Cattedrale è orgogliosa di ospitare i tre vincitori del premio Match Point: la chiamata letteraria per racconti scritti in italiano da autori e autrici residenti nel Regno Unito. Il premio è organizzato dall’associazione londinese Il Circolo con il patrocinio del Consolato Generale d’Italia a Londra e in collaborazione con la scuola Londra Scrive.
Oggi vi proponiamo il racconto secondo classificato: per presentarlo lasciamo la parola a Olga Campofreda, scrittrice, tra i giurati del Premio, che ha collaborato con l’autore in qualità di editor in vista di questa pubblicazione.
Il racconto vincitore del Premio sarà pubblicati nelle prossime settimane.
Mentre QUI potete leggere il terzo classificato.
Scavando dentro le sfumature del linguaggio, Il falò di Giovanni Biglino riesce a restituire i toni dell’innocenza nel momento liminare in cui – proprio come un fuoco – questa comincia lentamente a consumarsi. Lavorando al testo insieme all'autore, in qualità di editor, sono tornata indietro al tempo della coscienza ingenua, provando a ricordare cosa significasse percepire certi sentimenti per la prima volta; quali stupori, e quali paure si accompagnassero all’eccitazione di avvicinarsi a un territorio – quello dell’adolescenza – tanto desiderato quanto temuto, perché ignoto.
Olga Campofreda
Il falò
di Giovanni Biglino
“Non posso credere che non ci abbia avvertito! Non vedi quanto è grossa?”
La zia Umberta era furente. Aveva le maniche del golf tirate su oltre i gomiti e aveva appena sbattuto una mano sul tavolo con rabbia.
“Non è il caso di agitarsi, Bubi.”
Nonna Clara era l’unica a chiamare la zia con quel soprannome, oltre allo zio Carlo. Con la non più tanto innocente perspicacia dei miei tredici anni sospettavo che lo facesse consapevole di darle fastidio.
“Guarda, è enorme!”
La nonna, seduta a un’estremità del grande tavolo deserto, si alzò sospirando: “È solo una crepa.”
Era effettivamente una crepa molto profonda che correva da un angolo del soffitto fino al pavimento della sala da pranzo. Una lunga linea spezzata nera sulla parete bianca, accanto all’enorme fotografia di un artista tedesco che la zia Paola aveva portato durante l’inverno. Ero appoggiato a uno stipite della porta, alle spalle di mia zia, e guardavo la stanza. Era una grande stanza ma abbastanza spoglia: a parte la fotografia, raffigurante la Borsa di Hong Kong, e il lungo tavolo da dodici al quale dovevamo comunque stringerci (al completo eravamo tredici), c’erano un paio di lampade moderne e un vecchio mobile cupo nel quale si tenevano i piatti e i bicchieri più belli.
La nonna uscì nella direzione opposta alla mia, verso la cucina, seguita dalla zia. Prima di girarmi, mi soffermai a guardare quella crepa – la sua forma, il suo movimento.
Era settembre. La scuola sarebbe ricominciata in una settimana, che in quel momento pareva infinita. Avrei iniziato il liceo e mi sembrava un evento, anche se cercavo di non darlo a vedere (essere indifferenti era più maturo o quanto meno più intrigante). Un evento che era del resto oscurato da un altro che, agli occhi di tutta la famiglia, era ben più importante: mio cugino Edoardo, il più grande tra noi, aveva superato l’esame di maturità a pieni voti e sarebbe partito la settimana seguente per studiare legge al Trinity College di Dublino. La cosa assumeva ancora più peso dal momento che il nonno era stato un professore di Diritto e, sebbene ormai in pensione, era ancora conosciuto in ambito accademico e continuava a venire invitato a parlare a convegni e conferenze. Era raro che fossimo tutti in campagna, in quella grande casa di mattoni che il padre di nonna Clara aveva fatto costruire sulle colline dell’astigiano all’inizio degli anni Cinquanta. Per molti degli adulti la casa fungeva da rifugio in quegli anni in cui, prima della diffusione di internet, c’era solo un vecchio telefono di bachelite di cui nessuno comunque aveva il numero. Ora c’eravamo tutti, riuniti per salutare Edoardo prima della sua partenza. C’erano i nonni, che spesso invitavano i loro amici in campagna e che con noi imponevano modi leggermente più formali a tavola. C’erano lo zio Carlo e la zia Umberta, i genitori di Edoardo, con i loro altri due figli, Matilde e Alessandro. C’era la zia Paola, arrivata il giorno prima da Siena con mio cugino Manfredi. E poi i miei genitori, Guido ed Elsa, con mio fratello Hugo, tutti i nostri libri (quelli che servivano alla mamma per lavorare e quelli di Hugo, che era stato rimandato di latino e di greco) e il nostro cane, un bovaro dell’Entlebuch che Hugo aveva chiamato Nina.
Una particolarità di noi cugini era che eravamo nati quasi a un anno esatto l’uno dall’altro, con uno scarto di qualche mese. Prima Edoardo, poi Manfredi, e a seguire Hugo, Matilde, Alessandro e infine io. Come diceva la nonna: “Tobias chiude la fila”. Un’altra particolarità era che, pur non assomigliandoci molto fisicamente, salvo qualcosa di vago nel modo di muoverci e nell’essere tutti non particolarmente alti, avevamo tutti gli occhi verdi. Varie sfumature di verde, a dire il vero, da un verde giallastro al verderame, ma tutti verdi. Erano gli occhi della nonna Clara, l’unica in famiglia ad averli di quel colore. Quando qualcuno commentava questo dettaglio, lei rispondeva fiera: “Sono gli occhi di mio padre.” (Una delle volte in cui questa scena si era ripetuta avevo sentito la zia Paola commentare: “Parla sempre con ammirazione di suo padre” e lo zio Carlo aggiungere: “È lui che ha fatto la fortuna di questa famiglia.”)
Ero uscito in giardino. Era uno di quei pomeriggi di settembre ancora caldi ma languidi, come un frutto troppo maturo, che raggiunge il punto massimo della dolcezza proprio in quell’attimo di decadenza incipiente. Le portefinestre erano bordate di gelsomini dalle foglie lucide e vasi di ortensie segnavano l’inizio del prato che digradava dolcemente. Oltre ancora, vicino a un ippocastano, c’era un grande gazebo sotto il quale spesso pranzavamo. Mia madre era seduta al lungo tavolo, da sola. Stava lavorando. Pur essendo di spalle, avvertì la mia presenza, si girò e mi chiamò sventolando una mano. I suoi libri erano aperti sul tavolo.
La mamma era nata in Austria, a Innsbruck, figlia di un pianista che insegnava al conservatorio e di un’insegnante di francese, anche lei appassionata di musica. I nonni materni erano morti entrambi quando ero piccolo e il ricordo era sbiadito – una signora seduta al pianoforte, un grande divano foderato di velluto giallo, la neve, un vecchio sdraiato a letto. Avevo saputo attraverso i racconti della mamma del loro amore per l’Italia, delle vacanze trascorse a esplorare diverse regioni, della loro curiosità per piccoli borghi più o meno abbandonati. Fu durante una di quelle estati che aveva conosciuto mio padre. Ai nonni, e alla nonna Clara in particolare, quella nuora straniera non era mai dispiaciuta. Oltre a una certa allure internazionale, la nonna riconosceva che “Elsa non si fa mai mettere i piedi in testa”, una qualità che la nonna rispettava sempre.
Parlando correntemente quattro lingue, la mamma lavorava come traduttrice, soprattutto dal tedesco all’italiano. Avevo colto, da conversazioni con mio padre e stralci di telefonate, che stava traducendo il romanzo di un giovane scrittore tedesco acclamato dalla critica, una sorta di diario delle ferite subite da un bambino cresciuto in una famiglia violenta in una Berlino ancora divisa in due. Anche se mi consideravo un discreto lettore per i miei tredici anni, quel tomo di settecento pagine incuteva rispetto.
“Com’è il libro?”
“Irritante” disse sorridendo.
“Perché?”
“Si sforza di essere scioccante.” Chiuse un quaderno e si appoggiò allo schienale della sedia. “O forse è solo un po’ deludente, in ogni caso è lavoro.”
Pensai che non volesse essere disturbata. “Vado a cercare gli altri.”
“Hugo e Manfredi stanno giocando a tennis, credo.” Allungò la mano verso una tazza e mentre la portava alle labbra aggiunse: “Ricorda che non manca molto per cena.”
Mi allontanai e, mentre camminavo sul vialetto di ghiaia, mi voltai. A vederla così, di spalle, concentrata sui libri, i capelli biondi raccolti, una t-shirt bianca, i jeans arrotolati, i piedi scalzi, mi sembrava una studentessa. La mamma era così diversa dalle zie.
Camminando lungo il muretto oltre il quale erano le vigne, vidi mio cugino Alessandro che arrivava di corsa dalla direzione opposta. Quando mi raggiunse mi chiese dove stessi andando.
“A cercare gli altri.” Mi guardai indietro. “Stavo parlando con mia madre, ma sta lavorando.”
“Mia madre oggi è fuori di testa invece.”
Ripensai alla zia Umberta che sbatteva la mano sul tavolo. “Per la crepa?”
“Per cosa?”
“La crepa. Quella in sala da pranzo. Non l’hai vista?”
Chiaramente Alessandro non sapeva di cosa stessi parlando. Intanto quella linea nera si era già allargata nella mia immaginazione. Avrei voluto guardarci dentro.
“Comunque ci hanno dato il permesso” riprese Alessandro.
“Per cosa?”
“Per il falò.”
“Fantastico!”
Ne avevamo parlato da quando eravamo arrivati.
“Ma come…”
“È bastato che Edo lo chiedesse alla nonna.”
Ovviamente.
*
Entrando in sala da pranzo quella sera capii che sarebbe stata una serata speciale. Una delle vetrate era aperta e lasciava entrare un pezzo di cielo viola striato di giallo. L’aria della sera era fresca. Teresa, che ricordavo da sempre in quella casa, stava finendo di apparecchiare con i piatti più belli (alla nonna bastava dirle: “I Richard Ginori col bordo blu”). La zia Paola, vestita di nero come suo solito, stava accendendo delle grosse candele. La mamma, che era ancora scalza ma ora sopra ai jeans indossava una camicia di seta, stava posando in tavola un gran numero di bicchieri.
Quando entrò la nonna, alla vista di tutti quei bicchieri chiese: “Abbiamo intenzione di ubriacarci?” Dietro di lei entrò Matilde, la nostra unica cugina femmina, della quale eravamo tutti un po’ infatuati. Reggeva per i manici un grosso vassoio carico di altri bicchieri e lo porse a mia mamma. Ci scambiammo un veloce sguardo d’intesa. E subito dopo ne scambiai un altro con Edoardo, che stava portando una grossa cesta di legna per il camino del salone: le sere di fine settembre erano già umide. Edo era seguito da Nina, che annusava la cesta di vimini ed era eccitatissima per la confusione. E anche noi eravamo eccitati, tutti e sei, di un’eccitazione vibrante.
La cena fu un trionfo. Il nonno, seduto accanto a Edoardo, era visibilmente compiaciuto. Quanto a nostro cugino, benché fosse lui il protagonista della serata, fingeva elegantemente di non esserlo. Forse parlavano di testi di studio, teorie, professori che il nonno aveva conosciuto, ma essendo pinzato tra Matilde e Manfredi al lato opposto del tavolo non riuscivo ad ascoltare. Ammiravo un po’ quella vicinanza tra i due, ammiravo il fatto che Edoardo fosse abbastanza adulto da avere una conversazione così seria (almeno sembrava) col nonno. Lo zio Carlo era abbronzato e parlava con la zia Paola. I bicchieri riflettevano la luce delle candele. Tutti ridevano o comunque erano allegri. Da un lato le vetrate erano ora nere e davano sul prato e, oltre, sulle vigne immerse nel buio, dall’altro potevo vedere la Borsa di Hong Kong. La zia Umberta stava decantando le qualità dei pomodori dell’orto di Teresa, gli ultimi di quell’anno, ancora così profumati e perfettamente maturi in quello strascico di estate. Dunque quelli eravamo noi, stretti in tredici intorno al tavolo da dodici. Facevamo finta di essere una famiglia qualunque, e forse in fondo lo eravamo. L’unica nota stridente era quella lunga crepa nera sulla parete alle mie spalle, che nella luce bassa della sera forse si notava meno, forse era più sfumata (senza inizio e senza fine), in ogni caso nessuno ne aveva più parlato. Ripensandoci, eravamo tutti consapevoli del fatto che quella non era l’unica incrinatura. Non si parlava mai dello zio Federico, dal quale Paola aveva divorziato quando Manfredi era piccolo. (Si erano conosciuti all’università, lui erede di una vecchia famiglia fiorentina, lui che aveva poi introdotto la giovane moglie nel mondo dell’arte.) Non si parlava mai neanche di quel brutto incidente, quando lo zio Carlo era al volante, qualche anno prima. Non si parlava categoricamente del leggero tremore della mano sinistra della nonna. C’erano successi più freschi di cui parlare, di gran lunga più eccitanti. Forse era più semplice non parlare delle incrinature. La nonna non sopportava – come diceva lei – i piagnistei, né tantomeno – rivedevo la sua faccia poche ore innanzi, seduta a quello stesso tavolo, a capotavola – le crepe sulle pareti della sua casa.
Teresa aveva preparato (“apposta per Edoardo”) il dolce di albicocche e pistacchi, del quale rimaneva soltanto un pezzo nel piatto da portata. Avevamo allontanato le sedie dal tavolo, il nonno aveva acceso un sigaro, papà e la zia Paola fumavano una sigaretta, la mamma era andata in cucina a fare il caffè. Quando poi la nonna disse: “Se volete, voi potete andare” chiaramente rivolta a noi cugini, ci fu un rombo di sedie trascinate. Nina, che era sdraiata sotto al tavolo, abbaiò e cominciò a correre tra le nostre gambe. Rivolto ai nonni e con una giusta dose di formalità nel suo ruolo di capobranco, Edoardo ringraziò per la cena a nome di tutti. (Si poteva anche mangiare scalzi a casa nostra, ma si doveva sempre mantenere un certo tono, soprattutto coi nonni.) Ci stavamo già allontanando mentre alle nostre spalle la zia Umberta ammoniva: “Prendete un golf!” e la zia Paola: “Matilde, prendi la mia sciarpa!”. Mia madre arrivava in direzione opposta, reggendo il vassoio con tazzine e caffettiera: “Spaß haben!”
*
La legna profumava di estate e di sole. Ci avventammo sulla catasta, ognuno caricando una cesta. Matilde apparve alla porta della cucina – con la grande sciarpa della zia Paola attorno al collo – tenendo in mano la scatola dei fiammiferi, un accendino, una bottiglia di alcol e un fascio di vecchi giornali.
Edoardo faceva strada con una torcia, attraverso il prato, lungo il muretto, oltre le vigne, seguendo un percorso che conoscevamo da sempre. Ci muovevamo nel buio. Ridevamo. Il tono dei discorsi era decisamente cambiato rispetto a quando eravamo a seduti a tavola coi nonni. Sentivo Edoardo e Manfredi che, alcuni passi più avanti, parlavano di una ragazza francese conosciuta alla scuola di vela quell’estate, con la quale erano stati entrambi. Arrivammo fino a un campo brullo, ai margini della tenuta. Era il luogo che avevamo prescelto. Nel pomeriggio Edo e Alessandro avevano già accumulato dei grossi rami che erano stati tagliati da un vecchio noce caduto durante una bufera di vento all’inizio dell’estate. Tutto si svolse con solennità: appallottolare le pagine dei giornali, infilare la carta sotto i rami, stendere le coperte che avevamo portato con noi, aggiungere rami più piccoli, decidere come ci saremmo seduti (a due a due sulle coperte). Il falò stava per essere acceso. Rimase in piedi solo Edoardo, che si piegò in avanti e fece brillare un fiammifero.
Il fuoco divampò in un attimo. Fummo illuminati da riverberi gialli, rossi, rosa, e travolti dal forte crepitio della legna secca che prendeva fuoco. Eravamo tutti in silenzio e restammo in silenzio alcuni minuti. Eravamo abbagliati, gli occhi (verdi, tutti) sgranati, mentre tutto intorno una campagna nera dormiva negli sgoccioli dell’estate. D’improvviso Hugo si alzò in piedi, gettò altri due ciocchi nel fuoco e, subito dopo, Edoardo fece lo stesso. Quel fuoco sgomitava in ogni direzione e lanciava zampilli arancioni e rossi (ma avrebbero potuto anche essere blu e bianchi e verdi). Il silenzio non era silenzio tale era la voce di quel fuoco.
Il primo a parlare fu Manfredi: “Edo, mi dai una sigaretta?”
Così un pacchetto di Gauloises cominciò a passare da uno all’altro. Dopo essersene accesa una, Matilde, che era seduta accanto a me, mi porse il pacchetto, pronunciando il mio nome come se fosse una domanda: “Tobias?”. Un po’ per non essere escluso da quel rito e un po’ per non sentirmi da meno, quella notte fumai la mia prima sigaretta.
Eravamo seduti intorno al fuoco, come in un rituale iniziatico o una cerimonia pagana. C’era qualcosa di ancestrale nell’aria, come tra le pagine di un libro d’avventura. Eravamo sei bambini ma anche sei adulti e sei eroi. Tutti ricordavamo altri falò, sempre presieduti dal nonno, ma questa volta eravamo solo noi. Immobili in quella notte dilatata, circondati da campi neri, alberi neri, siepi buie e terra umida, continuavamo a nutrire quel fuoco che si dimenava, si alzava, si abbassava, e sputava scintille ogni volta che uno di noi a turno buttava un ciocco o un ramo tra le fiamme. Ero stregato dal suo movimento.
Dopo un tempo indefinito, con la sua solita autorevolezza, Edo commentò: “Ora basta, deve cominciare a spengersi.” Guardammo allora le fiamme che si abbassavano su incandescenti pezzi di rami arancioni e rossi (come un secolo prima Derain e Vlaminck avevano dipinto i rami degli alberi della Costa Azzurra, ma ancora non lo sapevo). Le braci pulsavano e noi ancora parlavamo e ridevamo. Si percepiva adesso, denso, l’odore di quel falò. Era entrato nella lana dei nostri golf e delle nostre coperte, si era posato sui nostri capelli. Era un odore famigliare, antico, primitivo. La casa pareva solo un’idea. Le luci delle sigarette brillavano, sospese nel buio. E, come da contraltare, laggiù in fondo vicino alla siepe si vedeva ancora qualche lucciola.
Sentii improvvisamente un brivido e poi un altro. Non osai dire niente ma mi chiesi se anche gli altri cominciassero a sentire freddo. Era qualcosa che dalla terra umida di notte e dalla notte stessa saliva lungo la mia schiena. Improvvisamente, in un attimo sospeso tra intuizione e consapevolezza, vidi contro il cielo scuro la linea spezzata della crepa nera e mi resi conto che quel freddo era paura. Paura che qualcosa stesse per finire. Paura che qualcosa fosse già finito.
Era come se una gelida mano invisibile mi tirasse il respiro giù in basso verso lo stomaco lungo la via del ritorno. Tornavamo sui nostri passi, un po’ più grandi, un po’ più illusi, certamente uniti, e tutto era ancora lì: le siepi, le vigne buie, il muretto, il prato, le panchine di pietra che brillavano discretamente nella notte. Dietro di noi, ormai lontani, c’erano i riflessi del falò e la certezza della sua mancanza – il buio dopo lo splendore, l’umido della notte dopo il calore.
Quella sensazione era ancora percepibile, anche se già ammorbidita, quando ci separammo lungo il corridoio del primo piano, tra risa sommesse e parole bisbigliate, ciascuno diretto nella sua stanza (io in quella con le pareti dipinte di un verde sbiadito che dividevo con Hugo). Non sentivo più il freddo, ma la tensione nel petto c’era ancora. Avrei voluto ignorarla, quella paura. In realtà (non avrei potuto capirlo in quel momento, ma solo anni dopo, guardando indietro) non era proprio paura, ma il suo principio.
Anni dopo avrei imparato a riconoscere quel sentimento: una colazione abbagliante di sole e di blu l’ultimo giorno di un’epica vacanza in Grecia; una certa armonia tanto unica quanto non studiata nel suo essere legata a un luogo (quella casa) e a un momento (i nonni ancora vivi, i problemi ancora nascosti); la percezione del forte cambio di tono negli scambi di messaggi precedenti l’appuntamento al nostro pub preferito in cui un bellissimo ragazzo danese mi chiederà di smettere di vederci; sedersi a pranzo tutti e sei in un ristorante di Londra sapendo di dover discutere la vendita della tenuta. Era il contatto con l’attimo che precede la fine delle cose, come il sole che sparisce all’ora del tramonto, quel raggio verde così romantico ma anche inesorabilmente triste.
Mi rigirai nel letto un paio di volte. Tenevo gli occhi chiusi, ma sentivo quasi fisicamente che quei pensieri mi tenevano sveglio. Quando finalmente sentii la rilassatezza del sonno, pensai di rivedere il falò in tutta la sua bellezza e invece mi trovai davanti la crepa nera sul muro della sala da pranzo. Decisi allora di entrarci dentro.