di Debora Lambruschini
A metà maggio, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, la raccolta di racconti Che cosa fa le gente tutto il giorno?, Peter Cameron ha trascorso un paio di settimane in Italia, incontrando lettori e giornalisti durante le tappe del suo tour partito da Torino. Un’intervista a tu per tu era stata concordata anche per Cattedrale, ma un piccolo intoppo di salute mi ha impedito di incontrarlo. Mi sono ritrovata quindi a leggere la raccolta consapevole di uno scambio mancato tra me e l’autore, di una serie di domande che sarebbero rimaste lì appese, ma che forse in un certo senso hanno anche amplificato la portata della lettura stessa, attraversata da molti interrogativi e spunti su cui soffermarsi nel tentativo di decifrare gli spazi bianchi della narrazione e le implicazioni di queste storie. Quello che so è che le dodici storie qui riunite nell’ottima traduzione di Giuseppina Oneto – tutte in precedenza apparse su rivista tranne quella che dà il titolo alla raccolta – è nel senso di smarrimento che contengono, nell’incapacità di comprendersi davvero e nel ritratto delle umane incertezze che dialogano con il lettore, proprio in quello spazio che “manca” alla narrazione e sì, al confronto con chi le ha scritte. Una raccolta eterogenea, pura – per fare un esempio tra le ultime raccolte lette, penso a Cose dell’altro mondo di Elizabeth McCracken – in cui si rintracciano alcune tematiche e spunti ricorrenti ma ogni storia resta autonoma e auto definita. E sono racconti che ben si inseriscono nella bibliografia di Cameron, scritti tra il 1984 e il 2014 e che attraversano quindi molta vita e molta produzione letteraria. Non sono la prova letteraria migliore dell’autore, che a mio avviso si muove più agilmente nel romanzo (nonostante la sua prima pubblicazione sia stata appunto una raccolta di racconti, One way or another, 1986), ma ne rappresentano una parte importante e riconoscibile, attraversate da una comune postura autoriale, un certo sentire, una direzione di sguardo. Temi e spunti che si ritrovano nelle narrazioni dell’autore statunitense e quella prosa dall’eco british, influenzata dagli studi in letteratura inglese e dal lungo soggiorno a Londra, di una certa attitudine letteraria: la prosa misurata, le atmosfere rarefatte, la cura particolare per i dialoghi – anche se poi è proprio l’incapacità di comprendersi dei personaggi uno dei cardini della narrazione.
Diceva Cortàzar che il racconto è paragonabile alla fotografia – il romanzo invece al cinema – per quella «rigorosa limitazione previa», che è propria del mezzo espressivo e del modo in cui il fotografo lo utilizza: ecco, i racconti di Cameron ben si legano a questo concetto e della fotografia anche come influenza e ispirazione ne sono esempio. A partire da “Una famiglia perbene” che è esplicitamente ispirato a una fotografia di Richard Tuschman, a sua volta influenzato dai quadri di Edward Hopper (cui dedica la serie fotografica “Hopper Meditations”): la caducità dell’essere umano, la distanza tra io interiore e frenesia della società moderna, solitudini e distanze, atmosfere taciturne. Il richiamo a questi artisti permea ben più di un singolo racconto, evocando una simile postura nelle solitudini, nelle inquadrature, nell’ordinario e quotidiano su cui si concentra lo sguardo narrativo. Le storie di Cameron fotografano frammenti di vite ordinarie scosse da svolte spiazzanti, ne scandagliano le solitudini e lo smarrimento, i rapporti, le incomprensioni. A partire da sé stessi, da quanto sia difficile comprendersi e accettarsi fino in fondo e, quindi, della distanza tra noi e gli altri.
Pensò alla sua vita e alle cose che le succedevano, a come fosse impossibile impedire che succedessero, controllarle. Sembrava di galleggiare in una piscina della grandezza di un oceano insieme a tutte le cose che potrebbero capitarci nella vita, e poterne sfiorare solo alcune, in modo del tutto casuale, e che tutte le cose desiderate fossero sottili e scivolose come pesci. (“Mercatino d’inverno”, p. 120)
Gli uomini e le donne di Cameron nuotano in questa immensa piscina sfiorando desideri e cose che potrebbero essere e accadere, ma su cui in fondo pare suggerire l’autore abbiamo ben poco controllo o perfino consapevolezza. Ed è nelle parole non dette, nei dialoghi che sembrano correre su binari diversi, che si muovono i rapporti scandagliati con tanta precisione, nelle solitudini e mancanze, nello spaesamento dell’età adulta in cui spesso non sappiamo collocarci. Come Laine, appena atterrata a New York dopo mesi nei Peace Corps, che non riconosce niente della vita di prima e fatica a trovarvi un posto ed è nel luogo più inatteso – un parco a tema – che per qualche momento le pare invece di ritrovare e ritrovarsi. Ma è un equilibrio precario, una quotidianità effimera, destinata a non durare.
È, ancora, lo spaesamento di un uomo che preferisce lasciar credere alla moglie di avere una relazione pur di non rivelarle che nasconde un cane nella cabina armadio, di cui si prende cura ogni notte, mentre tutto intorno a lui va in pezzi sotto il peso della menzogna.
Ma che cosa fa quindi la gente tutto il giorno, viene da chiedersi? Prova a vivere. Annaspando in quella piscina dove non si tocca, sfiorando le cose che avremmo voluto, afferrandone un paio, provando a tornare indietro per poi capire che non è possibile, come i due ex amanti di “Area arrivi e partenze”.
Ho pensato: che pena coloro che non sono più amati. Che meticolosità nel soffrire, e nel coltivare il rifiuto tormentandosi di continuo le ferite. (“Area arrivi e partenze”, p. 73)
C’è una malinconia di fondo che attraversa queste dodici storie, la solitudine e lo smarrimento di un quotidiano che per i protagonisti è ben lontano dall’immagine che ne avevano abbozzato anni prima, da ciò che speravano per l’età adulta. E quando la osserviamo quell’età adulta, quando per un attimo cade il velo che la separa dal mondo dell’infanzia, si rivela in tutte le sue mancanze. «La vita non ha mantenuto le sue promesse o era sbagliato il sogno» si chiedeva Paolo Zardi in un racconto de La gente non esiste, quello studio chirurgico dell’uomo, la crisi dell’età adulta, le aspettative che si scontrano brutalmente con la realtà. Realtà e vita adulta verso cui pare di precipitare, un tuffo di testa:
Mi sentivo sospeso in aria, sopra quell’orribile acqua azzurro acceso, ma non riuscivo a girare il corpo anche se stavo precipitando in modo pericoloso e a tutta velocità. (“Testa o piedi”, p. 166)
Sono storie di distanze – dalle persone che amiamo o abbiamo amato, dall’idea che abbiamo di noi stessi e dall’immagine della vita che desideravamo – di connessioni umane fugaci, attraversate di profonda malinconia: due vecchi amici di fronte alla malattia terminale che si ritrovano per sgombrare la casa, la caducità della vita che dialoga con la fine di un rapporto sentimentale, fuoriscena eppure altrettanto protagonista; una famiglia disfunzionale, adulti assenti e una ragazza che crea nella finzione un sostituto a ciò che manca; una giovane vedova caduta nella disperazione, il ricordo della vita felice, l’abbandono alla solitudine; la fine di un amore e un sentimento non ricambiato tra due ex che si ritrovano brevemente per una vacanza insieme.
Le relazioni, in fondo, nient’altro che questo, sono il cuore di questi racconti su cui lo sguardo di Cameron si posa senza giudizio, restituendoci una fotografia delle nostre fragilità, del senso di inadeguatezza e dello scarto che c’è tra l’immagine che proiettiamo di noi stessi e ciò che realmente siamo e desideriamo. Della distanza tra queste due che talvolta diviene insopportabile. E quell’io intimo, da proteggere, tenendo ben celato, in una società, sembra suggerirci Cameron, in cui non c’è spazio per la tenerezza. Sono dodici piccole increspature del quotidiano, un movimento minimo della superficie che agisce ben più forte però in profondità.