Presentazione della nuova scuola di Cattedrale

Officina del racconto
l’officina dove si impara scrivendo

Dopo dieci anni di vita e dopo nove anni di formazione, L’Osservatorio da vita a una comunità in cui la formazione diventa strutturale e articolata: L’Officina del Racconto è la nuova scuola in cui praticare la scrittura non solo breve, ma in cui affrontare tutti gli aspetti della narrativa in modo pratico, costante, immersivo, attraverso un metodo che non livella, e non è frontale; un metodo che ascolta le singolarità e le specificità di ciascun allievo.

Nasce la nostra idea di Scuola: una bottega dove acquisire gli strumenti del mestiere, perfezionarli, potenziarli e accudirli.
Un’officina, appunto, dove la pratica e la teoria non si scostano, ma contribuiscono alla formazione di qualsiasi tipo di autore, attraverso percorsi variegati e articolati, secondo le esigenze di ciascuno. Dai più brevi ai più lunghi, dai corsi annuali alla Master più articolata e complessa.

Per l’occasione il 18 Settembre alle ore 18,30
vi aspettiamo on line per presentarvi questo nuovo progetto, illustrarvi le proposte della scuola, chiacchierare con voi e rispondere alle vostre curiosità!

Nero pesto: il racconto primo classificato al Premio Match Point

Cattedrale è orgogliosa di ospitare i tre vincitori del premio Match Point: la chiamata letteraria per racconti scritti in italiano da autori e autrici residenti nel Regno Unito. Il premio è organizzato dall’associazione londinese Il Circolo con il patrocinio del Consolato Generale d’Italia a Londra e in collaborazione con la scuola Londra Scrive.

Oggi arriviamo in cima al podio con il racconto primo classificato: per presentarlo lasciamo la parola a Giovanna Salvia, editor, tra i giurati del Premio, che ha collaborato con l’autore in qualità di editor in vista di questa pubblicazione.
QUI potete leggere gli altri racconti della terzina vincitrice.

Anche dopo tanti anni di lavoro, l’incontro con un nuovo autore rimane per un editor un momento emozionante, di confronto e reciproca scoperta. E l’incontro con Filippo Rossi è stato in questo senso davvero felice: ho trovato un interlocutore sensibilissimo, capace di cogliere al volo qualunque spunto e di farlo proprio. Non era scontato. 
Confido che, come me, i lettori di Cattedrale apprezzeranno lo humour di cui è intessuto questo racconto, in cui Filippo Rossi usa ironia, fantasia e tenerezza per giocare con le paure dell’infanzia di molti di noi.
 


Giovanna Salvia

Nero pesto

 di Filippo Rossi

 

Quando mi assegnarono il ragazzino, avevo appena finito di lavorare su un pezzo grosso, l’avvocato Pacchioni. L’incarico era stato un successo. In qualche mese ero riuscito a trasformare il pomposo oratore in un pulcino pigolante e ora la sua lingua si inceppava su ogni sillaba. Gli attacchi di panico lo assalivano all’improvviso, a vederlo in aula, tutto tremante nella toga nera con la cordoniera dorata e la pettorina di sangallo, c’era da rimanere secchi dal ridere.
Ero bravo nel mio lavoro, e per questo mi assegnavano gli intrepidi, ovvero i casi più complessi. Napoleone aveva appena valicato il colle del Gran San Bernardo quando lo presi in consegna. Era l’emblema del coraggio, ma bastarono pochi giorni per instillargli una fifa nera dei gatti, che se a Marengo gli austriaci avessero liberato qualche micetto spelacchiato sarebbe scappato in ritirata in un battibaleno. Oppure la volta dei gusci di noce e di Muhammad Ali: la creatività con cui lo avevo condizionato era passata alla Storia – la nostra, s’intende.
Fu per questo che quando un collega mi pregò di accettare il ragazzino reagii con stupore.
Mi sorprese in un angolo d’ombra nei corridoi del tribunale, Bel risultato, mi disse facendo un cenno col capo in direzione dell’aula dove l’avvocato si stava impappinando sulla parola “sinallagmatico”. Quello era un osso duro, continuò, ridendo nervoso sulla mitraglia incantata del Pacchioni. Per complimentarsi mi appoggiò una mano sulla spalla e fu allora che mi accorsi che aveva la carnagione grigiognola: aveva perduto il suo bel colorito sano e nero, anzi, sembrava quasi candeggiato.
Stai bene?, chiesi.
Fece cenno di sì con la testa, ma confessò di aver bisogno di prendersi una pausa dal lavoro, era esausto.
Forse andare ai centri ti farebbe bene?, buttai lì.
I centri..., ripeté lui con un sospiro dubbioso, a me sembrano una cosa per mezzi matti.
Gli dissi – con un po’ di commiserazione, lo ammetto – che non doveva vergognarsi di sentirsi scarico: non erano più gli anni novanta, il machismo a tutti i costi non andava più di moda. I centri erano gestiti da professionisti: le riabilitazioni erano all’avanguardia, con musicoterapia dei Rammstein, seminari di Freddy Krueger e retrospettive di Dario Argento. Vedrai, conclusi, dopo una settimana ai centri sarai completamente guarito e più nero di prima.
Fu allora che crollò. Frignando, mi chiese di occuparmi del ragazzino. Lo aveva appena preso in consegna, ma non si sentiva bene, non ce la faceva a continuare. So a cosa stai pensando, disse vedendomi titubante. Un caso così a uno come te, disse adulatorio, uno capace di far diventare le gambe di ricotta a Muhammad Ali. Che poi sono capaci tutti a far venire paura della morte, tu invece... che trovata geniale. Ricordi? Dopo il tuo trattamento sarebbe andato kappaò vedendo un gheriglio, disse sforzando un sorriso.
Mi spiegò che, al confronto, lavorare sul ragazzino sarebbe stata una passeggiata di salute. Era orfano e viveva con la nonna. Era cicciottello, impacciato, insicuro, aveva la erre moscia, era spaventatissimo dai pipistrelli e a scuola i bulli lo mortificavano. Insomma, concluse, è un lavoro poco impegnativo.
Lo guardai stupito, era davvero un compito ben al di sotto delle mie capacità, ma infine accettai. Mi spinse, forse, la pena per la sua faccia color neve sporca.
In fondo, anche se l’incarico era facile, non per questo sarebbe stato meno gratificante. La carne fresca è più ricettiva e assorbe con facilità. La questione, più che altro, è scegliere i semi adatti e piantarli accuratamente: quando lo si fa con mestiere, i piccoli timori sottopelle sbocciano in età adulta in maestose fobie. E queste sono soddisfazioni!
Il collega mi lasciò i dettagli del caso, Sei il migliore, disse prima di sparire, sollevato, sei il più nero degli uomini neri. Sei nero pesto.


Il mio lavoro con l’avvocato era terminato – a fine udienza scappò a nascondersi in bagno e si accovacciò sudato fradicio con le spalle alla porta – e, non volendo perdere tempo, iniziai col ragazzino la notte stessa. Mi sistemai sotto il letto insieme al suo brachiosauro di pezza, ma facendone spuntare fuori il lungo collo: sono un perfezionista e so che la cura nei dettagli può fare la differenza.
Restai immobile a gustare i prelibati lanicci d’annata che avevo scovato lì sotto e aspettai che la nonna, dopo avergli rimboccato le coperte, se ne andasse. Lo salutò con un bacio a schiocco sulla fronte e richiuse la porta dietro di sé lasciandoci in un buio rinvigorente.
Non mi misi subito all’opera: il ragazzino aveva cominciato ad armeggiare con il cuscino e io, incuriosito, mi affacciai da sotto il letto a guardare. Infilò un braccio dentro la federa e frugò alla ricerca di qualcosa. Guardò verso la porta per accertarsi che fosse chiusa e poi, sentendosi protetto dal buio, sfilò un barattolone di Nutella.
Svitò il tappo con lentezza come per assaporare l’attesa e affondò la mano. Estrasse le dita piene di Nutella e se le mise in bocca ancora grondanti. Restò così per un po’ a succhiarsele, poi con la punta della lingua prese a leccare lo spalmabile annidato sotto le unghie e tra le pieghe della mano. Lo lasciai finire lo spuntino e riporre al sicuro il barattolone, aspettai che si appisolasse e finalmente cominciai.
Dopo aver scostato appena le coperte dal fondo del letto, gli soffiai tra le dita dei piedi. Lui li ritrasse di scatto sentendoli di ghiaccio. Dino?, chiamò, come se aspettasse la risposta del suo brachiosauro. Beata ingenuità.
Iniziai a scuotere il letto con scariche brusche e improvvise, poi mi fermai per insinuare in lui il sospetto che fosse solo uno scherzo della sua immaginazione. Dopo un po’ il ragazzino riprese coraggio e tirò fuori la testa dalle coperte: Dino... dove sei?, disse tremolante.
Io fermo immobile. Lui si guardò intorno sospettoso e poi vide il lungo collo dell’erbivoro sbucare da sotto il letto. Allungò il succulento braccetto con cautela. Tastò fino a trovare la testa e lo tirò a sé. Dino, ti sei incastrato?, mormorò, intimorito dalla resistenza che imponevo tenendolo per la coda.
Dino?, ripeté con voce fievole mentre io trattenevo a malapena le risate. Alla terza strattonata decisi di piantarla e con l’unghia dell’indice tagliai di netto il collo del peluche. Il ragazzino tirò ancora e stavolta la testa di Dino gli rimase in mano, con un batuffolo di imbottitura che gli usciva dal collo mozzato: da morir dal ridere.
Si affacciò spaventato dal materasso e guardò sotto il letto, buuu!, urlai fortissimo, e lui guizzò fuori dalla camera, terrorizzato.

 La notte seguente, prima di andare a dormire, il ragazzino costrinse la nonna a perlustrare la stanza. Lui restò sull’uscio a distanza di sicurezza e indicava tutte le zone d’ombra. E dentro l’armadio?, le chiese non appena lei ebbe finito di ispezionare dietro la porta. E in mezzo alle tende?, continuò senza prendere fiato. E nel comodino?
La nonna, stufa di quelle manovre, lo guardò e scrollò la testa. Allora è ancora sotto il letto, insistette lui stringendosi al petto il brachiosauro, la cui testa era stata riattaccata con una collana di spille da balia. La nonna andò a prendere un manico di scopa. Si piegò con un movimento artritico e iniziò a ramazzare sotto il letto, guastando, ahimè, tutti i lanicci che erano rimasti e che avevo in mente di assaporare nottetempo, sciogliendoli sotto la lingua tra uno spauracchio e l’altro. Tesoro, disse poi rialzandosi con l’aiuto del manico, qui non c’è nessun Babau! Lui allora entrò titubante nella stanza e si infilò sotto le coperte. Se lo rivedi, disse la nonna dandogli il bacio della buonanotte, fai come ti ho insegnato.
Prima di andarsene si fermò sulla porta e si voltò a fissarlo con uno sguardo inquisitorio: A meno che...
A meno che?, chiese il ragazzino intimorito.
I Babau sono ghiottissimi di Nutella, continuò la vecchia. Sei proprio sicuro di non averlo preso tu, quel barattolo?
Lui rimase in silenzio e poi, disegnandosi una croce sul cuore, annuì.
Vabbè, disse la nonna, chissà dov’è finito.
Poi sparì lasciando la porta socchiusa e ritornò in soggiorno a guardarsi una replica del tenente Colombo.
La bugia del ragazzino mi elettrizzò. L’idea che avevo avuto la sera precedente vedendolo ingozzarsi di Nutella era originale, ma ora assumeva un significato più elevato, quasi pedagogico. Aspettai che la golosità del piccolo bugiardo facesse il suo corso e, non appena lo vidi infilare il braccio dentro la federa, mi preparai accarezzandomi la pancia. Aspettai che svitasse il tappo e poi spinsi un peto dall’odore di latte rancido. Il tanfo lo travolse non appena si mise le dita cioccolatose in bocca e fece una smorfia di disgusto.
Avevo tuttavia sottovalutato la sua ingordigia: per nulla dissuaso dal puzzo, affondò nuovamente la mano nel barattolo, e io – determinato a impartirgli un insegnamento – spinsi una loffa ancora più disgustosa, con note di uovo marcescente. Il ragazzino si leccò le dita, ma questa volta il mio tentativo andò a segno. Richiuse il barattolo e lo nascose sotto il cuscino.
Qualche collega pedante avrebbe segnato a dito questo mio comportamento, definendolo frivolo o poco rispettoso della deontologia professionale. Ma era proprio questo che mi rendeva uno dei migliori: la capacità di dare alla paura forme non convenzionali; prima di spaventare mi piaceva creare l’atmosfera adatta, perché con le giuste premesse la paura non avrebbe abbandonato mai più le mie vittime. Insomma, spaventare era per me un’articolata esperienza sensoriale e volevo che il terrore inflitto rimanesse vivido e tornasse a galla risentendo un odore, un suono.
Il ragazzino ci mise un po’ ad addormentarsi, ma io non avevo fretta. Lo svegliai percuotendomi il petto e producendo un tonfo di tamburi, poi iniziai a dare dei colpi secchi da sotto il materasso. Colpivo a casaccio, per non dargli la possibilità di capire da dove sarebbe arrivata la botta successiva. Piagnucolando, si tirò le coperte sopra la testa, sempre tenendo stretto quello stupido brachiosauro. Io presi le coperte per i lembi che penzolavano ai piedi del letto. Tirai come quando si vuole sfilare la tovaglia senza muovere le stoviglie e lo lasciai esposto. Poi, per evitare che ritrovasse rifugio, le appallottolai e le lanciai sopra il lampadario. Lui si alzò in piedi sul materasso e con degli affannosi saltelli cercò inutilmente di afferrarle. Alla fine ci rinunciò e si rintanò come poteva, cacciando la testa sotto il cuscino. Pareva uno struzzo.
Fu allora che allungai un braccio furtivo da sotto il letto, afferrai il cuscino, glielo strappai via e, con una mira degna di Roberto il-Divin-Codino Baggio, lo calciai sopra il lampadario a fare compagnia alle coperte.
Lui iniziò a frignare più forte e si mise a pancia in su a guardare impotente il lampadario che oscillava come un pendolo. Era terrorizzato, e mi sembrò il momento giusto per quel rinforzo sensoriale grazie al quale la paura si sarebbe sedimentata. Decisi di esalare nuovamente, e qui mi venne il colpo di genio. Di certo, il regime alimentare di ogni bambino scarseggia di crucifere. Quindi, a occhio e croce anche la nonna del ragazzino cercava di fargli seguire una dieta sana ed equilibrata, preparando almeno un paio di volte alla settimana la verdura lessa. Spinsi allora un peto fenomenale, calibrando un odore preciso: broccolo e cavolo bolliti. Già vedevo la mia vittima scoppiare in lacrime ripensando a questo spavento, non appena gli fosse stato servito un bel piatto di vegetali lessi. Terrorizzato dal cibo con troppa fibra: sembrava una barzelletta.
Si tappò il naso, ma continuò a singhiozzare. Poi si fermò all’improvviso e con una voce acuta si mise a farfugliare qualcosa.
Stava veramente facendo quello che pensavo? Ero basito.
Rifilai un calcio così potente da alzare il materasso e allora la voce del ragazzino si fece più nitida: Cuccurucucu palomaaaa, ahia-iaia-iai cantavaaaa.
Stava cantando! Mi era capitato di sentire qualche soldato in trincea cantare per farsi coraggio, ma questo era davvero grottesco. Rimasi in ascolto, sbigottito.
Si abbracciò poi al suo peluche rabberciato. La nonna, gli sussurrò all’orecchio, dice che se arriva l’uomo nero gli devo cantare una canzone. Quindi, riprese fiato e ricominciò: Il mondo è grigio, il mondo è blu...
Mi cascarono le braccia e, in preda alla frustrazione, decisi che avrei completato l’opera la notte successiva. La mia non era di certo una resa, ma ero così allibito che mi sarebbe stato difficile continuare a lavorare con professionalità. Dopotutto, il mio lavoro era fatto soprattutto di attese e di paziente anticipazione; o, per dirla con il Maestro, Non c’è terrore in uno sparo, ma solo nell’attesa di esso.

La notte successiva la luna era piena. Entrava nella camera argentando una parete e facendola sembrare una tela. Quel chiarore mi ispirò un’idea geniale e riuscii a malapena a trattenere l’emozione: fremevo dalla voglia di metterla in pratica, ma, come sempre, per entrare in azione aspettai che la nonna se ne fosse andata. Prima di raggiungere l’amato Peter Falk, diede il solito bacio della buonanotte al nipote e poi si raccomandò di non lanciare le cose per aria (ero rimasto a guardarli divertito mentre disincagliavano dal lampadario cuscino e coperte: il ragazzino la teneva per le gambe mentre lei rifilava dei colpi con il manico della scopa. Pareva dovesse rompere una pignatta piena di dolcetti).
Forse fiaccato da tutto quell’esercizio, il ragazzino si addormentò non appena posata la testa sul cuscino. Io non persi tempo e girai lentamente il letto posizionando la testiera davanti alla finestra e lasciandolo di fronte alla parete argentata. Lo svegliai sussurrandogli all’orecchio il verso del pipistrello e poi mi accucciai tra la luce lunare e la parete, dove avrei proiettato uno spaventoso spettacolo di ombre.
Aprì gli occhi disorientato e, stringendo il suo brachiosauro, attaccò con la solita lagna – questa volta, un malinconico Tiziano Ferro.
Stanco di quella pagliacciata, allargai le spalle e, tenendo le mani sui fianchi, spinsi in fuori i gomiti disegnando sul muro una formidabile apertura alare. Sfoderai gli artigli alla luce lunare e sulla parete si materializzò una micidiale fila di zanne: la creatura proiettata era un maestoso pipistrello che strideva e si gonfiava con una ferocia terrificante.
Il ragazzino rimase paralizzato a guardare il chirottero, era sul punto di scoppiare in lacrime dalla paura. Poi si allungò verso il comodino e premette l’interruttore dell’abat-jour, che proiettò sulla parete una nebulosa di stelle. L’Orsa Maggiore si impresse come un diadema sulla fronte del pipistrello e sulle enormi orecchie apparvero due ciondoli fru fru: la costellazione della Lince e quella del Centauro. Il terribile animale pareva si fosse conciato per andare al carnevale di Rio!
Tentai di schivare tutte quelle stelle che ingentilivano i connotati della mia ombra, iniziai a stridere più forte e a muovere le ali creando un frullio raccapricciante. Ma, preso com’ero, non mi accorsi che il ragazzino non solo aveva ricominciato a cantare ma adesso addirittura rideva, tra una parola e l’altra. Guardai il muro per capire cosa ci fosse di divertente e mi accorsi che tutto quel dimenarmi era diventato una ridicola coreografia: pareva che il temibile pipistrello ballasse una Macarena o, forse peggio, il Gioca jouer di Claudio Cecchetto.
Mi rifugiai sotto il letto per la vergogna. Avevo il fiato corto e mi accorsi che le mani mi si stavano sbiancando. Pensai con orrore ai centri e a tutte le pratiche riabilitative che impartivano agli uomini neri falliti e diventati pallidi, quegli stessi centri che – sentendomi superiore – avevo consigliato al mio collega. Proprio io, che in passato avevo terrorizzato Napoleone, Muhammad Ali e tanti altri intrepidi... davvero non ero più capace di spaventare?
Mi sentii attanagliato da una sensazione nuova e terrificante: avevo forse paura?
Strinsi le ginocchia al petto e appoggiai la schiena al muro, ero smarrito.
Il ragazzino fece capoccella dal fondo del letto e io ebbi un sussulto, Non devi aver paura, mi disse con gentilezza prima di rotolare vicino a me. Lo guardai incredulo. Poi, vedendomi turbato, fece segno di aspettare e riapparve col barattolone di Nutella. Ci affondò dentro due dita e me le infilò in bocca, come se fossi stato un cucciolo da nutrire.
Restammo lì, le labbra impiastricciate: io con le mie paure, lui con le sue. Poi mi strinse forte la mano e le nostre paure, messe insieme, diventarono niente.

La mattina eravamo ancora uno accanto all’altro.
Cercai di sfilare il braccio da sotto la sua testa senza svegliarlo e mi guardai la mano con stupore: era candida.
Il ragazzino si svegliò e mi fissò dritto negli occhi: Vorrei poterti mostrare tutta la luce che emani, disse, e corse via.
Tornò con il fiatone, reggeva uno specchio sotto il braccio, ma io, insieme a tutte le sue paure, me n’ero già andato.

Il falò: il racconto secondo classificato al Premio Match Point

Cattedrale è orgogliosa di ospitare i tre vincitori del premio Match Point: la chiamata letteraria per racconti scritti in italiano da autori e autrici residenti nel Regno Unito. Il premio è organizzato dall’associazione londinese Il Circolo con il patrocinio del Consolato Generale d’Italia a Londra e in collaborazione con la scuola Londra Scrive.

Oggi vi proponiamo il racconto secondo classificato: per presentarlo lasciamo la parola a Olga Campofreda, scrittrice, tra i giurati del Premio, che ha collaborato con l’autore in qualità di editor in vista di questa pubblicazione.
Il racconto vincitore del Premio sarà pubblicati nelle prossime settimane.
Mentre QUI potete leggere il terzo classificato.

Scavando dentro le sfumature del linguaggio, Il falò di Giovanni Biglino riesce a restituire i toni dell’innocenza nel momento liminare in cui – proprio come un fuoco – questa comincia lentamente a consumarsi. Lavorando al testo insieme all'autore, in qualità di editor, sono tornata indietro al tempo della coscienza ingenua, provando a ricordare cosa significasse percepire certi sentimenti per la prima volta; quali stupori, e quali paure si accompagnassero all’eccitazione di avvicinarsi a un territorio – quello dell’adolescenza – tanto desiderato quanto temuto, perché ignoto. 

Olga Campofreda


Il falò
di Giovanni Biglino

 

“Non posso credere che non ci abbia avvertito! Non vedi quanto è grossa?”
La zia Umberta era furente. Aveva le maniche del golf tirate su oltre i gomiti e aveva appena sbattuto una mano sul tavolo con rabbia.
“Non è il caso di agitarsi, Bubi.”
Nonna Clara era l’unica a chiamare la zia con quel soprannome, oltre allo zio Carlo. Con la non più tanto innocente perspicacia dei miei tredici anni sospettavo che lo facesse consapevole di darle fastidio.
“Guarda, è enorme!”
La nonna, seduta a un’estremità del grande tavolo deserto, si alzò sospirando: “È solo una crepa.”
Era effettivamente una crepa molto profonda che correva da un angolo del soffitto fino al pavimento della sala da pranzo. Una lunga linea spezzata nera sulla parete bianca, accanto all’enorme fotografia di un artista tedesco che la zia Paola aveva portato durante l’inverno. Ero appoggiato a uno stipite della porta, alle spalle di mia zia, e guardavo la stanza. Era una grande stanza ma abbastanza spoglia: a parte la fotografia, raffigurante la Borsa di Hong Kong, e il lungo tavolo da dodici al quale dovevamo comunque stringerci (al completo eravamo tredici), c’erano un paio di lampade moderne e un vecchio mobile cupo nel quale si tenevano i piatti e i bicchieri più belli. 
La nonna uscì nella direzione opposta alla mia, verso la cucina, seguita dalla zia. Prima di girarmi, mi soffermai a guardare quella crepa – la sua forma, il suo movimento.
Era settembre. La scuola sarebbe ricominciata in una settimana, che in quel momento pareva infinita. Avrei iniziato il liceo e mi sembrava un evento, anche se cercavo di non darlo a vedere (essere indifferenti era più maturo o quanto meno più intrigante). Un evento che era del resto oscurato da un altro che, agli occhi di tutta la famiglia, era ben più importante: mio cugino Edoardo, il più grande tra noi, aveva superato l’esame di maturità a pieni voti e sarebbe partito la settimana seguente per studiare legge al Trinity College di Dublino. La cosa assumeva ancora più peso dal momento che il nonno era stato un professore di Diritto e, sebbene ormai in pensione, era ancora conosciuto in ambito accademico e continuava a venire invitato a parlare a convegni e conferenze. Era raro che fossimo tutti in campagna, in quella grande casa di mattoni che il padre di nonna Clara aveva fatto costruire sulle colline dell’astigiano all’inizio degli anni Cinquanta. Per molti degli adulti la casa fungeva da rifugio in quegli anni in cui, prima della diffusione di internet, c’era solo un vecchio telefono di bachelite di cui nessuno comunque aveva il numero. Ora c’eravamo tutti, riuniti per salutare Edoardo prima della sua partenza. C’erano i nonni, che spesso invitavano i loro amici in campagna e che con noi imponevano modi leggermente più formali a tavola. C’erano lo zio Carlo e la zia Umberta, i genitori di Edoardo, con i loro altri due figli, Matilde e Alessandro. C’era la zia Paola, arrivata il giorno prima da Siena con mio cugino Manfredi. E poi i miei genitori, Guido ed Elsa, con mio fratello Hugo, tutti i nostri libri (quelli che servivano alla mamma per lavorare e quelli di Hugo, che era stato rimandato di latino e di greco) e il nostro cane, un bovaro dell’Entlebuch che Hugo aveva chiamato Nina.
Una particolarità di noi cugini era che eravamo nati quasi a un anno esatto l’uno dall’altro, con uno scarto di qualche mese. Prima Edoardo, poi Manfredi, e a seguire Hugo, Matilde, Alessandro e infine io. Come diceva la nonna: “Tobias chiude la fila”. Un’altra particolarità era che, pur non assomigliandoci molto fisicamente, salvo qualcosa di vago nel modo di muoverci e nell’essere tutti non particolarmente alti, avevamo tutti gli occhi verdi. Varie sfumature di verde, a dire il vero, da un verde giallastro al verderame, ma tutti verdi. Erano gli occhi della nonna Clara, l’unica in famiglia ad averli di quel colore. Quando qualcuno commentava questo dettaglio, lei rispondeva fiera: “Sono gli occhi di mio padre.” (Una delle volte in cui questa scena si era ripetuta avevo sentito la zia Paola commentare: “Parla sempre con ammirazione di suo padre” e lo zio Carlo aggiungere: “È lui che ha fatto la fortuna di questa famiglia.”)
Ero uscito in giardino. Era uno di quei pomeriggi di settembre ancora caldi ma languidi, come un frutto troppo maturo, che raggiunge il punto massimo della dolcezza proprio in quell’attimo di decadenza incipiente. Le portefinestre erano bordate di gelsomini dalle foglie lucide e vasi di ortensie segnavano l’inizio del prato che digradava dolcemente. Oltre ancora, vicino a un ippocastano, c’era un grande gazebo sotto il quale spesso pranzavamo. Mia madre era seduta al lungo tavolo, da sola. Stava lavorando. Pur essendo di spalle, avvertì la mia presenza, si girò e mi chiamò sventolando una mano. I suoi libri erano aperti sul tavolo.
La mamma era nata in Austria, a Innsbruck, figlia di un pianista che insegnava al conservatorio e di un’insegnante di francese, anche lei appassionata di musica. I nonni materni erano morti entrambi quando ero piccolo e il ricordo era sbiadito – una signora seduta al pianoforte, un grande divano foderato di velluto giallo, la neve, un vecchio sdraiato a letto. Avevo saputo attraverso i racconti della mamma del loro amore per l’Italia, delle vacanze trascorse a esplorare diverse regioni, della loro curiosità per piccoli borghi più o meno abbandonati. Fu durante una di quelle estati che aveva conosciuto mio padre. Ai nonni, e alla nonna Clara in particolare, quella nuora straniera non era mai dispiaciuta. Oltre a una certa allure internazionale, la nonna riconosceva che “Elsa non si fa mai mettere i piedi in testa”, una qualità che la nonna rispettava sempre.
Parlando correntemente quattro lingue, la mamma lavorava come traduttrice, soprattutto dal tedesco all’italiano. Avevo colto, da conversazioni con mio padre e stralci di telefonate, che stava traducendo il romanzo di un giovane scrittore tedesco acclamato dalla critica, una sorta di diario delle ferite subite da un bambino cresciuto in una famiglia violenta in una Berlino ancora divisa in due. Anche se mi consideravo un discreto lettore per i miei tredici anni, quel tomo di settecento pagine incuteva rispetto.
“Com’è il libro?”
“Irritante” disse sorridendo.
“Perché?”
“Si sforza di essere scioccante.” Chiuse un quaderno e si appoggiò allo schienale della sedia. “O forse è solo un po’ deludente, in ogni caso è lavoro.”
Pensai che non volesse essere disturbata. “Vado a cercare gli altri.”
“Hugo e Manfredi stanno giocando a tennis, credo.” Allungò la mano verso una tazza e mentre la portava alle labbra aggiunse: “Ricorda che non manca molto per cena.”
Mi allontanai e, mentre camminavo sul vialetto di ghiaia, mi voltai. A vederla così, di spalle, concentrata sui libri, i capelli biondi raccolti, una t-shirt bianca, i jeans arrotolati, i piedi scalzi, mi sembrava una studentessa. La mamma era così diversa dalle zie.
Camminando lungo il muretto oltre il quale erano le vigne, vidi mio cugino Alessandro che arrivava di corsa dalla direzione opposta. Quando mi raggiunse mi chiese dove stessi andando.
“A cercare gli altri.” Mi guardai indietro. “Stavo parlando con mia madre, ma sta lavorando.”
“Mia madre oggi è fuori di testa invece.”
Ripensai alla zia Umberta che sbatteva la mano sul tavolo. “Per la crepa?”
“Per cosa?”
“La crepa. Quella in sala da pranzo. Non l’hai vista?”
Chiaramente Alessandro non sapeva di cosa stessi parlando. Intanto quella linea nera si era già allargata nella mia immaginazione. Avrei voluto guardarci dentro.
“Comunque ci hanno dato il permesso” riprese Alessandro.
“Per cosa?”
“Per il falò.”
“Fantastico!”
Ne avevamo parlato da quando eravamo arrivati.
“Ma come…”
“È bastato che Edo lo chiedesse alla nonna.”
Ovviamente.

 

*

Entrando in sala da pranzo quella sera capii che sarebbe stata una serata speciale. Una delle vetrate era aperta e lasciava entrare un pezzo di cielo viola striato di giallo. L’aria della sera era fresca. Teresa, che ricordavo da sempre in quella casa, stava finendo di apparecchiare con i piatti più belli (alla nonna bastava dirle: “I Richard Ginori col bordo blu”). La zia Paola, vestita di nero come suo solito, stava accendendo delle grosse candele. La mamma, che era ancora scalza ma ora sopra ai jeans indossava una camicia di seta, stava posando in tavola un gran numero di bicchieri.
Quando entrò la nonna, alla vista di tutti quei bicchieri chiese: “Abbiamo intenzione di ubriacarci?” Dietro di lei entrò Matilde, la nostra unica cugina femmina, della quale eravamo tutti un po’ infatuati. Reggeva per i manici un grosso vassoio carico di altri bicchieri e lo porse a mia mamma. Ci scambiammo un veloce sguardo d’intesa. E subito dopo ne scambiai un altro con Edoardo, che stava portando una grossa cesta di legna per il camino del salone: le sere di fine settembre erano già umide. Edo era seguito da Nina, che annusava la cesta di vimini ed era eccitatissima per la confusione. E anche noi eravamo eccitati, tutti e sei, di un’eccitazione vibrante.
La cena fu un trionfo. Il nonno, seduto accanto a Edoardo, era visibilmente compiaciuto. Quanto a nostro cugino, benché fosse lui il protagonista della serata, fingeva elegantemente di non esserlo. Forse parlavano di testi di studio, teorie, professori che il nonno aveva conosciuto, ma essendo pinzato tra Matilde e Manfredi al lato opposto del tavolo non riuscivo ad ascoltare. Ammiravo un po’ quella vicinanza tra i due, ammiravo il fatto che Edoardo fosse abbastanza adulto da avere una conversazione così seria (almeno sembrava) col nonno. Lo zio Carlo era abbronzato e parlava con la zia Paola. I bicchieri riflettevano la luce delle candele. Tutti ridevano o comunque erano allegri. Da un lato le vetrate erano ora nere e davano sul prato e, oltre, sulle vigne immerse nel buio, dall’altro potevo vedere la Borsa di Hong Kong. La zia Umberta stava decantando le qualità dei pomodori dell’orto di Teresa, gli ultimi di quell’anno, ancora così profumati e perfettamente maturi in quello strascico di estate. Dunque quelli eravamo noi, stretti in tredici intorno al tavolo da dodici. Facevamo finta di essere una famiglia qualunque, e forse in fondo lo eravamo. L’unica nota stridente era quella lunga crepa nera sulla parete alle mie spalle, che nella luce bassa della sera forse si notava meno, forse era più sfumata (senza inizio e senza fine), in ogni caso nessuno ne aveva più parlato. Ripensandoci, eravamo tutti consapevoli del fatto che quella non era l’unica incrinatura. Non si parlava mai dello zio Federico, dal quale Paola aveva divorziato quando Manfredi era piccolo. (Si erano conosciuti all’università, lui erede di una vecchia famiglia fiorentina, lui che aveva poi introdotto la giovane moglie nel mondo dell’arte.) Non si parlava mai neanche di quel brutto incidente, quando lo zio Carlo era al volante, qualche anno prima. Non si parlava categoricamente del leggero tremore della mano sinistra della nonna. C’erano successi più freschi di cui parlare, di gran lunga più eccitanti. Forse era più semplice non parlare delle incrinature. La nonna non sopportava – come diceva lei – i piagnistei, né tantomeno – rivedevo la sua faccia poche ore innanzi, seduta a quello stesso tavolo, a capotavola – le crepe sulle pareti della sua casa.
Teresa aveva preparato (“apposta per Edoardo”) il dolce di albicocche e pistacchi, del quale rimaneva soltanto un pezzo nel piatto da portata. Avevamo allontanato le sedie dal tavolo, il nonno aveva acceso un sigaro, papà e la zia Paola fumavano una sigaretta, la mamma era andata in cucina a fare il caffè. Quando poi la nonna disse: “Se volete, voi potete andare” chiaramente rivolta a noi cugini, ci fu un rombo di sedie trascinate. Nina, che era sdraiata sotto al tavolo, abbaiò e cominciò a correre tra le nostre gambe. Rivolto ai nonni e con una giusta dose di formalità nel suo ruolo di capobranco, Edoardo ringraziò per la cena a nome di tutti. (Si poteva anche mangiare scalzi a casa nostra, ma si doveva sempre mantenere un certo tono, soprattutto coi nonni.) Ci stavamo già allontanando mentre alle nostre spalle la zia Umberta ammoniva: “Prendete un golf!” e la zia Paola: “Matilde, prendi la mia sciarpa!”. Mia madre arrivava in direzione opposta, reggendo il vassoio con tazzine e caffettiera: “Spaß haben!

 

*

La legna profumava di estate e di sole. Ci avventammo sulla catasta, ognuno caricando una cesta. Matilde apparve alla porta della cucina – con la grande sciarpa della zia Paola attorno al collo – tenendo in mano la scatola dei fiammiferi, un accendino, una bottiglia di alcol e un fascio di vecchi giornali.
Edoardo faceva strada con una torcia, attraverso il prato, lungo il muretto, oltre le vigne, seguendo un percorso che conoscevamo da sempre. Ci muovevamo nel buio. Ridevamo. Il tono dei discorsi era decisamente cambiato rispetto a quando eravamo a seduti a tavola coi nonni. Sentivo Edoardo e Manfredi che, alcuni passi più avanti, parlavano di una ragazza francese conosciuta alla scuola di vela quell’estate, con la quale erano stati entrambi. Arrivammo fino a un campo brullo, ai margini della tenuta. Era il luogo che avevamo prescelto. Nel pomeriggio Edo e Alessandro avevano già accumulato dei grossi rami che erano stati tagliati da un vecchio noce caduto durante una bufera di vento all’inizio dell’estate. Tutto si svolse con solennità: appallottolare le pagine dei giornali, infilare la carta sotto i rami, stendere le coperte che avevamo portato con noi, aggiungere rami più piccoli, decidere come ci saremmo seduti (a due a due sulle coperte). Il falò stava per essere acceso. Rimase in piedi solo Edoardo, che si piegò in avanti e fece brillare un fiammifero.
Il fuoco divampò in un attimo. Fummo illuminati da riverberi gialli, rossi, rosa, e travolti dal forte crepitio della legna secca che prendeva fuoco. Eravamo tutti in silenzio e restammo in silenzio alcuni minuti. Eravamo abbagliati, gli occhi (verdi, tutti) sgranati, mentre tutto intorno una campagna nera dormiva negli sgoccioli dell’estate. D’improvviso Hugo si alzò in piedi, gettò altri due ciocchi nel fuoco e, subito dopo, Edoardo fece lo stesso. Quel fuoco sgomitava in ogni direzione e lanciava zampilli arancioni e rossi (ma avrebbero potuto anche essere blu e bianchi e verdi). Il silenzio non era silenzio tale era la voce di quel fuoco.
Il primo a parlare fu Manfredi: “Edo, mi dai una sigaretta?”
Così un pacchetto di Gauloises cominciò a passare da uno all’altro. Dopo essersene accesa una, Matilde, che era seduta accanto a me, mi porse il pacchetto, pronunciando il mio nome come se fosse una domanda: “Tobias?”. Un po’ per non essere escluso da quel rito e un po’ per non sentirmi da meno, quella notte fumai la mia prima sigaretta.
Eravamo seduti intorno al fuoco, come in un rituale iniziatico o una cerimonia pagana. C’era qualcosa di ancestrale nell’aria, come tra le pagine di un libro d’avventura. Eravamo sei bambini ma anche sei adulti e sei eroi. Tutti ricordavamo altri falò, sempre presieduti dal nonno, ma questa volta eravamo solo noi. Immobili in quella notte dilatata, circondati da campi neri, alberi neri, siepi buie e terra umida, continuavamo a nutrire quel fuoco che si dimenava, si alzava, si abbassava, e sputava scintille ogni volta che uno di noi a turno buttava un ciocco o un ramo tra le fiamme. Ero stregato dal suo movimento.
Dopo un tempo indefinito, con la sua solita autorevolezza, Edo commentò: “Ora basta, deve cominciare a spengersi.” Guardammo allora le fiamme che si abbassavano su incandescenti pezzi di rami arancioni e rossi (come un secolo prima Derain e Vlaminck avevano dipinto i rami degli alberi della Costa Azzurra, ma ancora non lo sapevo). Le braci pulsavano e noi ancora parlavamo e ridevamo. Si percepiva adesso, denso, l’odore di quel falò. Era entrato nella lana dei nostri golf e delle nostre coperte, si era posato sui nostri capelli. Era un odore famigliare, antico, primitivo. La casa pareva solo un’idea. Le luci delle sigarette brillavano, sospese nel buio. E, come da contraltare, laggiù in fondo vicino alla siepe si vedeva ancora qualche lucciola.
Sentii improvvisamente un brivido e poi un altro. Non osai dire niente ma mi chiesi se anche gli altri cominciassero a sentire freddo. Era qualcosa che dalla terra umida di notte e dalla notte stessa saliva lungo la mia schiena. Improvvisamente, in un attimo sospeso tra intuizione e consapevolezza, vidi contro il cielo scuro la linea spezzata della crepa nera e mi resi conto che quel freddo era paura. Paura che qualcosa stesse per finire. Paura che qualcosa fosse già finito. 
Era come se una gelida mano invisibile mi tirasse il respiro giù in basso verso lo stomaco lungo la via del ritorno. Tornavamo sui nostri passi, un po’ più grandi, un po’ più illusi, certamente uniti, e tutto era ancora lì: le siepi, le vigne buie, il muretto, il prato, le panchine di pietra che brillavano discretamente nella notte. Dietro di noi, ormai lontani, c’erano i riflessi del falò e la certezza della sua mancanza – il buio dopo lo splendore, l’umido della notte dopo il calore.
Quella sensazione era ancora percepibile, anche se già ammorbidita, quando ci separammo lungo il corridoio del primo piano, tra risa sommesse e parole bisbigliate, ciascuno diretto nella sua stanza (io in quella con le pareti dipinte di un verde sbiadito che dividevo con Hugo). Non sentivo più il freddo, ma la tensione nel petto c’era ancora. Avrei voluto ignorarla, quella paura. In realtà (non avrei potuto capirlo in quel momento, ma solo anni dopo, guardando indietro) non era proprio paura, ma il suo principio.
Anni dopo avrei imparato a riconoscere quel sentimento: una colazione abbagliante di sole e di blu l’ultimo giorno di un’epica vacanza in Grecia; una certa armonia tanto unica quanto non studiata nel suo essere legata a un luogo (quella casa) e a un momento (i nonni ancora vivi, i problemi ancora nascosti); la percezione del forte cambio di tono negli scambi di messaggi precedenti l’appuntamento al nostro pub preferito in cui un bellissimo ragazzo danese mi chiederà di smettere di vederci; sedersi a pranzo tutti e sei in un ristorante di Londra sapendo di dover discutere la vendita della tenuta. Era il contatto con l’attimo che precede la fine delle cose, come il sole che sparisce all’ora del tramonto, quel raggio verde così romantico ma anche inesorabilmente triste.
Mi rigirai nel letto un paio di volte. Tenevo gli occhi chiusi, ma sentivo quasi fisicamente che quei pensieri mi tenevano sveglio. Quando finalmente sentii la rilassatezza del sonno, pensai di rivedere il falò in tutta la sua bellezza e invece mi trovai davanti la crepa nera sul muro della sala da pranzo. Decisi allora di entrarci dentro.

L'ammutinamento: il racconto terzo classificato al Premio Match Point

Cattedrale è orgogliosa di ospitare i tre vincitori del premio Match Point: la chiamata letteraria per racconti scritti in italiano da autori e autrici residenti nel Regno Unito. Il premio è organizzato dall’associazione londinese Il Circolo con il patrocinio del Consolato Generale d’Italia a Londra e in collaborazione con la scuola Londra Scrive.

Da oggi pubblicheremo i racconti vincitori del premio a partire dal terzo classificato: per presentarlo lasciamo la parola a Daniele Derossi e Paolo Nelli, scrittori, tra i giurati del Premio, che hanno collaborato con l’autore in qualità di editor in vista di questa pubblicazione.
Gli altri racconti vincitori saranno pubblicati nelle prossime settimane.

L’ammutinamento è un racconto breve che riesce nel difficile compito di muoversi nei tempi lunghi e, nel respiro, fa pensare inevitabilmente a Moby Dick. Anche lo stile di scrittura perseguito da Simone Sturniolo tende in quella direzione e ambisce a fare da eco alle grandi avventure di mare. Nella ricerca di terre lontane, nell’ostinazione di dover andare, si nasconde la metafora dell’esistenza e la nave diventa il microcosmo dove sogni e vita e morte sono, per noi che leggiamo, la stessa cosa. Il mare è il protagonista onnipresente eppure quasi invisibile perché è la nebbia a dominare il racconto. Non si sa dove, ma bisogna andare. 

Daniele Derossi e Paolo Nelli

L’AMMUTINAMENTO
di Simone Sturniolo

La nave va anche se il porto è lontano, la nebbia è fitta e il Capitano è cieco. Io sono solo un mozzo e di navigazione so poco, però anch'io mi rendo conto che le cose bene non vanno. Mi sono imbarcato un'eternità fa, con la promessa di lavoro duro, ma paga certa, e una speranza di scappare e vedere il mondo. Ora non ricordo nemmeno più la sensazione della terra sotto i piedi, solo legno che scricchiola e fa su e giù, destra e sinistra, di continuo. La nebbia è calata quasi subito, il vento ci ha lasciati, ma la nave va comunque avanti, trascinata forse da una qualche corrente marina, oppure semplicemente fluttua alla deriva. Il Capitano passa lunghi minuti a prua. Arriccia il naso, dilata le narici, pizzica le labbra spaccate con i denti e fa saettare la lingua tra i peli della barba decorata di sale, poi si gira, ci fissa addosso quelle due orbite nere e vuote e tuona: «Avanti così, ciurma! La rotta è buona!», ogni volta. Per cui, noi si va avanti. La rotta è buona.
Il cibo scarseggia. Ha scarseggiato per molto tempo ormai. La stiva è una caverna, illuminata solo dal bagliore delle lampade a olio, piena di barili per lo più vuoti. Ogni tanto se ne apre uno e ci si trova delle strisce di maiale secco, delle gallette, o se è un giorno fortunato, del rum. Lo svuotiamo, ci riempiamo lo stomaco per qualche ora. Per i crampi c'è sempre tempo. Non sappiamo quanti barili pieni ancora restino, l'inventario non c'è mai stato, o se c'era, è andato perduto. Spesso si sente qualcuno parlare del giorno in cui il cibo finirà:
«Allora sì che cominceranno i guai»; ma è sempre un giorno a venire, chissà quando, come il ritorno di Cristo. Per ora, il cibo dura.
Di acqua ce n'è fin troppa; non parlo del mare, parlo della nebbia. È densa e fredda e si condensa in gocce al contatto con le cose. Non abbiamo più riserve e i marinai hanno preso a leccarla dalle superfici di metallo, o a spremere i vestiti fradici e bere l’acqua che ne cola. A volte bevono la loro stessa urina, ché dispersi in mare è meglio non buttare via niente. E poi ogni tanto c'è il rum.
Il porto, non sappiamo quanto disti. Il Capitano dice che è questione di giorni ormai, ma lo dice da mesi, mesi che sembrano anni. Con questa nebbia anche i più esperti di noi non sanno dove sbattere la testa, figurarsi io che la rotta non l'ho mai fatta. Non si vede un'isola, un punto di riferimento; dal sole capiamo che ci stiamo muovendo verso ovest, ma nulla di più. Nessuno prova a mettere in discussione il Capitano; non ha gli occhi, ma le orecchie gli funzionano benissimo. Basta che il vento gli porti un sussurro di dissenso o scontento perché si finisca legati all'albero maestro a prendere frustate finché il nerbo si porta via la pelle e comincia a scavare solchi nella schiena. A volte guariscono, a volte no; e in quel caso, dopo pochi giorni, abbiamo un marinaio di meno, e gli squali un pasto in più. È un uomo feroce, spietato e sicuro, il Capitano; probabilmente è questa vita che lo ha reso così. Anche l'oceano è feroce, spietato e sicuro.
Quando il Capitano dorme, sotto coperta il malcontento si fa sentire eccome; la ciurma parla, e le parole non sono gentili. Sotto sotto lo pensiamo tutti che questo viaggio è folle, che il cibo finirà, che il Capitano è cieco e che noi si sta andando in bocca ai pesci o dritti all'Inferno. Ma malcontento senza speranza non è ribellione, solo frustrazione, e per lo più noi speranza non ne abbiamo. L'unico veramente diverso è il Secondo. Il Secondo è giovane e ambizioso, sempre il primo sul ponte, sempre l'ultimo in branda. Un ordine pronto sulle labbra in ogni situazione; il Capitano sbuffa e si acciglia quando si sente le parole tolte di bocca, ma alla fine tollera, perché sa che di solito il Secondo ha ragione, e se qualche volta sbaglia, è una buona occasione per sfogarsi dandogli una strigliata. Quando il Capitano è crudele, il Secondo è magnanimo, punisce con mano lieve, e quando c'è il rum divide la sua razione con noi, perché lui non beve in servizio. Poco a poco, ha conquistato le orecchie e i cuori della ciurma. E quando parla, poco a poco, lo si ascolta sempre di più.
«Il Capitano», dice una sera, «è un imbecille, un arrogante, un pazzo. Si crede un favorito del Dio del Mare; l'ho sentito io sussurrare alle onde, dire all'oceano di portarci dove desidera, promettere di dargli in pasto sacrifici umani. Ho provato a consigliargli la rotta, ma è l'unica cosa su cui non mi ascolta per niente. Si infuria, invece; una volta mi ha colpito con un pugno solo per averlo suggerito, e ha minacciato di farmi frustare. Non c'è alternativa, dobbiamo levarcelo di mezzo; è questione di vita o di morte.»
A questo punto solleva lo sguardo e nella sua voce la speranza sostituisce il rancore. «Se vi potessi guidare io - oh, vedreste! La situazione sembra disperata, ma vi assicuro che per un navigatore con le giuste tecniche, con l'esperienza e l'occhio per osservare i segni, questa nebbia è come se non ci fosse. Ne usciremmo in un nonnulla, e poi, oh!, dove potremmo guidare questa nave! Non solo al porto, ma oltre ancora - a commerciare spezie e zucchero in acque calde, ricche di pesci, il sole su di noi, il mare sotto e una vista fino all'orizzonte! Niente più fame, niente più nebbia, gli uragani li eviteremmo con la destrezza e l'astuzia. Il Paradiso, e vi garantisco che avreste tutti la vostra giusta dose di congedo per godervelo al meglio. Lo vedete come lo vedo io? Riuscite a immaginarlo?»
E in quegli occhi castani, al bagliore della lampada, si riflette un breve lampo dorato, e sì, ce le vediamo tutti quelle mitiche spiagge tropicali, lo zucchero, il sole. I nostri cuori induriti dal sale per un momento battono all'unisono. Ci crede, il Secondo, in quelle spiagge assolate, e ci crediamo anche noi. Il nostro fato si decide allora.
Al Paradiso non s'arriva senza prima passare per l'Inferno. L'ammutinamento scoppia quella notte stessa, e nel buio illuminato solo dalle lampade e dai bagliori delle sciabole si consuma un massacro. Io resto in disparte; ci ho creduto anch'io, un poco, a quelle spiagge, ma sono in ultimo un codardo, e non so tirar di spada, quindi mi tengo discretamente indietro. Il Capitano ha ancora un po' di fedelissimi, ufficiali leali ai suoi ordini e marinai convinti che il Secondo ci porterà alla rovina. Alcuni vengono afferrati nelle loro brandine e sgozzati; i loro ultimi gorgoglii si confondono con lo sciabordare delle onde tra cui vengono gettati, ancora vivi. Poi qualcuno si sveglia, grida, organizza una difesa, e la nave intera diventa un campo di battaglia. Io e pochi compagni ci preoccupiamo di spegnere i fuochi che scoppiano ogni volta che qualcuno rovescia una lampada. Teste fracassate, pance sbudellate. Il ponte è coperto da una mistura viscida di acqua e sangue; qualcuno scivola fuoribordo. Non ci sono spade abbastanza e alcuni combattono con quel che trovano. Uno usa una bottiglia spaccata come un pugnale; un altro strangola il nemico con una cima. Il Cuoco ha messo mano a due arpioni, di quelli che usiamo per pescare, e ci infilza gli ammutinati uno dietro l'altro, ridendo come un folle; ci vogliono quattro uomini che gli saltano addosso per disarmarlo e finirlo, e dei quattro, uno ci rimette il naso e un altro tre dita.
Alla fine, i leali sono tutti morti, resta solo il Capitano che sfodera la sciabola dalla guardia d'oro, regalo si dice dell'Ammiraglio in persona. Qualcuno ride all'idea di un cieco che tira di scherma; quando uno degli ammutinati si avvicina con un coltello e viene squartato dalla testa ai piedi in un sol fendente le risate si fermano.
«Fatevi sotto, cani traditori!» latra il Capitano, agitando la spada per liberarla dal sangue. «Fatevi sotto, se tra voi c'è un solo uomo!»
Tra gli ammutinati si leva un mormorio, non dovrebbe essere difficile disarmarlo, di sicuro quel fendente è stato solo un colpo di fortuna, ma chi vuole farsi avanti? A ogni momento che passa, la paralisi è più ignominiosa. Sono in tanti, contro un solo uomo, vecchio e cieco. E allora perché non attaccare? Ma se è così facile vincere, perché scomodarsi? Ci penserà qualcun altro, di sicuro. E così esitano, e il Capitano ride della loro codardia.
Il Secondo emerge da sottocoperta, la sua spada è insanguinata.
«Fatevi da parte,» dice ai suoi seguaci, «a lui ci penso io.»
«Non un uomo», ghigna il Capitano, «ma almeno un mezz'uomo.»
Le spade cozzano e risuonano per tutta la nave. Il Secondo e il Capitano duellano, fendente per fendente, parata per parata; fingono, saltano e roteano le lame da combattenti esperti. Il Capitano è come se vedesse, sa quando schivare, quando parare e quando affondare. Quelle orbite cavernose che tanto spesso fissava sulla nebbia sono puntate dritte sul suo avversario, e dentro ho l'impressione che ci brilli qualcosa. Un fuoco notturno e maledetto.
«Muori!» grida il Capitano, e picchia giù con la spada, avendo spinto il Secondo con le spalle al parapetto. «Muori, muori, disgraziato! Nettuno ti porti via!»
Il Secondo non ha tempo per contrattaccare, ma se si lascia spingere più di così, finisce in mare di sicuro. In una mossa disperata, si accovaccia e rotola sul pavimento. La sciabola del Capitano si conficca nel parapetto; l'istante che gli ci vuole per estrarla è fatale. Le spade saettano allo stesso istante; il Capitano tira un fendente di lato e già la spada del Secondo è affondata nel suo ventre, già sangue e vita scorrono via, e un momento dopo, il Capitano si affloscia, l’arma gli cade di mano, il corpo si ribalta e piomba nell'oceano, ultimo tributo ai suoi oscuri dèi.
Il Secondo si accascia a sua volta, quell'ultimo fendente ha raggiunto il segno e il suo viso è coperto di sangue. Corriamo a soccorrerlo, il Chirurgo lava la ferita, la esamina, scuote la testa.
«Vivrà?» chiediamo tutti.
«Vivrà,» conferma il Chirurgo. «Se sarà forte abbastanza. Ma per gli occhi, niente da fare.»
E mostra la ferita a tutti. Il fendente ha lacerato la faccia del Secondo in una linea orizzontale, ha lasciato una profonda tacca nell'osso del naso, e due bulbi insanguinati e lacerati dove c’era stato oro.
Il Secondo respira affannato e tra il dolore trova lo spazio per un sorriso beffardo. «Non importa,» dice, «non mi servono gli occhi per trovare la rotta!». Gli altri ridono, rincuorati.
Ci vuole qualche giorno perché il Secondo emerga dalla sua cabina, la ferita degli occhi fasciata, la febbre finalmente scesa. Si muove esitante, tastando la nuova oscurità a ogni passo. Un marinaio corre a offrirgli la spalla; lui la stringe con una mano avida e si fa guidare. È il Capitano, adesso.

La nave è ancora dispersa nella nebbia, ancora trascinata dalle correnti, ma presto lui ce ne tirerà fuori, ripetiamo tutti, appena sarà guarito.
Il Capitano è diventato più irascibile negli ultimi giorni, certamente per colpa della ferita, del dolore, della responsabilità. Per i sogni non ha più né il tempo né l’umore. Ma a vederlo adesso, ritto a prua, che annusa l'aria, che fa saettare la lingua per tastare gli spruzzi di sale tra due labbra su cui comincia ad accumularsi un'ombra di barba mal rasata, si deve credere che sappia quel che fa.
«Avanti così!» tuona. «La rotta è buona!»
Avanti così, dunque. La rotta è buona. Alla fine del viaggio ci aspetta il sole. Per ora, il porto è lontano, la nebbia è fitta, e il Capitano è cieco. La nave va.

C'era una svolta. L'e-book di Trenta Cartelle

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Nasce ‘C’era una svolta’, l’e-book che contiene i racconti degli allievi di Trenta Cartelle e il Master editoriale di Scuola del libro. Non una semplice raccolta dei racconti degli allievi di fine corso, ma un vero e proprio libro in cui si raccolgono voci attente alla scrittura e al proprio sguardo sul mondo.

“La strada della formazione editoriale è tortuosa, perché le nozioni da apprendere sono molte ma fare pratica che non sia fine a sé stessa non è cosa semplice. La consolidata collaborazione fra Scuola del libro e Cattedrale ci regala da ormai cinque anni, la svolta: la possibilità – per gli studenti del master di editoria – di misurarsi con la pratica dell’editing, dell’impaginazione, della grafica e della comunicazione. A partire dal materiale fornito dalla classe del corso di Cattedrale tenuto da Rossella Milone (racconti originali scritti da autori esordienti), gli studenti della Scuola possono misurarsi con quello che è, a tutti gli effetti, il lavoro di una casa editrice. Il confronto sul testo con chi lo ha scritto (guidati da un editor professionista) con l’obiettivo comune di migliorarlo e renderlo pubblicabile, e poi tutte le attività successive fino a produrre una raccolta di racconti vera e propria, completa di paratesti e copertina: molto più di una esercitazione, una svolta nella formazione di giovani, aspiranti operatori del mondo editoriale”.

Federica Antonacci

“Ogni volta che incontro una nuova classe, ho non solo la responsabilità ma anche la curiosità di andare a stanare la voce autoriale di ciascun allievo. Accompagnare gli studenti lungo un tragitto di ricerca e potenziamento della propria pratica narrativa è un percorso articolato e delicato, perché scrivere significa mettersi a nudo, e chi si occupa di quella voce deve tenerne conto. In un laboratorio ciascuno si mette in gioco con i propri testi, e da nove anni Cattedrale lavora con quei testi per permettere agli autori di trovare la propria voce di narratore. Non è sempre scontato. A volte quella voce si trova e si consolida, altre volte no: un laboratorio serve anche a questo, a fare i conti con i propri limiti. Ma è compito, io credo, di un percorso di questo tipo, permettere a ciascun allievo di sviscerare le proprie capacità, cosa che è impossibile fare per un autore da solo – che sia alle prime armi o meno. L’autore ha bisogno di occhi, di letture, di confronti e di analisi, ed è per questo che è importantissimo valorizzare e costruire tutte le figure che lavorano attorno a un libro. In cinque anni Cattedrale e Scuola del libro, rinsaldando la loro collaborazione, cercano di impreziosire ciascun aspetto che ruota attorno alla nascita di un libro, lavorando praticamente con tutte le fasi della sua realizzazione: dalla scrittura all’editing, dall’impaginazione alla copertina, e via dicendo. Far confrontare gli allievi del corso di Cattedrale con quelli di Scuola del libro ormai non è più un esperimento che in cinque anni ha dato alla luce dignitose antologie di racconti, ma una vera officina in cui poter vedere crescere professionalità e narratori all’altezza del panorama editoriale contemporaneo”.

Rossella Milone