere taciturne. Il richiamo a questi artisti permea ben più di un singolo racconto, evocando una simile postura nelle solitudini, nelle inquadrature, nell’ordinario e quotidiano su cui si concentra lo sguardo narrativo. Le storie di Cameron fotografano frammenti di vite ordinarie scosse da svolte spiazzanti, ne scandagliano le solitudini e lo smarrimento, i rapporti, le incomprensioni. A partire da sé stessi, da quanto sia difficile comprendersi e accettarsi fino in fondo e, quindi, della distanza tra noi e gli altri.

 

Pensò alla sua vita e alle cose che le succedevano, a come fosse impossibile impedire che succedessero, controllarle. Sembrava di galleggiare in una piscina della grandezza di un oceano insieme a tutte le cose che potrebbero capitarci nella vita, e poterne sfiorare solo alcune, in modo del tutto casuale, e che tutte le cose desiderate fossero sottili e scivolose come pesci. (“Mercatino d’inverno”, p. 120)

 

Gli uomini e le donne di Cameron nuotano in questa immensa piscina sfiorando desideri e cose che potrebbero essere e accadere, ma su cui in fondo pare suggerire l’autore abbiamo ben poco controllo o perfino consapevolezza. Ed è nelle parole non dette, nei dialoghi che sembrano correre su binari diversi, che si muovono i rapporti scandagliati con tanta precisione, nelle solitudini e mancanze, nello spaesamento dell’età adulta in cui spesso non sappiamo collocarci. Come Laine, appena atterrata a New York dopo mesi nei Peace Corps, che non riconosce niente della vita di prima e fatica a trovarvi un posto ed è nel luogo più inatteso – un parco a tema – che per qualche momento le pare invece di ritrovare e ritrovarsi. Ma è un equilibrio precario, una quotidianità effimera, destinata a non durare.
È, ancora, lo spaesamento di un uomo che preferisce lasciar credere alla moglie di avere una relazione pur di non rivelarle che nasconde un cane nella cabina armadio, di cui si prende cura ogni notte, mentre tutto intorno a lui va in pezzi sotto il peso della menzogna.
Ma che cosa fa quindi la gente tutto il giorno, viene da chiedersi? Prova a vivere. Annaspando in quella piscina dove non si tocca, sfiorando le cose che avremmo voluto, afferrandone un paio, provando a tornare indietro per poi capire che non è possibile, come i due ex amanti di “Area arrivi e partenze”.

 

Ho pensato: che pena coloro che non sono più amati. Che meticolosità nel soffrire, e nel coltivare il rifiuto tormentandosi di continuo le ferite. (“Area arrivi e partenze”, p. 73)

 

C’è una malinconia di fondo che attraversa queste dodici storie, la solitudine e lo smarrimento di un quotidiano che per i protagonisti è ben lontano dall’immagine che ne avevano abbozzato anni prima, da ciò che speravano per l’età adulta. E quando la osserviamo quell’età adulta, quando per un attimo cade il velo che la separa dal mondo dell’infanzia, si rivela in tutte le sue mancanze. «La vita non ha mantenuto le sue promesse o era sbagliato il sogno» si chiedeva Paolo Zardi in un racconto de La gente non esiste, quello studio chirurgico dell’uomo, la crisi dell’età adulta, le aspettative che si scontrano brutalmente con la realtà. Realtà e vita adulta verso cui pare di precipitare, un tuffo di testa:

 

Mi sentivo sospeso in aria, sopra quell’orribile acqua azzurro acceso, ma non riuscivo a girare il corpo anche se stavo precipitando in modo pericoloso e a tutta velocità. (“Testa o piedi”, p. 166)

 

Sono storie di distanze – dalle persone che amiamo o abbiamo amato, dall’idea che abbiamo di noi stessi e dall’immagine della vita che desideravamo – di connessioni umane fugaci, attraversate di profonda malinconia: due vecchi amici di fronte alla malattia terminale che si ritrovano per sgombrare la casa, la caducità della vita che dialoga con la fine di un rapporto sentimentale, fuoriscena eppure altrettanto protagonista; una famiglia disfunzionale, adulti assenti e una ragazza che crea nella finzione un sostituto a ciò che manca; una giovane vedova caduta nella disperazione, il ricordo della vita felice, l’abbandono alla solitudine; la fine di un amore e un sentimento non ricambiato tra due ex che si ritrovano brevemente per una vacanza insieme.
Le relazioni, in fondo, nient’altro che questo, sono il cuore di questi racconti su cui lo sguardo di Cameron si posa senza giudizio, restituendoci una fotografia delle nostre fragilità, del senso di inadeguatezza e dello scarto che c’è tra l’immagine che proiettiamo di noi stessi e ciò che realmente siamo e desideriamo. Della distanza tra queste due che talvolta diviene insopportabile. E quell’io intimo, da proteggere, tenendo ben celato, in una società, sembra suggerirci Cameron, in cui non c’è spazio per la tenerezza. Sono dodici piccole increspature del quotidiano, un movimento minimo della superficie che agisce ben più forte però in profondità. 

Dialoghi in cielo, di Can Xue

Autore: Can Xue
Editore: Utopia
Traduzione: Maria Rita Masci
pp. 128 Euro 17,00


di Francesca Piovesan

Utopia Editore, con la traduzione di Maria Rita Masci, porta in Italia Dialoghi in cielo, una delle prime e più acclamate raccolte di racconti di Can Xue, pseudonimo di Deng Xiaohua, voce più acclamata della letteratura cinese contemporanea.
Xue, dopo aver svolto vari lavori nella sua vita, tra cui l’operaia, l’insegnante e la sarta, lavori che ritornano nelle pagine di questa raccolta, ha iniziato a dedicarsi alla scrittura da metà degli anni Ottanta, diventando un’esponente di picco della letteratura sperimentale.
Già candidata, nel 2019 e 2021, per l’International Book Prize, la sua scrittura è stata definita dal The New York Times “una corsa nel buio in discesa: si gode dello slancio, ma si ignora le direzione”.
Ed è proprio questo che si perde mentre si prosegue la lettura: la direzione.
Xue tramite uno stile che è flusso malinconico alla Woolf, che riprende misteri alla Kafka, sfociando in un irrazionale che è onirico e perturbante, ci conduce attraverso la civiltà cinese, maternamente oscura e parallelamente moderna.
Non è un caso che uno degli elementi ricorrenti nei racconti sia la figura materna; una madre negligente, una madre anaffettiva, una madre foriera di terrore e persecuzione come nel racconto “La capanna sulla montagna”, in cui la famiglia, la casa sono terrore, orrore.
La madre diventa un ostacolo per la protagonista, la rottura del punto di equilibrio che lei cerca di ottenere sistemando continuamente un cassetto, guardando dalla finestra una capanna, simbolo di liberazione.

La mia sorella minore corre a dirmi di nascosto che mia madre ha deciso di spezzarmi le braccia, perché quando apro e chiudo il cassetto il rumore la fa impazzire. Ogni volta che sente quel rumore, soffre a tal punto da immergere la testa nell’acqua gelata e tenercela finché non si prende un forte raffreddore.

Madre che si scioglie in un catino di acqua saponata in “Bolle di sapone sull’acqua sporca” :

Mia madre si è sciolta in una bacinella di acqua saponata. Non lo sa nessuno. Se qualcuno sapesse come sono andate le cose, mi darebbe della bestia, dell’assassino sordido e sinistro.

Bestia nella quale il figlio si tramuterà, alla fine del racconto, diventando un cane con la bava alla bocca nei confronti della folla curiosa.
Madre che si potrebbe interpretare come Madrepatria, quella Cina fatta di persecuzioni politiche che Xue descrive nel racconto che apre la raccolta “La splendida estate del Sud”, dove è una nonna, una figura magica che richiama le antiche origini, l’unione con la natura, le piante e gli animali, a tenere unite le redini di una famiglia esiliata, povera, istruita e rieducata dal regime.
Il freddo, il ghiaccio, la neve che blocca i corpi, gela gli occhi, immobilizza tutto e tutti in una condanna definitiva ritorna quasi in ogni racconto, a cristallizzare personaggi e luoghi, incubi e universi di realtà.
”Quello che mi è capitato in quel mondo” è storia di internamento, di diversità, di condanna da parte del gruppo, anche familiare, di chi sente di più, di chi è ancorato alla sensibilità come rifugio, come uscita di salvezza:

I pensieri in cui è immersa la balena bianca sono eterni, frammenti di ghiaccio si urtano lontano… nel mondo di ghiaccio non c’è notte, non c’è giorno.
“…i parenti si erano accorti di questo mio correre su e giù lungo l’argine del fiume, ed erano convinti che fossi malata. Approfittarono di quando ero profondamente addormentata per legarmi mani e piedi, quindi mi chiusero in un tempio diroccato.
La notte, nel tempio si muoveva un numero indefinito di spiriti e qualcosa saltava all’impazzata sottoterra. Quando mi fecero uscire ero veramente ammalata. Il mio viso era gonfio e trasudavo muco, le mie gambe seccate dal vento tremavano.”

Cuculi, uccelli notturni, api che si devono cercare di notte, serpenti sono animali totemici che possono condurre nell’immaginifico, che possono ricoprirsi di aloni magici, veicolare visioni, allucinazioni, metamorfosi. Odori e suoni scatenano le percezioni che portano altrove, all’infanzia, a un amore perduto come “Nell’istante in cui canta il cuculo”, dove una stazione diventa un portale per raggiungere una scuola, un compagno di banco con una camicia blu da studente, e una farfalla appuntata al petto.
C’è anche spazio per l’amore fra coppie, coniugale o meno, reale o meno.
Amori che si ritrovano in un’isola deserta “mentale” dopo essersi incontrati tutte le mattine, alle cinque, per vent’anni. Incontrati vedendo sempre le spalle dell’uomo, scoprendo il suo viso solo in questo finale di favola, come gesto liberatorio, come confessione, svelamento:


Quando arrivava mi volgeva la schiena, non si è mai voltato. La sua schiena era ampia. Scoccate le 5, gocce di pioggia cadevano sulle foglie della palma fuori dalla finestra. Ripeteva ossessivamente la stessa frase: “Se ora fuori spuntasse il sole, gli scarafaggi si tramuterebbero in elicotteri”.
I suoi passi erano leggerissimi e se ne andava sempre all’improvviso. Appena la porta della stanza si chiudeva, il mio collo si riempiva di rughe.

O come nei tre capitoli/racconti di “Dialoghi in cielo I, II, III”, dove gli incontri d’amore, le sparizioni di amore, le rincorse d’amore si affidano al profumo di una tuberosa da attendere tutte le notti, a mezzanotte. O la ricerca di un compagno/compagna ideale, spesso, non è altro che la nostra trasposizione nella figura dell’altro.
Sono anche amori contrastati, in “Le ansie di Amei in una giornata di sole”, sempre dalla stessa famiglia, ancora una volta dalla madre, figura vestita di nero, scontrosa, che alleva un nipote ad aglio crudo; un nipote che non sa chiamare la vera madre “mamma” e l’apostrofa con un “Ehi” come il marito scappato, lontano, che è ridiventato scapolo, che ha guarito le pustole del suo viso con un amore rubato e gettato.
A conclusione della raccolta, Can Xue, pone i due racconti più terribili, spaventosi.
“Nella landa desolata”,  i protagonisti sono marito e moglie che vagano insonni da notti in stanze enormi, sporche, immense, prigionieri di passi che si sentono sul pavimento e di bocche che masticano, in una discesa agli inferi che troverà la sua fine nella landa desolata:


Quella sera, dopo essersi addormentata, improvvisamente si accorse che non stava dormendo. Allora si alzò e si mise a camminare su e giù per la stanza buia, le tavole sconnesse del pavimento scricchiolavano sinistre. Nell’oscurità, qualcosa di ancora più scuro stava accovacciato in un angolo, faceva vagamente pensare a un orso. Muovendosi fece scricchiolare anch’esso le tavole del pavimento.

“Chi è?”
La voce le si smorzò in gola.
“Sono io”.
La voce spaventata del marito.
Ebbero l’uno paura dell’altra.

Il racconto finale “Il lucernario” mette in scena un incubo a occhi aperti: un figlio maggiore che segue un uomo che “brucia i morti” e “scava buche” in un viaggio psichedelico fatto di uva coltivata, cenere, pozze che si riempiono d’acqua per marcire, vedendo da lontano la sua casa, i suoi genitori malati, mortiferi, i fratelli minori sciocchi, trasformati in animali senza acume.

Can Xue è una scrittrice onirica, che dipinge un universo forse a noi occidentali incomprensibile, perché non abbiamo le radici di questa cultura. È flusso gotico, e anche grottesco. È antichità sepolta che striscia con le serpi, che suona con i flauti, che porta nell’altrove della sperimentazione, del ritorno all’immaginazione liberata.

Spazzolare il gatto, di Jane Campbell

Autore: Jane Campbell
Editore: Atlantide
Traduzione: Federica Bigotti
pp. 176 Euro 17,50

di Francesca Piovesan

“ La voglia di un vecchio è disgustosa ma la voglia di una vecchia è peggio.
Lo sanno tutti. Susan lo sapeva di sicuro.”

Inizia così la raccolta di racconti Spazzolare un gatto dell’esordiente Jane Campbell, autrice inglese di ottant’anni, pubblicata da Atlantide Edizioni, collana Blu, per la traduzione di Federica Bigotti.  Credo sia fondamentale sottolineare l’età per due aspetti: il tanto agognato esordio che, come si può notare in questo caso, non arriva mai troppo tardi perché la creatività e il saper scrivere, l’allenarsi a scrivere,  è un esercizio continuo, di ricerca, di coraggio nelle proprie capacità e abilità, coraggio anche nel decidere di uscire dalla propria comfort zone come è successo alla stessa Campbell che, per anni, come lei stessa ha dichiarato in un’intervista uscita su Il Libraio, ha scritto continuamente, febbrilmente, di tutto: articoli, testi brevi, poesie, per poi approdare a un primo racconto.
Spazzolare il gatto è stato scritto mentre era in vacanza con il figlio e la nuora e si prendeva cura di Lucy, uno dei due siamesi anziani. Da questa gatta, che inarcava la schiena per il piacere, è nato tutto.
Campbell, poi, aveva spedito il racconto a The London Review of Books e benché la rivista non pubblichi fiction, il testo aveva visto la stampa in poche settimane.
Da lì, da questa serie di circostanze che si riassumono nella parola vita, e anche nella fiducia nelle proprie parole, sono nate le storie di tredici donne; tredici donne anziane, tutte sopra la settantina come lo era l’autrice al tempo della stesura, tutte donne con un punto in comune: la riscoperta del desiderio.
Qui, entra in gioco il secondo aspetto legato all’età: il desiderio in età avanzata, il desiderio che una vecchia, come Susan, non dovrebbe provare, perché primariamente inficiato dall’età, un’età che non è nemmeno matura, è oltre, è senilità, pace dei sensi, oblio.
Vecchiaia che richiama gli anni Quaranta, Cinquanta, fatti di cose appropriate, di educazione impartita, di donne rispettose di voleri paterni o materni: matrimonio, figli, una vita di serenità da rivista, che con il sopraggiungere della fine biologica, svolta; svolta all’improvviso, repentinamente, ancora per la vita, verso il desiderio da realizzare.

È proprio la stessa Susan a dire nel primo racconto “Susan e Miffy”:

“Susan sapeva che era importante essere, prima di tutto, una signora. Non era appropriato, non era mai appropriato, pensare in certi modi, vestire o mangiare o parlare in certi modi. E fantasie come quelle erano oltraggiosamente, terribilmente sbagliate. Erano palesemente sbagliate, si disse. Erano disgustose. E distolse gli occhi da Miffy…”.

Ma il richiamo del piacere che, in questi racconti, si declina in vari modi: dall’erotico, al mentale, al romantico, al piacere che deriva da una piena e rotonda consapevolezza del proprio corpo, della fine, della caducità, della volontà di decisione che può trascendere le protagoniste per liberare altri corpi, è forte, impetuoso, travolgente; conta poco l’età, conta pochissimo, sebbene sia un elemento evidente nella sua, a volte, goffaggine, paura:

Guardò la mano di Miffy poggiata sulla trama ruvida della coperta d’ospedale colorita e ricordò che un tempo, come dolcetto all’ora del tè, le era concesso del pane caldo tostato con burro e sciroppo di zucchero e che quando il burro gocciolava da sotto lo sciroppo luccicante aveva esattamente quel colore; il colore della pelle di Miffy. E Susan dovette trattenersi dall’allungare il braccio per toccarla e quasi, pensò, confusamente, dal mettersela in bocca.

Se queste righe cariche di erotismo non vi hanno spiazzato per fastidio, ma incuriosito per la scoperta di un punto di osservazione insolito, la raccolta è fatta per voi.

Scorrerete attraverso “Il graffio”, il racconto di un corpo vecchio che dimentica l’atto del ferirsi, forse sepolto in un incontro del passato, con un altro corpo, ma giovane: “ Lo splendore di quella ragazza, l’odore del suo sangue, la piega dei suoi fianchi, il profumo che sprigionavano i suoi capelli e la sua pelle umida. Com’era stata bella.”

Spazzolare il gatto, finalmente, è la vita domestica di due femmine anziane, forse la stessa Jane e la gatta; femmine che si cercano, hanno cura l’una dell’altra, in un continuo rispecchiarsi fisico che lascia poco scampo: “Ha un muso invecchiato, come ce l’ho io, ovviamente.” “ È praticamente senza denti. Sono un punto debole  nei siamesi. Questo probabilmente aggrava il problema della caccia. Io ho ancora  i miei denti ma sono tutti rivestiti e incapsulati e così via. Mi fanno abbastanza male. A volte penso che sarebbe più semplice farseli togliere come hanno fatto con quelli della gatta.”

Ci sono moltissimi animali in questi racconti: gatte e farfalle che trasportano il lettore in Africa come in “Lamia”, il nome d’amore, il nome che può annunciare un morso, il veleno, la tragedia, che diventa un atto di estrema e assoluta bellezza nelle descrizioni del paesaggio che Campbell conosce bene perché ci ha vissuto, nello Zambia e in Sudafrica:

Adesso la luce si stava scurendo, ma con quella luminosa qualità che l’immenso cielo africano conserva anche la notte. Le zebre che erano state a girovagare tra le palme erano tutte sparite. Un piccolo motoscafo con il tetto di foglie e turisti in gita la tramonto si stagliò per un attimo nel cielo albicocca e tra le nuvole porpora. E ,giusto in tempo, sopra il mormorio del fiume
e il tuonare delle cascate lei avvertì il ronzio di una zanzara….

Ci sono cani amati, perduti come in “Schopenhauer e io”, dove un robot, un’intelligenza artificiale, vuole monitorare costantemente la vita di Martha, residente in “una discarica per anziani”o aggressivi, enormi, vittime di un ego maschile che esce sempre distrutto da queste righe, a pezzi, frantumato, vero fautore della fine, salvo rarissimi episodi di amore e piacere vicendevole.

“Gentilezza” è sicuramente il racconto più spietato dove una piccola cittadina balneare sulla costa occidentale dell’Inghilterra (c’è sempre molto mare in questi racconti anzi, molta acqua. Acqua salata, acqua dolce, acqua che lava, che nasconde, che ristagna, che dona vita e morte, quasi una trasposizione del piacere, una sorta di orgasmo primitivo e mortale. Bisognerebbe sempre domandarsi perché si scrive d’acqua, cosa scava e porta alla luce questo elemento di cui siamo per la maggior parte composti) è il palcoscenico dell’atto più gentile della vita della protagonista, una donna sola, senza un cane, che passeggia, sempre all’interno o appena appena all’esterno di una comunità di pensionati.
Il cane Bruto, senza ironia, è di una coppia di vicini e sarà il perno del racconto.

“Ogni giorno le spiagge si riempiono di anziani come me che portano a spasso i loro cani nei loro Barbour e stivali da pioggia. Io sono decisamente troppo egoista per avere un cane ma mi piace camminare e so che mi fa bene, quindi faccio una passeggiata di un paio di chilometri ogni mattina sulle spiagge disegnate dalle onde, dentro le tante piccole pozzanghere d’acqua salata depositate dalla corrente in ritirata e guardo lì sulla sabbia bagnata le nostre orme tanto numerose e varie. Comunque, per quanto varie possono essere, sta di fatto che le mie sono indistinguibili dalle altre e questa osservazione porta, come fanno così spesso le passeggiate lungo il mare, a meditazioni filosofiche su quanto io sia davvero diversa da questa gente spaventosa o se in realtà non sia anche io stupida e insulsa come loro.”

La morte è ovunque in queste pagine.
Tuttavia è naturale solo per i personaggi di contorno; spesso è indotta volontariamente o meno, perché anche le sponde di un fiume, se non conosciute possono essere quel vascello che traghetta, anche due occhi uguali possono essere la spia di un futuro in una scarpata nel bosco, anche un vialetto ghiacciato può portarti a immaginare una morte da amata ma sola, come nell’ultimo della raccolta “Essere soli” che è, sicuramente, il racconto più emotivo, delicato, dove l’amore fra due donne molto diverse nasce in una maniera insolita: un rifugio, una cura dopo un’alluvione, ancora l’acqua che travolge e trasporta, e la scoperta, per la prima volta, del sentire la solitudine, nel desiderare così tanto un’altra persona da percepire la propria solitudine in una casa, durante una tempesta, dall’altra parte del telefono.
Ci sono sprazzi di pandemia, parole che si dimenticano, algoritmi che dovrebbero rendere migliori le giornate di chi non ha famiglia, o figli, righe oniriche su amori di gioventù, ma i racconti dove il piacere, di qualsiasi tipo, predomina, perché è potere nel dare e nel darsi, rendono questo libro il caso letterario che profuma di olio per pelle secca e frutti proibiti.

 

L’uomo che vendeva aria in Terrasanta, di Omer Friedlander

Autore: Omer Friedlander
Editore: NN
Traduzione: Abigail Piccinini.

pp. 240 Euro 18

 
di Anna Lo Piano

Omer Friedlander L’uomo che vendeva aria in Terrasanta, NN, traduzione dall’inglese di Irene Abigail Piccinini.
Per iniziare a parlare della raccolta di racconti di Omer Friedlander L’uomo che vendeva aria in Terrasanta, da poco pubblicata in Italia da NN, e tradotto da Abigail Piccinini, vorrei partire dalla fine.
A pagina 231, dopo una doverosa lista di editor, mentori e amici, e una di libri, film e documentari sulla storia di Israele e della Palestina che sono serviti per le sue ricerche, Friedlander ringrazia David Grossmann. Lo fa inserendo fra le fonti “A un cerbiatto somiglia il mio amore”, ma soprattutto riportando un brano di una sua intervista:

 

«Ciascuno di noi ha una specie di storia ufficiale che presenta agli altri[...] Ma se siamo abbastanza fortunati da trovare un buon ascoltatore, un testimone empatico, allora ci indurrà a raccontare non solo la nostra storia ufficiale, ma anche la storia sottostante. [...] Questo ci costringerà a rinunciare alla protezione della storia ufficiale che per noi è diventata una trappola e persino una prigione. [...] Il potere di una buona storia non è quello di proteggerci, ma di esporci e portarci a più stretto contatto con la nostra stessa vita»

 

Negli undici racconti che compongono la raccolta, la storia ufficiale è certamente presente, da “Le arance di Giaffa”, che attraverso la memoria di un anziano coltivatore ripercorre le vicissitudini della città dall’impero ottomano alla Nakba, fino al “Miniaturista”, dove la memoria si spinge fino alla Spagna Omayyade. Non mancano i check point, i campi profughi, le città del deserto e le tribù beduine, la guerra in Libano e nel Golan, i bombardamenti su Gaza e i tunnel per il contrabbando. Ma a raccontare sono voci che veicolano una propria versione dei fatti, molto poco ufficiale. E i personaggi nascondono, dietro la forma visibile che mostrano al mondo, dolori e desideri stratificati in segreto.
Nato a Gerusalemme nel 1994 e cresciuto a Tel Aviv, Omer Friedlander è nipote di Saul Friedlander, famosissimo in Francia come storico dell’Olocausto. In vari suoi interventi, c’è un ricordo del nonno che riporta spesso. Lui e il fratello, ancora bambini, erano andati a trovarlo a Parigi, con l’intenzione tra l’altro di registrare i suoi racconti. C’è molta aspettativa sull’incontro con questo avo dai capelli grigi e fluenti. Ma alla fine, seduti al ristorante insieme a lui, rimangono così affascinati dall’enorme piatto di patatine che troneggia sul tavolo che dimenticano di accendere il registratore.
Un’eco di questa figura si trova in “Il sopravvissuto sefardita”. “Sono sempre stato geloso dei miei compagni di classe ashkenaziti con i nonni sopravvissuti alla Shoah” spiega il giovane narratore “Mio fratello Zohar e io siamo sefarditi”. La loro missione è portare anche loro, come gli altri compagni di classe, un parente sopravvissuto per il Giorno della Memoria, che possa raccontare gesta epiche e terribili. E soprattutto battere il terribile e antipatico

 

Matan Mordechai Mendelbaum, che aveva sempre le storie migliori. Suo nonno non era solo un sopravvissuto, era anche uno storico stimato, uno specialista mondiale del settore, i cui libri sulla Shoah avevano vinto premi e riconoscimenti.”

 

I due fratelli trovano quindi un vecchio sefardita e gli chiedono di fare la parte del nonno. Per Yehuda inventano delle storie mirabolanti e avventurose, ma il vecchio, invece di limitarsi a ripeterle, si comporta in modo strano: cura il giardino, cucina, ha ribellioni adolescenti. La loro idea appare come un completo fallimento finché non decidono di ascoltare finalmente la vera storia del vecchio, che è bellissima, e malgrado non abbia niente a che fare con la Shoah, contiene il senso di tutte le stranezze che ha fatto sino a quel momento.
Se c’è una terra in cui a raccontare la propria storia si finisce sempre per pestare i confini di quella dell’altro è sicuramente Israele. Lo sa bene Grossman che ne ha fatto il cuore della sua narrativa, con la capacità di vedere attraverso altri occhi, anche quando sono quelli del nemico.
Nel racconto “Il collezionista di sabbia”, una ragazzina che abita nel deserto del Negev scopre che c’è un altro modo di guardare e nominare la terra su cui abita, ma soprattutto per la prima volta si rende conto che fa parte di un “voi”, che può essere vista come “altro”. Un bel colpo per la propria identità.

«Mio padre mi ha insegnato tutti i vecchi nomi beduini dei luoghi del deserto» disse Salim. «Prima che arrivassero i sionisti e cambiassero tutti i nomi».
Non mi piacque come disse “sionisti”. Era come se avesse detto una parolaccia. Io non sapevo proprio di che cosa stesse parlando, ma non ero disposta ad ammetterlo.
«Non abbiamo cambiato nessun nome» dissi, provando a suonare sicura di me.
«Sì, invece. La mia famiglia è qui da moltissimo tempo. Io sono della tribù Al-Azazmeh. Avevamo i nostri nomi per tutti i posti e voi li avete cambiati tutti».
«Non è vero» dissi io. «Come abbiamo fatto a cambiare i nomi?».
«Il Comitato per la designazione dei toponimi nel Negev».
«Te lo sei appena inventato».

 

Per riuscire ad assumere la visione dell’altro bisogna spostare la propria prospettiva, conquistare una distanza necessaria a vedere le cose più chiaramente. In una intervista Friedlander fa riferimento alle lezioni americane di Calvino, quando affronta il mito di Perseo e Medusa per parlare della scrittura, della necessità di riflettere lo sguardo del mostro per non esserne inceneriti. Lui, dice, ha cercato sia lo sguardo di sbieco di Perseo che quello pietrificante di Medusa.
Dopo aver studiato in Inghilterra e negli Stati Uniti, Friedlander ha scelto di scrivere in inglese, e per sua stessa ammissione è una scelta che ha un preciso valore nel modo di rapportarsi a una materia tanto vicina a sé. Nella nota finale, la traduttrice Piccinini la commenta così:

 

Mi piace pensare che abbia scelto di scrivere in inglese perché aveva bisogno di staccarsi emotivamente almeno un po’ dai suoi personaggi per raccontarli vivi e autentici nel loro coacervo di contraddizioni surreali, tenere e crudeli, dolorose e immaginifiche, senza lasciarsene risucchiare troppo. Mi piace pensare che abbia avuto bisogno di tradurli in una lingua diversa dall’ebraico per poterli raccontare in modo più avvertito, più autentico e più vero.

 

Creare una distanza per raggiungere l’autentico, può sembrare una contraddizione, ma forse è necessario a liberarsi di quella narrazione fossilizzata di cui parla Grossman, dalle identità standardizzate. Al cuore di ogni racconto c’è una relazione conflittuale che mette a nudo le proprie molteplici identità.  Ognuno dei suoi personaggi fornisce una propria visione del mondo, maturata attraverso perdite e desideri, ma anche il modo di interpretarli. L’attivista di mezza età che ogni giorno si reca al check point fa continuamente riferimenti al teatro, a Kakfa, perché quel tipo di storie hanno formato il suo modo di leggere la vita, persino il proprio lutto. I bambini di “Meduse a Gaza” interpretano la tristezza del padre di ritorno dalla guerra attraverso le favole che lui raccontava. Nell’”Uomo che vendeva aria in Terrasanta”, l’accanimento a ribadire l’assurdo è tanto di Simcha quanto di sua figlia Lali, che finge di credere alle storie del padre per non ferirlo, per non togliergli il suo pezzo di realtà.
In “Sherazade”, un soldato israeliano è ben consapevole del potere delle storie della donna. Sa che il finale sarà tragico, e allora come in una battaglia sguaina il proprio, e racconta come un lupo, una volta, gli ha salvato la vita.

C’è molta ironia, molta infanzia e molta immaginazione in queste storie, costruite in parte come favole, usando ripetizioni, ribaltamenti e strutture simmetriche, come nel racconto delle due donne, madre e figlia, che camminano sette giorni avanti e indietro (Walking Shiva), con un riferimento esplicito nella parte centrale a Cappuccetto Rosso.
E mi piace chiudere allora con un’ultima storia, che la traduttrice inserisce nella nota finale, come un’ennesima possibilità:

 

Quando Omer Friedlander aveva cinque anni, vivevo a Gerusalemme, studiavo l’ebraico grazie a una borsa di stu-dio e conoscevo e frequentavo i paesaggi e i personaggi dei racconti che lui avrebbe poi scritto in inglese una ventina d’anni dopo. Mi piace pensare che potremmo esserci incro- ciati per caso senza saperlo, per strada oppure sull’autobus, o magari sulla spiaggia a Tel Aviv. Se ci fossimo incontrati ci saremmo ignorati, non ci saremmo degnati di uno sguardo, chiusi nei rispettivi mondi delle rispettive età. Oppure sarei entrata anch’io in uno dei suoi racconti.

Forse quella bottiglia di aria della Terrasanta che tengo sul comodino non l’ho comprata invano.

Uno shock, di Keith Ridgway

Autore: Keith Ridgway
Editore: Sur
Traduzione: Federica Aceto
pp. 306 Euro 18,00

di Debora Lambruschini

 

Delle etichette editoriali che si applicano alle raccolte di racconti quella di “romanzo a racconti” è una delle più frequenti. Certo, continua a far storcere il naso a noi amanti della forma breve, convinti che la subordinazione al romanzo dovrebbe ormai da tempo essere finita e i racconti avere dignità di mercato propria. Ma la realtà la conosciamo bene e vendere una raccolta esattamente per quello che è può alienarsi per partito preso una fetta considerevole di lettori e  - la grande affluenza all’ultimo Salone del libro di Torino non ci inganni – il mercato editoriale nostrano non se la passa poi benissimo. L’etichetta di romanzi a racconti in effetti si adatta bene però a Uno shock, dello scrittore irlandese Keith Ridgway – magistralmente tradotto dalla sempre ottima Federica Aceto per Sur – come a suo tempo per Olive Kitteridge di Elizabeth Strout. O forse, ancor più specifica, potrebbe essere l’etichetta di short story cycle, per primo utilizzata dal critico statunitense Forrest Ingram a indicare quella forma intermedia tra racconto e romanzo in cui la struttura è retta da un pattern complessivo, centrale: una serie di racconti, quindi, in cui ognuno è legato all’altro in equilibrio tra autonomia e unità del tutto, dove temi e motivi si esplicano nell’unità complessiva in una relazione su vari livelli tra i racconti della sequenza. Le nove storie di Uno shock, pur mantenendo un certo grado minimo di autonomia – specie alcune – è nell’insieme infatti che rivelano il loro potenziale; l’architettura che tiene insieme le storie è data in questo caso dalla ricorrenza di alcuni temi, dall’ambientazione, dall’occorrenza di personaggi e, non da meno, dalla circolarità della trama. Se vogliamo apporgli un’etichetta, quindi, per me quella di short story cycle è la più adatta da applicare a questo testo: identifica le scelte formali di cui si compone, è parte integrante della sua struttura, ci aiuta in un certo modo a ragionare sul testo che abbiamo di fronte e tentare di penetrare il mistero della scrittura. In quest’ottica mi sembra che il discorso sull’etichetta appropriata abbia una sua funzione critica ed è quindi dagli elementi peculiari del short story cycle che voglio partire per riflettere sul testo di Ridgway, le sue stratificazioni, le circostanze, il ponte che crea fra tradizione letteraria e aderenza al contemporaneo.
Le nove storie di Uno shock si muovono tutte sul palcoscenico urbano, in un quartiere popolare e a rischio gentrificazione del sud di Londra (ecco qui la prima occorrenza tra i racconti) e, zoomando ancora, nello spazio specifico e quotidiano di case e stanze. Del quartiere, di Londra, cogliamo le difficoltà di una politica distante e inetta, il divario economico, il problema sempre più urgente della gentrificazione. Un tema quest’ultimo che oggi ha sempre meno i contorni del topos letterario fine a sé stesso per farsi invece fotografia di una criticità globale, ben inquadrata per esempio da autori come Zadie Smith (penso per esempio alla raccolta di racconti Grand Union), Jonathan Coe (nell’ultimo romanzo, Bourville), Bryan Washington (Lot), Scott McClanahan (Crapalachia), Kali Fajardo Anstine (Sabrina&Corina), Ron Rash, per citarne alcuni, narrazioni letterarie di un fenomeno pericolosamente reale e che sta già da tempo coinvolgendo anche le nostre realtà italiane.
Sono le persone, che quella città, quel quartiere, quelle stanze le popolano, il cuore pulsante dei racconti di Ridgway, di cui l’autore con impeccabile orecchio riproduce i dialoghi, nelle case, ai tavoli del pub e, soprattutto, ne rappresenta le fragilità, le piccole gioie e i dolori, il quotidiano scosso da un elemento disturbante, una battuta d’arresto, un errore. Uomini e donne, bianchi e neri, un microcosmo che prende vita grazie appunto all’attenzione ai dialoghi e a un uso ben calibrato del flusso di coscienza. La condanna per ogni autore irlandese è quell’inevitabile confronto – per similitudine o contrasto – con Joyce e nemmeno Ridgway si è sottratto al paragone, evidenziato dallo strillo in copertina preso da una recensione del Times: «come Finnegans Wake, ma leggibile», a sottolineare tanto l’appartenenza letteraria quanto il distacco dalla tradizione. Ma, come anche altri critici hanno notato, se al parallelo con Joyce non vogliamo sottrarci è forse quello con i Dubliners ad avere qualche punto di contatto in più, quantomeno nel desiderio di raccontare storie di vita quotidiana entro i confini della città – Dublino in quel caso, Londra in questo. L’uso del flusso di coscienza di reminiscenza modernista è efficacemente utilizzato da Ridgway nel suo significato primordiale e magari meno letterario, permettendo al lettore di avvicinarsi quanto più possibile ai personaggi, partecipare ai loro dubbi, alle epifanie, al quotidiano, esplorando varie sfumature della natura umana e dei sentimenti, in una narrazione mai appesantita. La sensazione è quella di un narratore che ha presa salda sulla materia letteraria e che in un certo senso gli preferisce la realtà, il contemporaneo, l’orecchio sempre teso ai dialoghi, l’occhio sul mondo che lo circonda. E che nel pub, luogo simbolo per eccellenza, ha il suo ritrovo ideale: di fronte al bancone di The Arms sfilano tutti i personaggi di queste storie, inquadrati da angolature diverse, si svelano piano piano al lettore, ma mai del tutto. Ecco, c’è una certa misura di mistero che pervade le storie, di non svelato, una serie di spazi bianchi della narrazione che Ridgway dosa sapientemente e con i quali noi lettori di racconti siamo abituati a confrontarci, andando a caccia di indizi, colmando fin dove possiamo i “vuoti”, ciò che resta laterale nella fotografia e che pure intuiamo essere importante quanto i soggetti in primo piano, perfettamente a fuoco. È, per esempio, l’etichetta con cui il ragazzo de “Il piccione” – soprannominato appunto Pidgeon dal verso che ogni tanto emette – è abituato a fare i conti, il fratello bello che sottintende un “ma stupido” e che apre mondi nella narrazione; è la crisi che colpisce Stan, uno dei personaggi più ricorrenti eppure per certi versi il più inafferrabile, quando scopre un ratto nella cucina di casa; sono le chiacchiere a una festa, in apparenza superficiali, effimere, nel racconto che chiude la raccolta e ne rivela pienamente la circolarità della struttura.
Il flusso di coscienza controllato e i dialoghi vividissimi, si intrecciano a formare una narrazione tesa tra reale ed elemento imprevedibile che talvolta supera i bordi del realismo stretto per aprire ad atmosfere dai contorni meno definiti, in racconti ove il senso di mistero che pervade la scrittura assume una connotazione ulteriormente significativa.

 

Per un po’ non c’è niente. Cos’è un po’? Nessuno viene. Nessuno chiama. David non è in camera da letto. E nemmeno in bagno. L’ingresso è vuoto. Come anche il soggiorno e la cucina. Non è in queste stanze.

È nell’altra stanza, la quinta.

E a saperlo siamo solo io e voi.

(“L’appartamento”, p. 228, finale)

 

L’ambientazione – il quartiere popolare di Londra, il pub The Arms – , è il primo elemento di connessione, la postura autoriale, l’obiettivo puntato sulle persone, la circolarità della struttura. Ma è anche un inseguirsi di solitudini, un sentimento che pervade la raccolta tutta e lega in qualche modo ancor più degli incontri effettivi i personaggi che la compongono. Ne è esempio ideale il racconto di apertura – e a mio gusto il più riuscito della raccolta, che dialoga con l’ultimo – la cui eco continua oltre la fine della lettura. Ci aggiriamo tra le stanze di quella casa silenziosa insieme all’anziana protagonista e il suo gatto, la seguiamo nella routine di ogni giorno, tra i pasti semplici, la mente che vaga e indugia nei ricordi. Qualche giorno prima la coppia che si è da poco trasferita nell’appartamento accanto ha bussato alla sua porta, si è presentata con dei doni e delle scuse preventive per il disturbo che di lì a poco avrebbe causato la festa di inaugurazione della casa. Il punto di vista è quello della donna ed è da lì che ci aggiriamo in questa storia, è da lì che un pezzo dopo l’altro mettiamo insieme stralci di vite e di quotidianità, la narrazione che intreccia dialoghi e pensieri. L’occhio si posa sui dettagli delle stanze, dei gesti, e ognuno di loro è importante in qualche modo. Ognuno di loro, ogni parola – poche da parte dell’anziana – , ogni pensiero e sguardo è il modo dell’autore di dirci: guardate questa vita, l’ordinarietà del quotidiano, sentitela. La solitudine si fa tangibile, il ricordo del marito defunto da tempo pervade ogni cosa, ogni oggetto.

 

Le sembra assurdo. Cosa ci fa con tutto quel tempo? Eppure. Sembravano passati non più di due secondi da quando lui era morto, e solo uno o due minuti da quando si erano conosciuti, e forse mezz’ora da quando lei era piccola. Come la voltavi e la giravi era una cosa assurda. E quanto è banale, pensa, quanto è prevedibile e monotono pensare al tempo in genere.

(“La festa”, p. 22)

 

Il tempo, la solitudine, il ricordo. La festa pochi giorni dopo riempirà la casa dei vicini è l’elemento che modifica la routine e che porta la donna a un gesto inaspettato: incuriosita dalle voci che provengono dall’appartamento accanto, dalle risate, dalla musica, inizia a scavare un minuscolo foro nel cartongesso della parete, da cui poter osservare e osservando sentirsi parte della vita. Un foro sempre più grande, che diventa una nicchia nel muro entro la quale nascondersi e guardare. E da quella nicchia forse addirittura non riuscire più a venire fuori.
Nell’ultimo racconto siamo dall’altra parte del foro, nell’appartamento accanto, ed è lì che tutto si chiude o, come recita l’autore nelle ultimissime battute, è lì invece che tutto comincia:   

 

C’è un occhio nella parete, che luccica, stranissimo, in tutto e per tutto vivo. E sta guardando lei. Sembra impossibile da capire, ma Maria non ha paura, non grida. Per lei non è uno shock.

Forse la storia sarebbe dovuta cominciare così.

Forse è così che comincia.

(“La canzone”, finale del racconto e della raccolta, p. 303)

 

È anche un gioco metaletterario, è lo scarto improvviso del punto di vista come improvviso è l’elemento che scombina le cose, il quotidiano, le etichette che applichiamo alle storie. Ridgway utilizza sapientemente gli strumenti narrativi, sconfina da una forma all’altra, ma è l’equilibrio della prosa a rendere la raccolta tanto riuscita dal punto di vista formale, e la resa di una traduttrice esperta come Aceto senza dubbio fa la differenza. Un grado di sperimentazione minimo, ma ben evidente.
Messi da parte i confronti cui appunto un autore irlandese pare impossibile da sottrarre, quello che resta è una raccolta vibrante e viva, la sensazione di essere seduti al bancone di The Arms e osservare la vita che si muove intorno a noi, le sue storie inventate, quelle vissute e celate. Camminiamo non tra le vie di Dublino ma dentro le stanze e le vite di quel quartiere popolare di Londra, dove ognuno è intento a combattere la sua personale lotta contro la solitudine, la disuguaglianza, le mancanze. E dove le parole non sempre escono o sono quelle giuste per farci comprendere dagli altri, per comprenderli a nostra volta.
Ma qui, tra le pagine, le parole scelte sono sicuramente quelle più giuste.

Temevo dicessi l'amore, di Mattia Grigolo

Autore: Mattia Grigolo
Titolo: Temevo dicessi l’amore
Editore: Terrarossa edizioni
pp. 140 Euro 15,00

di Fabrizia Gagliardi

Leggere e scrivere di racconti sono pratiche che accumulano un bagaglio di domande primordiali, quasi infantili. Perché leggere racconti? Perché, a volte, assistiamo a schieramenti nettamente opposti tra la fascinazione e l’indifferenza per la narrazione breve?
Si tratta di interrogativi che sfumano i confini dello spazio tra critica e soggettività, le cui risposte si schierano a favore di una brevità come limite e stimolo per la creatività dell’autore; il modo più immediato per registrare i cambiamenti, molto vicino a come vengono vissuti nella realtà (il qui e ora dei personaggi); la cura fotografica dei dettagli o l’omissione dal carattere epifanico.
È il terreno ideale per la sperimentazione linguistica e ritmica, per ibridare generi e stili, e per lasciare una sensazione di libertà equamente spartita tra autore e lettore: da una parte, una libertà obbligata nel dosare i particolari, passare sopra la definizione netta della parabola esistenziale del personaggio; dall’altra pensare a personali sviluppi e appropriarsi di aspetti sempre nuovi a ogni rilettura.

Temevo dicessi l’amore di Mattia Grigolo, pubblicato da Terrarossa edizioni, riesce a rispettare tale promessa. L’autore ha alle spalle un fruttuoso apprendistato su riviste letterarie e, dopo aver esordito con La raggia (Pidgin edizioni, 2022), raccoglie le tracce della palestra della forma breve, edite e inedite, per riunirle in un’unica raccolta, con effetto che ne moltiplica la cura e le influenze.
Le «cinque storie racchiuse in quattordici racconti» ricostruiscono le diverse fasi dell’esistenza, un processo di crescita dall’infanzia alla vecchiaia, di Ofelia. Ogni racconto potrebbe esistere singolarmente grazie all’adozione di voci e prospettive differenti che s’incontrano e si amalgamano per restituire il significato dell’amore, o della fine dell’amore, della solitudine, del cambiamento, dell’annientamento dell’individuo tra nascita e morte.
La lettura scivola velocemente in una staffetta di emozioni che chiedono attenzione, rapporti umani alla ricerca di vicinanza, strade intraprese senza la consapevolezza della loro definizione. Ofelia affida a chi le sta accanto la propria noncuranza, ama, ferisce, usa per ricucire ferite o per percorrere cicatrici mai risolte.
In Inseparabili la voce narrante appartiene alla sorella di Ofelia che ricorda con tenerezza la loro infanzia, ma rimane delusa quando troverà una casa vuota e abbandonata dopo la partenza improvvisa. In Ecco qualcosa di riduttivo una Ofelia ormai quarantenne inizierà una relazione con Maddalena, condividerà con lei la passione per il lavoro di scultrice di cavalli per caroselli, ma ci sarà sempre uno scoglio oscuro e insormontabile, il tipo di muro di chi è ammutolito dalla propria solitudine.

«Perché i cavalli?» Chiede Maddalena.
«La domanda giusta credo sia: “Perché i cavalli da carosello?”.»
«Ok.»
«Guardali. Sono sempre al galoppo ma in realtà sono immobili, non vanno da nessuna parte, non possono. Gli si crea un’illusione di correre facendoli girare intorno a una pedana, cavalcati da bambini. Girano all’infinito senza mai muoversi. Non ho mai visto niente di più rassegnato e inconsapevole.»
«Sono come te?»
«No, io posso andare dove voglio. Loro no.»
Maddalena si avvicina di un passo. Si spostano dalle ombre e con le ombre gli equilibri.
«Loro sono delle cose, Ofelia. Cose che non decidono.»
«Noi decidiamo? Possiamo davvero farlo? Allora questi cavalli sono meglio di me,
perché non riescono a sbagliare.»

La brevità e la semplicità delle storie fanno intuire un lavoro minuzioso di sottrazione con il risultato di una scrittura diretta che gioca molto sulla forma del dialogo. Le battute che si rintracciano nella narrazione non danno l’impressione di chiarire la comunicazione, ma amplificano il senso del non detto con l’effetto di cerchi concentrici che espandono le incomprensioni. I flashback aiuteranno a costruire il contesto di alcuni dettagli fino a comporre un puzzle di vicende sempre più variegato, ma mai chiarificatore.
L’eco dell’influenza delle short stories americane si percepisce forte e chiaro e lo si rintraccia nei dialoghi che aspirano all’incisività di Lorrie Moore; nel dolore e nella memoria del trauma come momenti irrimediabili che ricordano le storie disgraziate di Lucia Berlin; nel motivo insistente che resta nella testa dopo Perché non ballate di Raymond Carver.
Eravamo è uno dei racconti più toccanti di Temevo dicessi l’amore: in un crescendo di tensione delinea la vicenda in cui Ofelia, dopo un vuoto che verrà svelato gradualmente, si unisce a un gruppo di aspiranti suicidi legandosi inspiegabilmente a un ragazzo in un rapporto contraddittorio.
Tornando alla libertà nelle narrazioni brevi, per orientarsi il lettore ha a disposizione diversi tipi di mappe da rintracciare oltre la vicenda intera.
I simboli affidati ai titoli, per esempio, appaiano alternativamente alcuni racconti per comunicarci la memoria indelebile di Chiara (l’infinito, ∞), gli affetti e gli amori tangenti di Ofelia (l’insieme, o il simbolo dell’omega Ω), gli amori tormentati e altrettanto importanti di chi ha amato la protagonista (l’insieme vuoto, Ø), i finali quasi definitivi (†), l’incertezza degli uomini di Ofelia, la paura della perdita e dell’abbandono (il simbolo astronomico della terra, ♁).
Oppure come afferma Joy Williams in riferimento alla presenza di animali nei suoi racconti – in grado di conferire una sorta di benedizione alle vicende umane –, potremo rintracciare tutte le comparse animalesche che Grigolo inserisce nel corso della raccolta. La sensazione è simile a quella di essere al cospetto di costellazioni mute, un oroscopo che non aggiungerà niente agli snodi di trama, ma che completerà la percezione di essere testimoni inconsapevoli della casualità.
Il racconto che chiude la raccolta conclude in bellezza armonica l’operazione dell’autore che è stato in grado di orchestrare esistenze intere, di comporre un corollario di frammenti di vite parziali altrettanto significative, di dosare le emozioni e amplificarle per ricordare che i fantasmi restano e si fanno più vivi quando diventeremo le persone del futuro.

La cerimonia della vita, di Murata Sayaka

Autore: Murata Sayaka
Titolo: La cerimonia della vita
Editore: E/O
Traduzione: Gianluca Coci
pp. 256 Euro 18,00


di Fabrizia Gagliardi

Negli universi paralleli non siamo mai la versione migliore di noi stessi. Ci immaginiamo identici, ma adattati alle condizioni, plasmati da diverse vicissitudini. In molti casi, però, la personale visione alternativa legittima la stranezza e valorizza una condizione diversa dalla norma. Quanto siamo disposti a nuotare contro corrente, in solitudine, per vedere le nostre versioni applicate alla realtà?
A rispondere ci sono i personaggi di Murata Sayaka nella raccolta La cerimonia della vita (traduzione di Gianluca Coci, Edizioni e/o, 2023). Il potere dirompente dell’autrice è arrivato in Italia nel 2018, quando Edizioni e/o aveva pubblicato La ragazza del convenience store, storia di Keiko una ragazza single, di natura riservata, che ha abbandonato gli studi e le aspettative della famiglia per adattarsi ai ritmi ordinati e rassicuranti di un konbini. Nel 2021 era poi arrivato I terrestri, romanzo che, ancora una volta, insisteva sull’estrema emarginazione della protagonista Natsuki: alla disperata ricerca di un luogo in cui sentirsi casa, è convinta di essere stata contattata dagli alieni, una via di fuga da una borghesia sorda e spietata.
Non a caso nell’ordinatissima cultura giapponese uno sguardo blandamente rivoluzionario si unisce ad altre voci come Mieko Kawakami e Matsuda Aoko, facendosi notare per un anticonformismo pungente, al limite tra orrore e umorismo nero.
Nei dodici racconti de La cerimonia della vita l’autrice dimostra tutta la sua capacità immaginativa con una serie di frammenti, piccoli universi che ritraggono vite ordinarie, risucchiate nel vortice delle loro banalità, ma ambientate in un vero e proprio capovolgimento.
Nel racconto che dà il titolo alla raccolta è tradizione diffusa organizzare una cerimonia per degustare il corpo del defunto e, se accade, prendere parte all’inseminazione: un modo diverso di elaborare il lutto e connettere la morte al ciclo continuo della vita. Forse i protagonisti ricordano com’era prima, eppure tutto è inserito in una società che ha scelto una delle tante possibili versioni arbitrarie delle norme sociali.

 

«Tutti credono di essere nel giusto e che il diverso sia sbagliato, come se la loro posizione sia l’unica valida da milioni di anni. Se tutto cambia e si trasforma vuol dire che non c’è niente di certo e assoluto, giusto? Eppure, anche se tutto è incerto, la gente ci crede come fosse un dogma, una religione. Per me è assurdo, davvero».

«In ogni caso, il mondo è uno splendido miraggio, un’illusione temporanea» disse Yamamoto scrollando le spalle. «Un’illusione che è possibile vedere solo ora, nel momento presente, e che per questo bisogna cogliere e vivere appieno finché è possibile».

 

Nella descrizione dettagliata delle diverse fasi di preparazione, nei ricordi delle parti del corpo che era e dell’interiorità che non è più, non si avverte la ricerca spasmodica dello sconvolgimento e neanche la spettacolarizzazione di un horror splatter: la normalità del capovolgimento sta nella comprensione della diversità senza giudizio.
Allo stesso modo in Materiale di prima qualità i corpi dei defunti si rivelano molto utili per creare vestiti, dettagli d’arredamento e gioielli. I due promessi sposi protagonisti si schierano su posizioni opposte: per Nana è normale e quasi affascinante il modo di ripensare i corpi, per Naoki la pratica è impensabile e disgustosa.

 

Perché, secondo te, usare animali morti e sfruttare altre specie è diverso? Non è meraviglioso poter usufruire dei nostri corpi dopo la morte, evitando di sprecarli e dando loro come una nuova vita?

 

In Un lauto banchetto una coppia di sposi ingurgita il cibo speciale Happy Future Foods, il “cibo del futuro”, molto simile a quello liofilizzato degli astronauti, ma non accetta che la sorella della protagonista li inviti ad assaggiare la cucina del pianeta da cui sostiene di provenire.
Nonostante rare eccezioni la scrittura di Murata Sayaka evita abilmente sentenze moraleggianti, lasciando al lettore la possibilità di avvertire chiaramente i contorni precari del proprio monolitico senso dell’etica. La prosa è dritta, quadrata e lineare, lo stile non si serve di figure retoriche fantasiose volte ad innalzare nell’astratto il messaggio.
Che si tratti di costruire un racconto con sguardi antitetici e in armonia come in Una famiglia in due, in cui le due donne scelgono di convivere, mettono su famiglia, ma vivono la sessualità in maniera opposta; o che si tratti di raccontare l’amore corrisposto tra una tenda e la sua proprietaria ne Gli amanti del vento, il mondo raccontato è sprovvisto di giudizio, è dato e indissolubile. A momenti non siamo neanche sicuri che si tratti di futuro: sono tutti piccoli mondi ordinatissimi che condividono con il nostro la stessa pressione sociale, le stesse paure di non essere compresi.
La maggior parte delle storie racconta di donne indipendenti, dalla carriera avviata in uffici grigi, abitudini dai contorni definiti, traiettorie nette e senza entusiasmo. Eppure, la loro forza sembra essere proprio l’alienazione che chiama continuamente il bisogno di fusione.
In Puzzle, per esempio, la protagonista è benvoluta da tutti, è la collega dolce e disponibile, sembra avere una cura speciale per i sommovimenti più spietati e repellenti di tutti i corpi che la circondano. Per trovare un senso a un corpo anonimo inizierà a muoversi per azioni e reazioni dei corpi altrui, in una graduale fusione tra organi di cemento e tessuti di carne e sangue a lavoro per un unico, intenso ritmo.
Gli scenari di Murata Sayaka inorridiscono negli spazi quotidiani illuminati a giorno e ambientati in una casa degli specchi deformanti. I bizzarri esperimenti sociali si svolgono in mondi apparentemente familiari, oppure crescono come fantasie sfrenate all'interno di donne altrimenti non ribelli.
Il lavoro di Murata tende a offrire alternative imperfette, piuttosto che soluzioni, e le sue visioni per un mondo migliore spesso si piegano verso il mostruoso. Tuttavia, rimane indiscusso il talento di instillare nel lettore la convinzione che solo lo scontro con una verità capovolta e dai contorni incerti possa rivelare la realtà a occhi sempre diversi.


Las Voladoras, di Mónica Ojeda

Autore: Mónica Ojeda
Titolo: Las Voladoras
Editore: Polidoro editore
Traduzione:Massimiliano Bonatto
pp. 128 Euro 15,00

di Giordana Restifo

«C’è la visione magistrale del terrore che incombe su di noi e dentro di noi,
il verme che striscia e si contorce in un abisso orribilmente vicino.

Visione che penetra ogni aspetto inquietante della variopinta pantomima
che chiamiamo esistenza, non esclusa la solenne mascherata
dei nostri pensieri e sentimenti, e che acquista il potere
di proiettarsi in nere o magiche apparizioni e metamorfosi
»

Howard Philipps Lovecraft[i]


Scavare. Un verbo innocuo, inoffensivo, alle volte anche foriero di grandi sorprese, eppure in questi giorni di letture e pensieri ho capito quanto non mi piaccia, ho cercato di accantonarlo ma è tornato aggressivo. È proprio questo l’effetto che fa Voladoras di Mónica Ojeda, pubblicato nel 2020 dalla casa editrice spagnola Páginas de Espuma e appena uscito in Italia nel catalogo di Alessandro Polidoro Editore, con la traduzione di Massimiliano Bonatto. Una raccolta di racconti che scava negli anfratti più reconditi, più mostruosi, dell’animo umano, costringendo il lettore a insudiciarsi. È come se lo costringesse a mettere le mani nella terra andando sempre più a fondo fino ad arrivare al nucleo del mondo, al centro, per disseppellire la complessità dell’esistenza umana con la sua violenza, l’orrore e la paura.
L’autrice ecuadoriana, nata nel 1988, con i suoi precedenti romanzi, Mandibula e Nefando, pubblicati anch’essi da Alessandro Polidoro Editore rispettivamente nel 2021 e nel 2022, ci aveva già avviato alla brutalità e alle tenebre con i ragazzi, le ragazze e i genitori terribili, che ricordano quelli di Jean Cocteau. Così come nelle opere dell’autore francese «questi ragazzi terribili si rimpinzano di disordine, di una appiccicosa macedonia di sensazioni» (I ragazzi terribili, BUR, Milano, 2021, p. 117), anche in quelle di Ojeda la psicologia dei personaggi è intricata, sadica, tormentata.
Gli otto racconti che compongono Voladoras scavano ancor più nel profondo, nel mistico, nei riti ancestrali, nel terrore. Letti separatamente potrebbero sembrare solo contorte storie dell’orrore con forti richiami alla mitologia ma, se lasciati sedimentare, ci portano a riflettere sulla violenza del mondo e della realtà quotidiana. Una realtà che non appartiene solo ai lontani paesi del Sudamerica, ma che riguarda tutti. Certo, prendendo ad esempio il terzo racconto della raccolta, La testa che vola (Cabeza voladora), nel quale una donna trova la testa della vicina nel proprio giardino (fatto che sconvolge la sua esistenza), lanciata dall’assassino – il padre della vittima –, che per quattro giorni ci ha giocato a calcio, si potrebbe pensare che da noi, nella civile Italia (o se vogliamo Europa), una cosa del genere non potrebbe mai accadere; andando oltre il macabro e il surreale al centro del racconto vi è il tema del femminicidio, della violenza machista, e su questo non possiamo certo considerarci innocenti o assolti. Anche nel secondo racconto, Sangue coagulato (Sangre coagulada), ritroviamo una situazione non estranea alla nostra società, qui rappresentata all’estremo. La protagonista è una bambina alla quale piacciono il sangue, i bernoccoli, gli ematomi, che «conosce la bellezza dei coaguli», e che, per tale motivo, viene mandata dalla madre, che l’ha sempre considerata una “cretina”, sul paramo (ecosistema montano situato nella cordigliera delle Ande), a casa della nonna. Dopo aver subito una violenza psicologica perpetrata nel tempo che l’ha indotta anche all’autolesionismo, in questo luogo, dove dovrebbe essere protetta, al sicuro, lontana dalla ferocia degli uomini, viene, invece, subdolamente violentata da un uomo di fiducia della nonna. Quel sangue diventa un simbolo del ciclo della vita e della morte. Il sesto racconto, Soroche, è forse il più verosimile: quattro donne decidono di fare un viaggio per allontanarsi dal caos cittadino, dalle responsabilità, dai pettegolezzi, e, soprattutto, per distrarre una di loro, affetta da una grave depressione a seguito della separazione con il marito e della diffusione, da parte di quest’ultimo, di un video intimo in cui si vedono i due durante un rapporto sessuale. Nonostante siano tutte lì per dare coraggio all’amica, sono concentrate su sé stesse, pensano alla propria famiglia, alla propria carriera, alla propria forma fisica, sono vittime loro stesse di pregiudizi incalzanti e non riescono in uno sforzo di empatia. Durante un trekking, in ognuna di loro si manifestano gli effetti del soroche (mal di montagna, mal d’altitudine), e, così, sopraggiunge un’illuminazione. I pensieri si incupiscono, i giudizi rimbombano nella testa, le vie d’uscita si confondono nell’immensità del paesaggio, e la donna, che doveva essere aiutata, sceglie quella che le sembra essere l’unica soluzione possibile, tenta il suicidio:

E lì, con il culo al vento della montagna, ho compreso per la prima volta la vera condizione della mia esistenza… Ragazzo, non so se sai che questo ti succede solo una volta nella vita. Si tratta di una rivelazione così triste che la mente la rende breve, anche se nel mio caso è durata fin troppo tempo. Quando sei in alta quota pensi che sarà difficile vederci chiaro, ma non è vero. Vedi nitidamente quello che sei e quello che sono gli altri, vedi che laggiù è tutto piccolo e miserabile e che è da lì che vieni. Ecco cos’è il vero mal d’altitudine.
Ecco cosa ti spinge a correre
.

Sin dal primo racconto, Voladoras, dal quale prende il titolo l’intera opera, si intuisce la maestria dell’autrice, annoverata tra le esponenti del genere letterario definito “gotico andino”, nell’affrontare temi attualissimi, inserendo particolari propri della tradizione orale, delle leggende, della mitologia locale. Le voladoras, infatti, sono donne magiche, con un occhio solo, con capelli neri, vengono dalle montagne e volano «di casa in casa, di paese in paese, di tetto in tetto, senza Dio né santa María», portando notizie e vaticinando il futuro. Queste “streghe”, che fanno visita in casa della protagonista del racconto, conoscono i segreti della sua famiglia (una violenza intrafamiliare che avviene ripetutamente tra le mura domestiche), irritano la madre ed eccitano il padre. Ritroviamo figure simili, associate alla stregoneria e ai sortilegi, anche in Sangue coagulato (la nonna che pratica aborti in casa è vista come una strega dai compaesani), in La testa che vola (incontriamo le umas, esseri ancestrali, la cui forza proviene dalla montagna, in grado di preservare lo spirito di Madre Natura, capaci di staccare, durante la notte, la propria testa dal corpo e permetterle di volare; la protagonista le paragona ai cefalofori); e in Slasher (la storia di due gemelle musiciste, Barbara e Paula. Quest’ultima, sordomuta, veniva tacciata dai compagni di classe di essere una strega e lei non faceva nulla per smentirli, anzi alimentava questa nomea). La mitologia andina è presente anche in Soroche: nel momento in cui Ana, l’amica depressa, sta pensando di buttarsi giù dalla montagna le viene in mente l’immagine del condor (simbolo di potere e salute per molti paesi del Sudamerica, associato alla divinità del sole, si credeva che fosse il sovrano del mondo superiore):

[…] e ricordi la leggenda. Ricordi che un condor sceglie il momento in cui morire. Che quando si sente vecchio, finito, senza compagna, si lancia sulle rupi dal monte più alto.
Un condor con il soroche
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 Inoltre, in più di un racconto, torna la figura di Dio, «il mistero più grande della natura», un Dio «pericoloso e profondo tanto quanto un bosco», di cui avere paura, in grado di sciogliere gli esseri umani come acqua, che non sa perdonare, che punisce; che sia quel “Dio bianco” di cui tanto parlavano Annalise e Fernanda, le protagoniste di Mandibula? Quel Dio di cui scrive anche Pierre Honoré in Ho trovato il Dio Bianco (Garzanti, Milano, 1963), eroe divinizzato, venuto dalle acque o dal mare per creare il mondo e la razza umana, il Creatore, colui che ha dato vita alla cosmogonia?
Altro elemento essenziale è la geografia andina, che caratterizza ed è presente in tutti i racconti, e che si rivela attraverso vulcani, parami, montagne, cittadine, valli. Nel penultimo racconto, Terremoto, il più breve ma anche il più intenso, Mónica Ojeda, con grande lirismo, ci racconta un amore incestuoso tra due sorelle, Luciana e Lucrecia, vissuto forse alle pendici di un vulcano in continua eruzione o forse proprio dentro il cratere. La loro passione, «il fuoco liquido» della loro carne, è talmente forte che la casa dove vivono, nonostante le ripetute scosse di terremoto e la lava che inonda tutto al proprio passaggio, non cede mai: «Amare è tremare», ma non crollare. In questo racconto poetico incontriamo nuovamente il simbolismo antecedente: «I condor erano l’unico soffio di Dio a precipitare sul fuoco inesauribile dei vulcani». La bellezza dei paesaggi delle Ande, della natura, stride con la ferocia del genere umano. L’autrice è cosciente di ciò e, anzi, va proprio alla ricerca di questa atmosfera misteriosa, enigmatica, che ruota attorno alla violenza, al desiderio, al terrore viscerale e che, unita alla potenza della terra, lascia nel lettore una sensazione illusoria e agghiacciante. Sensazione che perdura nel tempo, come fosse un sogno diurno interrotto più e più volte dall’incursione del dipinto di Johann Heinrich Füssli “L’incubo” (citato dall’autrice in Mandibula) o del più celebre Francisco Goya con il suo “Il sonno della ragione genera mostri”. D’altronde, e non è un mistero, è la creazione di una precisa atmosfera che definisce la resa dell’opera; era di fondamentale importanza anche per Mary Shelley, Edgar Allan Poe, Lord Dunsany e H. P. Lovecraft: «È l’atmosfera, e non l’azione, il più grande obiettivo della narrativa fantastica. Di certo, tutto quello che può essere un racconto fantastico, è un vivido ritratto di una certa emozione umana; nel momento in cui cerca di essere altro, diventa banale, puerile e incredibile» (H. P. Lovecraft, Biografia di uno scrittore da quattro soldi, Mattioli 1885, Fidenza, 2013, p. 42).
Infine, un grande contributo alla creazione dell’atmosfera è dato dalla forma, dalla scrittura che, per tutta l’opera, è curata in ogni dettaglio, è poetica e allo stesso tempo grottesca, è ferina e malinconica, e raggiunge il suo apice nell’ultimo racconto, Il mondo di sopra e il mondo di sotto (El mundo de arriba y el mundo de abajo). Qui la Ojeda poetessa (nel 2015 ha vinto il Premio Nacional Desembarco de Poesía per la raccolta di poesie El ciclo de las piedras, Rastro de La Iguana Ediciones) è dentro ogni parola. Uno sciamano, che «non è Dio, ma gli assomiglia», un padre, molto diverso dai precedenti degli altri racconti, non si dà pace per la morte della figlia Gabriela. Intraprende un viaggio verso un vulcano, trasportando il suo corpo senza vita, per trovare, attraverso la natura, il modo di farla rivivere. In questo cammino elegiaco, si ripresentano i condor, Dio, la potenza dei vulcani e della terra, ma anche la bianca pietra, il vento, l’ocelot e altri animali, nei quali lui cerca riparo:

All’alba, mentre mia moglie si stringeva al volto il piede freddo di mia figlia come fosse un cuore, entrai in trance: fui aquila, cervo, alpaca, ma nessuna creatura terrestre riuscì a sopportare la mia solitudine. Sono solo, compresi, e la terra è brulla. Ora cammino scalzo nell’oscurità. Ascolto il grido del vento. Cerco di percepire il sacro e quando mi rendo conto che non posso più farlo, mi abbraccio, pazzo di dolore. Per alcuni la morte è liquida come la pioggia. Per altri solida come la pietra», un requiem da un altro mondo.

L’opera di Mónica Ojeda è disturbante, scuote il lettore, provoca inquietudine, a volte repulsione, ma, al contempo, è portatrice di una lingua meravigliosa, di un dolore idilliaco, di qualcosa che resta dentro e la si ritrova scavando. Provocare qualcosa in chi legge, non è forse questo uno dei meriti della letteratura?

Flora e fauna, di Gilda Manso

Autore: Gilda Manso
Titolo: Flora e fauna
Editore: Wojtek
Traduzione: Antonella Di Nobile
pp. 166 Euro 16,00

di Fabrizia Gagliardi

Il mostruoso e l’eccezionale hanno radici profonde, lì dove il sogno incontra il misticismo e l’immaginazione. Non hanno mai carattere di aberrazione, ma svelano stupore ed elevano all’oblio che è poi la vera tentazione mostruosa dell’uomo.
In fondo le narrazioni archetipiche formalizzano l’oralità e la scrittura tramandate dalle favole greco-romane – dove lo studio del mondo aveva a che fare con piante e animali che rappresentavano virtù umane – fino ad arrivare ai fregi e ai bestiari medievali che, nelle cornici e nelle immagini finemente realizzate da miniaturisti e artisti, trasmettevano insegnamenti biblici e morali.
Solo dal titolo Flora e fauna (traduzione di Antonella di Nobile, Wojtek Edizioni, 2022) Gilda Manso attinge a tutto il sostrato di tradizione e conoscenze universali. Ma al contrario dei confini della cornice di un manoscritto o delle sfumature di una tela, l’unico limite dell’autrice è l’uso delle parole per configurare una brevissima microfinzione.
Nei racconti della raccolta accade che il margine fisico della pagina diventa uno strumento formale e stilistico, un rischio estremo se non maneggiato abilmente. Proprio come intendeva Cortázar che in Alcuni aspetti del racconto (scritto teorico contenuto in Bestiario) parlava di «alchimia» come risultato dalle immagini che sono all’origine della «profonda risonanza» di un grande racconto:

 

Lo scrittore di racconti sa che non può procedere in modo accumulativo, che non ha come alleato il tempo; la sua unica risorsa è quella di lavorare in profondità, verticalmente, tanto verso l'alto quanto verso il basso dello spazio letterario. E questo, che cosi espresso sembra una metafora, esprime tuttavia l'essenza del metodo. Il tempo del racconto e lo spazio del racconto devono essere come condensati, sottoposti a un'alta pressione spirituale e formale per provocare quella «apertura» a cui mi riferivo prima.

 

Viene così a mancare l’accumulazione di dettagli, che solitamente rafforza il tempo di un romanzo, e subentra la selezione, il taglio netto e la cura a circoscrivere senza chiudere.
In fondo sono proprio i continui rimandi di Gilda Manso alla grande diversità di temi e protagonisti, e alla ricorsività degli stessi in letteratura, a stabilire un ulteriore piano di lettura che la collega alla grande tradizione del racconto moderno di Cortázar e Borges.
Tuttavia, ogni pericolo di sterile emulazione svanisce perché, servendoci ancora una volta della teoria del racconto precisata da Cortázar, il narratore si muove in un ambiente circoscritto, una «sfera» di cui conosce perfettamente il raggio e le ampie volute. Lavorando dall’interno verso l’esterno «come nel caso di chi modellasse una sfera di argilla», l’autore la porta alla sua massima tensione. Le sfere di Gilda Manso cambiano continuamente il centro e, di conseguenza, si muovono in diversi universi costruiti e distrutti repentinamente.

 

Mi svegliò il camion della spazzatura, e gli uccellacci insonni che starnazzavano fra i rami del tiglio. Pensavo di poter tornare ad addormentarmi, ma per strada, pro­prio di fianco alla mia finestra, passò la vecchia suonata che vive di fronte, quella che alleva colombi sul cavo del­la luce, insultando il suo seguito di cani pazienti; forse urinavano troppo lentamente. Mi svegliai quasi senza ri­medio, dormicchiando a tratti, dieci minuti al massimo.
(da Rumore di scorpioni).

 

Sembra impossibile racchiudere in poche righe l’essenza dei circa settanta racconti o individuare un unico filo rosso. Eppure vale la pena citare alcune geniali trovate che spiazzano il lettore nel giro di poche righe. Come Il maestro, per esempio, che parte dall’espediente della mitologia della fenice per poi spostare inaspettatamente la sua eredità alla bambina protagonista. In Racconto con drago cattivo la tipica fama della creatura viene capovolta ironicamente; in Mitologia il protagonista ha inventato dèi, ha conferito loro poteri e ha smembrato se stesso per dare una forma, fino a quando le divinità non hanno più creduto al loro creatore. In Gulliver nel paese della mia vasca da bagno il famoso gigante è invece un lillipuziano che sbuca dallo scarico della vasca da bagno per chiedere di non usare più candeggina.
Personaggi conosciuti e mitologie secolari sono gli ingredienti principali di Flora e fauna che rendono continuamente partecipe il lettore richiamando l’immaginario comune e, allo stesso tempo, ci tengono a spiazzarlo con lo stravolgimento e la deformazione.
Prevale su tutto la sensazione che l’autrice abbia chiarissimo il mondo circostante e che conosca la sfera nella sua interezza, ma che si stia concentrando solo su un momento, una scena nel continuo fluire delle immagini e degli universi paralleli.
La riduzione delle battute, inoltre, rende ardua qualsiasi via di fuga verso il livello di intensità e tensione desiderate in un racconto. In effetti il lavoro di limatura non sarebbe niente senza la combinazione di tempo e spazio condensati per offrire la migliore apertura al lettore. Ancora una volta torniamo alle parole di Cortázar: «Ciò che chiamo intensità in un racconto consiste nell'eliminazione di tutte le idee o le situazioni intermedie, di tutti i riempitivi o le fasi di transizione che il romanzo permette e addirittura esige».
Non mancano racconti fugaci che riducono all’osso o annullano qualsiasi dettaglio circostante per concentrarsi su un epilogo inaspettato. In Scene del crimine, per esempio, c’è una conclusione ironica della vicenda di un fotografo di oggetti protagonisti di delitti; in Nemmeno per strada la voce narrante sconsiglia l’ambiente pericoloso della strada per poi chiedere aiuto per pulire l’assassinio appena compiuto; in Stagione invernale una modella sceglie la via più tragica per seguire la moda dei corpi senza vita.
Oltre a una selezione di dettagli significativi e alla resa stilistica che impreziosisce la messa in scena, Gilda Manso è in grado di assegnare parte del lavoro d’immaginazione alternativamente al lettore.
È proprio grazie al gioco di scambio, al ribellarsi a qualunque regola codificata della finzione, che l’intelligenza e la sensibilità di una narratrice del genere permettono di andare oltre lo scarno aneddoto visivo e letterario, oltre un’immaginazione canonica per poi allenarla a sfociare nelle infinite possibilità del fantastico.

Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato, di Hilma Wolitzer

Autore: Hilma Wolitzer
Titolo: Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato
Editore: Mondadori
Traduzione: Bettina Cristiani
pp. 180 Euro 19,00

di Debora Lambruschini

 

In un racconto o, perlomeno, in un certo tipo di racconto, lo sguardo dell’autore è catturato dal dettaglio, dal particolare, dal quotidiano e ordinario che proprio attraverso una certa postura si carica di significato; dettagli minimi, ma che possono aprire uno squarcio e, a seconda dell’uso che se ne fa, farci entrare nell’anima dei personaggi. Il racconto è un frammento, non mira all’universalità del romanzo e di questi stessi frammenti si compone. Quasi mai sono necessari narrazioni straordinarie; come dice un personaggio di Andre Dubus «il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è capire e portare avanti le vite che abbiamo» e lì, su quei dettagli minimi e quelle vite ordinarie, si innesca la storia.
Leggendo la bella raccolta Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato della scrittrice statunitense Hilma Wolitzer, ho pensato molto a queste cose, a una certa postura autoriale, alla capacità di un bravo scrittore di prendere l’ordinario e trasformarlo in letteratura. Questi tredici racconti per la prima volta tradotti in italiano – e direi con particolare cura, da Bettina Cristiani per Mondadori – fanno esattamente questo, prendono un pezzetto del quotidiano e lo vivisezionano, restituendocene le pieghe intime, i conflitti, le svolte inaspettate, il punto di rottura. Scritti principalmente tra gli anni Sessanta e Settanta, accolgono atmosfere e urgenze del tempo in cui sono stati composti pur senza restarne intrappolati e, in un certo senso, riuscire anche a chiamarsene fuori, per arrivare a noi, lettori contemporanei, che a tratti riusciamo a dimenticare i confini temporali e geografici entro cui si sviluppano. A più di novant’anni, Wolitzer ha trovato un nuovo pubblico grazie a questa raccolta che mette insieme pezzi importanti della sua produzione letteraria, uno short story cycle in cui ogni racconto è legato all’altro in un equilibrio fra autonomia e unitarietà del tutto, a comporre un quadro in cui l’esperienza formale, i temi e i motivi, risultano evidenti nell’unità complessiva. Un’architettura che in questo caso si regge sull’occorrenza di taluni personaggi (Paulie e il marito Howard), ma anche dei temi (le relazioni, l’interesse per l’interiorità dei personaggi).
Il primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta, è del 1971, l’ultimo del 2020, scritto e ambientato nel pieno della pandemia e per quanto mi riguarda uno dei migliori pezzi di fiction letti su quel periodo surreale e terribile, insieme a certe pagine di Etgar Keret. Chiude la raccolta e chiude le storie di questa coppia come molte altre, la narrazione di un matrimonio, le piccole crisi, le battute d’arresto. «La vita. Sempre la vita» diceva il buon vecchio Ray.
Ecco, la vita, è dentro questi racconti, ne è l’anima. L’ordinario, diremmo noi, contraddicendo un po’ le parole dell’autrice riportate da Elizabeth Strout nella bella prefazione: Non credo che esitano vite ordinarie. Ogni vita è straordinaria.

Di certo lo sguardo dello scrittore è capace talvolta di trasfigurarle, di osservarle caricando oggetti semplici e usuali in qualcosa denso di significato. Il pregio di Wolitzer poi, oltre a quella particolare postura, è quel wit che percorre tutte le storie, perfino quelle più drammatiche, e la vivacità di cambiare rapidamente registro da un racconto all’altro, all’interno di uno stesso, virando ora all’ironia, ora al dramma, ora la tragedia, con atmosfere vagamente horror perfino.
Se penso alle occorrenze tra Wolitzer e altri autori statunitensi penso alle scrittrici e alcune anche molto diverse tra loro, per tempo e luoghi: Elizabeth Strout naturalmente, con quello sguardo pieno di grazia che si posa sulle cose; Lydia Davis, per la polifonia del testo e la particolare ironia, l’interesse per la quotidianità scandita dalla routine, il dettaglio banale che sulla pagina acquista significato; Lucia Berlin, per quello scavare l’anima dei personaggi, l’apparente banalità della vita; perfino a Shirley Jackson, quella delle storie domestiche, degli sketch – seppure il racconto di Wolitzer “Madre” ha una virata verso atmosfere horror che potrebbe avvicinarlo a certe narrazioni tipiche di Jackson – delle donne che arrivano a un passo dal cortocircuito.
Ecco, una di queste ci è arrivata sul serio e, a differenza di quello che potrebbe fare un personaggio di Jackson non sfonderà la testa al marito – forse, così almeno stando a quanto vediamo sulla pagina – ma ha una crisi, un crollo, in mezzo a una corsia del supermercato:

 

Eppure, trovo che andare fuori di testa al supermercato abbia perfettamente senso: quelle arance dipinte che minacciano di scoppiare; schieramenti di lattine armate di etichette, prezzi e pesi; tagli di carne sanguinolenti; pesche e mele che esibiscono la loro parte perfetta e brillante,
celando quella marcia e rammollita.
(“Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato”, p. 15)

 

È un’altra donna che è lì a fare la spesa, incinta, ad accorgersi per prima di quanto sta succedendo e a tentare di intervenire; bloccata al centro di una delle corsie, tra scaffali ben ordinati, quella sconosciuta è il caos, il punto di rottura dell’equilibrio. Ferma, immobile, poche parole che ripete come una cantilena, due bambini attaccati alla gonna. Intorno, altri clienti iniziano a osservare – ma a debita distanza – e dare giudizi; il titolare del negozio che prontamente accorre ma è incapace di fare qualcosa; il marito, infine, che arriva e la porta via. Resta la borsa, vuota, appoggiata sul rullo del nastro trasportatore. Ma, soprattutto, resta il carico che quella scena rappresenta per la protagonista, che in quella crisi sembra riconoscersi o avvertire un pericolo futuro.

 

«Che cosa succede?» si allarmò, preparato alla catastrofe.

«Di tutto» dissi, indicando la pancia che emergeva dall’acqua. «Tutto. La condizione umana. Il mondo».
(“Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato”, p. 21)

 

Molto più stratificato di quanto in apparenza appare, questo racconto è emblematico di ciò che Wolitzer fa nella raccolta tutta, nel suo modo di porsi nei confronti delle storie, nell’eco fortissima della storia sommersa che ben percepiamo seppur rimasta fuori dalla pagina scritta: nel racconto, sosteneva Čechov, va eliminato tutto ciò che non è necessario e che potrebbe allentare la tensione ma è fondamentale essere pienamente consapevoli di ciò che si elimina e lasciarne sulla pagina un’eco per far percepire al lettore ciò che si omette; l’iceberg di Hemingway, con i suoi sette ottavi sotto la superficie dell’acqua. Questi sette ottavi sono fondamentali nelle storie di Wolitzer, sono gli spazi vuoti della narrazione che colmiamo noi lettori e che ci richiedono uno sforzo nella lettura come nella natura stessa di un buon racconto.
Storie, quindi, solo in apparenza “banali”, semplici, che forse a un occhio meno allenato alle sfumature del racconto possono scivolare via ma che invece sono in grado di aprire nuovi spunti, in un dialogo non interrotto tra pagina e vita.
C’è poi l’ironia di Wolitzer a percorrere come una scarica elettrica ogni racconto, mai stonata anche quando contrasta con l’atmosfera o i temi trattati.

 

Tutti dicevano che c’era un maniaco sessuale che si aggirava a piede libero nel condominio e io pensai che era anche ora. Era stato un lungo inverno asessuato.

(“Il maniaco sessuale”, p. 85)

 

È anche questo, si diceva, un elemento – formale – che lega una storia all’altra, oltre le occorrenze di certi personaggi. È un’ironia pungente, feroce talvolta, che scava tra le pieghe di queste vite, lo sguardo distaccato, oggettivo, al punto giusto. Come a farci dire: guardate, la vita è un caos, forse per non impazzire è meglio usare il filtro dell’ironia. Anche perché, questo caos, non siamo sufficientemente equipaggiati per dominarlo e le relazioni restano per lo più un mistero.

 

«Cosa c’è che non va, Howie? Se c’è qualcosa che ti preoccupa, parliamone.»

Lui sorride, quel mezzo sorriso studiato, e io penso che raramente parliamo di cose importanti.

Ho atteso tutta la vita di diventare una donna, dannazione, di stare seduta in cucina e dire cose da adulta all’uomo di fronte a me, parole sospese come vapore sopra le teste dei bambini.
(“Domeniche”, p. 55)

 

In una relazione lunga tutta una vita, come quella tra Paulie e Howard, le crepe sono ben visibili sulla facciata, ma quelle stesse crepe sono le loro esistenze, l’altalena dell’amore, le tante sfaccettature del sentimento e della vita condivisa. Sono i giorni brutti e quelli buoni. Fino all’ultimo. Come, appunto, a quest’ultimo struggente e al tempo stesso ironico racconto, “La grande fuga”, del 2020, con cui si chiude la raccolta. Una storia che racchiude moltissimi spunti carichi di emotività, a partire dall’insinuarsi della pandemia nel quotidiano, ma anche la riflessione sulla vecchiaia, il tema della morte, la paura della solitudine, il rovesciamento del ruolo genitori-figli. Sempre accompagnato dalla voce ferocemente ironica di Wolitzer, che anche novantenne non perde un grammo della sua vivacità.

 

Una volta la prima cosa che facevo la mattina era verificare se anche Howard era sveglio, e se voleva che succedesse qualcosa prima che uno dei bambini facesse irruzione e piombasse sul letto tra noi come un comitato di Amish. Ultimamente però […] mi sono trovata a dare un’occhiata per vedere se Howard è ancora vivo, trattenendo il respiro mentre osservo il lieve alzarsi e abbassarsi del suo petto, allo stesso modo in cui un tempo osservavo un innalzamento promettente tra le lenzuola.
(La grande fuga, p. 149)

Manuale di caccia e pesca per ragazze, di Melissa Bank

di Melissa Bank
Accento Edizioni
Traduzione di Marcella Maffi
Prefazione di Paolo Cognetti
pp. 256 Euro 16

di Manuela Altruda

The Girls’ Guide to Hunting and Fishing di Melissa Bank fu pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1999. L’autrice aveva trentanove anni, dodici dei quali li aveva passati a scrivere questo romanzo, il suo esordio, barcamenandosi tra il lavoro di copywriter, un incidente in bicicletta che le causò una grave commozione cerebrale e una serie di altri sfortunati eventi.

Quando il libro fece la sua comparsa sulla scena editoriale, forse nemmeno Bank si aspettava di aver dato vita a un bestseller. Il titolo era di certo un azzardo e ancora oggi fa pensare a uno di quei testi tecnici esposti tra gli scaffali di Outdoor Man, il negozio specializzato in caccia e pesca di Mike Baxter, protagonista delle serie tv statunitense Last Man Standing. Ovviamente si tratta di un piccolo inganno, perché tra queste pagine c’è molto di più di un elenco di regole sull’uso appropriato di esche e lenze per giovani principianti. Attraverso Jane Rosenal, protagonista del suo manuale, Bank narra la storia di molte ragazze che riescono nonostante tutto a ritrovare sé stesse: giovani donne che tentano di sopravvivere, cercando di fare pochi danni e ottenere qualche risultato decente.

Il libro è stato tradotto in più di trenta lingue, ed è arrivato in Italia per la prima volta nello stesso 1999 grazie a Frassinelli con la traduzione di Marcella Maffi. Presto, e con grande rammarico, è finito fuori catalogo nell’indifferenza del mondo editoriale. Ma quella di Manuale di caccia e pesca per ragazze è per fortuna una storia a lieto fine. Alla fine dello scorso anno è stata annunciata la fondazione di una nuova casa editrice: Accento edizioni, nata a Milano da un’idea di Alessandro Cattelan e Matteo B. Bianchi, che con le sue collane vuole dare spazio a voci emergenti (Accento Acuto) e riportare alla luce capolavori dimenticati o mai tradotti in Italia (Accento Grave) – nei prossimi mesi arriverà anche Dieresi, la collana dedicata alla saggistica contemporanea. A inaugurare Accento Grave è proprio il bestseller di Bank, con una copertina che parla da sé (a cura dello studio grafico Paper Paper), la traduzione di Maffi rivista e aggiornata e una prefazione di Paolo Cognetti.
È proprio nella sua prefazione che Cognetti spiega come la letteratura americana di fine Novecento vanti «ragazze meravigliose», autrici che in termini letterari hanno contribuito, in maniera inevitabile, alla nascita della generazione di scrittori e scrittrici a cui lui stesso appartiene. A partire dalla scoperta di Lorrie Moore (Tutto da sola, 1985), l’autore racconta di essersi accorto presto che:

 

Esisteva un filone tutto femminile, mi piaceva e mi misi a seguirlo. Le ragazze ci avevano preso gusto a scrivere: tra le pepite più preziose, nel mio setaccio di lettore, raccolsi Amy Hempel (Ragioni per vivere, 1985), A.M. Homes (La sicurezza degli oggetti, 1990), Pam Houston (Ho un debole per i cowboy, 1992), Aimee Bender (La ragazza con la gonna in fiamme, 1998), fino alla nostra Melissa Bank e a questo Manuale di caccia e pesca per ragazze, 1999.

 

Sin da subito sembra chiaro che i riferimenti letterari cui guardano queste autrici sono gli stessi: da Grace Paley a Carson McCullers, da Joyce Carol Oates a Flannery O’Connor. In poche parole, le artefici del racconto breve. Cognetti conosce molto bene tutte loro e il piglio ironico, a tratti sarcastico e spesso dissacrante, che le accomuna e che Bank ha fatto suo con grande abilità. Ne ha parlato lo stesso Cognetti in suo libro di qualche anno fa il cui titolo è (forse) una felice coincidenza: A pesca nelle pozze più profonde, meditazioni sull’arte di scrivere racconti (minimum fax, 2014). Qui lo scrittore formula tre regole, a partire dall’orticaria di Paley per il concetto di «trama» intesa come gabbia entro cui racchiudere – a volte costringere – una storia. Secondo l’autrice non è questo che conta, ma «le voci, i ricordi, le vite delle persone». In questo senso le tre regole di Cognetti possono diventare una scorciatoia efficace per la lettura del testo di Bank.

 

uno: non si ama un personaggio usandolo per uno scopo

 La storia comincia dal racconto «Un’esperta principiante»: un ossimoro davvero efficace per descrivere una Jane quattordicenne che osserva molto e fa domande scomode per gli altri ma legittime per lei. La sua estate monotona e noiosa nel cottage di famiglia di Loveladies, sulla costa del New Jersey, è scossa dall’arrivo della fidanzata di suo fratello Henry. Si chiama Julia Cathcart, ha ventotto anni, sembra amare tutti i piatti che piacciono alla suocera, ha conosciuto Henry al lavoro, in una casa editrice, fa leggere a Jane un manoscritto cui sta lavorando mentre Jane vorrebbe solo confidarle i suoi dubbi esistenziali di adolescente sul sesso. È un’estate di prime volte: la protagonista non è più l’unica ragazza in casa, si approccia a un manoscritto, prova a cercare un lavoro come cameriera, si sente fuori posto rispetto a qualcosa che non le è ancora ben chiaro.
Potrebbe sembrare che Bank abbia creato di proposito uno stereotipo di ragazzina in evoluzione per ammiccare a giovani lettrici perse in pseudodrammatiche crisi esistenziali, ma Jane è tutt’altro che un fantoccio. La sua abilità sta nel modo – discreto e mai patetico – di suscitare empatia e far scattare l’identificazione. Bank racconta una vicenda così semplice che non deve sforzarsi di rendere simpatica la sua piccola eroina: siamo noi, lettrici e lettori, ad amarla così com’è, come abbiamo imparato col tempo a voler bene a quell’adolescente che siamo stati.

 

due: non si ama un personaggio giudicandolo, né ridendo di lui

 Il secondo racconto, «La casa sull’acqua», comincia così: «È la mattina della nostra partenza. Jamie appoggia i caffè sul comodino e torna a letto con me. Oggi pomeriggio saremo a Saint Croix, ospiti della ex ragazza di Jamie e del suo nuovo marito». Jane è cresciuta, ha un fidanzato, e insieme all’amore e al sesso conosce l’incertezza e il sospetto. Il soggiorno a casa di Bella e Yves si trasforma in una partita a Cluedo dove lo scopo non è rintracciare l’assassino ma il tradimento. Di tradimento però non c’è traccia, Jamie l’aveva avvisata: «Sono monogamo di natura».
La monogamia però non basta e la storia con Jamie, nel racconto/capitolo successivo («Vecchio mio»), arriva al capolinea. Dopo un po’ di tempo gli subentra Archie Knox: noto editor, seduttore incallito, ha l’età del padre di Jane e più gin che sangue nelle vene.
Intanto, il manoscritto letto per Julia non era stato un caso. Anche Jane da grande lavora in una casa editrice di cui non conosciamo il nome completo, sappiamo solo che è la H***; è arrivata con fatica alla posizione di junior editor e prova a sopravvivere al caos dell’editoria americana. A mettere in discussione la sua carriera sarà Mimi Howlett, nuovo dispotico capo che fa retrocedere Jane al ruolo di assistente, tra lo sconforto e la rassegnazione.
Cosa dovrebbe pensare un lettore a questo punto? Bank si sta prendendo gioco della sua eroina, vuole farci ridere di lei, che pensava di essere una «stella nascente» e si riscopre invece solo «luce di un aeroplano»? Non è questo lo scopo dell’autrice, e chi legge vorrebbe solo poter dire a Jane che quella che sta attraversando è solo una fase, forse traumatica ma pur sempre necessaria. «There is a light that never goes out», le canterebbero gli Smiths.

 

tre: non si ama un personaggio pensando di sapere fin dall’inizio tutto di lui

 Ci sono diverse luci che guidano Jane: l’amore per la sua famiglia, l’empatia e la conoscenza di sé. Fatta eccezione per la prima, si tratta di doti che la protagonista scoprirà con il tempo e non poca sofferenza: la lunga malattia e la morte del padre («Niente di peggio per una ragazza di periferia»), la scampata morte di Archie dopo una crisi causata dalla dipendenza dall’alcol e da una profonda incapacità di accettare la vecchiaia, la fatica di essere sempre e comunque sovraccarica di lavoro, la necessità di fermarsi e riprendere fiato.
Dopo la fine – ennesima, ma stavolta definitiva – della relazione con Archie e la decisione di lasciare il lavoro alla H*** – anche questa definitiva –, nell’ultimo racconto e nella vita di Jane piomba Robert:

 

È alto e snello, ha la carnagione olivastra, la fronte spaziosa e gli occhi grandi; è bello, ma ciò non spiega comunque quello che mi accade. Non provo più una simile sensazione da così tanto tempo che non riesco a riconoscerla e all’inizio penso che sia paura. Ogni mio capello sembra prendere coscienza di sé e raggelarsi, poi è come se tutto il mio corpo arrossisse.

 

Si tratta di un punto di svolta: se la decisione di affidarsi al terrificante manuale Come conoscere e sposare l’uomo giusto può far storcere il naso e far credere che – nonostante tutto – lei non abbia imparato nulla, sarà presto chiaro che in questa storia non c’è solo un lieto fine nel senso più canonico del concetto, e la ricerca dell’uomo giusto lascia posto alla ricerca della consapevolezza.

Per questa storia, Bank ha scelto una forma narrativa che le permette di avvicinarsi alle autrici-guida della sua poetica: Manuale di caccia e pesca per ragazze è un romanzo per racconti e segue il modello di Olive Kitteridge di Elisabeth Strout. Così il centro della storia resta sempre Jane, nelle diverse fasi della sua vita, ma l’autrice dà anche modo al lettore di osservare le vicende da più angolazioni che coincidono con altrettanto diverse scelte linguistiche e tonali. La maggior parte dei racconti/capitoli sono infatti narrati in prima persona dalla protagonista e in queste pagine la scrittura di Bank è lineare, asciutta e allo stesso tempo sfacciata, sarcastica e procede di pari passo con la crescita di Jane che è tanto ironica quanto fragile. In due punti, però, l’autrice decide di cambiare direzione. In «La miglior luce possibile» l’attenzione si sposta verso un personaggio diverso: l’autrice usa ancora la terza persona ma la storia è quella di Nina, vicina di casa della folle zia Rita – parente preferita di Jane che le lascia il suo appartamento e la conoscenza di Archie Knox; qui subentra il riflesso malinconico di una madre preoccupata per il figlio che sembra aver perso la ragione. Infine, in «Potresti essere chiunque», una seconda persona racconta con tanta rabbia e un po’ di rimpianto il lento naufragio di una relazione. L’alternarsi di prospettive e registri linguistici non è però ostacolo o motivo di confusione e, al contrario, l’autrice riesce a tenere viva e costante l’attenzione lavorando su empatia e immedesimazione di chi legge.

Bank ha affidato le sue intenzioni di scrittrice – e di donna – a un personaggio ironico e iconico che va reinterpretato guardando alla società contemporanea. Fraintesa al suo debutto, Jane non è un clone della più nota Bridget Jones né tantomeno solo un baluardo degli anni Novanta e del fenomeno chicklit. In Manuale di caccia e pesca per ragazze il passaggio dalla letteratura alla quotidianità è infatti breve e Jane sembra volerci dire proprio questo: non usarti per uno scopo, non ridere di te stesso o prenderti gioco delle tue disavventure, non giudicarti e soprattutto non credere mai di conoscerti fino in fondo. Datti tempo: è tutto quello di cui hai bisogno.

Afterparties, di Anthony Veasna So

di Anthony Veasna So
Racconti Edizioni
Traduzione di Emanuele Giammarco
pp. 280 Euro 18

di Fabrizia Gagliardi

«La nostra gente è sopravvissuta alle navi degli schiavi. Siamo sopravvissuti al genocidio dei Taíno. Siamo sopravvissuti a colonizzatori e dittatori. Mi stai dicendo che non possiamo sopravvivere alla linea D fino a Grand Concourse?»
«La maggior parte delle volte che sono a Stanford, sembra un tradimento.»
«Non c'è comunità per me a scuola.»

In modi baldanzosi e a tratti commoventi i personaggi di In the Heights cantano i capisaldi e le battaglie interiori dei figli di immigrati di seconda generazione. La storia ruota attorno a Usnavi, proprietario di una bodega nel quartiere Washington Heights a Manhattan, che prova sentimenti contrastanti all’idea di chiudere l’attività e tornare nella terra d’origine, la Repubblica Dominicana, grazie a una fortunata eredità.
Da lui si snoderà il racconto collettivo dei giovani abitanti del quartiere alle prese con una comunità che li ha protetti e che ha impresso in loro le origini senza preoccuparsi delle loro aspirazioni e di un futuro che cambia.
Il film del 2021 diretto da Jon M. Chu traspone al meglio il ritmo e le atmosfere del musical da cui è tratto, originariamente composto da Lin-Manuel Miranda e Quiara Alegría Hudes. Le origini portoricane dei creatori, il clima di energia, movimento e calore dei quartieri settentrionali di Manhattan, rivivono non solo nella malinconia e nel divertimento ma anche nel tratto distintivo dell’ironia.
Traduzioni maldestre, scambi culturali che sanno di colonizzazioni, accenti che diventano macchiette nella lingua di arrivo: la condizione di straniero in altro paese ha la doppia faccia di esilarante generatore di aneddoti e stereotipi da una parte e scherno razzista misto a vergogna dall’altra.
Anthony Veasna So nella sua raccolta Afterparties (tradotta da Emanuele Giammarco, Racconti edizioni) fa dell’humor un ingrediente tagliente, usato nei monologhi autoironici, nelle solitarie divagazioni dei protagonisti fino ai sorrisi amari di alcuni passaggi.
Il libro, pubblicato nel 2021 negli Stati Uniti, arriva dopo la prematura scomparsa dell’autore che in poco tempo è diventato una voce unica, già notata da riviste come The Paris Review, The New Yorker, Granta e n+1.
I nove racconti si concentrano sui residenti della polverosa Central Valley «nel buco del culo della California», come dirà uno dei protagonisti, in quartieri popolati da cambogiani pressoché autosufficienti per la comunità cambogiana stessa.
Lo si avverte chiaramente ne L’officina dove il padre del protagonista possiede uno sgangherato locale di ricambi per auto che arranca per attrarre clienti non esclusivamente cambogiani: «un intero ecosistema, sia per il servizio offerto al quartiere sia per la dozzina di cambogiani che aveva messo sotto contratto».
Le nascite, i compleanni, le morti e le reincarnazioni suggellano abitudini culinarie, sociali, religiose e culturali, tutte rigorosamente vissute insieme. Una costellazione di parentele e voci tra fratelli e sorelle, cugini, mamme e nonne, le Ming e le Ma, popolerà stabilmente ogni storia facendo entrare in un mondo che è celebrazione continua delle origini.
In una collettività così sentita le dissonanze non tardano ad arrivare e l’affiatamento di un coro intonato traballa davanti a chi resta impigliato nel passato senza neanche averlo vissuto.
I cambogiani americani di prima generazione scappavano dal regime degli Khmer Rossi, dai racconti terribili dei campi di concentramento durante il genocidio e da Pol Pot al potere. Una volta in America il trauma è rimasto, ma la rinascita è passata per condizioni economiche conquistate con dignità grazie a lavori da colletti bianchi e posti di rilievo in ambito scientifico e ingegneristico.
I loro bambini e nipoti, in piena adolescenza, rivivono in modo frammentato i racconti dell’orrore reale. Non riusciranno mai a partecipare fino in fondo al trauma della diaspora, provando continuamente un senso di inadeguatezza.
Il loro disprezzo non sarà mai dissacrante, ma sempre timoroso di rifiutare un legame così forte, anche se traumatizzato, che nonostante tutto ha saputo assicurargli un futuro. «Ogni nonna nella comunità», si lamenterà un adolescente, «è diventata una psicopatica dal genocidio».

 

Quando provavo ad articolare i miei sentimenti riguardo a casa, inevitabilmente il pensiero mi tornava a queste canzoni, al modo in cui l’incomprensibile si intrecciasse con tutto ciò che mi faceva sentire a mio agio. Ero vissuto nell’incomprensione talmente a lungo che avevo persino smesso di vederla come una cosa sbagliata. Stava semplicemente lì, incarnata in tutte le cose che amavo.

 

Cosa è davvero casa? E com’è costruirne una con l’ingombrante presenza della precedente? Cosa significa essere davvero cambogiani? La sensazione che pervade il lettore è essere al cospetto di un senso di colpa da espiare e una libertà che non è mai vissuta fino in fondo.
Ne Le tre donne del Chuck’s Donuts, per esempio, la quiete di un locale aperto fino a tarda notte è scossa da un uomo che entra e ordina una ciambella che puntualmente non mangerà. In un crescendo di tensione le voci delle tre protagoniste si alterneranno tra l’incubo di un passato oscuro che ritorna per la madre, il desiderio di avere una possibilità per un futuro diverso dall’amore tormentato e tradizionale dei genitori da parte delle due figlie: «Può di per sé la sopportazione portare a ferite che sanguinano nei pensieri, si chiede Tevy, distorcendo il modo stesso in cui si fa esperienza del mondo?».
Una volta capito che il vero nodo di Afterparties è l’individuo isolato che contempla le contraddizioni di una comunità affiatata ma avvoltolata su se stessa, la divagazione ironica e le improvvise epifanie che intramezzano battute sagaci diventano la difesa che travalica i confini dell’adeguatezza e della rispettabilità.
Nel lettore cresce la sensazione di essere uno spettatore privilegiato, e in fondo non così poco coinvolto: per quanto possa essere lontano dalle identità etniche in scena avrà provato il sentimento di rivalsa per origini che coccolano e che intrappolano allo stesso tempo, avrà assaporato il punto di rottura tra quello che è sempre stato e quello che gli altri volevano che fosse, si sarà domandato a quale costo s’impara a camminare senza deludere tutte quelle figure che hanno fatto parte di lui.
Ogni cambiamento passa per l’atto di coraggio di demistificare il proprio passato per non restarne vittima, per non scegliere la strada già tracciata lastricata di valori non più sentiti. E come può una generazione per giunta queer, alle prese con una dose prestabilita di discriminazione ed emarginazione, viziata dalla tecnologia e abituata a legami fugaci, portare sulle spalle il peso storico di un genocidio?
La scrittura di So posa lo sguardo su chi fugge e chi resta dissezionando cosa vuol dire sobbarcarsi le aspettative disilluse di vecchie generazioni e cercare di immaginare oltre le proprie origini. In entrambi i casi la moneta di scambio è una solitudine irrimediabile che arriva dolorosamente come rivelazione ultima prima andare via.

Segna ancora Superking Son racconta di un allenatore di badminton idolatrato da tutti i ragazzini del quartiere:

Poteva schiacciare il volano così forte, e farlo vorticare così veloce, che quando quello ci sfrecciava accanto, mano sul fuoco, riusciva a scuotere persino il campo di forza che ci soffocava tutti, quello composto dalle irragionevoli aspettative dei nostri genitori, la loro paranoia che il nostro mondo avrebbe potuto sbriciolarsi da un momento all’altro e spedirci di nuovo tutti dove avevamo cominciato, morti di fame e poveri sottomessi a un dittatore genocida.

 

Ma la sua nomea è destinata a estinguersi con l’arrivo di un nuovo e talentuoso ragazzino. La verità è che Superking Son si trasforma in un tipo bizzarro, sempre più lontano dalla speranza di un futuro diverso delle nuove generazioni. Ogni giorno l’anziano vive a metà tra il senso di appartenenza per essere rimasto nella comunità d’origine, a curare il superstore di famiglia, e il rimpianto per non aver osato seguire il sogno di diventare altro.
Conosciamo i Superking Son dei nostri paesi e dei nostri quartieri, li conosciamo forgiati dalla discriminazione e dalla povertà che li trasformano immediatamente da archetipo a stereotipo: il vincente ammantato di fascino nei nostri occhi di bambini diventa uno zimbello. L’eredità di una figura del genere non può che essere la prevedibilità, l’arrivo di contorni prestabiliti che nella vita adulta si ripresentano per chiedere il conto.
Lo stesso titolo di Afterparties suggerisce che qualcosa accade dopo le maschere obbligate che indossiamo a una festa. L’insularità vissuta nella comunità sbracata e informale delle aggregazioni post-matrimonio rilascia la speranza di poter sbrogliare l’incomprensione o, almeno, di confessarla alla ricerca d’indulgenza.
Nel racconto I monaci, per esempio, il protagonista decide di trascorrere un periodo in un tempio buddhista insieme ad altri monaci («La smetterò di pensare a me stesso come una cosa, e come parte di un'altra»). La comunione di gruppo squarcia la prevedibilità – i percorsi della vita degli immigrati segnati dalla storia e dalla lotta – e introduce la casualità.
Il ritorno alla comunità sembra un ciclo da incubo, eppure anche la struttura della raccolta ricorda la circolarità della reincarnazione buddhista. In un arco temporale indefinito ritroveremo gli stessi personaggi, improvvisamente invecchiati o nel mezzo della vita adulta: ora non possono più cavarsela con le solite battute perché alla fine credevano nella reincarnazione di una madre suicida nel corpo della nuova nata in famiglia (è il caso di Maly, Maly, Maly e Somaly Serey, Serey Somaly).
Come ha scritto So in un saggio su n+1, nelle parole di Deleuze, «la ripetizione consente la reinvenzione», i cicli e le loro rotture aprono a «nuove comprensioni, sentimenti radicali mai sperimentati prima».
Solo in mezzo agli altri si può sperare di invertire la rotta ed evolvere senza distruggere.