Dialoghi in cielo, di Can Xue

Autore: Can Xue
Editore: Utopia
Traduzione: Maria Rita Masci
pp. 128 Euro 17,00


di Francesca Piovesan

Utopia Editore, con la traduzione di Maria Rita Masci, porta in Italia Dialoghi in cielo, una delle prime e più acclamate raccolte di racconti di Can Xue, pseudonimo di Deng Xiaohua, voce più acclamata della letteratura cinese contemporanea.
Xue, dopo aver svolto vari lavori nella sua vita, tra cui l’operaia, l’insegnante e la sarta, lavori che ritornano nelle pagine di questa raccolta, ha iniziato a dedicarsi alla scrittura da metà degli anni Ottanta, diventando un’esponente di picco della letteratura sperimentale.
Già candidata, nel 2019 e 2021, per l’International Book Prize, la sua scrittura è stata definita dal The New York Times “una corsa nel buio in discesa: si gode dello slancio, ma si ignora le direzione”.
Ed è proprio questo che si perde mentre si prosegue la lettura: la direzione.
Xue tramite uno stile che è flusso malinconico alla Woolf, che riprende misteri alla Kafka, sfociando in un irrazionale che è onirico e perturbante, ci conduce attraverso la civiltà cinese, maternamente oscura e parallelamente moderna.
Non è un caso che uno degli elementi ricorrenti nei racconti sia la figura materna; una madre negligente, una madre anaffettiva, una madre foriera di terrore e persecuzione come nel racconto “La capanna sulla montagna”, in cui la famiglia, la casa sono terrore, orrore.
La madre diventa un ostacolo per la protagonista, la rottura del punto di equilibrio che lei cerca di ottenere sistemando continuamente un cassetto, guardando dalla finestra una capanna, simbolo di liberazione.

La mia sorella minore corre a dirmi di nascosto che mia madre ha deciso di spezzarmi le braccia, perché quando apro e chiudo il cassetto il rumore la fa impazzire. Ogni volta che sente quel rumore, soffre a tal punto da immergere la testa nell’acqua gelata e tenercela finché non si prende un forte raffreddore.

Madre che si scioglie in un catino di acqua saponata in “Bolle di sapone sull’acqua sporca” :

Mia madre si è sciolta in una bacinella di acqua saponata. Non lo sa nessuno. Se qualcuno sapesse come sono andate le cose, mi darebbe della bestia, dell’assassino sordido e sinistro.

Bestia nella quale il figlio si tramuterà, alla fine del racconto, diventando un cane con la bava alla bocca nei confronti della folla curiosa.
Madre che si potrebbe interpretare come Madrepatria, quella Cina fatta di persecuzioni politiche che Xue descrive nel racconto che apre la raccolta “La splendida estate del Sud”, dove è una nonna, una figura magica che richiama le antiche origini, l’unione con la natura, le piante e gli animali, a tenere unite le redini di una famiglia esiliata, povera, istruita e rieducata dal regime.
Il freddo, il ghiaccio, la neve che blocca i corpi, gela gli occhi, immobilizza tutto e tutti in una condanna definitiva ritorna quasi in ogni racconto, a cristallizzare personaggi e luoghi, incubi e universi di realtà.
”Quello che mi è capitato in quel mondo” è storia di internamento, di diversità, di condanna da parte del gruppo, anche familiare, di chi sente di più, di chi è ancorato alla sensibilità come rifugio, come uscita di salvezza:

I pensieri in cui è immersa la balena bianca sono eterni, frammenti di ghiaccio si urtano lontano… nel mondo di ghiaccio non c’è notte, non c’è giorno.
“…i parenti si erano accorti di questo mio correre su e giù lungo l’argine del fiume, ed erano convinti che fossi malata. Approfittarono di quando ero profondamente addormentata per legarmi mani e piedi, quindi mi chiusero in un tempio diroccato.
La notte, nel tempio si muoveva un numero indefinito di spiriti e qualcosa saltava all’impazzata sottoterra. Quando mi fecero uscire ero veramente ammalata. Il mio viso era gonfio e trasudavo muco, le mie gambe seccate dal vento tremavano.”

Cuculi, uccelli notturni, api che si devono cercare di notte, serpenti sono animali totemici che possono condurre nell’immaginifico, che possono ricoprirsi di aloni magici, veicolare visioni, allucinazioni, metamorfosi. Odori e suoni scatenano le percezioni che portano altrove, all’infanzia, a un amore perduto come “Nell’istante in cui canta il cuculo”, dove una stazione diventa un portale per raggiungere una scuola, un compagno di banco con una camicia blu da studente, e una farfalla appuntata al petto.
C’è anche spazio per l’amore fra coppie, coniugale o meno, reale o meno.
Amori che si ritrovano in un’isola deserta “mentale” dopo essersi incontrati tutte le mattine, alle cinque, per vent’anni. Incontrati vedendo sempre le spalle dell’uomo, scoprendo il suo viso solo in questo finale di favola, come gesto liberatorio, come confessione, svelamento:


Quando arrivava mi volgeva la schiena, non si è mai voltato. La sua schiena era ampia. Scoccate le 5, gocce di pioggia cadevano sulle foglie della palma fuori dalla finestra. Ripeteva ossessivamente la stessa frase: “Se ora fuori spuntasse il sole, gli scarafaggi si tramuterebbero in elicotteri”.
I suoi passi erano leggerissimi e se ne andava sempre all’improvviso. Appena la porta della stanza si chiudeva, il mio collo si riempiva di rughe.

O come nei tre capitoli/racconti di “Dialoghi in cielo I, II, III”, dove gli incontri d’amore, le sparizioni di amore, le rincorse d’amore si affidano al profumo di una tuberosa da attendere tutte le notti, a mezzanotte. O la ricerca di un compagno/compagna ideale, spesso, non è altro che la nostra trasposizione nella figura dell’altro.
Sono anche amori contrastati, in “Le ansie di Amei in una giornata di sole”, sempre dalla stessa famiglia, ancora una volta dalla madre, figura vestita di nero, scontrosa, che alleva un nipote ad aglio crudo; un nipote che non sa chiamare la vera madre “mamma” e l’apostrofa con un “Ehi” come il marito scappato, lontano, che è ridiventato scapolo, che ha guarito le pustole del suo viso con un amore rubato e gettato.
A conclusione della raccolta, Can Xue, pone i due racconti più terribili, spaventosi.
“Nella landa desolata”,  i protagonisti sono marito e moglie che vagano insonni da notti in stanze enormi, sporche, immense, prigionieri di passi che si sentono sul pavimento e di bocche che masticano, in una discesa agli inferi che troverà la sua fine nella landa desolata:


Quella sera, dopo essersi addormentata, improvvisamente si accorse che non stava dormendo. Allora si alzò e si mise a camminare su e giù per la stanza buia, le tavole sconnesse del pavimento scricchiolavano sinistre. Nell’oscurità, qualcosa di ancora più scuro stava accovacciato in un angolo, faceva vagamente pensare a un orso. Muovendosi fece scricchiolare anch’esso le tavole del pavimento.

“Chi è?”
La voce le si smorzò in gola.
“Sono io”.
La voce spaventata del marito.
Ebbero l’uno paura dell’altra.

Il racconto finale “Il lucernario” mette in scena un incubo a occhi aperti: un figlio maggiore che segue un uomo che “brucia i morti” e “scava buche” in un viaggio psichedelico fatto di uva coltivata, cenere, pozze che si riempiono d’acqua per marcire, vedendo da lontano la sua casa, i suoi genitori malati, mortiferi, i fratelli minori sciocchi, trasformati in animali senza acume.

Can Xue è una scrittrice onirica, che dipinge un universo forse a noi occidentali incomprensibile, perché non abbiamo le radici di questa cultura. È flusso gotico, e anche grottesco. È antichità sepolta che striscia con le serpi, che suona con i flauti, che porta nell’altrove della sperimentazione, del ritorno all’immaginazione liberata.