PAPAVERI E PAPERE
di Patrizia Birtolo

«Mira bene Gio. Vanne, su».
I cigni dondolano sull’acqua, stretti l’un l’altro. Nella testa di Giovanni vortica un carillon di luci, suoni, colori. Socchiude gli occhi, si sporge appena, tira. Di prendersela con i cigni non gli va, ma potrebbe essere l’ultima occasione d’evitare la silenziosa disapprovazione paterna. Non può sbagliare anche stavolta.
Ha già fallito al tiro a segno, al punching ball “Bad King” – che ha decretato con una sonora pernacchia il suo gancio come penoso – e non c’è stato verso di fargli mettere piede dentro la “Casa degli Orrori”. Forse è per questo che quando Gio ha chiesto lo zucchero filato suo padre ha finto di non sentirlo, di perdersi rapito dal frastuono del Luna Park.
«Bravo!» Suo padre gli scompiglia i capelli, finalmente compiaciuto. Gio è più sollevato che contento mentre osserva il gestore del chiosco sfilare il cerchietto dal collo del piccolo cigno di plastica.
«Ecco un bel premio».
«Ma…»
«Papere mute, mica disturbano».
L’uomo tende la scatola a Gio che sgrana gli occhi. Ha vinto qualcosa. Ora ha un cucciolo.
Nel mare di luci suoni e colori del Luna Park stringe al petto la scatola bucata, pronto a difenderla dovesse costargli imbracciare un fucile vero, prendersi a pugni con una banda di delinquenti, entrare in una casa infestata da entità terrificanti.

«Magna, Giovà! Che è, nun te piace?»
Gio guarda impietrito il piatto. Nonna Adelina gli carezza la testa.
I suoi avevano intimato di portare Lilla in campagna, e, qualche scenata e molte lacrime dopo, aveva ceduto. La papera era troppo cresciuta.
Lilla era muta, sì, ma mangiava – e sporcava – come una disgraziata.
All’inizio i suoi avevano sorriso al vederli tanto inseparabili. Il video caricato sui social, quello di loro due insieme nella vasca da bagno, con Lilla che sguazza e poi usa la testa di Gio come trampolino, aveva ricevuto migliaia di visualizzazioni. Ma neppure centinaia e centinaia di like, alla lunga, possono compensare decine e decine di scacazzate quotidiane da ripulire. Gio s’era raccomandato, telefonando a Nonna tutte le sere, pretendendo video della papera ripresa in ogni momento e occupazione della giornata. Suo padre gli aveva promesso che, se lasciava in pace Nonna gli altri giorni, lo avrebbero portato in campagna ogni fine settimana. Lui aspettava il sabato con trepidazione e cauto timore. Dei suoi genitori non si fidava più, ma Nonna non lo avrebbe tradito. Andava solo tenuta d’occhio, però, perché Gio se n’era accorto: era entrata nell’infida fase in cui ci si scordano le cose.
A conferma dei neri presentimenti, dal loro arrivo di Lilla neanche l’ombra. Gio avrebbe voluto chiedere, ma non osava. Poi l’agghiacciante scoperta. Per pranzo, specialità del maceratese: gnocchi al sugo di papera. Gio s’era chiuso in un funereo silenzio.

«Poro bardascio, svejasse co’ nonna de fianco che…»
L’addetto del 118 copre col lenzuolo la barella, indifferente alle parole di Bruno.
Gio alza lo sguardo su suo padre. Lo vede passarsi il fazzoletto sugli occhi arrossati e nella testa gli vortica una ridda di luci, suoni, colori.
«Che disastro, chissà cosa ci costerà di terapia» sibila Maura, le braccia conserte, serrate intorno al corpo. E Bruno, con voce incrinata «Mi riprenderò, Maura».
«Non tu!» Alza gli occhi al cielo esasperata e scatta con il mento a indicare il figlio.
Poi rincara.
«Tintura madre di papavero, come no. Con la memoria che le restava. Adesso sì che ha risolto i suoi problemi d’insonnia una volta per tutte».
Gio siede all’entrata, agitato. La presenza della cascina, vecchiotta e malandata, di solito riusciva a rimetterlo a suo agio; stavolta no.
Ha un vuoto nello stomaco, un buco nero come la fame rimasta fino a sera quando aveva saltato il pranzo a base di Lilla.
Da molto lontano gli giunge la voce del padre. La sente appena.
«Gio saluta Lilla che andiamo. È nel pollaio, Nonna le stava curando una zampa, voleva aspettare che fosse guarita bene per dirtelo».
Lui fissa il vuoto, più sollevato che contento di sapere che Lilla c’è ancora.
Sta pensando alle serie tv in cui attorno a un morto ci sono sempre poliziotti in tuta bianca che cercano le impronte digitali. Vorrebbe aspettarne uno, tirarlo per una manica, dirgli che non credeva davvero di farcela. Pensava che avrebbe fallito, come ogni altra volta. Voleva punirla, ma non così tanto.

Questo racconto è contenuto nella raccolta ‘C’era una svolta’, a cura di Cattedrale e Scuola del libro.

Ogni perturbante rumore, di Monica Pace

Ogni perturbante rumore
di
Monica Pace


Il vento si era calmato. Nei due giorni precedenti aveva spazzolato le creste delle montagne come per ripulirle a fondo in vista di una nuova stagione, polverizzando in cielo con sbuffi continui la recente neve e accumulandola qua e là. L’alba si presentava semplice, iniziando a nascondere le stelle come ogni giorno, dilagando nel cielo finalmente terso. Il bianco della neve che aveva contrastato il nero del cielo si cominciava a tingere di un tenue rosa effimero.
Orientata verso le cime che chiudevano l’alta valle, stava l’ampia vetrata del rifugio dove i tre ragazzi erano a colazione. La finestra della sala comune offriva la possibilità di uno sguardo d’insieme sull’inverno, tra la protezione del legno, del vetro e dell’acciaio che tenevano insieme il rifugio. Il loro tavolo era l’unico illuminato, le tazze sprigionavano un fumo breve e i tre parlavano a bassa voce per una consuetudine da rifugio. Saverio e Martina stavano mettendo a punto gli ultimi dettagli organizzativi della salita alla vetta principale, mentre Paolo sorseggiava un caffè amaro guardando le mani di lei descrivere agili nell’aria i vari passaggi e le asperità che li attendevano sul ghiaccio. La cordata non avrebbe riservato particolari sorprese a nessuno di loro poiché da sempre si legavano così: a Saverio spettava condurre, poi Martina al centro, infine Paolo a cui sarebbe toccato il compito di tenerli entrambi se fossero scivolati. Salutarono il gestore che armeggiava attorno alla moderna stufa a pellet nel suo grembiule di un blu vivace, con una genziana ricamata sul cuore e il nome del rifugio scritto in un corsivo gentile che gli attraversava il petto.
Attorno al rifugio la neve caduta negli ultimi giorni attutiva le asperità delle rocce, colmava gli affossamenti, nascondeva i rivoli dei torrenti. Qualche raro cespuglio di rosa canina mostrava i suoi frutti rossi come un dono prezioso concesso dall’inverno: attorno agli arbusti una frequentazione di volpi furtive e di uccelli solitari aveva impresso un marchio fugace sulla neve e sparso avanzi di bacche.
Il gestore li osservò partire dalla soglia. Martina batteva le mani per scaldarsi sorridendo a Saverio, che l’avrebbe condotta in vetta anche stavolta. Paolo guardava le gambe snelle di Martina, poi decise di spegnere la lampada frontale per godersi il chiarore dell’alba.
La salita si fece via via più impegnativa: adesso i ramponi graffiavano la neve restia a farsi incidere in profondità dai loro passi. Avanzavano, piccozze alla mano, a un ritmo consolidato nelle due stagioni alpinistiche condivise come cordata, i dettagli attorno a loro svelati per la luce radente che ormai investiva le cime.
Lungo le creste vi erano alcune zone quasi nude e altre dove la neve si era accumulata trasportata dal vento; si erano così formate enormi cornici stondate e convolute come onde irrisolte, sospese nel nulla, aggrappate a una coerenza di molecole aghiformi, compatte e fragili al contempo. I tre seguivano una traiettoria diritta e ambiziosa: la neve ghiacciata si frantumava come vetro sotto le lame appuntite e nel frammentarsi gemeva con piccoli schiocchi di resa, concedendo loro la vittoria di una presa concreta negli strati sottostanti. Risalirono il pendio verso il colle centrale tenendosi alla destra delle cornici imponenti. Il gestore ogni tanto teneva d’occhio l’ascesa, ormai i ragazzi gli apparivano come figurine indistinte su uno sfondo maestoso.
Tutto era magnifico in quella giornata che si rivelava all’avanzare del sole nell’aria immobile: le cime erano nitide nel cielo sgombro, l’ombra ricacciata sempre più a valle dalla luce che scendeva dalle montagne con un movimento da fiume silenzioso, e poi correva giù fino al bosco, fino alla nebbia fitta che occupava ancora il fondovalle.
Giunsero al colle centrale in pieno sole e si fermarono a bere. Faceva caldo per essere a quella quota, a quell’ora e in quella stagione, ma ormai era quasi sempre così. I racconti dei vecchi alpinisti non combaciavano più con quello che i giovani sperimentavano nel loro andare in montagna, quasi che le vecchie esperienze fossero destinate a non trasmettere più alcuna sapienza. Saverio studiò con attenzione le cornici spaventose protese sul vuoto: sembravano il fermo immagine di un filmato di surf. Sotto la loro frangia biancastra si erano formate piccole colature di ghiaccio, appuntite e traslucide, percorse da rivoli d’acqua quasi impercettibili, che rilasciavano qualche gocciolina ogni tanto.
Durante la pausa sul colle si scambiarono il thermos con il tè caldo, le mandorle e le albicocche secche, le risate e gli sguardi d’intesa a promettersi reciprocamente l’amicizia. Poi, per un attimo gli occhi di Saverio si persero nell’azzurro di quelli di Martina, con un’improvvisa voglia di casa. Ripartirono dal colle con il sole ormai alto; Saverio decise la traccia da battere cercando la prosecuzione della linea di cresta da percorrere in sicurezza, Martina lo seguì e Paolo dovette affrettarsi a richiudere il suo zaino, avvertendo la tensione della corda che lo legava agli altri due.
Il gestore del rifugio stava preparando i tavoli per il pranzo quando l’intera vetrata esplose insieme al tetto e ai suoi timpani per il vento furioso che annunciava la valanga; ebbe il tempo di intuire l’ineluttabile cascata bianca e polverosa invadere l’anfiteatro delle montagne con un rombo primordiale, e con l’ultimo suo battito tutto scomparve sotto la neve che sembrava cemento, tra l’acciaio contorto e le travi frantumate. Ogni perturbante rumore di fondo fu ricondotto al silenzio. Le montagne stavano immobili e nude, scaldate da un sole magnifico.

Questo racconto è contenuto nell’e-book equiVoci, la raccolta di racconti nata dalla collaborazione di Trenta Cartelle, il laboratorio permanente di Cattedrale, e il Master dei mestieri del libro
di Scuola del Libro.


Monica Pace è nata a Firenze e vive a Roma dove fa la ricercatrice. Ama i pittori primitivi fiamminghi e sogna di scoprire com’è l’Australia, nel frattempo scrive. Alcuni suoi racconti sono apparsi in diverse testate letterarie online.


Solo sole, un racconto di Danilo Tumminello

Cattedrale è orgogliosa di ospitare due tra i tre vincitori del premio Match Point: il premio dedicato ad autrici e autori italiani residenti nel Regno Unito. Lasciamo la parola a Marco Mancassola, tra gli ideatori del Premio, per presentarvi il primo racconto pubblicato sulle nostre pagine.
Potete leggere l’altro racconto vincitore qui!

Match Point è il titolo della chiamata letteraria organizzata dall’associazione londinese Il Circolo in collaborazione con Londra Scrive, il programma di scrittura fondato dal sottoscritto. La chiamata era per racconti scritti in italiano da autrici e autori residenti nel Regno Unito: per la prima volta, una piccola capillare mappatura di ciò che italiani e italofoni scrivono da questa parte della Manica.
La suggestione sportiva del titolo serviva a delimitare un tema – storie di ambientazione sportiva oppure, a livello più metaforico, storie che avessero a che fare con un “punto decisivo”, momenti in bilico, decisioni da prendere. Nell’atmosfera inquieta del Regno Unito di questi anni, ci è sembrata una suggestione interessante.
I tre vincitori, premiati in una serata all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, hanno ricevuto un riconoscimento in denaro e la possibilità di un lavoro di editing per rendere i racconti ancora più tersi.

Sono felice ora di presentare “Solo sole” di Danilo Tumminello: un racconto scritto con sapiente economia, una breve parabola sul chiudersi e sul riaprirsi, una narrazione che lascia addosso qualcosa di caldo e grato.

Marco Mancassola

Solo sole
di Danilo Tumminello

Un raggio di sole mi puntò un occhio. Riconobbi a stento le forme della stanza. Il soffitto alto, a destra il muro con le fotografie, davanti a me la portafinestra con la serranda mezzo abbassata.
Lentamente riuscii a mettermi seduto sul letto. Toccai la benda sulla mano, guardai la portafinestra. La luce entrava da fuori, spezzata in linee parallele. Mi misi in piedi e andai ad alzare la serranda. Il caldo era ancora leggero, ma si sentiva che era pronto a ruggire di nuovo.
Uscii nel piccolo giardino curato. Al centro c’era una struttura in muratura simile a un pozzo, con un grande cespuglio di gelsomino che gli si arrampicava intorno.
In una delle piante dall’arbusto sottile riconobbi i fiori che c’erano sul comodino, affogati in un po’ d’acqua. D’istinto mi avvicinai ad annusarli.
Odoravano di miele.
“Si chiama pomelia.”
Sobbalzai. Da qualche metro di distanza, mia nonna mi guardava con un vassoio in mano.
“Buongiorno. Hai dormito bene?”
Non risposi e mi voltai verso la pianta.
“Non ce l’avete voi, vero? In Inghilterra”, continuò mia nonna.
Mossi leggermente la testa.
Lei si avvicinò.
“Ce l’abbiamo solo noi, qua dove fa caldo, forse da qualche altra parte pure, ma in continente no, non cresce, non ce la fa fuori da qua.”
Posò il vassoio su un tavolino in ferro battuto e si sedette su una delle sedie, appoggiandosi prima sulle ginocchia.
“È una pianta strana”, continuò, “a guardarla non è bellissima, anzi è brutta, secca secca com’è.”
Sorrise.
“Poi però fa dei fiori che sembrano finti per quanto sono belli. Pochi, non ne fa molti. Ma quelli che spuntano hanno un profumo bellissimo e fuori sembrano fatti di porcellana.”
Fece una pausa. Guardò lontano.
“Come quest’isola. Non promette niente a vederla da fuori. Ma se hai pazienza vedi i fiori belli che ci sono.”
Si fermò ancora. Mi guardò, come svegliandosi da quelle riflessioni.
“Amaro o zuccherato?”
Stavo ancora pensando a quello che aveva detto e alla bellezza del modo in cui aveva articolato le parole.
“No. Niente zucchero. Grazie”, dissi con troppa cortesia.
Mia nonna la notò, vidi una leggerezza breve inarcarle l’angolo della bocca, ancora carnosa nonostante le rughe che la contornavano.
Mi porse la tazzina da cui bevvi con due sorsi secchi.
Suonò il citofono e ne fui sollevato. Mia nonna andò ad aprire, io rientrai e andai in cucina.
Sentii un brusio arrivare dall’ingresso. Poco dopo entrò un ragazzo dai capelli scuri raccolti in un codino. Reggeva due sacchi.
Mi lanciò uno sguardo rapido. Non mi salutò.
“Dove li poso, signora Maria?”
“Mettili sul lavello Amir, fammi ‘sto favore.”
Il ragazzo posò i sacchi, mia nonna si informò sul costo della spesa e pagò.
Lui prese i soldi e li mise in tasca.
Alzò gli occhi e mi guardò meglio, notò la benda alla mano. Io chiusi le dita per riflesso.
“Questo è mio nipote Tommasino”, disse mia nonna. “Tommasino, questo è Amir, suo padre ha un negozio qua sotto.”
Il ragazzo mi allungò la mano.
“Piacere, sono Amir.”
Gli porsi la mia, quella sana. Notai la sua stretta dritta e forte.
“Tommasino viene da Londra, resterà qua per un po’”, continuò mia nonna, “magari potete andare a mare insieme qualche volta, che dici Amir?”
Mi voltai di scatto. La fulminai con lo sguardo. Lei non mi guardò.
Amir fece cenno di sì con la testa, senza sembrare troppo convinto. Poi improvvisamente gli si accese lo sguardo.
“È tua la borsa da calcio davanti la porta?”, disse.
Mi accorsi che aveva un accento diverso da quello di mia nonna. Esitai qualche secondo.
“Sì”, dissi poi.
“Giochi a pallone?”
Temporeggiai, ma Amir mi incalzò.
“Più tardi abbiamo una partita in spiaggia, e ci manca un panchinaro, uno che entra se qualcuno è stanco,
vuoi venire?”
“Non credo, ho da fare”, risposi subito.
Lui sorrise.
“Ma che devi fare in città co’ ‘sto caldo? Non sei in vacanza?” Guardò mia nonna. Anche io la guardai in cerca di aiuto. Speravo dicesse qualcosa.
“Non si fa niente qua, se non andare a mare e giocare a pallone”, continuò Amir.
“Ho da fare”, aggiunsi brusco.
Amir non rispose. Fece una smorfia e si spostò su un piede, pronto ad andarsene.
Mia nonna intervenne.
“Vacci Tommasino, io devo uscire, non puoi rimanere a casa.”
La guardai incredulo. Sospettai che stesse mentendo.
“Vabbè, non fa niente signora Maria. La saluto.” Amir faceva sul serio, non aveva l’aria di uno che insisteva.
“Tommasino…” mia nonna mi guardò con gli occhi che mi imploravano di andare.
“Ok”, dissi senza quasi controllare quello che dicevo.
“Okeeei”, mugugnò Amir, sbeffeggiando il mio accento.
“Alle cinque e mezza ti citofono e andiamo al campo.”
Non risposi.
Mia nonna fece un sorriso, arrotolò la pezza che aveva tra le mani e si diresse soddisfatta verso il lavello della cucina.
“Ciao, signora Maria”, disse Amir con educazione, poi, ignorandomi, andò verso la porta e uscì.
Ero furioso.
Mia nonna si avvicinò per prendere la tazzina vuota.
“Ti diverti, vedrai. Amir è un bravo ragazzo.”
Tornò verso il lavello. Poi, senza voltarsi: “Perciò Tommasino, a casa tutto a posto?”, aggiunse.
Eccolo, il momento del discorso era arrivato.
Si voltò e mi guardò la mano fasciata. L’aveva di sicuro notata prima, ma solo allora la osservò senza nascondersi.
Mi alzai.
“Vado di là nonna, grazie per il caffè.” Feci uno sforzo per trattenermi e non gridarle che quelli non erano fatti suoi. Né quelli, né se volevo o no fare amicizia con qualcuno.
Uscii dalla stanza senza aggiungere altro.
Andai verso la porta a prendere il mio borsone. Lo afferrai e lo maledissi per il guaio che mi aveva causato.
“Ma non mangi a pranzo?”, gridò lei dall’altra stanza.
“No”, dissi secco.
“Ora ti preparo le cose per giocare”, disse.
Chiusi la porta con rabbia.
Feci qualche giro intorno alla stanza. Mi guardai la mano, il sangue raggrumato si poteva scorgere in alcuni punti.
La fasciatura doveva essere rifatta, la ferita pulita.
Mi resi conto solo ora che avrei potuto usarla come scusa per non giocare.
Guardai il soffitto. Poi presi un libro. Cercai di leggere ma non ci riuscii. Decisi di uscire in giardino. Dovevo prendere aria.
Rimasi a guardare nel vuoto sentendo nello stomaco un nodo di tensione.
Poi il caldo si fece insopportabile e rientrai. Mi misi a letto e cercai di dormire, ma rimasi in una specie di spazio intermedio tra il sonno e la veglia per ore.
Sognai forse e se lo feci le immagini si accavallarono e sparirono senza lasciarmi la sensazione di essere state decodificate dal mio cervello.
Quando mia nonna bussò mi svegliai di botto.
“Ti ho portato le cose da gioco, erano quelle di tuo padre, penso che avete la stessa misura.”
Era affacciata sulla porta. In penombra.
“Scusami se entro, tra un po’ viene Amir.”
Feci un grugnito e mi rigirai nel letto.
La sentii entrare in stanza e poggiare qualcosa sulla sedia.
Poco dopo mi alzai e andai in cucina a bere. Mia nonna mi guardò ma non disse niente.
Sul tavolo c’era un piatto coperto che doveva essere il pranzo che non avevo fatto. Senza farmi vedere, presi della frutta da un recipiente e tornai nella stanza.
Sulla sedia, mia nonna aveva sistemato un paio di pantaloncini e una maglietta. Istintivamente li portai al naso e li odorai. Sapevano di naftalina.
Osservai la maglia, la girai tra le mani. Il completino in cui mio padre anni prima aveva sudato. Guardai ancora le foto appese al muro, la sua foto, il sorriso che mi sembrò di non conoscere.
Il citofono suonò poco dopo. Mia nonna andò a rispondere.
“Sì, Amir. Sì, sta arrivando.”
Mi alzai contro voglia dal letto e mi cambiai.
Andai verso lo specchio. Ora capivo il senso di straniamento che avevo avvertito in Amir. Ero pallido, avevo le occhiaie profonde e l’aspetto malaticcio.
Dallo specchio guardai alle mie spalle, oltre me. Il nuovo contesto di quella realtà faceva risaltare la mia inadeguatezza più del solito. La mia pelle pallida, in quello scenario pieno di sole, diventava quasi trasparente. Mi osservai le mani senza soffermarmi sulla ferita. Le mani grandi come quelle di mio padre. Non potei non chiedermi quale altro dono genetico proveniente da lui mi girasse in corpo. Era la prima volta che ci pensavo, che pensavo a una certa familiarità con lui.
Il citofono suonò ancora.
Una bolla d’aria mi si formò al centro dello stomaco, sentii quasi di vomitare.
“Tommasino, c’è Amir che ti aspetta.”
Diedi un ultimo sguardo allo specchio e mi diressi verso l’ingresso, quindi me ne andai senza salutare.
Mentre la porta si chiudeva mi voltai e vidi mia nonna appena fuori dalla cucina. Aveva la bocca aperta in un saluto che non ebbe il tempo di dire. La porta si chiuse sul suo sguardo.
Fuori dal portone, Amir mi aspettava seduto su un motorino arancione che sembrava più una bicicletta. Mi guardò storto.
“Me ne stavo andando, un minuto e ti lasciavo qua.”
Non dissi niente e abbassai gli occhi.
Lui mi osservò meglio.
“Minchia, co’ ‘sto completino pari mio nonno.”
“Era di mio padre”, mi giustificai e mi pentii subito di averlo fatto.
“Sali”, disse lui.
Notò che mi guardavo in giro.
“Che c’è?”, disse poi.
“Dove sono i caschi?”
“Non ce n’è caschi, sali. Metti i piedi qua e qua”, tagliò corto.
Salii sul motorino e Amir mise in moto producendo un suono potente che non mi aspettavo. Poi spinse l’acceleratore al massimo e in un attimo arrivammo alla fine della stradina.
Senza curarsi di chi arrivasse dalla strada principale svoltò a destra e cominciò a infilarsi nei piccoli spazi lasciati vuoti dalle decine di macchine che, con lentezza, si muovevano nel traffico.
Ai lati della strada c’erano gruppetti di uomini che bivaccavano sui motorini, notai le loro facce scure e abbronzate.
Alcuni ragazzi, seduti sul muretto che costeggiava la strada, appena ci videro arrivare si alzarono.
“Tieniti e non ti muovere assai”, mi gridò Amir.
“Cosa?”, dissi, ma non mi diede il tempo di richiederglielo.
Con un colpo di schiena si alzò su una ruota. Io, attaccato al portapacchi con una mano e al sellino con l’altra, riuscii solo per istinto a non cadere all’indietro.
Amir continuò con colpi regolari d’acceleratore a mantenersi in verticale e a dirigersi verso quel gruppo. Sembrava volesse finirgli addosso. Strinsi più forte i pugni sui miei appigli. Stavo per gridargli di fermarsi. Ma proprio all’ultimo, quando sembrava che li avremmo investiti, cambiò direzione.
Qualche metro dopo averli superati, Amir diede un colpo in avanti e abbassò con rabbia la ruota anteriore.
“Suca, pezzi di merda”, gli sentii dire tra i denti.
Io mi voltai verso il gruppo e li vidi gesticolare e inveire contro di noi. Notai un ragazzo robusto che più degli altri sbraitava e sembrava promettere di farcela pagare.
Amir, incurante, continuò la sua corsa ondeggiando sulla strada e cantando a squarciagola. Poi, di colpo, si immise in un vicolo minuscolo con le mura gialle, i balconi di ferro battuto e i panni stesi ad asciugare.
Dopo una ventina di metri si fermò.
C’era una selva di motorini posteggiati. Amir quasi lanciò il suo nel primo buco libero.
“Amunì”, mi disse.
Sentii la testa come presa da una vertigine.
“Amunì, che è tardi”, disse ancora lui e mi scrutò come fossi un ebete.
Mi guardai in giro, ci trovavamo in un piccolo porto, con qualche barca da pescatori attraccata qua e là.
In lontananza vidi una folla di persone ammassate attorno a un campo di calcio. Era ricavato da una spiaggetta che dava sulle acque scure del porto. Due porte fatte artigianalmente con legno grezzo e reti da pescatore. Le linee scavate sulla sabbia.
Ci dirigemmo verso un gruppo di tre ragazzi. Uno di loro ci venne incontro preoccupato.
“Minchia Ami’, sta cominciando la partita, dove minchia eri?”
“Sono andato a prendere a lui.”
Tutti si girarono verso di me. Strinsi le dita della mano bendata, la nascosi dietro la schiena.
“È il nipote della signora Maria, viene da fuori, fa la panchina oggi.”
Mi guardarono ancora, confusi forse dal mio aspetto dissonante col resto.
“Va bene, amunì andiamo”, disse poi uno di loro.
L’arbitro mise fine alla partita in corso con tre fischi.
Ci muovemmo in gruppo verso il campo di sabbia dove, nel frattempo, era arrivata anche la squadra contro cui apparentemente dovevamo giocare.
Riconobbi tra loro il ragazzo robusto che ci urlava contro due minuti prima. Appena vide Amir si diresse verso di lui minaccioso. Amir si fermò, mise le mani dietro la schiena e lo aspettò tenendo gli occhi fissi su di lui, senza mostrare alcuna esitazione.
Quando quello gli fu fronte a fronte, cominciò a dirgli qualcosa con la fermezza di chi sapeva come fare paura alla gente.
Sentii un brivido attraversarmi la schiena e per un attimo ebbi timore che se la prendesse anche con me.
Amir invece continuò a non fare una piega. Non disse niente, mantenne solo sul viso un sorriso beffardo.
A quel punto l’arbitro si mise in mezzo, li separò e i due, senza togliersi gli occhi di dosso, raggiunsero ognuno la propria squadra.
Amir mi cercò con lo sguardo, poi cercò il resto della squadra. Ci fece cenno di avvicinarci.
“Picciotti stiamo attenti che questi sono forti, e pure incazzati. Tu”, mi guardò, “dove giochi, davanti o dietro?”
Esitai.
“In difesa.”
“Ok, appena qualcuno è stanco esce ed entra lui.” Mi indicò, sembrava volersi ricordare qualcosa.
“Tommaso. Ehm. Tommi”, lo aiutai.
“Tommaso, questo è Lin, ma lo chiamano tutti Lino”, disse indicando un ragazzo dai lineamenti asiatici. “È portiere.”
“Questo è Sheik, gioca in attacco con me”, disse poi.
Sheik aveva la pelle scura e una lunga barba nera. Indossava una tunica. Lo guardai e mi chiesi come avrebbe fatto a giocare la partita vestito a quel modo.
“Piacere”, mi disse lui con un sorriso buono e un accento che mi confermò le sue origini arabe.
“Questo è Butera, lo straniero”, continuò Amir. Tutti scoppiarono a ridere.
Butera mi guardò. “Piacere Salvo Butera, isolano originale D.O.C.”
Amir strinse l’elastico che gli teneva raccolti i capelli e si sistemò il codino.
“Ragazzi stiamo accura e non facciamo minchiate, amunì”, disse poi.
Io mi diressi al bordo del campo con lo sguardo basso e mi sedetti sulla sabbia, sicuro che tutti mi stessero osservando.
Notai due ragazze. Erano sedute su un motorino blu e mi guardavano sorridendo e parlottando tra loro.
L’arbitro finalmente fischiò e tutta l’attenzione si concentrò sulla partita.
“Vai Amir!”, gridò una delle ragazze.
Amir si voltò verso di lei e le fece un sorriso. La sua amica guardò invece me. Io mi voltai altrove, verso il campo.
Il ragazzo robusto della squadra avversaria sembrava interessato più allo scontro fisico che a giocare. Puntava soprattutto Amir, che agilmente riusciva a sfuggirgli, ridicolizzando così la sua goffaggine.

Il pubblico sembrava tifare contro la nostra squadra. Gridavano al ragazzo robusto, che capii chiamarsi Gioacchino, incitandolo a essere più cattivo, con un misto di durezza e sfottò. Mormoravano ogni volta che Sheik toccava il pallone. Pensai fosse a causa del suo aspetto, della tunica. Apostrofavano tutti con nomignoli che evidenziavano il loro essere stranieri. Amir era “il Turco”. Lin, o meglio Lino “’u Cinìsi”, Sheik “Mohammed”.
Le ragazze sul motorino continuavano invece a incitare la nostra squadra.
La partita era fisica e resa difficile dalla sabbia che, oltre a rendere ogni rimbalzo imprevedibile, incoraggiava lo scontro e le entrate dure.
Quello che succedeva in campo non mi interessava molto, mi persi invece ad osservare la massa urlante che gli faceva da contorno. L’incitamento alla violenza, l’ironia spietata delle prese in giro soprattutto nei riguardi dei ragazzi della mia squadra.
La partita era sul finire quando loro segnarono. Il pubblico esultò. Io mi sentii sollevato al pensiero che non avrei giocato, ma durò poco. Butera infatti, subito dopo il gol, si diresse verso di me.
“Entra che non ce la faccio più.”
“Sicuro?”, chiesi.
Lui mi guardò quasi senza capire cosa volessi dire e si sedette sulla sabbia senza rispondermi.
Io mi alzai, insicuro sulle mie gambe bianche. Sentii calare le grida del pubblico. Tutti mi guardarono.
Anche volendo ormai non potevo tornare indietro, feci un respiro ed entrai in campo. Gioacchino mi notò in quel momento.
“E chistu da dove viene?”, disse.
Molti scoppiarono a ridere. Spinsi i piedi sotto la sabbia, sperai per un attimo di sprofondarci dentro.
Il gioco riprese e loro ci attaccarono. Gioacchino venne verso di me, a palla lontana mi assestò una gomitata secca sotto le costole. Mi mancò il fiato e mi accasciai.
L’arbitro fermò il gioco.
Amir venne verso di me, mi sollevò da terra.
“Com’è? Come stai?”, mi chiese.
“Ok, diciamo”, risposi con un filo di voce.
“Vacci duro pure tu se no ti fai male. Entra duro”, disse lui.
Mi rialzai, mi scrollai di dosso la sabbia, soffiai sulla benda. Stavo per chiedere ad Amir di uscire ma alla fine non lo feci.
Quando il gioco riprese loro continuarono ad attaccarci e Gioacchino venne ancora verso di me. Cercava il contatto in tutti i modi. Io mi opponevo col corpo come mi aveva detto Amir, ma continuavo a subire.
Quando mancava un minuto alla fine, qualcuno lanciò la palla verso Gioacchino che, proprio prima di cominciare a correre per raggiungerla, mi diede un’altra gomitata nello sterno. Io subii il colpo, ma qualcosa mi offuscò la vista e appena prese la palla mi buttai con entrambe le gambe sulle sue.
Ci fu un silenzio gelido.
Eravamo entrambi a terra, lui si rialzò e mi afferrò la maglietta con la mano sinistra mentre con decisione stringeva la destra in un pugno massiccio che sentivo già abbattersi sul mio naso.
Gli altri ragazzi corsero a dividerci. L’arbitro chiamò il rigore, e questo sembrò distrarre Gioacchino.
Sputò a terra vicino a dove io piano piano mi stavo rialzando. Prese il pallone e si diresse verso la porta.
Non riuscivo a respirare. La rabbia, l’adrenalina, il caldo, la sabbia che avevo ingoiato mi facevano ribollire.
Gioacchino sistemò la palla su un dischetto immaginario e si allontanò per prendere la rincorsa.
I miei compagni di squadra mi guardavano contrariati, probabilmente perché avevo reagito e causato quel rigore.
Io stavo in piedi, fuori dai bordi dell’area, e guardavo quasi intontito la gente attorno al campo che urlava e incitava.
“Gioacchino spaccaci la porta, ammazzalo a ‘u Cinìsi”, gridò qualcuno.
L’arbitro fischiò e Gioacchino partì nella sua rincorsa.
Tirò dritto e potente, ma Lino toccò leggermente il pallone, quel tanto da farlo battere sul palo.
Fu un momento in cui sentii una sorta di stallo. Vidi il pallone dirigersi dritto verso di me. Divenni uno spettatore di me stesso. Mi vidi allungare il piede per fermare la palla. Mi vidi alzare gli occhi, Amir accendersi nello sguardo e cominciare a correre verso la porta. Mi vidi calciare la palla e vidi questa raggiungerlo con precisione.
Poi vidi Amir stopparla a cinque metri dalla porta e calciare di controbalzo, per lasciare al portiere solo il tempo di guardarla entrare alle sue spalle.
Aveva segnato, avevamo pareggiato.
Sentii le due ragazze sul motorino gridare di gioia. Da sole tra tutti.
Vidi Amir voltarsi verso di me, con un grande sorriso, il primo che gli vedevo fare, e iniziare a correre con le braccia aperte.
Io rimasi bloccato, fermo. Nel silenzio generale. Nel silenzio di un inizio, l’inizio di un me che in quel preciso momento mi precipitò addosso. L’inizio di quell’estate che cambiò tutto.
Fermo, anche quando ci trovammo tutti abbracciati a esultare, senza che riuscissi a pensare a niente, senza curarmi della mia ferita, delle mie ferite.
Fermo, anche quando, coperto dai miei compagni di squadra, tra l’odore acre di sudore e umido, mi scappò un sorriso che mi fece male agli spigoli della bocca.

Un ristorante in King Street, un racconto di Marco Medugno

Cattedrale è orgogliosa di ospitare due tra i tre vincitori del premio Match Point: il premio dedicato ad autrici e autori italiani residenti nel Regno Unito. Lasciamo la parola a Marco Mancassola, tra gli ideatori del Premio, per presentarvi il primo racconto pubblicato sulle nostre pagine.
Il prossimo potete scoprirlo, sempre qui, il il 3 Febbraio!|

Match Point è il titolo della chiamata letteraria organizzata dall’associazione londinese Il Circolo in collaborazione con Londra Scrive, il programma di scrittura fondato dal sottoscritto. La chiamata era per racconti scritti in italiano da autrici e autori residenti nel Regno Unito: per la prima volta, una piccola capillare mappatura di ciò che italiani e italofoni scrivono da questa parte della Manica.
La suggestione sportiva del titolo serviva a delimitare un tema – storie di ambientazione sportiva oppure, a livello più metaforico, storie che avessero a che fare con un “punto decisivo”, momenti in bilico, decisioni da prendere. Nell’atmosfera inquieta del Regno Unito di questi anni, ci è sembrata una suggestione interessante.
I tre vincitori, premiati in una serata all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, hanno ricevuto un riconoscimento in denaro e la possibilità di un lavoro di editing per rendere i racconti ancora più tersi.

Sono felice di presentare dunque “Un ristorante in King Street” di Marco Medugno: un racconto sinuoso su due solitudini che si incontrano, su due uomini ciascuno davanti al proprio bivio, in una Londra notturna e quasi fantasmatica.

Marco Mancassola

 

Un ristorante in King Street
di
Marco Medugno

Se qualcuno avesse svoltato l’angolo di King St., e fosse passato davanti alla facciata edoardiana del Chez Pierre, avrebbe intravisto, spiando oltre le vetrate, una figura spettrale muoversi nella semioscurità dell’interno. Anche se il locale era chiuso, il personale assente e le tovaglie linde e immobili come plastici panneggi, prestando maggiore attenzione, magari strizzando gli occhi per coprire l’intero salone, il passante avrebbe notato un bagliore diafano provenire dal fondo, dentro le cucine. Avvicinandosi al vetro fino ad appannarlo, avrebbe intuito che la figura intravista nella penombra era un cuoco, intento a destreggiarsi con le portate. Se ne avesse seguito il tragitto, lo avrebbe visto appoggiare un paio di piatti sull’unico tavolo pronto, apparecchiato per due persone.

Starter. Dopo un brindisi al loro incontro, Gabriele liberò un sorriso e attese che Marco gli spiegasse il menu della serata. Davanti a loro stavano tre bruschette con mozzarella e crema di piselli, e altrettante con olive, tonno e harissa, profumate e invitanti; accanto, un pâté di fegatini con polenta fritta e un carpaccio con salsa di tartufi di mare, lattuga e caviale, giacevano sopra un piatto rettangolare di porcellana nera, posizionato in centro tavola con cura geometrica. Noncuranti della formalità dell’arredamento e dell’elaborata mise en place di posate e bicchieri, i due trascorsero i primi minuti a studiarsi con curiosità, cercando le tracce lasciate su di loro dal tempo. Gabriele lo aveva raggiunto da Edimburgo dopo un anno di assenza e Marco aveva deciso di cucinare per lui nel ristorante nel quale lavorava, ovvero nel luogo diventato, negli ultimi due anni, una forma di casa.
Aveva cominciato a lavorare al Chez Pierre come apprendista e gli avevano poi offerto di restare. In realtà, lo chef lo aveva voluto tenere a tutti costi perché era un fucking promising lad (pronunciato con la u chiusa del nordest). Malgrado l’aria elegante che irradiava il Chez Pierre, in cucina le parole volavano su toni meno raffinati. E malgrado le tirannie del suo capo, bizzarre come sanno essere le tirannie di qualcuno colmo di talento e altrettanto egoismo, Marco era riuscito a resistere e conquistarsi ancora di più la sua fiducia. In compenso, il suo mondo si era atomizzato e il Chez Pierre aveva assorbito tutto il resto. I turni asfissianti, insieme alla sua propensione verso solitudine e stacanovismo, lo avevano condotto a uno stato di rarefazione sociale nel quale aveva cominciato, suo malgrado, a sentirsi a proprio agio. Oltre a prendere la Central fino a St. Paul per arrivare al Chez Pierre, Marco si avventurava poco per la città. Londra, in fondo, era un parco divertimenti per turisti, costoso e troppo vasto, e lui non aveva tempo, né soldi, per goderselo. Appena arrivava al lavoro, si sistemava subito in cucina, dove già in tarda mattinata si respirava l’aria adrenalinica della sera. Nei rari momenti di pausa, sgattaiolava sul retro a sfumacchiare e restava seduto a terra con gli occhi chiusi e un senso sottile di estraneità rispetto alla complessità della vita che lo circondava, e le sue infinite possibilità. Lui era il suo lavoro e poco altro. I rapporti umani erano relegati in una dimensione virtuale composta da schermi e videochiamate. Gabriele stesso, che finalmente stava davanti ai suoi occhi, domani sarebbe tornato a essere una voce fuori campo.
Quando aveva una giornata libera, la passava a sonnecchiare rintanato nel suo ristretto appartamento arroccato sui tetti georgiani di Marylebone. Di notte sognava ricette e presentazioni di piatti e poi, al risveglio, le scribacchiava su tovaglioli o giornali per non lasciarsele sfuggire; ripassava ossessivamente tempi e tecniche di cottura di carni, uova e frutti di mare. Per il resto, le settimane erano ritmate dagli orari della cucina, proprio come la disposizione sui piatti era regolata dalla clock rule: il piatto era come il quadrante di un orologio, in cima c’era mezzogiorno, in basso le sei. Così quando lo chef urlava: «Foie gras at twelve, confit garlic at four!» non si poteva sbagliare e ogni ingrediente trovava la corretta sistemazione sul piatto.
L’unica persona alla quale non sottraeva la sua presenza era Filip, un fotografo svedese trasferitosi a Londra quand’era adolescente. Era un anno che si frequentavano come una vera coppia, senza che le rispettive carriere fossero ancora riuscite a consumare come creste d’onda il loro rapporto, o a farlo diventare stanco e patetico. Si erano conosciuti alla presentazione della prima mostra fotografica di Filip, Better to Reign in Hell, Than to Serve in Heaven, che esponeva scatti di celebri cucine e chef pluripremiati. Tra questi, c’erano anche il Chez Pierre e il suo capo, Martin Flay. Dopo aver chiuso il locale, Marco andava ogni sera da Filip, nel suo appartamento in Boswell Street con vista sul parco e, sfibrato, si accasciava sul divano accanto a Filip, che lo lasciava accoccolare e continuava imperturbabile a leggere o postare foto su Instagram. Al mattino, quando Marco si trovava addosso una coperta e notava sul tavolino le mezzelune lasciate dalle tazze di tè della sera prima, gli preparava una colazione di pancake aromatizzati con scorza d’arancia o limone, caffè lungo e uova alla Benedict con salsa olandese. Sapeva che l’altro si sarebbe svegliato fra poco e che lui avrebbe trovato sul cellulare il solito messaggio di affetto, laconico, una volta arrivato al Chez Pierre.
Questa era la loro ritualità, intessuta di passioni addomesticate, parole caute e piccole premure. Filip si preoccupava per la sua salute e da mesi gli ripeteva di riposarsi e prendere vitamine, perché lo vedeva deperito, smunto e con occhiaie croniche – e aveva ragione. Marco lo sapeva, ma non era arrivato dov’era grazie a una vita salutare, bensì con caffeina, sigarette, gastriti, insonnia e inguaribili ossessioni. Era per questo che ora lavorava al Chez Pierre, uno dei migliori ristoranti al mondo.

Main course. Marco ritirò i piatti e si allontanò. Non avevano parlato molto; solo poche battute, sul tempo, sul costo della vita e, ovviamente, sugli antipasti. Lo sbirciò dalla cucina e contemplò il suo viso appoggiato sul palmo della mano sinistra, nella sua posa di attesa, e i capelli cresciuti ribelli. Non si erano persi; solamente, si erano allontanati, e questo sembrava il momento giusto per riavvicinarsi. Dopotutto, il vino, le portate e l’intero Chez Pierre erano solo per loro due, stasera, per celebrare il loro incontro. Immaginò Gabriele alle prese con la cucina scozzese, i piselli semicrudi dei fish&chips, le scorze delle patate lasciate in cottura, l’assenza di sale e olio d’oliva, e i clootie dumplings. Lo immaginò anche durante le sue corse serali sotto la pioggia a serpeggiare seguendo sentieri tra le colline. Lo immaginò perché non era mai riuscito a salire a Edimburgo. Dalla sua assunzione non si era allontanato un solo giorno da Londra, ma si ripromise di ricambiare la visita, nonostante gli impegni e il costo dei treni.
Lasciato solo nella sala, Gabriele intanto rifletteva sull’ultima volta in cui si erano incontrati, quando non erano quasi mai usciti dall’albergo dov’erano alloggiati, in Rue Trousseau. Quella volta, mentre la pioggia incessante rigava i vetri della minuscola stanza per ore, si erano aggiornati sulle rispettive vite. I loro incontri non perdevano mai lo smalto, come vecchia argenteria, e anche in quell’occasione i discorsi erano fluiti come le gocce lungo i vetri. Adesso, invece, i silenzi sembravano più densi e Gabriele non capiva come mai.
Quando Marco riapparve, Gabriele trasalì, quasi si fosse ricordato all’improvviso di essere al Chez Pierre. Appena tornò in sé – un petto di faraona scottato con salsa di fegato alla veneziana e capperi fumava sotto i suoi occhi – liberò uno dei sorrisi che si aprivano sul suo viso quando non riusciva a esprimere la sorpresa a parole. Rimasero a fissare il fumo dei piatti arricciarsi verso l’alto fino a dissolversi nel buio della sala. I primi bocconi furono immersi nel silenzio. Gabriele pensò che non avrebbe potuto permettersi nessuna delle raffinate portate sfilate davanti ai suoi occhi finora; una cena in un ristorante simile costava come il suo affitto e questo pensiero risvegliò in lui un sentore di precarietà che conosceva bene. Cosa avrebbe fatto l’anno prossimo, se non gli avessero rinnovato il contratto? Sarebbe stato ironico, per non dire spietato, se si fosse ritrovato ancora dai suoi dopo anni di studio e lavoro all’estero. Cacciò quel pensiero ma si accorse che Marco, ora, lo osservava con gli occhi socchiusi. Non doveva essergli sfuggita l’improvvisa incrinatura del suo umore. Il barlume di preoccupazione che gli velava lo sguardo, e quel luccichio triste nonostante l’aria tranquilla, erano qualcosa che Marco conosceva come la ricetta della salsa bernese. Certi dettagli, pensò Gabriele, non gli sarebbero mai sfuggiti, nemmeno a distanza di anni. Doveva essersi accorto che Gabriele stava pensando a casa.
Dopo un PhD in Filosofia Politica, l’insegnamento, una pubblicazione e un lavoro da Associate Lecturer, seduto in un ristorante stellato aperto solo per lui, Gabriele non riusciva a trattenere quel suo timore di essere, in fondo, un fallimento. Entrambi provenivano da una città sprofondata in una pianura sfigurata, i cui capannoni, vigne di prosecco e centri commerciali soffocavano i pochi terreni rimasti. Entrambi avevano sentito il bisogno di lasciarsela alle spalle, per tanti motivi, confusi, ma tutti validi. In quella città avevano consumato troppi anni nell’insoddisfazione e nell’attesa paludosa di un cambiamento. Gabriele aveva tentato di fare ricerca dopo l’università, ma non aveva mai vinto una borsa; si era invischiato in concorsi già assegnati e in campi di studio che non lo appassionavano affatto. Le strette di mano e i complimenti per la sua tesi magistrale erano stati smascherati per ciò che erano: la messinscena di una ritualità che elogiava il merito con molte parole ma nessun fatto. Mentre i dipartimenti di Geografia e Storia chiudevano per scarsità di fondi e interesse, in Germania, in Inghilterra e in Svezia gli stessi studi fiorivano mescolandosi con le scienze politiche, l’economia, la letteratura, la sociologia. Il solo lavoro temporaneo che aveva ottenuto era arrivato nell’unico modo che sembrava possibile: grazie a un contatto, una conoscenza giusta. Allora, Gabriele aveva capito di non volersi ritrovare nelle mani del burattinaio di turno e ricominciare daccapo, di volta in volta, da una posizione che non gli avrebbe garantito uno stipendio né un futuro. Contratti a tempo determinato, stage gratuiti e voucher risuonavano come i mantra della nuova sintassi della flessibilità.
Con angoscia, si era sforzato fino all’ultimo di non desistere, ma si era ritrovato in uno stallo, come se gli mancasse sempre qualcosa: non era abbastanza motivato, oppure troppo vecchio, o con poca esperienza. Non c’era stato altro da fare se non partire. In Scozia, certo, non era così diverso, non come aveva immaginato, ma almeno poteva permettersi di vivere e sperare di ottenere una posizione migliore in un futuro vicino. Doveva sperare, altrimenti aver lasciato l’Italia sarebbe stato vano. In fondo, quella era la cifra dei tempi, anche se a lui era restata addosso come una colpa privata.
Questo era il tono cupo dentro lo scintillio dei suoi occhi chiari, la piega triste che attraversava il suo viso e ne incrinava la voce. Marco lo sapeva; aveva ascoltato già i discorsi di Gabriele sulla lontananza e sul senso di fallimento di non essere riuscito a restare vicino casa.
Una volta, in una giornata immersa dentro l’azzurro diluito da cirri atlantici, Marco aveva percepito nitido, in Gabriele, quel senso di colpa per aver lasciato casa per pensare a se stesso. Ma mentre Gabriele si sfibrava tuttora per la delusione di non essere riuscito a realizzarsi nel luogo in cui era nato e cresciuto, Marco non ne poteva più di ascoltare la retorica di chi voleva tornare per chissà quale amore di patria, facendo sentire lui come un traditore. Anzi, nel tempo, la lontananza da casa aveva trasformato il suo cuore in un sasso. Con un disfattismo biblico e implacabile, aveva sperato di assistere allo sfascio della nazione intera, col suo macchinario di frivole ossessioni e provincialismo. Sapeva di aver preso una decisione dettata da fatti precisi. La prima volta in cui aveva provato a lavorare in Italia era stato a L’Albereta, nella sua stessa provincia, poi al Camilla e infine Da Remo, due ristoranti rinomati appena oltre i confini della sua regione. Ma era stato scartato da tutti. Al Casse-Croûte, un ristorante francese trapiantato a Londra, era stato assunto dopo un solo colloquio e la preparazione di un piatto. In Italia non sarebbe tornato nemmeno se l’avessero implorato. Per chi? E perché?
Una domenica – se lo ricordava ancora – mentre pedalavano sull’argine in un maggio caldo di parecchi anni prima, Marco era sbottato, dicendo di odiare quella pianura, il caldo umido, l’allergia e tutti quei cieli acquarellati dall’afa che sbiadiva l’orizzonte. Gabriele si era messo a ridere, perché per lo sfogo inaspettato Marco aveva perso l’equilibrio ed era finito dritto giù sulla golena. Una volta disceso anche lui dall’argine, si era seduto al suo fianco. C’erano famiglie, bambini, in gruppetti sparsi e allegri. Si erano sdraiati sull’erba pungente, vicini, quasi abbracciati, a osservare l’acqua lenta del fiume e la rete da pesca sollevata come una ragnatela sapientemente intessuta a mezzaria. I piumini dei pioppi levitavano rischiarati dalla luce come fragili invertebrati marini trasportati dalla corrente. Il profilo compatto delle fronde si delineava in lontananza, sfocato dal bagliore dorato del crepuscolo. Gabriele aveva guardato l’ansa del fiume, dicendo di sentirsi come un salgàro: tanto vicino alla corrente quanto incapace di seguirne il flusso. Disse che avrebbe voluto restare immobile e trascorrere così le ore fino al termine della notte, in una stasi pacifica, priva di perturbazioni. Ma poi, Marco si era alzato nervoso, di malumore. La tranquillità della sera si era spezzata dentro la sua testa.
Marco sapeva di avere sempre addosso, inscindibile da sé, la stessa sensazione di quel giorno. Era una forma d’insofferenza, che prendeva il sopravvento in corrispondenza del ricordo di casa. Dopo quella giornata si era ripromesso di andarsene il prima possibile, andarsene fortissimo, senza guardarsi alle spalle. Sapeva però che per Gabriele era diverso, che quel suo silenzio corrucciato era il modo per zittire il suo senso di fallimento e limitare così un’eccessiva esposizione al pensiero di ciò che si era lasciato alle spalle.

Dessert. Il tavolo, rischiarato da un discreto faretto sopra di loro, sembrava irreale. Loro due, stagliati nell’oscurità della sala, erano simili a comete sperdute dentro l’immensa profondità del cosmo. A volte si erano sentiti proprio così, soli dentro il buio, vicini tra loro ma distanti dal mondo, dall’ambiente nel quale avevano vissuto e da quello che li aveva accolti. Per alleviare la malinconia, Marco parlò del progetto di aprire un suo ristorante: non sapeva dove, ma entro una decina d’anni avrebbe voluto possederne uno. Lo avrebbe voluto arredare con classe. Aveva in mente l’atmosfera di un locale à la Hong Kong anni Settanta; le immagini nella sua testa erano più precise rispetto alle parole che stava usando per renderlo chiaro agli occhi di Gabriele, il quale commentava non senza ironia. Risero sulla scelta del nome, sull’esotismo di scelte dialettali, come Porcoefora oppure Boiacàn, o sulla preziosità superficiale di Golose porcherie o Il testamento del bove, indecifrabile per chi non sapeva l’italiano.
Marco si alzò per tornare in cucina. Serviva una degna chiusura per la cena. Portò un tortino al cioccolato e pepe nero con sorbetto di latte di mandorla e granita al caffè, e un gelato alla vaniglia bourbon con un macaron al cioccolato e un tocco di liquirizia. Sul piatto dava l’effetto sperato e Marco ne fu soddisfatto. Gabriele sembrò apprezzare il sapore intenso della liquirizia, che emergeva dalla cremosità del macaron, mentre la vaniglia ne bilanciava l’amarezza.
Il vino li aveva resi euforici e svagati, così non si accorsero dell’ora né del diluvio che fuori si alternava a raffiche di vento. Si ripromisero di vedersi a Edimburgo, verso l’estate. Ma era già tempo di andare? Cosa si erano detti, dopotutto? Marco sapeva di Caterina e di quella fase conclusa della vita sentimentale di Gabriele, rimasta sguarnita. Si erano rivisti? O anche lei si era aggiunta all’elenco dei sommersi? Gabriele gli disse, come parlando di sé, che non doveva lasciarsi sfuggire Filip. Aveva ragione. Ma Filip sarebbe partito per occuparsi del suo documentario. Il progetto era piaciuto e aveva ricevuto fondi europei. La destinazione era la Norvegia, con una ONG, per mostrare i primi risultati di un programma sulle energie rinnovabili in un luogo impraticabile come il Circolo Polare. Chissà quando sarebbe tornato. A quanto pare non sarebbe neppure stato facile comunicare. E Marco pensava di non avere le forze di sopportare un altro distacco e restare in attesa. Quanto tempo sarebbero resistiti? Quanto tempo potevano passare davanti a uno schermo, prima di stancarsi? Il mantenimento dell’affetto a distanza sarebbe stato faticoso, così come accontentarsi dei pixel e accorgersi, poco alla volta, dell’inaridirsi dei discorsi, dei riferimenti non còlti e dei contesti ormai impossibili da comprendere. Questa possibilità schiudeva in lui una sensazione simile all’abbandono, ma in una versione edulcorata e attutita. Forse, era solamente la spia del giro definitivo del tempo: sarebbe tornato al principio, quando era da solo, senza Filip, senza amici, e il lavoro era tutta la sua vita.
Marco sapeva che questi pensieri lo avrebbero accompagnato, una volta finito di ripulire la cucina, fuori dal Chez Pierre e lungo le strade vuote, rischiarate dalla cupola spettrale di St. Paul; lo avrebbero seguito per l’intera nottata e il mattino successivo e poi ancora, a casa di Filip e fin dentro il sonno. Gabriele, a sua volta, sul treno per Edimburgo, avrebbe passato ore e ore, inquieto, a rimuginare sul ciclo di eventi che da qualche anno lo stava separando sempre più da casa, dal ritorno, dalle persone con le quali voleva stare.

Check. Erano le due di notte e Marco, inquieto, aveva trascorso ormai una decina di minuti in un silenzio grave, lontano dal salone, lasciando da solo Gabriele, intento a sua volta a riflettere sul futuro. Stava sistemando la cucina, in modo da trasformarla in un luogo asettico e limpido, come una sala operatoria. Appena si delineò sul pavimento un’ombra, Marco capì che Gabriele era in piedi sull’uscio, appoggiato con una spalla allo stipite. Gli occhi bassi di tanto in tanto lo guardavano. Era immobile sulla soglia del tempio, del tutto indifferente alla sua sacralità. Gabriele si mosse e si avvicinò in silenzio; Marco gli legò le braccia intorno alle spalle. Sospirò, sentendo ricambiare la stretta. Gabriele avvertì la magrezza irreale del suo amico e dubitò, percorrendone la schiena, della sua esistenza. Cos’era rimasto della sera? Del loro incontro? Marco, inquieto, gli confidò di non voler affrontare un’altra partenza e, con tutto l’affetto che possedeva, fino al limite ultimo dell’orgoglio, prima della supplica, gli sussurrò di restare per la notte e aspettare insieme il mattino. Sarebbe stato magnifico averlo con sé per poche ore ancora, sparse disordinatamente nella notte come una manciata di sale, tra il sonno e la veglia, nel tentativo di esorcizzare il futuro. Gabriele rimase in silenzio, stringendolo appena, prima di sciogliere la presa.

Quando le luci del ristorante si spensero, e il buio della notte calò risoluto all’interno, due figure uscirono dal Chez Pierre e s’incamminarono lungo King St., verso un Tamigi quasi immobile. Vicine una all’altra, avanzavano nella stessa direzione cercando riparo dalla pioggia e dal vento, dentro la notte.

Ciao Francesca, di Daniele Israelachvili

Ciao Francesca

di Daniele Israelachvili


Se sei un pendolare è molto probabile che tu trascorra poco tempo in famiglia, faccia poca attività fisica e anche poco sesso. Senza contare il fatto che passi poco tempo a giocare con tuo figlio; ma magari di questo non ti devi preoccupare, considerando il poco sesso che fai è probabile che tu un figlio non ce l’abbia nemmeno. A tutto questo bisogna poi aggiungere dolori, stress, obesità e insoddisfazione. Non lo dico io, lo dicono le statistiche.

Sono sei anni che esco di casa, cammino per circa due minuti, mi fermo e aspetto che arrivi l’autobus. Poi passo le fermate Sardegna, Bitone, Pontevecchio, Mazzini Stazione, Fermi, Laura Bassi, Alemanni, Albertoni, Porta Mazzini, Torleone, Strada Maggiore, Rizzoli, Indipendenza, VIII Agosto e, finalmente, Autostazione. Altri cinque minuti a piedi per raggiungere il binario dove, se non ci sono stati scioperi, guasti al motore o persone che si sono suicidate, mi aspetta il treno per Ferrara. Una volta arrivato scendo e mi incammino verso il parcheggio, dove recupero uno Zip usato sul quale farò il mio ingresso trionfale nel parcheggio dell’azienda. Durante le otto ore, più pausa pranzo, che passo in ufficio, fisso il computer, leggo mail, scrivo mail, archivio mail, rispondo al telefono, stampo fogli, butto fogli. Per svagarmi vado a prendermi un caffè alla macchinetta a metà mattina e un altro a metà pomeriggio, fumo una sigaretta dopo pranzo sul retro del magazzino e, unico momento di hybris che mi concedo, ogni quindici del mese aspetto che la mia collega esca dalla stanza per andare alla riunione denominata in maniera originale “riunione di metà mese”, poi mi masturbo. Quando termina il mio orario di lavoro, prendo lo Zip e torno in stazione. Lascio il motorino nel parcheggio e vado sul terzo binario, dove aspetto per circa dieci minuti che arrivi il treno che mi riporterà a Bologna, sempre che non ci siano stati scioperi, guasti al motore o persone che si sono suicidate nel frattempo. Dopo altri trenta minuti scendo dal treno e mi incammino verso l’Autostazione in attesa dell’autobus che farà lo stesso percorso della mattina, ma all’inverso: VIII Agosto, Indipendenza, Rizzoli, Strada Maggiore, Torleone, Porta Mazzini, Albertoni, Alemanni, Laura Bassi, Fermi, Mazzini Stazione, Pontevecchio, Bitone, Sardegna e, finalmente, Cagliari. Una volta arrivato, due minuti a piedi ed entro in casa.
Sei. Lunghi. Anni.

Nevica da giorni ormai. Questa mattina nel vagone ci siamo solo noi due, uno di fronte all’altra. Mi guarda di sfuggita e accenna un sorriso, prima di riabbassare lo sguardo sul libro. Prendo coraggio e mi alzo per sedermi accanto. Dopo un attimo di esitazione le scosto i capelli e la bacio sul collo. Lei dice solo “no, ti prego” ma con poca convinzione. Divento sempre più audace mettendole una mano sul seno, che lei prontamente stringe, senza però fermarmi. Il treno continua il suo viaggio in mezzo a una campagna ricoperta di neve, e a parte la voce registrata, continuiamo ad essere solo io e lei.  Ho voglia di te, qui e adesso le dico, poi le sfioro la guancia, appoggiando l’indice sulle sue labbra. Lei le schiude e per me è come ricevere un segnale. Mi sporgo in avanti e la bacio. Dopo un po’ si stacca e, con un filo di voce, mi dice no, ti prego, ma è un attimo e siamo già a carponi in mezzo alle quattro sedute. Abbasso i suoi jeans e finalmente sono dentro di lei. No, lì no mi supplica, ma ormai è tardi, e mentre con le mani le accarezzo
“Perché continui a fissarmi?!”
“No niente, è che stavo solo pensando…”.
“Ecco bravo, continua a pensare senza guardarmi allora.”

Ultimamente mi capita sempre più spesso di sognare ad occhi aperti. Proprio come ne “Il fantastico mondo di Amelie”, fuggo dalla realtà. Solo che invece di rifugiarmi nei piccoli piaceri, come rompere la crosta della creme brulè con la punta del cucchiaino, far rimbalzare i sassi sul canale Saint-Martin o tuffare la mano in un sacco di legumi, io mi masturbo compulsivamente. O meglio, mi masturbavo. Da quando la mia collega è tornata prima dalla “riunione di metà mese” ho detto basta e mi sono deciso ad andare in terapia. Francesca è stata comprensiva, all’inizio aveva pure fatto finta di non aver visto niente, anche se da quel momento in ufficio è calato un silenzio assordante.

Ieri pomeriggio mi sono fatto coraggio e ho provato a spiegarle come mi sono sentito in questi ultimi mesi, a dirle che ci tengo alla nostra amicizia, ma di tutto il discorso che avevo preparato mentalmente, alla fine mi sono incartato nel tentativo di rassicurarla sul fatto che non mi ero mai masturbato pensando a lei. E niente, si è risentita ancora di più. Così ho deciso di scriverle:

Ciao Francesca,

questa è l’ennesima email che provo a scriverti, dopo averne cestinate non so quante. Ogni volta che le rileggo mi sembra sempre di non riuscire a centrare il punto, che voglia solo giustificarmi, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Beh, innanzitutto, voglio che tu sappia che masturbarsi al lavoro è più comune di quanto si creda. Il mio terapeuta dice che almeno il 40% degli uomini lo fa in ufficio o nei luoghi dove svolgono le loro mansioni. Il 40% è una bella cifra, potrebbero esserci dentro anche tuo padre o il tuo ex. Non voglio metterla sul personale, è che quando ti sei arrabbiata e mi hai dato dell’animale, mi hai fatto male. Anche se in un certo senso avevi ragione. Tutti i primati praticano atti di autoerotismo, usando qualsiasi mezzo come le mani, la bocca, i piedi, le code prensili nel caso di scimmie o anche oggetti. Pensa che i delfini e le orche nei parchi acquatici si arrangiano strofinando il pene contro le pareti della vasca o su corde e getti d’acqua, mentre in natura sembra cerchino apposta acque basse con ciottoli arrotondati per strofinarcisi su, cullati dalle onde. È un bisogno talmente impellente che cavalli, asini, buoi, cervi e persino elefanti, non potendo contare né sulle mani né sulla bocca né sulla spinta di galleggiamento dell’acqua, devono invece adottare un’altra tecnica: fanno rimbalzare il pene contro l’addome. Si masturbano saltando, capisci! Quello che voglio dire è che non è stato il mio comportamento ad essere patologico, ma l’assenza di controllo rispetto quel determinato comportamento. E se entrando in ufficio avessi visto che mi incidevo la pelle con un coltello, in quel caso, avresti avuto pena di me? Mi avresti considerato un animale, o un uomo che soffre? Perché di questo si trattava… Adesso penserai per sempre a me solo come quello che si fa le seghe in ufficio, ma ricordi quando Paolo ti ha lasciata ed erano tre giorni che non uscivi di casa? Sono venuto da te truccato da Ronald McDonald e ti ho convinta ad andare a mangiare quell’orribile panino di pesce che, non so come sia possibile, ti piace così tanto. E gli avanzi di parmigiana che a volte ti porto, quella che fa la mia mamma e che ti fa impazzire? Beh, sappi che mia mamma non sa cucinare. La compro nella rosticceria sotto casa. Oppure ti ricordi quando mi hanno promosso e per festeggiare siamo andati a fumare in quel narghilè bar sulla statale? Ti sei addormentata e quando hai aperto gli occhi e mi hai chiesto perché non ti avessi svegliata, ti ho risposto che mi ero appisolato anche io, te lo ricordi? Non era vero. Ero rimasto lì tutto il tempo, fermo immobile, a guardarti… Lo vuoi sapere perché mi hai beccato quel giorno? Tenevo gli occhi chiusi, ecco perché. Non lo avevo mai fatto. Le altre volte avevo sempre guardato un video sul mio computer, in modo da non perdere di vista il corridoio. Ma quel giorno no, pensavo a te. Eri così bella quella mattina, o forse lo sei sempre stata, e io ero solo troppo depresso per accorgermene. Quel giorno non vedevo l’ora che andassi a quella riunione per poter chiudere gli occhi e rimanere solo con te. Avrei potuto dirtelo, chiederti di uscire, fare qualcosa che non fosse fare quello che ho fatto? Sì, avrei potuto, ma non l’ho fatto. Quindi ecco cosa volevo dirti: quando ho detto che non pensavo a te, in realtà era una bugia. Non faccio altro.

Dopo averla riletta un paio di volte, tiro su la testa perché sento il treno rallentare. Guardo fuori dal finestrino e penso: “VIII Agosto, Indipendenza, Rizzoli, Strada Maggiore,…”, poi riabbasso lo sguardo, leggo “Ciao Francesca” e cancello l’email.

 

Comincio a scrivere i primi racconti durante le lezioni di Microeconomia all’università, ma non lo dico a nessuno perché ai miei occhi è come se suonassi l’ukulele nudo. Ancora oggi, due volte alla settimana mi metto la tuta e scendo in cantina a scrivere, dicendo a mia moglie che vado a correre. Alcuni racconti sono apparsi su ’tina, RISME, Rivista Blam, Bomarscè, Clean, Split, L’Irrequieto, Narrandom, l'Inquieto e Malgrado le mosche.


Devo dirvi una cosa, di Vincenzo Giuffrida

Devo dirvi una cosa
di Vincenzo Giuffrida

“Mamma, papà, devo dirvi una cosa”. “No, così non va bene”, pensò Luca. Da giorni cercava le parole giuste ma non riusciva a trovarle, “Vi devo parlare”, “Ho una cosa da dire”, “Sento un’urgenza dentro”. No, neppure così suonava bene.
Si è alzato dalla sedia e si è messo a camminare al centro della stanza in linea retta e poi in cerchio, alternare quelle due forme lo aiutava a pensare: “Possiamo parlare un attimo?” Troppo remissivo, più deciso: “Sedetevi che dobbiamo parlare”. Troppa enfasi, meglio smorzare: “Ora che siamo tutti insieme, ne approfitto per dirvi una cosa”.
Da settimane si sentiva teso e spaventato, e non riusciva a studiare, come avere un corpo estraneo incastrato in gola. S’è sdraiato sul letto e il soffitto mansardato scendeva dolcemente come una carezza sulla guancia: “Mi avete partorito voi, sono il vostro frutto marcio”. Sbagliato, non era colpa di nessuno: “Ho bisogno di voi, aiutatemi”. È balzato in piedi, “La vita è mia e ne faccio quello che voglio”. “La vita è la mia, ma voi dovete starmi vicino”. “Non ci credereste mai, ebbene”.
“No, non ci siamo”, s’è detto. Nessuna di quelle era la frase giusta. Avrebbe dovuto usare parole semplici e incisive. Scendere in profondità con leggerezza. Andare dritto al punto, ma introducendolo con cura. Avrebbe esordito così: “Mamma, papà, quello che sto per dirvi in realtà non vi riguarda affatto. Ve ne parlo perché sono egoista e perché devo proteggermi”.
Diretto e sincero: “Nella mia vita avrò bisogno del vostro supporto costante, emotivo ed economico. Vi chiamerò nelle notti di solitudine: se sarà panico mi calmerete, se piangerò mi asciugherete le lacrime, se vi racconterò una storia l’ascolterete. Avrò bisogno di soldi e me li dovrete dare, anche quando sarò troppo grande per chiederveli. Un lavoro me lo troverò, certo, un lavoro qualsiasi. Mi siederò alla scrivania a fare tutti i giorni le cose che non mi interessano. Ma vi dico già che non avanzerò di carriera. Non asseconderò i miei capi, né stringerò legami con i colleghi, e non escludo che potrebbero licenziarmi, più e più volte.
Nelle pause caffè con gli altri fingerò di essere come loro, per tutelarmi. Ma in realtà sarò sempre qualcosa che non conoscono. Cadrò, e dovrete rialzarmi con soldi e parole sincere. Perché per quelli come me non c’è un manuale di istruzioni, siamo un finale che non è stato raccontato”.
Forse stava esagerando, ma oramai non poteva più tirarsi indietro: “L’avrei voluta anche io una casa con tante stanze, una famiglia tutta mia con cui programmare figli, mutui e vacanze. Invece credo che vivrò solo, con cani e gatti. Certo, non escludo di incontrare qualcuno lungo la strada, ma non sarà facile, perché ho l’impressione che la maggior parte di noi viva nascosto, fingendo di essere altro. E poi, anche a trovarla una persona, sensibile e comprensiva, temo che i rapporti saranno difficili, ostacolati da vanità e competizione, tutti i giorni alla ricerca di qualcosa di nuovo. Perché forse è così che siamo noi, sempre desiderosi di passare da una storia all’altra”.
Luca ha sentito finalmente la spinta giusta e si è deciso ad andare di sotto a parlare con loro. Un gradino dopo l’altro pensava a come concludere il suo discorso: “Perché quelle brutte facce, cosa state pensando?” Il soggiorno compariva alla fine della scala, “Tranquilli”, dalla cucina arrivava rumore di piatti, “Volevo dirvi che”. Alle sue parole il padre avrebbe reagito sbattendo un pugno sul tavolo, la madre con le lacrime agli occhi avrebbe detto: “Ma che abbiamo sbagliato con lui?” Oppure sarebbe rimasta zitta, lasciandolo solo. “È anche colpa tua”, avrebbe detto il padre accusandola, e lei non si sarebbe difesa. Avrebbe invece osservato padre e figlio litigare feroci, preparandosi un caffè in silenzio.
“Via da questa casa!”, gli avrebbe urlato, mentre lei avrebbe goduto nel punire quel figlio per tutte le aspettative disattese.
Arrivato in cucina Luca ha guardato il soffitto dritto e distante, la cena pronta sul tavolo, e ha sentito il fiato mancargli nel petto, la testa svuotarsi di tutte le parole.
Ha deciso che non avrebbe detto niente. Troppo presto. Avrebbe aspettato altri due, tre, forse quattro mesi. Si è seduto al suo posto, ha portato la forchetta alla bocca, e ha osservato i suoi genitori immobili e opachi nel riflesso della portafinestra, attraverso loro, fuori, il cielo scuro. Ha deglutito: «Mamma, papà».

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Sono nato in Sicilia e oggi vivo all’estero. Ho più di trent’anni e meno di quaranta, per lavoro scrivo codici, nel tempo libero scrivo storie. Ho frequentato l’edizione 2020/2021 di «Trenta Cartelle». Questo racconto è contenuto nell’e-book Vie di fuga, che contiene tutti i racconti degli allievi del II Modulo del laboratorio.

Ricorso in appello al Consiglio di Stato, di Michele Frisia

Ricorso in appello al Consiglio di Stato

di Michele Frisia

I pompini non esistono. Così mi diceva Antonio, diciassette anni, mentre guidava la macchina di suo padre. Io ne avevo quindici e mi sembrava che lui, data l’età, fosse un eroe. Mi portava a bere in campagna, sulle rive di un qualche fiume senza nome, o con un nome del tutto uguale a quello di centinaia di altri fiumi, Rio Dora Stura Rivo Roggia, calavamo briscole e svuotavamo bicchieri infrangibili, rigati e sbiancati dai troppi lavaggi, poi alzavamo la mano come uomini consumati; il barista allora versava altro vino, sputava per terra, e se ne andava. Chissà perché mi è tornato in mente Antonio, oggi, qui al TAR; che tanto boccerà il mio ricorso e dovremo andare al Consiglio di Stato. Solo di marche da bollo, ho anticipato al cliente, spenderemo un capitale, senza parlare di schiarimenti e verificazioni. Lui ha allargato le braccia. Gli va bene, non vuole vincere, ha solo bisogno di tempo. Che poi Antonio aveva una ragione ben precisa per affermare che i pompini non esistono. Lo avevo scoperto il giorno in cui ero andato a casa sua, per il solito giro al fiume, e sua madre, anziché ignorarmi come faceva sempre, mi aveva allontanato, lo sguardo infastidito, con un movimento secco della mano. E così avevo capìto: suo padre aveva trovato il quaderno.
Il cancelliere mi guarda e scuote la testa. Ma almeno ascoltami, penso, cosa ti costa? E invece no. Basta fargli vincere un concorso e si montano la testa. Quindi mi alzo e vado in bagno. Antonio aveva una passione per i pompini. Sfrenata. Incontrollabile. Girava per la campagna con occhio vigile e, non appena una macchia di colore emergeva dentro a un fosso o dietro a qualche pianta, lui, incurante dello schifo, recuperava il giornaletto e lo sottoponeva a restauro. Prima l’asciugatura, sullo stendino nella soffitta calda e umida; poi separava i fogli con delicatezza, rappezzava le pagine strappate, fissava con qualche colpo di asciugacapelli gli ultimi dettagli; infine, una bella stirata col ferro della madre, a vapore, e il giornaletto era pronto. Ma quella era solo la fase uno.
Che poi fare l’avvocato è proprio un lavoro di merda. Me lo immaginavo più o meno così, quando ci sono finito in mezzo, però con più soldi. Ma non mi lamento: l’affitto va, il conto al bar è saldato, e ho anche qualcosa per portare le ragazze al mare. Loro adorano il mare. Se non le porti al mare non hai possibilità. Chissà cosa ci trovano, nel mare. Ed ecco perché il TAR mi deve concedere la sospensiva, altrimenti clienti non ne verranno più – è il passaparola che ti fa lavorare, in questo paese – e niente clienti vuol dire niente soldi, e senza soldi il risultato è che non si può andare al mare. Ci penso, a volte, a quelli che nemmeno hanno i soldi per andare al mare e allora che fanno, se li giocano al gratta e vinci, che poi magari vincono pure. E intanto sognano: mi trasferisco al mare e non faccio più un cazzo, pensano. Che banalità. Qualche tipo brillante, invece, ogni tanto se ne esce con qualche idea estrosa, li sento al bar. Eh no, dicono, tutto il giorno al mare ti annoi, se io diventassi ricco farei un corso di psicologia per i cani, dicono, e così divento psicologo del cane, una cosa che avrei sempre voluto fare ma non ho mai i soldi, dicono, non ho i soldi per il corso. All’inizio ero scettico ma poi, riflettendoci, fra me e me, mi ero convinto che fosse un’idea vendibile e così, una volta, l’ho usata anch’io questa cosa, con una ragazza, la storia dello psicologo per i cani. Non ha funzionato.
Quindi esco dal TAR, pensando che l’avvocato forse è il mestiere più bello del mondo, e che Roma mi aspetta. Dopo il rigetto ci sarà il Consiglio di Stato, sicuro, e allora ripenso al quaderno.
Antonio, fase due, ritagliava tutti i pompini dai giornaletti che recuperava in campagna e li incollava, in ordine non casuale, sul quaderno. Non lo faceva vedere agli amici, quasi mai, non era gay e quelle cose non le condivideva, ma si trattava di un piccolo capolavoro. I pompini erano divisi per etnia, angolo di attacco, profondità di deglutizione, ma soprattutto in base alla partecipazione dell’attrice. Già, perché Antonio non si limitava a un’analisi esteriore della faccenda, voleva scavare nell’intimità dei protagonisti, scardinare la crittografia del gesto, e gli riusciva pure bene. Finché suo padre non trovò il quadernetto, nascosto normalmente al sicuro nella cassa dello stereo, ma dimenticato quel giorno, forse per malavoglia, accanto al termosifone. E da lì la tragedia. Il padre vide tutti quei cazzi incollati sul quaderno, e stabilì: mio figlio è gay. Psicologo subito, non quello dei cani, quello vero, e per un po’ niente gite al fiume, niente carte da briscola, niente bicchieri infrangibili pieni fino all’orlo.
Un giorno raccontavo questa storia a un’amica, era molto carina quindi ci avevo provato, ovviamente, ma non aveva funzionato, e quindi eravamo tipo amici. Non ci credo! fa lei, perché mai la gente dovrebbe buttare i giornali porno in campagna? Li ha pagati, continua lei, e quindi se li tiene, secondo me. Era una ragazza giovane, nemmeno più tanto, ma aveva dieci anni meno di me e oggi come oggi sono parecchi. Abbastanza comunque per non capire. Una così non lo può sapere che, tutte le volte in cui ti masturbavi, finivi senza volerlo per immaginare il Cristo, o la Madonna, o l’angelo custode, che ti guardavano scuotendo la testa. Era già un miracolo venire ma il peggio era dopo, quando te ne stavi lì bello contento, perché la contentezza durava solo un secondo, due al massimo, e poi vedevi tua madre convocata dal Vescovo, lei affranta, quello che scuoteva la testa e allungava la mano per farsi baciare l’anello. Suo figlio si fa le seghe! avrebbe tuonato, me l’ha detto Cristo in persona! Ed ecco che era fondamentale, per liberarsi del peso, liberarsi prima dell’oggetto peccaminoso.
Al cliente intanto spiego che il sindacato sulla valutazione tecnica investe prima facie l’onere probatorio, ma poi si estende anche alle consulenze percipienti. Quello non capisce un cazzo ma pare contento, e mi consegna una busta con dentro un assegno ridicolo. Che vita di merda questo poveraccio; è un biologo, fa cose strane con la genetica e io non chiedo, così non devo sapere. Mi ha dato perfino un libro da leggere, sosteneva che sarebbe stato utile per la causa, ovviamente non lo è stato, almeno credo, perché comunque non l’ho letto tutto. Ma sfogliandolo ho scoperto che ai dinosauri veniva il cancro, così dicono gli scienziati; dinosauri, e per di più col cancro, in pratica una vita di merda. E intanto Antonio aveva superato anche lo scoglio dello psicologo. Continuava a raccogliere giornali pornografici, abbandonati dietro alle piccole balze di pianura, li restaurava, e quando il padre si convinse della sua eterosessualità, ricominciammo anche a frequentare i tavoli in fòrmica sul lungofiume. E così arrivò uno di quei giorni tutti uguali dell’adolescenza durante il quale mi disse, guidando, pensando ad altro, fissando l’istituto di agraria che scorreva sulla provinciale, ehi, disse, ci ho pensato bene e sono sicuro. I pompini non esistono.
Sono quasi all’uscita del TAR quando incontro un collega. Ehi, gli chiedo, mi faresti un favore? Lui attende prima di sbilanciarsi, per capire meglio, non è avvocato per niente. Dovresti solo controllare se fuori c’è una donna riccia, capelli rossi, alta. Lui mi fissa stranito. È una cliente, dico, abbiamo un contenzioso e stamattina mi seguiva, è una pazza. Lui annuisce, solidarizza, e si sporge. Ce n’è una col vestito verde, dice, accanto al fioraio. È lei, maledizione, la Gregoretti. Una delle poche persone rimaste insoddisfatte dei miei servizi. La colpa però, a essere sinceri, è stata sua. Voleva vincere, che parola ridicola, vincere, e peggio ancora voleva giustizia. Io provo a spiegare a tutti i miei clienti che non funziona così: verità, equità, onestà; belle rime ma parole inutili. Si entra in aula con una storia e l’avversario – che di solito è l’Avvocatura di Stato – ha una storia diversa. Non vince quella più vera, o corretta, o giusta, ma quella migliore, quella che suona meglio nelle orecchie di un giudice che, tra l’altro, nemmeno vorrebbe stare dove sta. Perché il TAR è solo il piano terra del palazzo del potere e il giudice amministrativo non vede l’ora di imboccare l’ascensore e salire, salire, salire: Corte dei Conti, Uffici di Gabinetto, Autorità indipendenti, Sottosegretariati, e poi su, fino alla Corte Costituzionale, e perché no, Ministro. Quindi io gli regalo una bella storia, esteticamente gradevole, farcita di infra e supra e de facto, nascondo nelle mie conclusioni le motivazioni della sentenza che vorrei, poi loro mi chiedono il documento via posta elettronica, per comodità, dicono, per copiare, in realtà, e ho risolto. E se non va, fa niente, si ricorre al Consiglio di Stato.
Antonio non conosceva il Consiglio di Stato, non avrebbe saputo che farsene, non ne poteva in alcun modo padroneggiare le grandi potenzialità, quasi illimitate anche se, a pensarci bene, forse neppure il Consiglio di Stato avrebbe potuto aiutarlo. Lui voleva solo un pompino, niente di più, ma le ragazze che incontrava nemmeno accettavano di toccarlo e, almeno di norma, il Consiglio di Stato non è in grado di intervenire su queste faccende. Di norma. E così Antonio chiedeva a noi. Ma ve li fanno i pompini?, chiedeva. E noi a scuotere la testa; chi le raggiungeva le ragazze a quei tempi. Fra padri, sacerdoti e preti, madri superiori e madri naturali, le nostre compagne di scuola erano blindate: condannate alla verginità dalle ultime unghiate di una religione ormai in declino. Si sarebbero rifatte col tempo, almeno quelle normali, e comunque Antonio aveva agito da buon scienziato sperimentale, galileiano direi: aveva interrogato quasi tutti quelli che conosceva e annotava le risultanze su un nuovo quadernetto, sul quale però non incollava più immagini di pompini, ma raccoglieva invece storie di pompini. Storie che, però, stavano ferme a zero: zero pompini. Antonio non conosceva nessuno che avesse gioito del frutto proibito di una bocca conciliante. Qualcuno aveva scopato, ma era gente sopra i vent’anni. Tipo un trattorista che conoscevo anch’io, e due ragazzi dell’acciaieria, e un ragazzo che studiava economia. Ma anche loro: pompini mai. Quindi Antonio, mentre guidava la macchina di suo padre, aveva giustamente dedotto quello che la sua natura galileiana gli aveva suggerito. La conosciamo tutti la storia del cigno nero. Gli europei hanno visto cigni bianchi per millenni, pensavano che i cigni fossero tutti bianchi, poi arrivano in Australia e tac: un cigno nero. Per quello che ne so l’Australia può essere il paradiso dei pompini, non credo ma potrebbe essere, fatto sta che un europeo dell’Ottocento, se avesse potuto vedere un cigno nero solo in fotografia, avrebbe, giustamente, dubitato. Non basta un’immagine per smantellare una sapienza millenaria. E allo stesso modo Antonio, avendo constatato l’esistenza dei pompini solo in fotografia, ne aveva dedotto una solida verità, ovvero che i pompini non esistono.
Finché accadde l’imponderabile, ovvero che Antonio trovasse la sua Australia, e non dall’altra parte del globo ma negli stessi fossi e nelle stesse rogge dalle quali recuperava i giornalini. Era diventato esperto, oltre che di paleografia pornografica, anche di restauro audiovisivo; si occupava delle videocassette che recuperava in campagna, le apriva col cacciavite, stendeva e asciugava, rattoppava con un nastro adesivo particolare che aveva comprato in città, e ci riusciva soltanto perché era un lavoratore di fino, dotato di costanza, perizia, e determinazione. Così, dai video, aveva scoperto qualcosa che rischiava di mettere in dubbio la sua primigenia teoria.
Intanto sono uscito dalla porta laterale del TAR, quella che conoscono solo gli addetti ai lavori, e mi sono diretto verso lo studio. Ma ho bisogno di qualche giornale e così mi fermo all’edicola. Il Sole 24 ore, chiedo, e l’occhio cade sulla vetrinetta per adulti. L’acquisto di un giornale pornografico in quegli anni era problematico. Io ne avevo visto uno, per la prima volta, in quinta elementare. Lo aveva procurato un tipo tosto, un romano, giù nella maremma. I miei genitori mi avevano mandato a cercare animali sull’Argentario e io avevo scoperto la topa; e mentre sfogliavamo quei giornalini, acquistati dal tipo tosto alla stazione ferroviaria di Orbetello, salta su un tipo molto meno tosto, un toscano, che la fa lunga come la fanno lunga i toscani. In sostanza la sua teoria era che: il Governo, sì sì, disse proprio Governo – guadagnandosi subito la mia ammirazione – il Governo, disse, non può permettere che vengano pubblicate certe cose. Gelo in sala. Le sue parole erano sensate, a parte il fatto che nessuno sapeva cosa fosse il Governo – avevamo dieci anni – però i cazzi erano lì davanti a tutti. E anche le fiche. Immagini viola, verdastre, arancioni, tutte variazioni cromatiche di tecniche fotografiche obsolete e raffazzonate. Ma cosa dici, si lamentò il tipo tosto, quello romano, le foto le vediamo tutti, disse. E il toscano: bravo! Non capivo. Come bravo? pensai. Ma il toscano non aveva finito: bravo, disse ancora, le foto sono lì, ma sono false. I cosi sono di gomma, le fiche magari sono vere, ma i cazzi no, i cazzi, come ha deciso il Governo, sono di gomma.
E così io avevo portato a casa questa teoria, che aveva anche resistito qualche tempo, almeno fino all’avvento del VHS, ben più fortunato del Betamax e soppiantato dal DVD; ma al di là della tecnica, col video si vede bene e i sofismi sono inutili, di gomma non c’è proprio niente. Quindi Antonio sapeva che i pompini esistevano, li aveva visti in movimento, la verifica galileiana era incontrovertibile; ma al tempo stesso conosceva anche la triste statistica del suo nuovo quadernetto, ovvero zero storie di pompini. E così, mentre il vecchio quaderno, come si diceva in paese, veniva abbondantemente sfruttato dal padre di Antonio nei bagni dell’ufficio, il buon Antonio, senza alcun ufficio, aveva capìto la verità. Come un novello Keplero che di fronte alla scelta: Sole al centro e Terra in orbita circolare, oppure, Terra al centro e Sole in orbita circolare, dopo aver lavorato anni e anni a quelle odiose e interminabili serie di numeri, cicli ed epicicli, sfere filosofiche perfette e tutto il resto, si era finalmente rotto il cazzo e aveva stabilito: io faccio la traiettoria ellittica. Più o meno allo stesso modo Antonio mi guarda e fa Certo che i pompini esistono – la strada a quel punto si muoveva al rallentatore – ma esistono solo nei porno e quindi, continua Antonio, io devo sposare un’attrice di film porno – la strada si muoveva sempre al rallentatore – perché solo così, sposandola, avrò accanto a me una donna che mi farà i pompini, i quali sono per me la cosa più importante.
Non ha detto proprio così, i quali sono per me la cosa più importante, questo è un linguaggio da avvocato. Intanto arrivo allo studio e trovo la Gregoretti, davanti al portone, con lo sguardo di chi aspetta proprio me. Per uscire da questa situazione c’è un modo solo, devo usare quello che ho imparato da Antonio. Perché, quando Antonio mi aveva esposto la sua teoria, ovvero che avrebbe dovuto sposare un’attrice di film pornografici, aveva anche aggiunto Ué, ma tu non è che la conosci una pornostar?
Ora, quando hai quindici anni e il tuo migliore amico, più grande, sebbene minorenne, ruba la macchina del padre per accompagnarti al fiume, e nemmeno ha la patente, perché giustamente non ha l’età legale per averla; e ti porta al fiume per giocare a carte con due vecchi che sono orologiai della scopa, e macchine da briscola, e a tressette manco ci mettevamo; e con le carte ci esce sempre anche qualcosa da bere, e hai quindici anni e non è che puoi bere come e quando ti pare; ecco che quando sei in quella situazione lì, faresti qualunque cosa per uscirne bene. E io mica lo sapevo come fare. Ma è stato allora che ho ideato la storia di uscita, ovvero quella storia che ti permette di cavartela anche quando non te la puoi cavare. Antonio, gli dico, io conosco parecchie pornostar, non hai idea quante, e dovresti vederle, sono pezzi pregiatissimi. Però sono ragazze riservate, se ti confido i loro nomi, quelle si imbarazzano.
E lì Antonio si è fermato un attimo, la strada si è fermata, anche i campi di granoturco dissodati, un attimo lunghissimo, si sono fermati, poi tutto è tornato alla velocità normale e lui ha annuito. Hai ragione, ha detto.
Avvocato di merda, grida la Gregoretti vedendomi, e brandeggia un taglierino. Sporco, tra l’altro. Ma suvvia, dico, cosa mi combina? E quella appoggia la lama sul mio cappotto nuovo. Pezzo di merda, grida, ti ho dato ventimila euro e non hai risolto un cazzo. È una sognatrice lei, crede davvero di poter vincere solo perché ha ragione. Ma Antonio mi aveva insegnato qualcosa. Signorina Gregoretti, dico, ha controllato la PEC? Lei mi guarda interdetta. Da quanto non la controlla? Lei scuote la testa. Signorina signorina signorina… Ma qui ho esagerato. Signorina un cazzo, dice, non mi chiamavi così quando scopavamo. E io quindi sono costretto a cambiare approccio.
Vittoria, le dico, di solito preferisco essere professionale, e tenere separati i livelli personali da quelli lavorativi, ma per te farò un’eccezione. Allora Vittoria, devi sapere che la Cassazione è un grado di giudizio superiore, rispetto al Consiglio di Stato – e mentre dico questa oscenità appoggio la mano sul taglierino e lo abbasso – orbene, la Cassazione ha riconosciuto il vulnus, dico, la discrezionalità amministrativa non è discrezionalità tecnica, per cui siamo a posto, alla prima riunione plenaria ci daranno ragione. Ma ora fammi salire in ufficio, che Roma potrebbe chiamare da un momento all’altro. E mi raccomando, dico, il telefono, lascialo acceso, così ti aggiorno sulle novità.
Lei guarda la lama con un’espressione che conosco bene, si sta sentendo stupida. Nota il cestino lì accanto, vorrebbe gettare il taglierino ma la fermo. Mettilo in tasca, dico, prima che ti veda qualcuno.
Lei obbedisce, sorride, e mi guarda con quegli occhi che conosco bene.
Il telefono, ripeto, tienilo accesso. Che poi, dico, magari ti chiamo comunque. Lei prova a rispondere ma io sono già oltre il portone.
La mia segretaria ha la schiena di fuori e le calze autoreggenti. Vuole sempre succhiarmelo, ma a me i pompini non piacciono, quindi le lascio sul tavolo la busta del biologo e le dico, la fattura, falla solo per la cifra dell’assegno. I contanti, aggiungo, vanno in cassaforte. Lei tira fuori la mazzetta del biologo, bella corposa, e sorride. Quanto mi piacciono le femmine con la passione per i soldi in nero. Poi, le dico, prepara una querela, contro la Gregoretti; e voglio anche un divieto di avvicinamento; anzi, telefona direttamente al 113 che se arrivano subito la trovano ancora qui sotto, specifica che ha il telefono sempre acceso, così la Questura può localizzarla; e aggiungi che le troveranno un taglierino in tasca. La segretaria annuisce e io chiudo la porta. Mi piace il Consiglio di Stato. Oggi pomeriggio scriverò una bella storia, solo per lui. Mi piace, perché là dentro hanno tutti qualcosa da perdere, ma anche qualcosa da guadagnare; sono così limitati, vedono quello che possono, gli spettatori perfetti per la mia tragedia. A loro, come a tanti, basta guardare un po’ di cigni bianchi, o parlare con tanti ragazzi sfigati ai quali una donna non l’ha mai succhiato, per convincersi che i pompini non esistono. E se credono a queste storie, allora io gli posso raccontare quello che voglio. Poi, certo, salta sempre su qualcuno a lamentarsi di come tratto le persone; gente illuminata, quella, gente che è incappata in un sacco di pompini quando era giovane; beati loro, io li porterei giù al fiume, con le carte da scopa e il vino negli infrangibili, e Antonio che continuava a lamentarsi di quei pompini immaginari. Non è colpa mia se un vecchio si è offerto di spiegare ad Antonio come funzionava, e non è nemmeno colpa mia se lui ha accettato. Quella cosa l’ha calmato, io ho fatto un po’ di soldi, siamo stati tutti più felici.

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Ho pubblicato con Dino Audino Editore due saggi romanzati, Delitti e castighi (2019) e Corpi del delitto (2020). Nel 2021 uscirà l’ultimo libro della trilogia. Ho curato per Divergenze Editore il volume Je suis Charlie, racconto di Eva Luna Mascolino vincitore del XX Premio Campiello Giovani. Sono redattore della rivista letteraria Narrandom. I miei racconti sono usciti su riviste letterarie e lit blog quali Nazione Indiana, inutile, Carie, Grado Zero e altre. Ho vinto vari concorsi letterari tra cui il Premio Zeno col romanzo inedito Avere un piano. Svolgo attività di editing quando me lo chiedono, anche se nella vita sono un perito balistico.


Streghe, un apologo

Streghe, un apologo

di Emanuela Lancianese

Aneta dice che sua madre raccomandava a tutti i suoi cinque figli di andare scalzi per almeno tre giorni al mese. Sentire la terra è necessario all’uomo per vivere. Alle streghe per fare magie. Anche gli uomini che raccolgono il miele a pieni nudi hanno il favore delle streghe. Aneta ha sognato suo padre, morto due anni fa, che varca la soglia di casa, sbandato, stanco, con una valigia: dice che torna tra otto giorni a mettere a posto le cose. È un sogno che le streghe orfane fanno qualche volta.
Le streghe subiscono un duro apprendistato, spesso violento: consumano scontri densi e fatali con le loro genitrici: “Brutta strega che non sei altro!” gridano le bambine streghe alle madri.
Le streghe che nascono dagli esseri umani non sanno di essere streghe, ma le bambine precoci e demoniache hanno i piedini di roccia e di cristallo. Ai bambini piace molto andare scalzi. Alle bambine soprattutto piace.


Vivono così ritirate che noi siam portati a credere che non esistano.
Le streghe adorano le amnistie e captano il buio delle mine. Per dare segno che ogni cosa si muove secondo un ordine di natura, agevolano il compimento di momenti fatali: sono loro che hanno permesso ai turchi di espugnare Bisanzio, lasciando aperta una piccola porta tra le mura.
Servono il diavolo, quando prende forma di silenzio, forma necessaria all’accortezza del durare.
Dove si consuma un’ora stellare lì ci sono le streghe. Si può dire ad alta voce che non si ha paura di loro: se esistono (come esistono) le si aspetta in stato di esaltazione.
Hanno appreso l’arte della medicina da Galeno di Pergamo che servì tre imperatori. Le si può chiedere che soffino di notte ai capezzali dei moribondi: un respiro di edera e grotta, di mandragora e rosmarino, di zolfo, vento ed araucaria: un bacio in bianco e nero, come Arletty in Deux Enfants du Paradis.
Le streghe, anche se non sono belle, sono sempre eroticamente potenti e garantiscono, silenziose e scarmigliate, durevoli e risananti erezioni. Le si può pregare che rallentino il tempo mentre il gatto nero si struscia alle loro vesti e sale sul petto dei malati eccitati. Possono far sì che, sospeso sopra l’abisso, l’infinito che scorre sopra le teste degli uomini si fermi in attesa di un rimedio alla fine. Le streghe del microcosmo sanno farsi filamenti di Dna intelligente che altera il genoma della pestilenza. Anemiche trascendenze non sanno quanto è caldo e forte il sangue dei moribondi dopo che un bacio ha schioccato in loro il sortilegio. Chi sopravvive non sa spiegare la vertigine dei sensi e il profumo disumano che ha sentito.
Il nome delle streghe sa di legno e di acqua: Melivile, Catrileia, Amarilli, nomi che significano ‘lago vicino a una palude’ o ‘fiume caldo’. Preparano gli unguenti sui bracieri degli essiccatoi. L’ingrediente segreto è il fumo degli alveari. Hanno fabbricato asole alle catene di montaggio, quando gli uomini andavano in guerra. Hanno inventato la tattica della terra bruciata, che rende più fertile i campi se i contadini la volgono in dono.
Le streghe dimorano nella nazione degli uccelli. I Manes disegnano uccelli sulle culle dei figli perché non volino via e sono le streghe che pongono sui bimbi invisibili ali di legno per farli andare sulla luna e ritorno. Quando le guide dell’Artico trovano le orme di una volpe bianca sanno che le streghe sono passate di lì. Ma loro si spostano soprattutto con i circhi: dormono nel carro della Sirena delle Ande o della nutrice di George Washington. Di tanto in tanto si esibiscono nei cabaret e cantano le canzoni jazz con l’arte che hanno appreso da Bessie Smith. Hanno la voce roca e si dipingono la faccia bianca come Petrolini; con gli occhi bistrati e un frac logoro fingono svenimenti e il medico dice loro che da questa malattia, la vita, o si guarisce o si muore.
Qualche volta ci si scontra con le streghe nei passaggi della casa, mentre ognuno percorre la sua direzione, troppo occupato per ricordarsi dell’esistenza dell’altro. Con l’urto irrompe la presenza. Le streghe sono nell’urto. Amano il suono delle campane a stormo che chiamano gli ultimi soldati alla difesa della città.
Le streghe sorvegliano la distanza tra gli alberi: quando la sega intacca il tronco, fanno cadere sulle elitre esauste degli insetti le loro sessanta lacrime verdi.
Le streghe non allattano dopo che il mestruo è tornato. Nessuna confonde il sangue con il latte. Se i bambini indios non cadono dai treni della morte è perché le streghe sostengono le loro soffici nuche mentre si addormentano.
Accanto a chi si siede sulle panchine dei cimiteri verdi, davanti alla tomba di un artista, c’è sempre una strega.
Salvano i manoscritti e le pergamene delle biblioteche in fiamme: Alessandria, Bisanzio e Damasco sono custodite nel retrobottega degli empori stregoneschi; di tanto in tanto restituiscono alcuni tomi perché tornino ad essere degli uomini che li hanno creati. Non tralasciano neanche gli scrittori ai quali donano alcune parole per dare al pensiero una forma che dura pochi secoli. Ascoltano - e un giorno pronunceranno - le ultime parole degli ultimi parlanti di una lingua scomparsa, affinché i morti non debbano pensare per l’ultima volta con parole che non verranno udite mai più. All’Ariosto hanno dato la parola profugo. Agli spagnoli hanno dato il termine destierro, distrazione dalla propria terra.
Nei loro salvadanai si conservano tutti i denti perduti da ogni essere umano. Ci sono denti da latte, incisivi di vecchi, molari dei denutriti e degli internati, dei segregati e dei poveri.


Ogni strega conosce l’arte di preservare la ragione dell’uomo in prigione, che ha visto gli occhi del direttore affacciarsi allo spioncino. Le streghe combattono le porte che hanno gli occhi e stanno nello sguardo delle finestre.
Le streghe sono i numi tutelari dei modesti: ispirano nelle anime borghesi l’esultanza e la lucidità che le fa raccogliere la sfida e la rivolta delle strade: le note di Amarcord imparentate con i valzer di Tchaikovsky. Le streghe ballano milonghe verdi per le strade di Tegucigalpa.
Stanno nella silhouette che si staglia nel buio di una porta, stanno nelle mura diroccate, nelle locande, nei bungalow dove vivono i randagi, vicine alla notte che sale lentamente, separate dal mondo da un uccello assonnato, dall’uomo inginocchiato, da un vecchio che beve, dal cecchino che attende tempi migliori. Sono i cani che vegliano la donna che si è addormentata ubriaca sulle rive di un fiume. E nelle torri rondinaie, nei colombari dove si riposano gli uccelli, stanno.
Non c’è in loro autocompiacimento per il male, per l’assassinio, per la fame. Non perdonano nulla al male, lo levigano, ne fanno fiume dove si gettano a capofitto, urlando il tonfo dei giusti.
Le sorelle Giussani, streghe piemontesi, hanno detto: “Diabolik uccide ma solo i cattivi”.


Le streghe si mimetizzano nei canneti con le alzavole e i bambù. Si sentono le loro risate confuse agli spari: a volte sembrano il pianto di un bambino, altre volte uno strano sghignazzo, o una bizzarra risata dei vecchi, o il biascichio di malvagi incantesimi, quando vogliono fare il verso a quelle del Macbeth.
Sfrecciano in impennata con un Mig 29; sono l’aria che si fa più leggera intorno alla testa del bambino che ride.  
Di devozione sconfinata amarono i fratelli Wright anche se non furono i primi a volare, e Thomas Edison che non fu il primo ad accendere una lampadina a incandescenza.  
Le streghe raccolgono ciò che cade dalle dita tremanti e danno origine a catastrofi, come i tre uomini che cercarono un dio nella paglia. Stanno nel pozzo dei pastori che abitano i pianori desolati e danno da bere all’assetato. Hanno una vista molto acuta che le fa individuare e abitare i paesi appena abbandonati: i guadi che danno sui pietrischi, le statue corrose, il vento che vi passa in mezzo con un ruggito di belva distolta dal pasto.
Adorano la pace della severità. Diffondono il verbo del dio sconosciuto venerato tra gli dei greci e ne annunciano la resurrezione nell’Areopago per esercitare la loro eloquenza. Accarezzano nel sonno gli occhi incavati nelle orbite dei malati di mente, ai morti donano un sorriso calmo e una assorta meraviglia. Sfilano in processione con gli incatenati di Santa Rita, amplificando gli echi delle catene lungo il pendio delle colline, la violenza di quelli che hanno vissuto il tumulto, la prigione o l’indigenza.


Le streghe sono ambosessi ma non hanno un curriculum in formato europeo. Non hanno neanche un profilo sui social. Penetrano nei condomìni di ogni periferia, blocchi lunghi cento metri, alti dieci piani, dove occhieggiano quattrocento finestre di un primo parallelepipedo. Sentono con dispiacere il sudore e il tanfo acre filtrato dalla corruzione della materia umana, che si svelena appena nella paglia e nella tela cerata delle baracche di Dharan. I loro migliori amici sono quelli che hanno una sequela di guai e di debiti: anche se non hanno denaro, si prodigano in piccoli gesti di sovrannaturali che non salvano completamente dalla morte, dalla sconfitta, dal dolore: sono aurore che non svegliano il mondo. Concedono agli uomini la facoltà di deporre la ragione nel sesso o nel peso del sangue, pur abolendo le circoncisioni dei pagani.
Certe volte fingono di capire tutti: fanno di sì col capo, guardando teneramente l’interlocutore nel vuoto delle parole, ma la loro mente sta altrove.      


Cose donate dalle streghe ai bambini: il sostegno alle nuche stanche, i piedini forti, i raggi di sole, ali invisibili.
Cose donate dalle streghe agli uomini: il respiro, le costellazioni, i libri, l’acqua, gli inni, il sesso e la parola, la latenza delle cose inoperose: il succo dolce delle more e le tende dei rami intrecciati, la sensazione che ci stiamo tutti dentro questo momento, dentro una cosa che fa tremare, estratta da una ferita verticale per noi che credevamo di sapere tutto dell’amore.

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Sono nata a Roma nel 1971. Ho studiato Scienze Politiche alla Luiss e Lettere Moderne all’Università di Tor Vergata. Mi occupo di giocattoli antichi. Mi interessa la poesia, la letteratura e l’arte per bambini che, a parte la bellezza, son loro che salveranno il mondo. Alcuni miei scritti si trovano nel “Repertorio dei matti della città di Roma”, Marcos Y Marcos; e nella raccolta “L’ultimo sesso al tempo della peste”, Neo Edizioni.   


Il pianto dei colombi, di Elisabetta Romersi

Il pianto dei colombi

di Elisabetta Romersi



 Ti riconosco dal gesto di portare i capelli dietro l’orecchio, l’anulare che sfiora la tempia. Hai sempre la frangia lunga e spettinata e quel taglio fino al mento che ti fa sembrare una mela, o la luna. Ti ho frequentata abbastanza da capire che sei confusa. D’altronde sei per conto tuo di fronte al vetro dei panini e la caffetteria del Policlinico è sempre ben fornita. Ecco che ne indichi uno, agiti il dito per dire che non lo vuoi scaldato, così lo ricevi dalla mano del barista e subito dai un gran morso. Sei sempre stata golosa, avida. Quell’unica volta che lo sono stato io, mi hai punito a morte. Osservo il cappotto lungo e gli stivali tipo cavallerizza. Ricordi come ci siamo messi insieme? A sedici anni ero timido come se ne avessi dodici. Appena potevo me ne andavo dietro la palestra con le sigarette e un libro, o la musica, spesso entrambi. Un giorno sei arrivata e ti sei messa seduta a fumare sui gradini più alti. Mi fissavi e io non capivo cosa volevi. Non ti avevo mai vista a scuola, eppure c’eri sempre stata. Sei scesa e ti sei messa accanto a me. Mi hai fatto vedere il tuo Zippo e mi hai parlato del codice alfanumerico inciso sul fondo di ogni esemplare per datarne la produzione. Il tuo apparteneva a una serie limitata e ne eri molto orgogliosa. Sei stata la prima che ho baciato, che ho accarezzato, la prima con cui ho goduto. Non facevo niente senza averti in testa. Mi affascinava il tuo cinismo e mi divertiva che dicessi un sacco di parolacce davanti ai tuoi. Da quando stavo con te mi sembrava che la gente mi guardasse in modo diverso. Se non restavamo in casa andavamo al cinema o da McDonald’s o a passeggiare in centro. Camminavamo abbracciati ed evitavamo i lampioni per non doverci staccare.
Mando giù il caffè ormai freddo. Tempo di riabbassare la testa e scopro che ti sei girata, mi guardi, anzi, mi squadri masticando l’ultimo boccone del tuo panino. Faccio finta di niente, ma non mi viene mai bene e a questo punto ci siamo scambiati fin troppe occhiate. Alzi anche una mano. Incerta, ma lo fai. Tra noi ci sono quattro metri e diciannove anni di lontananza. Ti sorrido e ci muoviamo incontro, dico: “Ciao Roberta”, tu dici: “Chi non muore si rivede”, ti accosti per baciarmi. Hai cambiato profumo, ma il tuo vero odore, l’odore della tua carne trasuda sempre e comunque e mi stacco a malincuore, perché vorrei annusarti ancora e ancora. Dici qualcosa che non capisco, mi distraggono gli schiocchi delle stoviglie e le voci delle persone. Mi afferri per un braccio, dici: “Andiamo fuori”, la sigaretta che pende dalle labbra senza rossetto. Ci facciamo largo nella nuova ondata di gente che si riversa nel bar. Dopo le porte scorrevoli ti fermi appena sulla destra. Ci investe una luce acida che filtra dalla cappa di nuvole come un’immensa plafoniera al neon. Il suolo è pieno di coriandoli, galleggiano nella pozzanghera e formano una fanghiglia dove finisce il passaggio carrabile. Non ci sono posaceneri e leggo il divieto ovunque, ma non siamo gli unici a trasgredire, così mi tendo verso la fiamma che mi offri. È un accendino Bic, rosso, normale. “Il tuo adorato Zippo?” Mi guardi tra l’imbarazzo e il rimpianto, dici: “L’ho venduto” e fai due tiri di sigaretta, uno dietro l’altro. Sei sempre tu, solo con qualche ruga intorno agli occhi. I tuoi denti stanno molto meglio dei miei. “Era un momentaccio”, dici, “m’è dispiaciuto un sacco darlo via”.
“Perché sei qui?” Lo chiedo per genuina curiosità, ma forse la domanda è troppo invasiva, è passato tanto di quel tempo che potremmo essere involuti allo stato di estranei. Tu fai una faccia come a intendere che la storia è lunga e tortuosa, ma poi cominci a parlare: “Ho portato il collare, oggi avevo l’ultimo controllo. Tutto a posto”. “Perché? Che hai fatto?” Ridi, poi tossisci. “Mi sono incartata nel cancello di una villa ristorante.” “Ma a quanto andavi?” “Il bello è che neanche correvo. Non so perché non ho frenato.” Fai una pausa per guardarti intorno, giri e rigiri l’anello d’argento che porti al medio. “Meno male che mio figlio non c’era. Quel giorno di solito lo accompagno a judo. È rientrata tutta la fiancata. Il carrozziere ha detto che se al posto del passeggero c’era qualcuno ci rimaneva secco.” Sospiri: “La rottura adesso è che mi hanno tolto la patente”.
Hai fatto un figlio con un altro. Mi pare giusto. Dovevamo farlo noi, ricordi? Abbiamo tanto pregato che il test fosse negativo, ma poi abbiamo pianto, perché sotto sotto entrambi un po’ lo volevamo. 
Mi sfilaccio lo strappo nei jeans. Mi chiedo chi di noi due porterà il discorso là dove sappiamo entrambi. Io non ci tengo. Soffi il fumo, schiacci il mozzicone. “Tu invece? Che fai in questo posto allegro?” Si libera una panchina, c’è spazio anche per te, ma resti in piedi. “Vengo tutti i giorni da due mesi. Mia madre è in terapia intensiva. I reni sono partiti. Tra un intervento e l’altro le hanno tolto mezzo apparato digerente. Dicono che il cuore si fermerà di nuovo e a breve. L’hanno già rianimata due volte, adesso insomma bisogna decidere se accanirsi o lasciarla andare.” Tu mormori: “Cazzo” e mi strofini la spalla. Poi finalmente mi siedi accanto. “Mi spiace”, dici. “Anche se, poi, ammettiamolo: mi odiava.” “Ma no che non ti odiava. Lei è fatta così, schiva, non c’era niente di personale.” Ma mento anche a me stesso, ti riservava un disprezzo particolare, altroché. Quando ti portavo a casa spariva nel suo studio per non doverti parlare. Con me non faceva mistero di evitarti di proposito. “Sarà”, dici. “Comunque mi dispiace, ci mancherebbe. Per il resto? Ti fai ancora?”
Eccoci qua. “No, da un pezzo”, rispondo. Ed è sempre un trionfo poterlo affermare. Alzi un sopracciglio. “Che bravo. E ti sei fatto poi per quanto tempo?” Incrocio le gambe sulla panchina nell’illusione che la postura anarchica mi faccia assomigliare al ragazzo che ero quando stavo con te. “Non tocco niente da quattro anni. E tu? Com’è andata? Ti trovo bene però.” Sorridi. “Mi lascia e mi riprende come e quando vuole lei”, inizi a cantare. “Riesce solo a farmi male.” Ondeggi le mani, te le porti al cuore per farla più teatrale. La tua voce si è arrochita e serve bene il brano. Non hai perso il gusto di rispondere per citazioni. Storpiavi le parole quando volevi deliberatamente irritarmi. “E, adesso, ti lascia o ti prende?” “Mi prende. Dopo l’incidente mi hanno pure alzato il metadone.” La risposta non mi stupisce, anche se ammetto che ne avrei preferita una diversa. “Lavori?” dico allora seguendo la logica più becera. Ti metti gli occhiali da sole, sono grossi, anni sessanta. “Sto in azienda da mio padre.” “Dove non volevi finire”, faccio io, ma subito mi mordo la lingua. Tu sorridi: “Meglio che vivere in una scatola di cartone”. Ti suona il cellulare, chiedi scusa, lo prendi dalla tasca, leggi e digiti qualcosa. Poi scatti in piedi: “Devo andare a Vigna Clara, mi daresti un passaggio?” Dico di sì: per Vigna Clara devo solo fare una piccola deviazione.
Seguiamo il vialetto pedonale per raggiungere l’uscita, mi precedi, è troppo stretto e affollato per camminare accostati. Entrambi siamo costretti sul percorso per ciechi e lo calpestiamo con diligenza. Almeno ti posso guardare da dietro, i capelli castani che oscillano al passo. Era il nostro primo viaggio in macchina, all’Argentario, l’estate degli esami. Avevi comprato dei braccialetti di bambù a un mercatino. Per qualche motivo che non ricordo, la sera, in albergo, hai dato di matto e hai cominciato a prendermi a schiaffi. I braccialetti si sono frantumati sotto la tua stessa ira e ti sono caduti dai polsi. Ti sei inginocchiata, hai raccolto quei brandelli di legno piangendo convulsamente come se fossero cadaveri.
Quel novembre ho iniziato a frequentare Architettura. Tu non eri convinta di niente e hai deciso di concederti un anno di riflessione.
Ci infiliamo in un altro vialetto transennato, ancora più affollato e angusto. Ora sono io che conduco. Tra una falcata e l’altra penso che è stato allora, all’inizio del tuo anno sabbatico, che hai conosciuto quella Claudia. Dicevi che faceva la cantante jazz, ma non ho mai visto una sua esibizione, né sentito la sua voce. E quando ci ho parlato, per quanto poco mi interessi il genere, ne sapevo quasi più io. Spesso mi chiamavi solo per raccontarmi di lei. Claudia ha detto. Claudia ha fatto. Quando la criticavo diventavi feroce. Non ero mai stato geloso di un uomo, sul serio dovevo esserlo di una donna? Con l’università di mezzo non riuscivo a starvi dietro. Andavate per negozi, proprio tu, che non ti era mai piaciuto. Uscivi con lei quattro sere a settimana e ogni volta facevate più tardi. Era chiaro come il proseguimento degli studi fosse l’ultimo dei tuoi pensieri. Prima ti vestivi come Sporty Spice, adesso mettevi tacchi e roba aderente. Avevi diciannove anni e tutt’a un tratto ne dimostravi venticinque. Mi portavi a certe feste gonfie di musica che mi faceva schifo e di gente che non mi interessava. Mi supplicavi in lacrime di mettermi una giacca, di legarmi i capelli. Ti stavi allontanando e non sapevo come trattenerti, mi piacevi ancora tanto, e per certi versi anche di più. Cercavo di convincermi che fosse una fase da superare, che avremmo trovato un compromesso e saremmo andati avanti. 
Mi lancio nel traffico per attraversare. Tu mi imiti, pronta. Ancora pochi passi e siamo al parcheggio ventiquattrore. Recupero il ticket, tu aspetti tra le scale e l’ascensore e intanto guardi il telefono. Alzi gli occhi, sorridi, dici: “Senza patente è una vitaccia.” “Non c’è problema”, dico io, “davvero”. Ti raggiungo, chiamo l’ascensore, ma già ti stai avviando a piedi, così non mi resta che seguirti. Arriviamo al livello meno due. Ti sorpasso sulla porta per fare strada, intercetto il Doblò dove l’ho lasciato stamattina. Quando vedi il mezzo da lavoro, il tuo passo ha una piccola esitazione, ma poi prosegui e sali dalla tua parte. Tiri la cintura, la agganci guardandoti intorno sospettosa, com’era prevedibile. “Fai le pulizie adesso? Ma non andavi all’università? Cos’era? Sociologia?”
La carrozzeria interna è coperta di graffi, dietro ci sono le scope di saggina, il montacarichi e il bidone aspiratutto. Il cruscotto è pieno di cartacce, sui tappetini c’è terra mista a sassolini da vaso. Ma i sedili sono ragionevolmente puliti. Incrocio il tuo sguardo mentre cerco lo specchietto per fare retromarcia. “Architettura”, dico, “ma non mi sono laureato. Ho aperto un piccolo vivaio insieme a un compagno di comunità”. Tu sussulti e fai una ics con le mani davanti al viso, un gesto che mi sgomenta. “Non mi parlare di quei postacci.” Ti metti a cercare qualcosa in borsa. “Una gelatina alla frutta?” Porgi il pacchetto mezzo consumato, dico: “No, grazie”. Una volta fuori, accendo la radio. C’è uno che parla. Rispengo. “E com’è?” domandi. Dico: “Che cosa?” “Lavorare in un vivaio.” Apro la bocca per parlare, ma di colpo ti getti a indicare qualcosa. “Accosta. Accosta un attimo. Devo prendere le sigarette.”
Vai decisa verso il bar-tabacchi e per un momento i lembi del tuo cappotto si aprono e fluttuano come ali nere. Sull’ingresso sorridi e fai ciao con la mano alla bambina vestita da principessa che il padre ha appena issato sullo scooter. Entri e ti perdo di vista. Sul cellulare non ci sono chiamate dall’ospedale né messaggi del primario. Il cielo sembra quasi da neve.
Alla fine dell’anno ci vedevamo di più, ma stavamo sempre a discutere. È arrivato Natale, poi c’era Capodanno. Dei compagni d’università mi avevano invitato a un veglione rock in un locale di via Saturnia. L’invito era esteso anche a te, ma tu hai detto che volevi andare da un’altra parte. Io non avrei sopportato ancora una festa delle tue e te l’ho detto. Ma tu hai risposto che era una cosa tra poche persone, amici di amici di Claudia: un paio erano musicisti e avrei trovato di che parlare. Claudia non ci sarebbe stata, potevo dormire sereno. Litigammo per una settimana. Poi hai concluso che ognuno avrebbe festeggiato per conto suo, pazienza che fosse il Duemila. Quella frase mi sembrò l’inizio della fine.
La casa si trovava in campagna, giù in fondo a Testa di Lepre. Era di un solo piano, ricordo un pergolato senza piante e che il proprietario aveva tipo cinquanta gatti. I tuoi amici erano tutti più vecchi di noi. Ci hanno dato zampone e lenticchie anche se non erano ancora nemmeno le undici. Poi ci siamo trasferiti in una specie di garage mezzo arredato. Dal momento in cui avevo acconsentito a venire alla tua serata eri diventata docile e carina, addirittura non avevi fatto storie perché mi ero messo una delle mie solite magliette. Quando ho visto le siringhe volevo alzarmi e andarmene. Ma prima dovevo liberarmi dalla tua stretta, dalla tua coscia sopra la mia. Ho rimandato di minuto in minuto, finché alla fine ho smesso di pensarci, e sono restato.
Così è iniziato il mio millennio: svaccato su un divano a ciondolare la testa, con un gatto a pelo lungo arrotolato addosso.
Ecco che torni. Entri in macchina e hai già acceso la sigaretta. “Scusa, eh, la tabaccaia m’ha attaccato un pippone sul malessere del Paese, poi un altro sul beneficio di fumare sigari… Dai, riparti, facciamo la galleria, no? Perfetto. Anche se non ho un vero e proprio appuntamento, devo più che altro passare al negozio di un’amica a darle una cosa.” Abbassi il finestrino di tre dita. “Insomma adesso la reggia diventa tutta tua. Sai che vengo ad abitare vicino a te? Abbiamo dato l’anticipo su una casa in via Carissimi, terzo e quarto piano con terrazza su villa Borghese.” Mi viene da tossire. Su cosa mi dovrei concentrare? Sul plurale, che di sicuro comprende il tuo uomo, la tua famiglia, il che mi fa ricordare di non averne una mia, sul riferimento all’eredità che sta per schiacciarmi, oppure sulla notizia che potrei incontrarti a spasso col cane o a prendere un cono da Blue Ice? Mi schiarisco la gola. “Ottimo”, dico mentre scivolo nel tunnel verso l’Olimpica. Ho paura in ogni momento che ti metta a parlare di noi, e insieme non aspetto altro.
Dopo sei tornata come non eri da tempo. Dormivamo di nuovo abbracciati, mi chiamavi amore, amore mio, in tre anni non l’avevi mai fatto, mi avevi chiamato in tanti modi, ma mai così. Sapevo dove mi stavo infilando, eppure mi son detto che, se era l’unico modo di riaverti, tanto valeva correre il rischio. Meglio mutilato con te, che integro e senza. L’ingenuità è stata credere che saremmo morti insieme. “Poi ti lascio il mio numero”, dici levando gli occhiali da sole. “Anzi, se mi dai il tuo ti faccio uno squillo, così mi metti in memoria.” Prendi l’iPhone, lo rianimi col pollice. “Che poi il numero mio non è mai cambiato, cioè, cosa più unica che rara.” “Tre tre uno nove tre cinque tre quattro uno nove”, recito in un’esaltazione che non mi spiego.“ ”Caspita!”, dici sgranando gli occhi. “Allora lo squillo non serve. Io però il tuo non me lo ricordo, scusa.” Mi fai quasi tenerezza. L’avrai dimenticato dieci minuti dopo che ci siamo lasciati. “Non importa”, dico. Tu ridi: “Vabbè. Eri tu quello bravo coi numeri. Ricordi quando mi facevi i compiti di matematica?”.
Parlarti mi affatica. Guardarti negli occhi brucia. Accendi una sigaretta, è per me, fai per passarmela. Vedo la colonna di traffico alla fine del tunnel, freno e metto le quattro frecce. Dici: “Non la vuoi? Mo’ smetti pure di fumare?” Sfilo la paglia dalle tue dita e mi sposto nella corsia di destra, che sembra scorrere un po’ meglio.
Ci lasciamo il traffico alle spalle uscendo verso lo Stadio. “Ricordi la mia Twingo?”, domandi lasciando filare lo sguardo lungo il muro bianco della Farnesina. “Quante cose ci abbiamo fatto, eh?” Strizzo la bocca in una smorfia, guardo le tue belle gambe in pantaloni neri riflesse nel finestrino dalla mia parte. “Ci siamo andati a Porto Santo Stefano. Te la ricordi la cena di caciucco?” Rido di cuore per la prima volta, ma tu mi rivolgi un sorriso remoto. A che stai pensando? Ai braccialetti di bambù? Io penso a quando ci infilavamo con la tua macchina nuova nelle frasche di Valle Aurelia. Penso allo Zippo sotto la fiala. A te che addenti la sigaretta per cavare fuori il filtro. Eri ancora tu a prendermi la vena. Mi leccavi il sangue dal braccio, cazzate che si fanno all’inizio.
Mi accorgo di aver superato lo svincolo per Ponte Milvio. Questione d’abitudine, potrò recuperare tra poco. “Oggi è giovedì?”, domando. “Sì”, fai tu riscuotendoti, “perché?”. “Niente”, dico, “niente di importante”. Ma la realtà è che proprio adesso mi è venuto in mente che oggi la donna ha il giorno libero e allora, giunto alla seconda possibilità per svoltare, ignoro anche questa. Tra un attimo mi farai notare che sto sbagliando, che dobbiamo andare dalla parte opposta, allora dirò che mi sono distratto, cosa che in parte è vera, e tornerò indietro appena consentito. Ma attraversiamo il ponte, sbuchiamo sull’altro lato del Lungotevere e non hai ancora protestato. Mi offri un’altra gelatina e stavolta l’accetto. Ci siamo lasciati un pomeriggio di febbraio. Tuo padre aveva iniziato a fare domande strane, così mi hai dato una busta da nascondere, l’abbiamo messa insieme nel vinile di Machine Head, il primo da sinistra in basso. Due giorni dopo sei tornata e il disco non era più lì, ma per terra accanto al letto. Era un pomeriggio scuro, di pioggia fitta, eri tutta bagnata. Hai infilato la mano nella copertina, hai chiesto dove fosse la roba, e siccome non rispondevo, ma ridacchiavo e mi grattavo, hai capito che me l’ero sparata tutta, che non ti avevo lasciato niente, e hai cominciato a dirmi che facevo schifo, che ero un pezzo di merda, che dovevo morire. Non distinguevo il sotto dal sopra, ma sento ancora il tuo anello che mi si aggancia ai capelli e me li strappa via. Continuavo a dire Te la ripago, te la ridò!, ma tu mi hai spinto, ho perso l’equilibrio e sono caduto col culo a terra. Allora hai alzato la mano alla libreria, hai afferrato la copia di IT che mi avevi prestato quand’eravamo ancora a scuola, e ordinandomi di non cercarti più sei uscita dalla stanza, quindi dalla casa. Non ti ho seguita, mi sono sdraiato sul pavimento e sono rimasto lì per non so quanto tempo, ad ascoltare la litania dei piccioni sotto le gronde, quel punto linea punto che in codice Morse sta a indicare la lettera erre. Ti ho chiamata la sera stessa, ma non hai risposto. Per giorni sono venuto a cercarti a casa, al citofono dicevano sempre che non c’eri, finché tuo padre non mi ha intimato di smetterla, altrimenti avrei passato guai. Avevi chiuso con me e ho dovuto inghiottire l’evidenza.
Oggi non è la prima volta che ti rivedo da allora. È successo quattro o cinque anni dopo, al boschetto, mentre ero in fila per prendere dieci euro di nera. Eri alla mia sinistra appoggiata a un tronco caduto. Rapido, ho tirato su il cappuccio della felpa, anche se non ero sicuro che fossi tu. Primo perché eravamo lontani da Roma, poi perché avevi una giacca a vento rossa e abbondante e dalla tua spalla pendeva uno zaino dai colori chiassosi, giallo fluo, arancione. Una roba che al tempo non avresti mai messo. Ma eri tu. Ti guardavi intorno in attesa, ti mordevi le unghie. Ti portavi i capelli dietro l’orecchio. Vicino a te c’era un africano che ogni tanto ti parlava, tu gli rispondevi per monosillabi e tornavi a controllare lo sterrato alle tue spalle. Ti sbirciavo dall’orlo del cappuccio, mentre avanzavo a piccoli passi verso il banchetto col bilancino e stringevo i miei soldi nel pugno sudato. Avevi un’espressione nuova negli occhi, un liquore che te li rendeva lucidi e duri, appuntiti come quelli di un avvoltoio. A un certo punto hai sbuffato e ti sei staccata dal tronco, hai camminato sempre più lontana fino a sparire tra erbacce e rifiuti. Finalmente ho preso il pezzo e sono corso nella tua direzione, ma non ti vedevo, lo sterrato era ampio e deserto, era quasi buio e tra gli alberi potevi essere ovunque. Proprio allora ho trovato il mio amico che si stava già facendo e mi sono fermato con lui. Tanto, che ti avrei detto?
Ormai devi aver capito che non stiamo andando dove volevi. Osservi il cerchio rosso di Staccioli e la scalinata della Galleria, ti giri fino a torcere il collo, come se fosse la prima volta che li vedi. Porti gli occhiali sulla testa e mi sorridi. Dici: “L’attico è proprio qui dietro. Al ritorno ci passiamo davanti, ti va?” Annuisco appena, mentre saliamo per via Aldrovandi, verso casa. Hai capito, dunque, e sei d’accordo: c’è qualcosa da cui tornare, qualcosa verso cui stiamo andando. Mi fletto per prendere il telecomando, dici: “Scusa”, scosti le ginocchia dal portaoggetti. Hai una mano adagiata nell’altra e sei immobile con lo sguardo in avanti, nonostante le piccole scosse del furgoncino. Entriamo. Ti abbassi per guardare la facciata celeste e bianca del villino. “È in ottima salute mi pare.” “Come no, sprizza gioia”, dico e tiro il freno a mano. Apro lo sportello e quasi rotolo fuori, con l’ansia che ora dobbiamo parlare per forza di questo. Con una lentezza che sembra inversamente proporzionale alla mia fretta, poggi gli stivali sul ghiaietto, ma non levi gli occhi dalla casa. “Tua madre partiva per due giorni”, dici come se raccontassi un sogno. “Al cambio dell’ora sei venuto in classe e mi hai chiesto se volevo venire a casa tua. Non ci ero mai venuta ancora.” Parlando muovi qualche passo verso il portico, le mani nelle tasche del cappotto. “Allora ho detto che in teoria avrei potuto fermarmi anche la notte e tu hai risposto: ‘Non solo in teoria, anche in pratica’. ‘Sta scena mi è tornata in mente adesso. Non solo in teoria, anche in pratica”, ripeti cercando di imitare il tono serioso che avrei usato. “Poi m’hai dato una schicchera sulla tempia e te ne sei tornato in classe tua.”
Non ricordo questo dettaglio, ricordo però che bevemmo parecchio vino, e quella specie di moscacieca in cui dovevo riconoscere il tuo corpo attraverso il lenzuolo usando solo la bocca.
Sbotti a ridere. “Che è?”, dico quando vedo che non ti fermi, anzi, ti tieni pure la pancia. “La frase…” dici tu, “lassù”. Ti riferisci a Aeque impartitur, che i miei trisnonni fecero inscrivere sul fregio del portico alla costruzione della casa. Ti asciughi gli occhi e tiri su col naso, cerchi di parlare senza ridere. “Adesso che la rivedo mi pare più comica che altro. Dividere equamente, sembra pensato da un tossico, era proprio nel tuo destino...” Ridi ancora, ma è giusto un ultimo sbuffo, poi finalmente la smetti. Scelgo di non commentare la battuta. Ti raggiungo al portone con le chiavi pronte. Anche tu starai pensando a quel giorno dei colombi e mi monta dentro un imbarazzo che intendo non farti vedere. Mi strappi di mano le chiavi, trovi quella giusta, è facile riconoscerla, magari te la ricordi pure. Due mandate e il portone ci lascia entrare. Blocchi uno starnuto, poi subito un altro. “C’è sempre puzza di chiesa qua nell’atrio, ma che ci fate? Le messe nere?” Annuso anch’io e capisco che intendi: “È il detersivo, hanno lavato ieri”, dico raddrizzando la bicicletta contro la parete. “E usate lo stesso da vent’anni?” Cominci a salire lo scalone, io salgo uno, due gradini dietro di te, mi fermo, guardo te che sei sempre più in alto. Recupero correndo. Apro le mani sulla tua schiena, ti afferro per il cappotto, ti spingo giù, tu cadi sulle ginocchia, non opponi resistenza. Il mio inguine preme sui tuoi lombi. Volti il viso fino a incontrare i miei occhi, apri la bocca, la spalanchi, mostri la lingua per dirmi che vuoi essere baciata e io mi getto sull’invito come un affamato, ma le nostre lingue riescono appena a toccarsi e così con le mani continuo a cercare un accesso alla tua pelle e invece trovo solo stoffa e il cuoio morto della tua borsa. Intanto salgo di un gradino tra le tue gambe, inarco le spalle indietro e lascio cadere il giubbotto che si affloscia ai miei piedi. Tu ti sbarazzi del cappotto, sfili il maglione, getti tutto intorno. Ed eccola la tua pelle iridescente, le vertebre che mi divertivo a suonare come tasti di pianoforte, la costellazione dei tuoi nei. Ti sbottoni i pantaloni e li abbassi quel tanto che serve, io faccio lo stesso, mi reggo al mancorrente e alla tua schiena per cercare una posizione meno scomoda e alla fine decido di restare in piedi. “Una volta”, dici mentre ti scopo, “una volta, in quinto, eravamo sull’autobus… L’auto, l’auto era pieno, si stava tutti pressati… abbiamo cominciato a toccarci… sei riuscito pure a mettermi la mano nelle mutande… ricordi? Siamo dovuti scendere alla fermata appresso per chiuderci nel bagno di un bar.” Io dico: “Sì, sì, certo che mi ricordo”, e sorrido tra me, le nostre mani si intrecciano nei fiori di ferro della balaustra. Un boato improvviso fa vibrare il finestrone piombato. Scattano anche gli allarmi delle macchine. “Cazzo che tuono!”, dici staccandoti da me. Rotoli via di lato, mi spingi e mi fai sedere sullo scalino gelido, ti sfili uno stivale, poi liberi dai vestiti una sola gamba. Mi cavalchi, mi baci per la prima volta dopo diciannove anni, ma temo che questo non sia niente di quello che è già stato. Si aggiunge il fragore della grandine sui vetri. Tu ridi, nell’oscurità dell’androne i tuoi denti sembrano più bianchi e mi viene il dubbio che siano anche finti. Mi afferri le mani e te le premi sulle tette, come la prima volta che me le hai fatte vedere. Ridi e ridi. “Abbiamo fatto incazzare Dio!”, gridi distorcendo il viso in una smorfia da pazza. Io non riesco a parlare, il cuore mi pulsa nello stomaco, ti accarezzo come se volessi recuperare il tempo che non ho passato a farlo, ripeto il tuo nome - Roberta. Sei calda, sudata, hai il sorriso beffardo che amo. Ti prendo, affondo il naso nei tuoi capelli. Dico:” Ti ho amata. Ti ho amata”. Tu dici: “Anch’io, sì”, e intanto ti tocchi, ti tocchi e gemi, e la tua voce ritrova le frequenze che pensavo avesse perso, e appena vengo anch’io mi stringi e mi culli come se volessi addormentarmi.
“Fammi usare il bagno”, dici recuperando il maglione e lo stivale.
Metto su il caffè. Le strade sono bianche di grandine. Dall’ospedale nessuna notizia. Mi fanno coprire ogni volta dalla testa ai piedi per entrare da lei. Una volta, con la mascherina e la cuffia, non mi ha nemmeno riconosciuto e si è agitata tanto che sono dovuto uscire. È passata una settimana dall’ultima volta che ci siamo parlati. Lei mi ha chiamato Giulio, confondendomi con papà, poi ha capito che ero io. Ho avvicinato l’orecchio, me lo sentivo dentro che stava per dire qualcosa di definitivo. “Conserva la casa. È tutto quello che abbiamo.” Un attimo per riprendere fiato: “Non dar via la casa”. Ho fatto sì con la testa, ma non so cos’abbia capito, sì la tengo o sì la vendo. Dopo ha chiuso gli occhi, non è stata più cosciente. Il nostro rapporto è finito con un malinteso. Da piccolo pensavo che il motto fosse un invito cristiano a compatire, invece poi ho saputo che fu scelto per scongiurare contese patrimoniali. Ma io non ho fratelli, con chi dovrei litigare? E non è solo la casa, ma tutto quello che c’è dentro. I quadri hanno sicuramente un certificato di autenticità, solo che non ho idea di dove venga custodita questa roba. Vero che mi sarei potuto interessare io, ma fino a un mese fa sembrava che dovesse riprendersi. Bisognerà far venire una casa d’aste per valutare ogni oggetto. Dovrò essere presente. Col corpo e con la testa. Di certo non sarà una cosa breve. Mi copro la faccia e soffoco un verso simile a un raglio.
Hai tirato su i capelli, ma non sono abbastanza lunghi e molti sfuggono via dall’elastico. Il cappotto è rimasto sulle scale. Ti siedi e accavalli le gambe. “Giusto il tempo di una sigaretta.” Ne sfili una dal pacchetto che trovi là accanto. Metto le tazzine sul tavolo, allontani la tua. “Grazie, ma non lo bevo più il caffè. Mi fa riempire di bolle.” Io mi sono appena seduto e faccio per rialzarmi. “Succo di frutta? Bicchiere d’acqua? Non ho molto altro.” Scrolli un cilindretto di cenere dai pantaloni: “Non ti disturbare, tra un minuto mi passano a prendere. Insomma, hai già unito le mani per acchiappare i milioni che ti arriveranno? Sei sempre il Delfino di Francia, sì?” “Forse sarebbe il caso di aspettare che sia morta”, dico forzando un sorriso. L’accostamento infausto e sproporzionato mi sa di presa per il culo, un atteggiamento che conosco e che sguinzagli quando sei invidiosa. “Sì va bene, ma devi fare un figlio anche tu, altrimenti chi sarà il prossimo Delfino?” Mi accendo una sigaretta, allungo le gambe sul pavimento. “Parliamo di qualcos’altro, ti spiace?” Ma comunque qualsiasi discorso rischia di venire interrotto. Riecco infatti il trillo del tuo telefono. “Com’è il civico, qui?”, dici picchiettando veloce sullo schermo. “Ventiquattro?” “Dipende da chi lo vuole sapere”, rispondo serio. “Andiamo, non fare l’imbecille, è una mia amica che lavora qua dietro e mi dà uno strappo a casa.” “Settantasei”, dico allora di malavoglia. Butto giù quel che resta del caffè. “Hai sempre un sacco di amiche tu. Che ne è stato della cantante jazz?” Mi guardi confusa, poi ti illumini. “Ah, vuoi dire Claudia Massimi. Non c’è più. Over nel duemilasei, l’hanno trovata con la faccia nel vomito. Non una gran perdita, comunque. Era una mentecatta.” Inverti l’incrocio delle gambe: “Quindi tu basta pere”. “Quindi io basta pere.” Sbadigli e subito mi viene da sbadigliare appresso a te. Ti rimetti a digitare e non capisco a che livello ti interessi la mia storia, e a ‘sto punto anche quanto interessi a me raccontartela. Mi stiracchio, spero che vengano presto a prenderti. La cucina è buia, potrei accendere la luce, ma non mi va di alzarmi. Le foglie della magnolia gocciolano fuori dalla finestra. Non c’è stato un raggio di sole in tutta la giornata.
Posi il telefono a faccia in giù sul tavolo. “Fai tanto il ripigliato…”, dici, e resti a fissarmi come se dovessi completare la frase. “Sì, cioè, fai tanto il ripigliato, ma ti trovi ancora in zona rossa. Che credi? Tanta gente è ricaduta dopo molto più tempo.” “Ti sfugge che io non sono tanta gente”, dico, ma ti metti a tirare fuori roba dalla borsa, scatole di medicinali, li getti sul tavolo, qualche blister scivola fuori. Halcion. Efexor. Depakin. Li nomini uno per uno. Canti: “Tossicità. Quando tu ce l’hai dentro non te la levi la tossicità. Na na na na.” Osservo senza capire, poi vedo le posologie scritte da me sulle scatole e intendo che sono mie, che le hai prese dal mio bagno. “Cazzo significa?” dico alzandomi. “Questa è roba che devo prendere.” “Sì, vabbè, lo dicono tutti quelli che si fanno di qualcosa, fosse anche di noccioline.” Ti giri verso la finestra e ricominci a digitare. Sto per esplodere. Puoi sentire il mio naso che succhia l’aria e la ributta fuori con la velocità di un mantice. Lascio la cucina, calpesto il corridoio fino all’ingresso. Entro nello studio. Potrei ucciderti con questo tagliacarte, ma purtroppo ho già abbastanza problemi. Ritorno in cucina. “C’è da ammettere che hai avuto una bella parte nella questione della mia tossicità”, dico piantandomi a un metro da te. Tu sorridi sprezzante: “Bello mio, se l’hai fatto è perché lo volevi fare tu. Non darmi colpe che non ho”. Agguanti la borsa, ti alzi. “Devo andare, mi stanno aspettando al cancello”. Ti blocco per un braccio, stringo per farti male. “Ma dove, dove devi andare?” ti urlo in faccia. “Dal marito che hai appena tradito? Dal figlio che solo per caso non era con te mentre ubriaca o fatta o entrambe, ti schiantavi sul cancello di un ristorante? Ma non sei stufa? Non sei stanca?” Ti spingo contro il muro, sembri un sacco vuoto, quasi sono io che ti reggo. Mi scruti con quegli occhioni da bambola triste, piagnucoli: “M’hai portato qui per farmi stare male”. Allora ti lascio, e crolli sui talloni, e scoppi a piangere sul serio. Io sospiro, dico: “Adesso pure le lacrime”. Mi accosto alla finestra anche se da qui il cancello non si vede. Ma davvero, mentre ti baciavo, mi è venuto il pensiero di ricominciare tutto quanto?
All’improvviso un dolore fortissimo alla tempia e il posacenere si schianta sul pavimento. La cenere mi è entrata negli occhi, non li posso aprire. “Stronza!” Barcollo cercando a tastoni il rubinetto, butto la faccia sotto l’acqua, mi strofino, tossisco. “Guarda, farò finta che non sia successo niente”, dici in piedi accanto al microonde, la borsa che pende dal gomito. “Capisco che sei angosciato per tua madre. Se ti va, cercami. Il numero lo sai.” Mandi un bacio e sparisci dalla cornice della porta. Chiudo l’acqua nell’impulso di seguirti per fare non so cosa, ma la riapro subito. La botta mi ha lasciato un fischio nella testa, ho mozziconi dappertutto, nella maglietta, nelle tasche della camicia. Sento i tuoi passi che raggiungono il portone, ti immagino recuperare il cappotto dalle scale. Il cancello scatta e dopo un attimo il rombo della macchina ti porta via. Siamo stati insieme un’ora e mezza e non hai mai detto il mio nome. Ma mi ha riconosciuto davvero? Oppure hai dimenticato anche quello? Mi asciugo la faccia, ho ancora il fiatone. Qui c’è il foglio con le accortezze alimentari che chi ha subito una gastrectomia deve osservare. Parlavano di dimissioni, dopo due giorni il primo infarto. Non tornerà più a casa, tra poco arriverà la telefonata e dovrò essere pronto a segnarmi le indicazioni della camera ardente. Dovrò scegliere i vestiti per la bara. Mi piacerebbe quella blusa di seta verde che porta nelle foto del mio battesimo. Magari ce l’ha ancora, lei non butta mai niente. O dovrei dire buttava? Mi fa strano non sapere che tempo usare, a lei ormai è rimasto solo il passato.
Una notte d’estate sono piombato qui e l’ho buttata giù dal letto. Sapevo che teneva dei contanti nel sécrétaire e l’ho minacciata con una pistola. Per aprire la ribalta ci ha messo una vita, le tremava troppo la mano.
Accendo una sigaretta, prendo la scopa e mi metto a pulire il casino. È come guardare il mare e dover alzare gli occhi per trovare l’orizzonte. Capisci che l’onda si abbatterà su di te e non c’è scampo, ti raggiungerà ovunque ti nasconda.


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Sono nata a Roma nel 1973 da padre italiano e madre inglese. Ho studiato Lingue Romanze alla Sapienza. Sono stata tra i segnalati al Premio Calvino XXIII edizione. Mi interesso di cultura pop, minimalismo, tamburi, psicologia e minoranze. Ho scritto per Il Tascabile e Blam.


 

Poco meno di una bestia, di Angelo Cavaliere

 

Poco meno di una bestia

di Angelo Cavaliere


Martino gli sbatte un cazzotto sul naso e gli dice che è colpa sua. Mentre cade a terra, Paolo pensa che ha ragione ma che è una cazzata che le parole fanno male come i pugni perché il naso gli sanguina a goccioloni neri e lui non si sente più la faccia. Ma non può finire tutto così in fretta e allora si attacca alle gambe di Martino e lo butta giù, gli si mette sopra con le ginocchia e gli schiaccia la testa contro la ghiaia. Gli altri urlano infoiati, vogliono sapere chi è il più forte del gruppo, ma un cane con una gallina tra i denti passa in mezzo e loro restano di sasso. Il cane, cazzo! Prendetelo! urla Martino mentre si scrolla di dosso Paolo con un calcio. I ragazzini rincorrono l'animale, che ha già capito che piega sta prendendo la storia e cerca di ripararsi in un fienile abbandonato, ma quelli gli stanno dietro e lo circondano. Quel posto è un cazzo di rudere, con il tetto bruciato e le pareti sfondate: loro ci sono cresciuti dentro, a fare la lotta con pezzi di travi pieni di chiodi e a nascondersi dentro gli angoli più bui. Martino afferra un rastrello e non dà al cane nemmeno il tempo di ringhiare che glielo sbatte forte sul muso una volta, poi un'altra. L'animale molla la presa e scappa con la coda tra le zampe. Siamo proprio dei poveri stronzi. Martino prende la gallina per il collo e la stringe. Pure un cane ce la fa, solo noi non ci riusciamo a rubare 'ste cazzo di bestie. Ci abbiamo provato almeno dieci volte, dobbiamo farci sparare? Chi se ne frega delle galline. Martino si gira di scatto e si fa sotto a quello che ha parlato digrignando i denti così forte che si potrebbero spezzare da un momento all'altro. Lo afferra dal colletto e gli urla che lui non smetterà di insistere fin quando non saranno tutte sue. Paolo si avvicina a Martino e gli mette una mano sulla spalla. No, ha ragione
Michele 'sta volta. Che ce ne frega delle galline? Prendiamogli tutto a quel vecchio stronzo. Martino lo guarda negli occhi come se avesse appena capito che quella è la sua anima gemella e che niente potrà mai dividerli. Si abbracciano forte come fanno i maschi, Martino lancia la gallina a Michele, portala a tua madre, sarà contenta che finalmente ti sei dato da fare.
La casa del vecchio Cenzino è distante dalle altre del paese, perché lui ha un piccolo campo da coltivare e gli altri no. Oltre all'orto c'è anche il pollaio, proprio di fronte, ma questa volta i ragazzi lo superano senza nemmeno guardarlo. É una villetta a due piani con il muro esterno tutto scrostato, i ragazzini di solito si fermano lì apposta per pisciarci sopra e lo fanno anche adesso. Il piano è semplice ed è stato scelto per esclusione: se prima si erano sempre avvicinati guardinghi, tenendosi accucciati al buio o addirittura strisciando nell'erba bassa, dividendosi in tre piccoli gruppi, ora invece avrebbero sfondato la porta d'ingresso e sarebbero entrati tutti insieme, facendo più casino possibile e terrorizzando Cenzino e quella cicciona della moglie. Se gli fossero stati tutti addosso insieme, lui non avrebbe potuto reagire, non sarebbe arrivato al fucile e non avrebbe potuto scacciarli. Li avrebbero legati al termosifone, con la bocca imbavagliata ma senza nessuna benda sugli occhi, perché devono guardare mentre si portano via tutto quello che hanno. Basta uno sguardo tra di loro, è il momento: Martino alza la mazza di legno che ha rubato dal garage di suo padre e spacca la maniglia con un colpo solo e, con i compagni dietro le sue spalle, scatta dentro urlando come una bestia. Mentre loro accendono le luci al primo piano si illumina anche quello superiore, e il fracasso dei vasi buttati a terra e dei mobili ribaltati vieni quasi sovrastato dall'imprecare di Cenzino, che si ferma in mutande in cima alle scale.
Adesso me la pagate, gli ringhia contro scendendo gli scalini di corsa. Anche la moglie si affaccia, in vestaglia e le guance appese, prendili Cenzì, una volta per tutte. Martino gli si fa incontro volteggiando la mazza sopra la testa e cerca di sbattergliela addosso, ma Cenzino è grosso, almeno come tre di loro, si ripara dietro al braccio come se non avesse nemmeno avvertito l'urto e gliela strappa di mano. Avete proprio sbagliato questa volta. Prende Martino per il collo e lo alza mezzo metro da terra, lui rimane con i piedi a penzoloni e il respiro che fatica a raggiungere i polmoni e riesce a liberarsi solo grazie all'aiuto degli altri. Spingono Cenzino che ruzzola giù per le scale facendo un casino bestiale ma ancora non sviene. E infatti, anche se è in ginocchio, rifila due ceffoni a Michele e acchiappa Paolo da una gamba, facendolo volare sottosopra. Non ci vuole molto per capirlo, la situazione sta prendendo una piega davvero sbagliata. Cenzino li sta riempendo di schiaffi e anche questa volta non sono riusciti a mettersi niente in tasca. Devono scappare adesso, prima che sia troppo tardi, un paio pigliano Martino per le braccia e lo trascinano perché è ancora sfatto per gli schiaffi. Ma Cenzino non è ancora soddisfatto, la devono pagare, l'ha promesso. Si gira verso lo scantinato, prende il fucile e inizia a sparare all'impazzata. I ragazzini corrono via, hanno paura adesso e non vogliono mica restare stesi là per terra, in mezzo a quel campo dove hanno pisciato a sfregio un centinaio di volte. Cenzino però non vuole lasciarli scappare e allora prende la mira. Un sibilo passa sopra le loro teste e i ragazzini se la fanno quasi sotto per davvero.  I due che sorreggono Martino lo lasciano cadere perché non ce la fanno a portarselo dietro. Cenzino li lascia correre, fa un bel respiro per calmarsi e smettere di far tremare le braccia. Prende la mira di nuovo, e questa volta è sicuro.

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Sono nato a Pescara nel 1987. Dopo la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo, ho conseguito il diploma in sceneggiatura cinematografica all’Accademia di Arte Drammatica Silvio d’Amico. Dal 2017 lavoro come story editor e sceneggiatore e come insegnante di scrittura cinematografica e creativa. Nel 2017 ho vinto la Targa Siae “Idea d’Autore” del concorso Bixio con la serie televisiva Angry Kidz. Nello stesso anno e nel 2019 sono stato finalista del concorso Pitch in the day con i lungometraggi L’uomo di casa e L’ultimo giro di giostra. Nel 2019 il mio racconto Killing me softly è stato incluso nella raccolta “Lunedì 9” di Cattedrale in collaborazione con Scuola del Libro.


Occhi, di Carmelo Vetrano

OCCHI

di Carmelo Vetrano

Gli occhi di mia madre sono bianchi e gialli. Non è vero, sono marroni.
«Ma’, hai gli occhi bianchi e gialli», le dico a volte dalla poltrona. Lei in genere è seduta sulla sedia di vimini – la testa piegata per un rammendo o per la lettura del Vangelo, o del volantino dell’A&O – solleva gli occhi e mi vede ridere. «Tu si’ scemo». Una ruga sulla sua faccia si aggiunge a quella del giorno prima, e di tutti i giorni passati. Non riesco più a contarle come facevo una volta.
In questo momento i suoi occhi sono addirittura neri, colpa della penombra nella quale viviamo per gran parte della giornata.
«Cammina un po’», dice.
Io sto con la schiena scomposta, le braccia che pendono dai braccioli. Vorrei tirarmi su, ma mi manca la voglia, e la forza.
«Sto bene qua.»
«Allora stai dritto, che mo’ viene il tecnico della lavatrice.»  
Quando non deve leggere, o fare altro, la tapparella della portafinestra la tiene sollevata a metà. Se va in bagno o in camera da letto io la abbasso, o la alzo, di pochi centimetri. La prima volta che l’ho fatto è tornata e si è accorta che l’asse attorno al quale gira il suo mondo aveva cambiato inclinazione, ma non sapeva ancora perché. Per un po’ si è mossa nervosa, dalla sala è andata in cucina, ha messo a posto pentole e ciotole rimaste ad asciugare sul lavello, e intanto aspettava che la sua mente rilevasse i centimetri che avevano messo in pendenza ogni cosa. Quando li ha scovati è venuta da questa parte, mi è passata accanto, si è fermata davanti alla tapparella e l’ha rimessa a posto. «Come hai fatto?», mi ha chiesto, dopo che era tornata a sedersi. Le rughe distese, la rabbia snebbiata per qualche secondo dalla speranza che io avessi potuto danzare fino alla portafinestra. Ho allungato il braccio dietro la poltrona e le ho fatto vedere che da lì posso gestire la vita della tapparella. La delusione è tornata sulla sua faccia e la pelle si è riaggrovigliata. Ha chiuso gli occhi, si è fatta scivolare in basso e ha appoggiato la testa allo schienale. «No’ lla toccare».

Stamattina mi ha chiesto se mi va di mangiare la carne. Ho inspirato forte, mi sono sollevato sulle braccia e poi mi sono lasciato ricadere. È la mia manifestazione di insofferenza più riuscita, quella che lei assorbe meglio, e per la quale ha già una risposta pronta: anche per lei, un respiro forte. Con un gomito ho fatto cadere una stampella da un bracciolo. Lei ha fatto un sussulto, l’ha guardata con indifferenza, ha detto che se poi mi viene fame sono cazzi miei. Quando i cazzi compaiono nelle sue frasi vuol dire che le emozioni le stanno facendo confusione in testa, ma solo lei è autorizzata a nominarli; se compaiono nelle mie, sono volgare. Comunque si è alzata ed è andata lo stesso a tirare la carne fuori dal congelatore. Da qui riesco a vedere tutto un lato della cucina. Una nuvola di vapore le ha avvolto la testa quando ha aperto lo sportello, ha poggiato le bistecche sul ripiano accanto al frigo, se le è fatte cadere dalle mani una alla volta. Toc. Toc.

Il citofono suona, spingo i gomiti sui braccioli, urto l’altra stampella e pure quella va a sbattere sul pavimento.
«Non fare casino», e va verso la porta.
Per terra ci sono adesso due bastoni di alluminio, dritti davanti a me; quando lei mi passa vicino i suoi piedi ne sfiorano uno e lo spostano un poco. Mi piego per raccoglierlo, poi cambio idea e lo lascio lì. Lo raddrizzo solo un po’ con la punta della scarpa e lo guardo per qualche secondo, il groviglio di polvere e pelucchi attorno al gommino, il manicotto fissato nella parte alta.
Dall’ingresso, oltre a quella di mia madre, arriva un’altra voce femminile. Se non è il tecnico, chi è? Mi tiro ancora su e stringo forte i braccioli; il respiro si ingrossa. «Di qua», sento dire a mia madre con il tono gentile che le viene solo con gli estranei. La immagino mentre si scosta per fare spazio. Ho il collo rigido, e vorrei non avere addosso la felpa della sagra della focaccia che ho comprato tre anni fa. Nella stanza entra una ragazza, non avrà più di venticinque anni. Capelli castani, lunghi, legati dietro con un elastico. Indossa una tuta da tecnico e regge la valigetta degli attrezzi con entrambe le braccia, gli occhi le si stringono al contatto con la penombra della stanza; anche i suoi sono marroni. Si accorge di me e fa un sorriso; vede le stampelle, un altro sorriso.
«Non ci aspettavamo una donna», dice mia madre con una voce allegra che una volta usava anche con me. Non ci aspettavamo, come se i miei pensieri fossero suoi.
«Un caffè lo prende?»
La ragazza scuote testa e spalle, la coda dei capelli si muove.
«Grazie, ne ho presi troppi.»
«Un succo?»
Fa una specie di inchino.
«E va bene.»
Alza lo sguardo alla foto sul muro dietro di me: dentro ci sono io che ritiro la coppa di un torneo di karate.
«Posso vedere la lavatrice, intanto?»
Si spostano in bagno, lei si tiene la valigetta in grembo e segue mia madre con impazienza; le sta addosso, come cercasse l’occasione giusta per superarla. Mi raddrizzo ancora sulla poltrona e mi schiarisco la voce, anche se non ho niente da dire. Loro invece di là parlano, le voci arrivano attutite ma non mi perdo quasi una parola. La lavatrice da due mesi crede di essere un elicottero. Al momento della centrifuga sbatte forte contro il muro e il lavandino, si solleva. Avesse due pale montate in cima prenderebbe il volo. Non mi piace il modo in cui mia madre spiega alla ragazza il problema, facile che possa confonderla. Prendo il telecomando che era finito sotto al culo a accendo la tv. Mia madre torna di qua, mi passa davanti e prosegue fino in cucina. Prende il succo dal frigo.
«Devi dirle che il motore sbatte.»
Si accorge che ho parlato, richiude il frigo. Solleva la mano libera fino alla credenza dei bicchieri e tende il collo da questa parte.
«Che hai detto?»
Glielo ripeto.
«Tutto tu, sai.»
Mette un bicchiere sul vassoio e svita il tappo del succo.
«Se non glielo dici non lo capisce che sono le molle.»
«E va’ tu, va’.»
Nel dirlo ha steso il braccio verso di me, dal cartone del succo è uscito uno schizzo, l’ho visto per un attimo quando ha intercettato la luce della finestra.
«Mo’ me lo fai buttare tutto a terra.»
Riempie il bicchiere e richiude il cartone, io cambio un paio di canali, quando mia madre passa di nuovo con il vassoio mi piego per afferrare una stampella, è a solo un paio di centimetri dai suoi piedi instabili. Esito, poi la raccolgo, la metto in piedi accanto alla poltrona e me la tengo stretta sotto al braccio.


A quest’ora, in tv, non c’è niente di buono, ma a volte avere davanti un estraneo che ti parla è rilassante come guardare una cascata di acqua limpida. I programmi migliori li fanno quando si presume che la gente non sia ancora uscita per andare al lavoro, o magari è già tornata. Il resto è intrattenimento per casalinghe, televendite e telefilm di un secolo fa.
Sento dei passi, poi la voce della ragazza che dice «Faccio presto, il furgone ce l’ho proprio qua sotto», e senza rendermene conto mi ritrovo a schiarirmi la voce un’altra volta. Vedo la sua figura che compare veloce nella sala e poi la schiena che sparisce nell’ingresso. Per qualche secondo la frustrazione di non aver potuto usare la voce tiene in ostaggio ogni forma di pensiero, ogni muscolo. Sento prurito sotto a una gamba, infilo una mano là sotto per grattarmi, poi mi aggiusto meglio sulla poltrona. Questa è l’ora in cui di solito mi viene un po’ di sonno, ma oggi non riesco nemmeno a tenere la schiena appoggiata alla poltrona. Il citofono suona di nuovo, mi aspetto di sentire mia madre che sciabatta di qua, ma ho perso le coordinate della sua posizione. Poi le ritrovo, insieme ai suoi passi asimmetrici.
«Potresti aprire anche tu.»
Raggiunge il citofono e dopo che ha aperto va in cucina. Sciacqua qualche bicchiere nel lavello e lo ripone nella credenza. Nell’ingresso di nuovo rumori, scarpe che strusciano sul tappeto. La ragazza ricompare nella sala.
«Eccomi.»
È come se stessimo ripetendo la scena del suo arrivo. Sorride meglio, stavolta. Sembra così a suo agio che la pinza le scivola dalle mani, c’è un doppio tonfo leggero, prima quello del metallo contro la mattonella, poi quello del manico gommato.
«Oddio», e si piega per terra.
Avrei voluto trovarmi lì vicino, abbassarmi insieme a lei per poter incontrare con il naso i suoi capelli. Lei afferra la pinza, resta piegata e strofina la mattonella con i polpastrelli.
«Mi sembra tutto a posto», dice, la faccia rossa e colpevole, a mia madre che si è appena affacciata nella stanza. Non credo che mia madre si sia accorta di quello che è successo, le vedo negli occhi la curiosità.
«Sì, non preoccuparti», dico. «Non è successo niente.»
La ragazza mi guarda – lo sguardo di chi si era dimenticato che ero lì – ma non è da me che vuole essere tranquillizzata. Mia madre si muove in silenzio, le mie parole l’hanno resa dubbiosa, vuole sapere, capire.
«Non è successo niente», dico di nuovo, ma nessuno mostra di avermi ascoltato.
La ragazza indica una mattonella.
«Mi è caduta la pinza.»
Mia madre strofina il punto incriminato con la punta del piede, la suola della scarpa si muove come uno scanner.
«Sì, è a posto.»
Ma non guarda lei, guarda me.
Il pavimento è salvo, nessuno si è fatto male, alla ragazza non resta che tornare di là a continuare il suo lavoro; però esita, come se aspettasse un’assoluzione che non arriva. Vorrei dirle, È mia madre, va’ e finisci quello che devi finire. Ed è quello che di sicuro sta per fare – è per questo che è venuta –, e invece con la pinza indica la stampella che svetta al mio fianco come la canna di un fucile.
«Cosa ti è successo?»
Mi sento addosso gli occhi di mia madre, so che è curiosa di vedere come me la cavo. Io mi schiarisco la voce ancora una volta e raddrizzo la schiena. Con il gomito urto la stampella, che finisce di nuovo a terra. La ragazza fa uno scatto in avanti per aiutarmi – non mia madre, che continua a occupare le stesse mattonelle di prima. Io dico «Non preoccuparti», e mi abbasso. Adesso succede, ci troviamo entrambi con la testa chinata e la faccia a pochi centimetri. Annuso più forte che posso senza farmene accorgere; dal suo collo arriva un odore di frutta. Mi distraggo e scivolo in avanti, sono costretto ad appoggiare per terra prima un ginocchio, poi le mani. «Lascia, lascia», dico. Con il corpo sono sopra al lungo bastone di alluminio, come un lottatore che tiene bloccato l’avversario. Più in là ci sono le gambe di mia madre, rigida e impassibile come una regina. Prendo anche l’altra stampella, le puntello entrambe per terra e mi sollevo un poco con molta fatica. Ho la vescica gonfia, ma posso resistere. Provo a sorridere, e forse ci riuscirei se lo sforzo non costringesse le mie labbra a contrarsi.
«Un incidente con la macchina.»
Conosco le maledizioni che in questo momento mia madre sta mandando alla persona che guidava la mia macchina, e alla cruda fiducia negli altri. Le braccia della ragazza offrono aiuto, ma sono sicuro che lei vorrebbe essere già fuori da questa casa.
«Ce la fa, ce la fa», sento dire a mia madre quando provo a muovermi. Mi dirigo verso la ragazza, l’orlo dei pantaloni struscia sul pavimento; un braccio non regge lo sforzo e vado giù, ma riesco a tenermi. Lei stavolta è più decisa, mi prende le braccia e mi aiuta a raddrizzarmi.
«Che bravo», dice mia madre. «Un attore, proprio. Un attore.»
Sulle labbra della ragazza compare un sorriso storto, i suoi occhi si riempiono di imbarazzo. Mi chiede se voglio sedermi, e questa dovrebbe essere, immagino, la soluzione migliore per tutti e due. Resto aggrappato al manicotto, la ringrazio, le spiego che ho come obiettivo quello di raggiungere una delle sedie del tavolo da pranzo.
«Allora torno di là.»
Annuisco e lei si allontana, ma si gira a guardarmi una volta. I muscoli delle braccia cominciano a farmi male e il respiro si sta trasformando in affanno; resisterò finché resisterò.
Mia madre viene verso di me.
«Quand’è che impari?»
La voce è più bassa e rauca di quella che aveva prima, le rughe si sono addolcite e gli occhi sono rossi. Si abbassa a fatica sui miei piedi e mi solleva l’orlo dei pantaloni. La chiazza rada al centro dei suoi capelli si è allargata, quelli senza la tintura hanno ripreso a sgorgare dal centro della cute. Con calma fa un doppio risvolto, si assicura che non si srotoli e si rialza tenendosi una mano sul fianco. Con uno strattone mi tira su i pantaloni. Dal bagno arrivano colpi metallici che sembrano rintocchi di un pendolo frettoloso. Ci guardiamo per un secondo o due, poi lei si allontana di nuovo. Il rintocco metallico scompare, ma continuo a sentirlo in testa. Lo prendo come un incoraggiamento. Guardo il tragitto che manca fino alla sedia, faccio un respiro e, quando riparto, perdo il controllo sulla vescica; sento i pantaloni che si bagnano. La ragazza è di nuovo nell’ingresso, ha in mano un grosso gancio metallico, la faccia arrossata, qualche capello sfuggito alla stretta dell’elastico. Mi chiede di mia madre e io spero che non si accorga del rivolo caldo che mi scivola lungo la gamba. Vorrei mettere le mani là in mezzo per fermarlo, ma non posso; se lo facessi, io perderei l’equilibrio, e mia madre la sua illusione. 

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Il mio paese d’origine è San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi (sono nato in un ospedale dei dintorni nel 1975). Mi sono laureato in Lettere moderne all’università di Lecce e dal 2006 vivo a Verona. Alcuni miei racconti sono apparsi su Cadillac, Pastrengo, Reader For Blind, Purpletude, Grafemi e Risme.


 

C.I.G, di Alessio Cappelli

C.I.G.

di Alessio Cappelli

In genere la cena finiva sempre che, appena ne avevo abbastanza di mangiare, mi veniva un po’ di torpore, e allora mi chinavo, andavo a poggiare la testa sopra le gambe di mio padre e lì mi appisolavo, lo stomaco pieno, il sonno che mi avvolgeva tutto.
Era estate, la finestra era aperta, si sentiva il verso acuto e si vedevano le traiettorie veloci ossessive delle rondini, il cielo ingrigiva ma lentamente, il crepuscolo si distendeva interminabile e avrebbe ceduto il passo alla notte ma solo molto più tardi, quando io sarei già stato giù, addormentato da un po’, così, come sempre, sulle gambe di mio padre in calzoncini, le ginocchia sempre coperte dal tovagliolo, un po' per buona educazione e un po’ per l’abitudine professionale di ogni cameriere.
Quell’estate, proprio quando io finivo la quinta elementare, dopo un lungo periodo di crisi dell'azienda per cui lavorava e in generale dell’economia italiana, lui era finito in cassa integrazione.
Io, in realtà, neanche lo sapevo, allora, e per lungo tempo questa situazione mi fu nascosta. Troppo difficile da spiegare, probabilmente, a un moccioso che aveva solo fame di pane e mortadella, di correre sui campetti di pallone e di rompere le scatole alla sorella maggiore.
Non lo seppi neanche quando, pochi giorni dopo quella sera, i miei mi portarono e per la priva volta a passare il resto della stagione, fino a che non fossero iniziate di nuovo le scuole, in campagna dai nonni, tra gli orti di patate e l’uva che maturava.
Nulla, e veramente nulla, era trapelato. Io avevo ben altri problemi cui pensare: in particolare, mia sorella era partita prima di me per andare in Inghilterra grazie a una vacanza studio organizzata dal Comune, mentre i miei cari amici del piano di sotto, fratello e sorella, si erano appena trasferiti in un appartamento irraggiungibile per me, lasciandomi solo, per la prima volta senza nessuno con cui giocare.
Anche quella sera, come da un pezzo, per la cena mia mamma non aveva cucinato. Si badava al risparmio, mi sono reso conto dopo, quando ho saputo quale fosse la situazione economica. Quindi come ogni sera avevano fatto la comparsa sul tavolo le rosette e gli affettati, e tra questi i meno costosi, la mortadella, la coppa, e poi un formaggio morbido e privo di sapore.
Dopo cena suonarono al citofono, mentre chino sul grembo di mio padre sentivo il cinguettio rotante delle rondini e, cullato dalla situazione, dai suoni e dal calore dell'estate, mi stavo avvicinando al sonno. Non avevamo citofono, noi, ancora c’erano molte case con solo il campanello al livello della strada, solo un bottoncino in fondo e un altoparlante in alto, al terzo piano, dentro casa nostra, che riportava il suono. Si apriva il portone pigiando un pulsante, ma non c'era interazione di voci. Si apriva, poi ci si affacciava al pianerottolo, e si gridava “chi è”, e mia madre, in vestaglia leggera a fiori, allacciata in vita, sbracciata, si affacciò e chiese “chi è”.
E io che non vedevo, immerso nel principio del sonno, con la testa che giaceva sulle gambe di mio padre, lo sguardo coperto dal lembo della tovaglia, sentivo però che la mamma tornava in cucina verso il tavolo non ancora sparecchiato: “Non rispondono, mica sai se deve venire qualcuno? L'amministratore, forse? L'abbiamo pagato, il condominio?”
Ma altro mio padre sapeva.
Sentii i suoi muscoli delle cosce irrigidirsi, al punto che mi fecero sobbalzare la testa, da quello che fino a un istante prima sembrava un morbido cuscino. Saltò letteralmente sulla sedia.
Poi: “L'amministratore? No, non è lui: sono loro” disse, e con un carezzevole spintone mi fece rotolare tutto sotto il tavolo, d'improvviso autoritario ma dolce, e poi vidi che il sipario della tovaglia che sporgeva dal bordo si abbassava, a coprirmi ancora di più la vista.
“Resta lì”, sentii sibilare, evidentemente al mio indirizzo, mentre il panorama spariva del tutto e riuscivo solo a vedere i piedi di mia madre, che calzavano delle ciabatte di plastica, arancioni, di quelle con la suola tutta piena di piccoli buchi, che si vendevano ai mercatini all’aperto.
“Che faccio, chiudo, chiudo?” diceva mia madre, molti toni al di sopra della suo normale tranquillo modo di parlare.
“Ormai è tardi, lascia che vengano” disse mio padre, e la sua voce, anche, era completamente diversa dal solito, completamente asciugata, rimbombante, come se venisse da una caverna, come quella di Polifemo, il mostro che avevo visto in tv quando cercava di uccidere Ulisse.
I piedi di mia madre si allontanarono, andarono evidentemente verso la porta per ricevere quelli che arrivavano. Poi vidi altri piedi che si piazzarono davanti alla tavola; erano due persone e avevano delle scarpe nere a mocassino, un po’ impolverate. I calzoni, neri, erano lunghi, quasi a ricoprire le scarpe. Invece i piedi di mia madre, vidi scandagliando quel po’ di pavimento che riuscivo a vedere da là sotto, stavano più lontano, accostati alla porta. Erano un po’ lucidi, si erano coperti di un velo di sudore.
“Allora?”  sentii dire, doveva essere uno di quei due.
“Allora cosa?” domandò la voce di mio padre: ma tagliente, irriconoscibile. “Voi, voi siete venuti a disturbare” diceva, nascondendo la sua cadenza romagnola, per dare maggiore rigore alle sue parole. “Ora voi dovete dirmi cosa volete. Che ci siete venuti a fare, qui? Noi a quest’ora ceniamo.”
“Certo, certo” rispose la voce, tranquilla e, a quello che mi sembrò, insinuante. “Certo”, ostentatamente ironica l'altra che prendeva il comando del dialogo, “con i soldi nostri, cenate.”
“E avevi promesso che per ieri saresti venuto a riportarceli, te lo ricordi o no, questo?” Minacciosa, l’altra voce, doveva essere di quello a destra, che mentre parlava strusciava un piede indietro, come in tv avevo visto fare al toro che prende la rincorsa per la carica.
Ecco cosa sono quei mocassini comodi e logori, e quei calzoni neri, mi dicevo, devono essere camerieri colleghi di mio padre, anche lui si veste così prima di uscire. Non riconoscevo le voci, però, non so chi siano.
“Me lo ricordo certo. Insomma, ragazzi, non è che siamo sconosciuti. Abbiamo lavorato insieme per tanto tempo” diceva conciliante, ora, mio padre.
I piedi di mia madre erano zuppi, ne cominciai a sentire l’odore, ora che il sudore si impastava con la polvere della suola e con la plastica.
“Certo che abbiamo lavorato insieme. Ma tu adesso il lavoro non ce l’hai, sei in cassa integrazione, e noi no. E tu non hai reddito, e ci chiedi i soldi, e noi te li diamo, da amici. E tu che fai?”
L’altro, quello con la voce da tenore: “Ecco, tu che fai? Prometti di ridarceli, addirittura di venire a riportarceli, e invece te ne stai a casa, a godertela. E noi a lavorare. Tanto, i soldi che guadagniamo poi li regaliamo a dei debitori che manco ci pensano, manco si preoccupano di rimborsare chi glieli ha prestati, degli ingrati, insomma, degli stronzi come te.”
“Già, degli stronzi come te.”
E io non avevo neanche mai pensato che qualcuno avrebbe potuto dare dello stronzo a mio padre.
Di nuovo minaccioso, mio padre, la sua voce ringhiava, come Rin Tin Tin davanti al cattivo. “Ragazzi, soldi non ne ho, ora. Non venite dentro casa mia a fare queste scenate, eh.”
Intanto con una mano, che era rimasta sotto il tavolo, frugava intorno, frugava, e io la vidi, la mano, e mi avvicinai, e infatti cercava la mia testa, e quando la raggiunse, prese a carezzarmi i capelli forsennatamente, disperatamente, ma delicatamente, come se quella mano che provvedeva a me fosse qualcosa che apparteneva a una persona diversa da quella che si difendeva vigorosamente, lassù.
“No” saltò su il tenore, sempre preparando la carica coi piedi. “Noi non facciamo scenate. Ma tu ci devi dare i soldi. Noi te li prestiamo, ma tu non lo fai lo stronzo con noi, hai capito?”
“Ma io ho una famiglia, faccio il meglio che posso. Ve li ridarò, statene pur certi” disse mio padre, che alternava disperazione e grinta, e si capiva che voleva proteggerci, e si sentiva allo stesso tempo in colpa per la sua inadempienza. E mentre continuava a struffarmi i capelli, la mano nervosa e fuori controllo, eppure delicatissima, morbida come forse mai è stata mano di cameriere, cercava di aumentare il contatto con me, mi spingeva la testa verso la gamba. E fu così, accostandomi, che mi accorsi che le sue ginocchia tremavano.
Poi vidi i piedi di quello che caricava, del tenore, avvicinarsi di un passetto al tavolo, le punte dei mocassini entrare addirittura nella zona d’ombra, là in basso, creata dalla tovaglia che scendeva come una cortina fin quasi a terra. La tovaglia un po’ rientrava all’indentro, a mezza altezza, evidentemente per il contatto con le ginocchia di quell’uomo, che si stava sporgendo verso mio padre, sul tavolo.
“Certo che ce li ridarai,” sentii dire, ma non dal tenore, dall’altro, con una voce dura e sibilante, spietata. “Anzi, certo che ce li ridai ora. La tua famiglia … tutti abbiamo una famiglia, io, tu, lui. Ma noi te li abbiamo prestati, e tu ora ce li ridai” e poi un tonfo forte sopra il tavolino.
“E questo cosa sarebbe?”
“Non lo vedi?”
“Sì che lo vedo, è un uccello morto” gridava mio padre, certamente riferendosi a ciò che il cameriere aveva deposto sul tavolo con quel rumore forte.
“E lo sai che significa?”
“Non lo so, non so niente dei vostri avvertimenti.”
“Non lo sai cosa significa una rondine morta?”
“Levate via questa roba da sopra il tavolino di casa mia” mugolava mio padre, schifato, e io ricordai come era rimasto per ore a cercare di uccidere una gallina, sul terrazzo, una di quelle che avevo vinto al luna park e poi era cresciuta troppo. L'aveva liberata per strada.
“Eh, tavolino di casa tua. Bisogna vedere se rimane casa tua per molto,” disse il tenore, poi nell'aria schioccò un rumore che riconobbi, era lo stesso di quando nei film western il cattivo pigiava il bottone del coltello a serramanico.
“Eh, che fate?” la voce sorpresa di mio padre, le gambe che guizzavano mentre con un salto faceva andare indietro la sedia. Poi un grido fortissimo, che spazzava tutto, il ronzio del frigo, le rondini, l’estate, la mia fiducia nella bontà degli esseri umani: “Fuori! Fuori! Io vi ammazzo a tutti e due, capito? Io non vi faccio uscire di qui, vi accoppo a tutti e due, vi faccio a pezzi, capito?” E le gambe lo sostenevano, tremanti, con la forza dello slancio nervoso mentre lui le teneva tese solo per metà, e fu evidente anche a me che doveva aver afferrato dal tavolo il coltello.
“Sono in cassa integrazione, ma non sono una mezza sega. So lavorare, e vi pagherò. Ma non ora, ora non ce li ho; ma non sono una mezza sega io, capito?” Tentava di scatenarsi, ma le parole in sé avevano poco senso, era il ruggito incontrollato a fare il suo effetto, mentre lui, mezzo in piedi e mezzo seduto, li minacciava con il coltello lungo, quello del pane, quello a cui non mi era mai stato permesso di avvicinarmi.
“Io vi scotenno! Come vi permettete, di venirmi a fare certe cose a me, qui in casa mia? Fuori! Maledette sanguisughe; e l’interesse che vi ho promesso? Ma io vi ammazzo”, ruggiva.
Allora vidi i piedi dei due, silenziosi, allontanarsi, oltrepassare quelli di mia madre sulla porta della cucina, e solo quando non furono più in vista, entrati nella zona invisibile dietro l’angolo dell’ingresso, sentii dire, “Stavolta ce ne andiamo, ma non è finita qui.”
“Ah, certo che non è finita qui. Torneremo, tu pensaci e stai in guardia.”
Sentii la porta che si apriva, e i loro passi sulle scale, vidi le gambe di mio padre, sempre tremanti, che si poggiavano di nuovo sulla sedia. Immediatamente la sua mano tornò a scandagliare sotto il tavolo, trovò i miei capelli e cominciò a scompigliarli di nuovo, affannosamente.
Fu allora, appena vidi i piedi di mia madre fare un passo verso il tavolo della cucina, letteralmente sguazzando nella plastica madida delle ciabatte, che sentii l’odore forte e acido, l’odore e poi il bagnato del piscio di mio padre che colava dai lembi dei calzoncini corti, nel buio sotto la tovaglia, mentre col braccio faceva come per allontanarmi, per evitare che ne rimanessi inzuppato; ma non ci riusciva, non riusciva ad abbandonare il contatto della sua mano con una qualsiasi parte di me.

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Alessio Cappelli, anni quarantasette, laurea in scienze politiche, impiegato di banca e lettore accanito. Nonché ciclista. Frequentatore della scuola romana di scrittura creativa Omero, ha pubblicato sul blog della scuola dei racconti brevissimi che sono poi stati pubblicati sulla rivista Linus e nella raccolta "Amori fantareali" a cura delle edizioni Omero. Nel 2015 è uscito per Zona Contemporanea "In Birmania". Nel 2017 è uscito per le edizioni Augh /Alterego il suo primo romanzo, “Abrivado”. Successivamente ha frequentato i corsi di Trenta Cartelle di Cattedrale; in questo ambito, a seguito della collaborazione con Scuola del Libro, suoi racconti sono stati pubblicati nelle raccolte “Lunedì 9” e “Passaggi”.



Lo scatto, di Maurizio Minetto

Lo scatto


di
Maurizio Minetto



Di gente ce n’era poca, lì sotto i portici di Piazza Vittorio. Stavano tutti davanti alla partita dell’Italia e faceva troppo caldo per andarsene in giro.
Quei pochi si erano fermati a guardare. Il vecchio giornalaio, da cui Gabriele andava sempre a comprarsi Alan Ford, era uscito dall’edicola e si era messo a filare la scena grattandosi il mento. Le quattro signore con le buste della tintoria lanciarono un grido quando Alessio e Gabriele scapparono passandogli in mezzo, col “bufalo” dietro, e la signora Comparoni tirò a sé la figlia e sbraitò «mori’ammazzati!». E il tabaccaio, che aveva appena messo fuori dall’uscio il panzone incamiciato e la sigaretta ancora da accendere, inchiodò giusto in tempo per non farsi travolgere.
Il fatto è che in quell’estate del 1982 Alessio e Gabriele non avevano niente di meglio da fare che sputare in testa a chi scendeva e saliva le scale della metropolitana di Piazza Vittorio. Era appena finita la scuola e avevano già esaurito i soliti passatempi, tipo quello di sfidarsi a toccare la Porta Magica, cosa che ormai non gli dava più nessuna emozione e l’avevano tirata fin troppo per le lunghe solo perché a Gabriele ogni tanto non andava di farlo e Alessio insinuava che fosse per paura.
Alessio detto Alessione aveva quattordici anni ed era di via dello Statuto. Gabriele, il Puffo, ne aveva dodici e veniva dal Quarticciolo, alla periferia est. Si era trasferito da due anni in via Giolitti, in uno dei condomini rialzati accanto alla Stazione Termini, perché il padre faceva il ferroviere e la cooperativa gli aveva assegnato una di quelle case. Andavano tutti e due alla Silvio Pellico, Alessio l’avevano bocciato e così erano finiti compagni di classe, e di banco.

La Porta Magica si trova, da almeno un paio di secoli, nell’area archeologica nel cuore di Piazza Vittorio, in una parte defilata del giardino centrale, fra gli alberi. Si tratta di una cornice di pietra bianca, delle dimensioni di una porta, incastonata in un pezzo di muro, e i ragazzini prima o poi ne imparano le storie. Alessione le sapeva tutte. Tipo che il marchese del Seicento a cui apparteneva era un alchimista e un giorno aveva ospitato un misterioso viandante, alchimista anche quello, che gli aveva inciso sulla Porta la formula magica per trasformare i metalli in oro ma poi era sparito o forse era morto di una morte misteriosa; o che se la toccavi in certi giorni dell’anno poi ti succedeva qualcosa e non eri più lo stesso. E c’è quasi da crederci, a queste storie, se ti fissi sulle statue dei vecchi con la barba ai lati della Porta, o sugli strani simboli della cornice, un gran numero di cerchi, triangoli e croci, formule ebraiche e latine. Mortuus, Draco, Occultum. E non ci si può mica entrare così. Se le guardie ti beccano che scavalchi possono pure arrestarti. Ma loro due, non li avevano mai beccati.
Non ci s’infilavano solo per sfidarsi a toccare la Porta, ma anche per starsene nascosti mentre Alessio fumava qualche sigaretta e raccontava al Puffo un sacco di cose interessanti su piazza Vittorio, di quelle che a scuola mica te le dicono. Tipo che è la piazza più grande di Roma, «più de piazza San Pietro e de piazza daa Repubblica!» gli aveva detto una volta con la mano aperta accanto alla bocca. «Aóh» aveva insistito, «solo er giardino centrale co’ le giostre, è già grosso come ‘na piazza ‘ntera! E poi c’è er marciapiede cor mercato! Tiè, guarda che robba. Ma ‘ndo ‘o vedi a Roma ‘nartro mercato così?! E poi c’è la strada,  e tutt’er porticato! ‘O sai quante so’ ‘e colonne? Ducentottanta».
Ma quel pomeriggio di sole il Puffo si era proprio stufato di starsene lì, e quando Alessione finì gli argomenti e tornò a sfidarlo a toccare la Porta Magica, lui tagliò corto: «Nun c’ho paura! Guarda». La toccò con tutte e due le mani, e la prese a calci, tanto da provocarsi una piccola storta con l’ultima pedata sul bassorilievo spigoloso di una croce. Ma fece finta di niente. Alessione parve soddisfatto: spense la sigaretta e gli propose il nuovo gioco.

A ogni lato di Piazza Vittorio le scale della metropolitana emergono sotto al porticato, e alcune di queste uscite sono perpendicolari al marciapiede, ed è lì che i due si appostavano. Si appoggiavano alla balaustra, con le spalle alla strada e al centro della piazza, e facevano i vaghi, e quando nessuno li notava si sporgevano veloci e mollavano un paio di scaracchi su quelli di sotto. Il tempo di seguire la traiettoria, e tornavano a fare i vaghi e a strozzare le risate.
Il problema di non farsi beccare, veniva più da quelli che scendevano le scale, che da quelli che salivano, «perché quelli che scendono cell’hai proprio faccia a faccia, e invece quelli che salgono so’ de schiena e nun te vedono» spiegava Alessione.
Ed era necessario sporgersi per bene, anche col rischio di farsi beccare dalle vittime o dai passanti, e restare a guardare se il colpo andava a segno e la faccia del bersaglio, e solo allora essere veloci a tirarsi indietro.«Erichetto mica fa così. No, lui fa tutto de corsa» diceva Alessione. «Mica se sporge, fa finta, perché c’ha paura che lo cioccano. A sputa’, sputa bene: certi scaracchi. Però nun se sa diverti’. E nemmanco sputa insieme a me! Quanno sputo io lui se mette a fa’ er palo, e così se perde tutt’ermejo. Dice vabbè poi mo’o racconti. Sì, e allora venivo a sputa’ da solo!».
Spesso mancavano il bersaglio di poco e quello nemmeno se ne accorgeva. Il più delle volte erano altri, ad accorgersi che sputavano. Quella volta furono presi alle spalle da un vecchio grande e grosso. Gli era strisciato dietro nel momento preciso in cui Gabriele aveva colpito in testa un ragazzone coatto che saliva le scale tutto tronfio.
Dopo lo splash, loro due scoppiarono a ridere, il coatto alzò la testa e li guardò, si passò una mano fra i capelli a spazzola, la esaminò con gli occhi di fuori e prese a salire i gradini tre a tre. Loro a quel punto si voltarono per scappare e si trovarono davanti questo tizio sui cinquanta, grosso come Mario Brega. Bloccò subito Alessio, lo afferrò per la maglietta e gli diede un ceffone tra capo e collo così pesante che Gabriele si spaventò per il rimbombo. E Alessio, con tutto che era Alessione, a momenti cascava per terra. Ma quel vecchio lo teneva fortissimo per la maglietta e lo tirò a sé come uno yo-yo, e giù un altro schiaffone.
«Mortacci vostra!» ringhiava il vecchio.
«Ma li mortacci tua!» gli rispose Alessione, rincalcando la testa e agitando le braccia. Se le usava per proteggersi non poteva strattonare per liberarsi, e se invece strattonava non si proteggeva bene e si beccava un’altra scudisciata. Quel vecchio sì che le sapeva tirare: aspettava uno o due secondi, con la mano sospesa, che i movimenti impanicati del povero Alessione gli lasciassero intravvedere la collottola, e allora calava la tremenda cinquina. Poi ricaricava.
«Te la faccio passa’ io la fantasia de combina’ ste cose!».
Siccome il Vecchio li aveva presi alle spalle, loro due non erano potuti fuggire attraversando la strada, cosa pericolosa, certo, ma sembrava molto più pericoloso il coatto.
Si era posizionato a gambe larghe, naso da pugile spalancato e mandibola serrata, giusto a metà fra Mario Brega, con Alessio tra le grinfie, e Gabriele, che aveva aggirato la ringhiera delle scale fino a trovarsi con le spalle attaccate alla vetrina del tabaccaio. E sarà perché il povero Alessio veniva suonato come un tamburo, sarà perché questo faceva pensare che fosse lui il cecchino delle scale, fatto sta che il coatto lì per lì non intervenne e non se la prese col Puffo. Mario Brega però si mise a trascinare Alessio, tra un ceffone e l’altro, proprio nella direzione del coatto. «Mo te faccio mena’ pure da lui, mortacci tua!». Allora Gabriele se ne uscì con una trovata coraggiosa davvero, definita poi “geniale” per un sacco di tempo a venire.
Invece di darsi, il Puffo aspettò che fossero tutti e tre vicini, e tornò piano piano e penitente, a due o tre passi da loro. Poi mollò uno scaracchio terrificante in faccia a Mario Brega, e lo colpì in un occhio, e con un altro beccò il coatto dritto sulla bocca. Allora quello sgrullò la testa e si passò un braccio sulla bocca, Mario Brega si mise a tirare bestemmie, Alessio dette uno strattone con entrambe le mani e riuscì a liberarsi e a scappare, e proprio allora Gabriele incrociò lo sguardo del coatto, e fu come se a quello gli si fosse appena accesa la lampadina, che la saliva sul braccio era la stessa che l’aveva preso in testa per le scale. Il Puffo schizzò via col coatto alle calcagna.
Pareva un bufalo, aveva forse cinque o sei anni più di lui, e anche se non era tanto alto era un concentrato di muscoli, coi capelli corti a spazzola e una faccia quadrata e grossa e feroce di una ferocia brutta, da criminale. E infatti durante l’inseguimento sotto i portici, Mario Brega si arrese subito, ma quel bufalo continuò a correre. Era scatenato e ce l’aveva proprio col Puffo. Nemmeno strillava. Gabriele sentiva solo il furioso pestare di piedi e il fiato ritmico a un centimetro dalla schiena, e fu allora che per un istante, solo per un istante, provò una sensazione del tutto nuova e imprevista. Ma la percepì nettamente, pura: la concreta, reale presenza della morte. La sensazione durò solo l’attimo di fargli fare uno scatto da centometrista, che non avrebbe mai creduto di poter fare, ma tutto ciò che fino ad allora pensava di sapere sull’argomento ‘morte’ se lo lasciò per sempre dietro le piccole spalle, e cercò di riprendere Alessione con la stessa foga con cui la morte cercava di prendere lui, perché d’un tratto seppe che era la cosa più cattiva e dolorosa di tutte, e gli fu chiaro che non c’era altro da sapere.
Però quando arrivarono all’incrocio con Via Merulana si trovarono di fronte la più grossa comitiva di suore mai vista, che attraversava nel senso opposto, andandogli incontro. Gabriele pensò che fosse la fine. Si trattava di fermarsi o schiantarcisi addosso, e in entrambi i casi il coatto lo avrebbe preso e massacrato. Ma Alessione accelerò senza esitare, allora non esitò neppure lui. Alessione virò bruscamente all’ultimo, traversando l’incrocio in diagonale e buttandosi come un kamikaze tra le macchine – che per fortuna arrivavano rallentando per via delle suore – mentre faceva pure il verso di una moto da corsa, meeè-meeeeeè. Invece il Puffo perse l’attimo e non lo seguì, e dopo quella frazione di secondo poteva fare una cosa sola e la fece. Si lanciò a tutta forza contro le monache. E riuscì a dribblarle tutte e venti o quante erano, e appena fu dall’altra parte, incredulo, e saltò sul marciapiede imboccando Via Poliziano, esplosero grida di gioia dalle finestre sventolanti di azzurro e tricolori, e suonarono clacson e trombette da stadio da tutte le parti, e guardando alla sua destra, sul marciapiede opposto, vide Alessione che correva parallelo a lui e gli faceva un gran sorriso coi pugni levati al cielo, e capì che ce l’avevano fatta.
Solo allora si rese conto del dolore alla caviglia. Era stato lì per tutto il tempo malo sorprese, gli venne da pensare, proprio come la voce di sua madre alla decima volta che lo chiamava quando lui era in camera a leggere i fumetti.
Rallentando, si voltò: il muro di suore stava fermo in mezzo all’incrocio di Via Merulana. Nessuna traccia del coatto.

Continuarono a scappare fino a via Ruggero Bonghi, e poi verso il parco del Colle Oppio, all’ombra del Colosseo, e alla fine Alessio si fermò ansimante al cancello del parco, e Gabriele pure. Erano fradici,  il Puffo aveva la gola completamente secca e la caviglia che gli andava a fuoco.
Respirarono forte un paio di minuti senza dire niente. Le cicale frinivano sugli alberelli bianchi e rosa tra le palazzine silenziose di via Mecenate e via Bonghi, e sui rami degli alti pini di Colle Oppio, al di là del cancello, dove ai tavolini del bar di Nunzia non c’era ancora nessuno.
«Lo sai chi era quello?» gli domandò Alessione, quando ebbe ripreso un po’ di fiato.
«Chi, er coatto?» chiese il Puffo.
Alessio fece di no con la testa.
«Er vecchio?».
Fece di sì.
«Chi era?».
Alessio restò imbambolato col sorriso. «Mi’ padre, mortacci sua».
Poi tirò fuori il pacchetto di sigarette, ne accese una, diede una boccata e la passò a Gabriele perché glie la reggesse. Il Puffo la prese, e fece il suo primo tiro, guardando l’amico chinare la testa e passarsi le dita dietro al collo. Ce l’aveva tutto rosso, e in un punto spellato.
«Sai stasera che me combina?» mormorò Alessione.
Gabriele gli porse la sigaretta. «Annamo a beve alla fontanella!». Sentiva la caviglia gonfia premere contro l’elastico del calzino. Erano i vecchi calzini che ormai gli andavano stretti. Proprio quelli doveva mettersi, quel giorno. Li avrebbe buttati appena tornato a casa.
Alessione lo guardò con un gran sorriso e non prese la sigaretta. Gli mise il braccio intorno al collo, a morsa. «Aóh, sei stato geniale a sputaje ‘n faccia. C’hai avuto du’ palle così!» e varcarono il cancello mentre al di là del parco il Colosseo continuò a invecchiare sotto al sole per qualche altro minuto.

 

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Sono nato a Roma nel 1978. Ho pubblicato racconti sulle riviste Pastrengo e inutile. Nel 2019 ho vinto il Premio Zeno nella sezione racconti lunghi.


Scanazzato mai, di Noemi De Lisi

Scanazzato mai

di
Noemi De Lisi

 

Era sempre notte. Giusi correvano sfregiandosi le gambe a forza di botti, salti rasoterra, veloci sul catrame indurito, andavano dritto. A ogni passo, il corpo s’infrangeva precipitando a turno su un piede e sull’altro. Stavano tornando a casa. I colpi vicinissimi sulla strada buia, i tuffi di un macigno, tutto moltiplicato, veniva la grandine. L’umidità vaporizzata nello spazio davanti a loro gli bagnava i capelli e la faccia, gli pungeva gli occhi chiusi. Giusi però non erano stanchi, respiravano piano, avevano molta calma. Quando passavano, i palazzi bassi trasudavano fumo, la strada si lanciava indietro, una melma li avvolgeva, sott’acqua, rallentati, non sentivano più i loro passi, tutta la furia era nel sonno.
Giusi si sveglia chiamando sua madre,
«è duci ’sta cosa, cioè, che chiami ancora tua madre quando hai gli incubi.»
«nel senso che sembro una bambina?»
«no, no, nel senso che è vero, può essere un po' strano. però, ripeto, a me piace come cosa perché è una cosa solo tua.»
«è perché mi sono spaventata, mica lo faccio sempre. ho sognato di correre nel mio quartiere, al buio, volevo tornare a casa ma non trovavo la strada. però anche se ero sola, sentivo che c’erano altre persone sconosciute insieme a me. non le potevo vedere, però le sentivo accanto, facevamo tutti i movimenti uguali. alla fine era come se mi fossi sdoppiata, cioè come se quel gruppo di persone ero sempre io. certe volte non ti senti tipo frantumato in mille pezzi piccolissimi? come una spiaggia.»
nessuno la sente chiamare anche se i suoi genitori sono nella stanza accanto, la televisione ha il volume troppo alto. Quando dorme di pomeriggio le viene la nausea, poco fa ha sentito pure qualcuno sgracchiare dal palazzo di fronte, come quando sua nonna vomitava il catarro nel fazzoletto di cotone,
«che schifo, e poi chi lo lava?».
Sul letto si posa una chiazza brillante di polvere in controluce: Giusi ci passa la mano in mezzo e poi si piega in avanti, ci butta tutta la faccia, preme, spinge, fa una capriola e scende sul pavimento. Quando passa dal soggiorno, sua madre le chiede se ha sudato il letto; lei muove la bocca per risponderle, l’audio della televisione la riempie. Giusi è colata fradicia dalla testa ai piedi, la vuole smettere di dormire il pomeriggio, ora è anche in ritardo per colpa del sonno. Apre l’acqua della doccia bella fresca, s’insapona le areole giganti sul seno scarso, l’inguine ruvido con le puntine mature, s’impasta l’ombelico, gli addominali, il clitoride ricoperto di peli. Per lo shampoo ci sta due minuti, Vania dice che la invidia troppo per il taglio, che alla fine le stanno bene anche se pare un maschio, è sempre bella lo stesso anche da maschio. Per farseli così, Giusi è andata dal barbiere, per essere sicura di averli rasati bene come voleva lei; e quando è tornata, sua madre si è messa a piangere dicendole che sembra uno scanazzato. Chiude l’acqua della doccia e si mette a correre per casa grondante di acqua. Deve sbrigarsi per andare da Giovi, altrimenti, poi, non hanno tempo manco per guardarsi negli occhi.
Apre la porticina nell’androne del condominio, prende la bicicletta elettrica tipo scooter, la scende per due gradini ed esce dal palazzo. Suo zio gliel’ha regalata per un Natale, dice che è di seconda mano, che lei non si deve preoccupare perché non ha speso niente, e che tanto Vania non se la fida a guidare ’ste cose; per lui Giusi è come una seconda figlia, anzi un figlio, il primo, unico e solo. Si mette a cavalcioni sul finto scooter e parte senza nessun rumore, passa per le trazziere e le strade più larghe come un filo d’olio, traballa sulle buche, si ferma alla farmacia di via Volturno,
«oh ma sei una principessa. qualche volta ti potresti fare trovare direttamente a Piazza Principe, non che mi fai venire qua per poi tornare indietro.»
«eh la prossima volta vengo io, che ti devo dire? così ci sto mille anni e mi faccio scoprire piedi piedi. tu mica fai tutta ’sta strada, non ci stai niente col motore, è che ti devi lamentare per tutto. evvé?»
«seh, motore! ti piacissi…»
«maria, oh! motore, bicicletta elettrica, quello che è.»
Giusi schiaccia l’occhio per Giovi e lo chiama principessa, lui fa un cenno con la fronte, la ricopre di grinze, la butta in aria per un attimo, la riprende, sorride e sale a cavalcioni dietro la sua schiena.


Appena cala la saracinesca, lei gli si butta contro, gli tira i capelli indietro e gli morde la gola schioccando la lingua sul pomo d’Adamo. Cammina e lo spinge, Giovi indietreggia seguendo i prossimi passi di Giusi, cade di spalle sul divanoletto impolverato, c’è il rivestimento bucato, si vede la gommapiuma gialla. Suo zio le ha detto che il garage dove tenevano il cavallo ora è suo, può farci ciò che vuole dopo che quelli della televisione hanno fatto bordello e gli hanno fatto perdere l’animale. È nel suo quartiere, in via Danisinni, troppo piccolo per metterci una macchina normale, è stretto e alto: c’è il divanoletto mezzo scassato, i tamburelli di Vania, le briglie, due selle, gli stracci, lo scatolone con la piscinetta gonfiabile che fa puzza di plastica marcia. Pure sua cugina ha le chiavi del garage, è una casetta segreta tutta per loro. Solo sua madre, all’inizio, aveva buttato voci, non le piaceva il discorso,
«e che dovete fare tu e Vania in ’sto garage si può sapere? non ce l’avete una casa?»
«ma è per stare fra di noi, così suoniamo i tamburi senza dare fastidio a nessuno, che dobbiamo fare?»
«c’è ancora puzza di cavallo, è una fetenzìa! ci dovete portare persone? dimmi la verità.»
«mamma, non ci facciamo entrare nessuno. al massimo Vania ci fa le feste di compleanno per il dopocena, visto che alla fine è più suo.»
«seh le feste di compleanno, lo so io che feste ci dovete fare… tu solo una cosa mi devi promettere: con uno scanazzato mai, hai capito? ti ammazzo se dai confidenza a uno scanazzato, hai capito?»,
poi si era calmata e non aveva detto più niente del garage, non aveva detto più niente manco su di lei: sui capelli rasati, sulle sopracciglia folte con la cicatrice finta fatta apposta dal barbiere, sui suoi vestiti larghi, sul suo vizio ti toccarsi sempre davanti per aggiustare le mutande pizzicandosi il pube; non aveva messo più bocca su niente, piangeva solo in bagno quando ci si chiudeva.

Giusi toglie la t-shirt a Giovi, ha il petto liscio satinato col sudore, l’incavo dello stomaco che si gonfia e risucchia mentre respira con la bocca aperta. Lei di solito non si toglie la maglietta, anche se lui la prega; stavolta deve farlo per forza altrimenti muore soffocata, sente la polvere del divano che le si appicca addosso mischiata alla saliva. Incastra le cosce con quelle di lui e si strica avanti e indietro sulla patta dei jeans, poi si piega in avanti e se lo ammucca, gli lascia lo sputo in bocca, lui ingoia. Il sudore le cola dalle tempie sulle guancie, le fa bruciare perché Giovi ha la barba che raschia e punge, sarebbe meglio se l’avesse anche lei: un elmo contro il mondo. Quando Vania ha fatto quella minchiata, invece, la pelle non si è arrossata dopo, è rimasta liscia e calda.  Non avevano manco bevuto così tanto chiuse nel garage: sua cugina si era messa a ridere perché le aveva detto che sembrava uno scanazzato preciso da quando si vestiva così, camminava così e guidava quello scooter; poi l’aveva guardata, si era buttata in avanti e l’aveva baciata in bocca. Giusi l’aveva spinta e aveva gridato, ma che schifezze stava facendo? Lui ha i capelli sudati appiccati alla fronte, gira gli occhi spesso, si vede il bianco; lei gli dice che non ce la fa più, è troppo gonfia: si divincola dall’intreccio delle cosce, lo strattona per farlo voltare di schiena, gli guarda il profilo affondato nella gommapiuma mentre lui si toglie i boxer. Giusi si sfibbia i jeans, si abbassa le mutande: il culo di Giovi è bombato, duro e ruvido, si piega in avanti e se lo ammucca, gli divarica i glutei e ci infila la lingua, è amaro. Lui fa dei lamenti striduli ogni volta che Giusi spinge dentro le dita. Le dita attaccate alla mano, la mano attaccata al clitoride, il clitoride attaccato ai peli: ogni pezzo di Giusi, uno dietro l’altro, la collegano a lui, e il corpo svestito di Giovi è mischiato all’umidità polverosa del garage, della loro casa, della città; non si possono più scegliere né distinguere dalle altre cose.

- La dobbiamo finire, Giusi.
- Sempre lo dici.
- Questa volta dico vero.
- Pure io la voglio finire, la responsabilità ce l’hai più tu. Che glielo devo dire io?
- Sei tu sua cugina, mica io. Alla fine io sono un estraneo.
- Seh un estraneo! Ora i fidanzati si chiamano così, mi pare giusto.
- Questa cosa non ha senso. Non ho capito cosa provi, insomma, tu ci vuoi stare con me o no?
- Non vuol dire niente questo discorso adesso. Tu hai la responsabilità perché l’hai tradita e punto. Glielo devi dire e poi si capisce cosa fare. Ancora appresso a queste cose dobbiamo stare? Basta, è una vergogna per tutto.
- Non è una vergogna, è capitato. Lo sai che ti amo, Giù…
- Io ho bisogno un attimo di sentirmi meno confusa, voglio solo una decisione completa, cioè una cosa tutta intera, senza parti che mancano e se ne volano. E un pezzettino di qua, un pezzettino di là, e dare conto e ragione a te, a mio zio, a mio padre, a mia madre…
Vania alza la saracinesca. Loro la riconoscono dalla metà inferiore del corpo, prima che lei li possa vedere; scattano in avanti con le braccia, si guardano attorno, stringono gli occhi, poi rallentano, si piegano verso il basso, si soffiano via. Giusi non può vedere sua cugina piangere, come quella volta che le ha dovuto dare uno schiaffo perché l’aveva baciata di nuovo e le aveva detto che si era innamorata di lei. Prende lo scooter, lo trascina fuori dal garage correndo, mentre Giovi tiene Vania dalle spalle e le dice di smetterla di gridare; ci sale a cavalcioni e se ne va, accelera senza fare nessun rumore. C’è sempre caldo anche se il giorno è finito, dietro la statua dell’Ave Maria, in piazza, il cielo è ancora scorticato di luce. Una macchina esce di botto da una trazziera e investe lo scooter, lei sale per un attimo in aria come una chiazza di fumo, poi precipita a terra e si frantuma in mille pezzi piccolissimi. Giusi stanno tornando a casa.

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Vivo a Palermo (dove sono nata nel 1988). Qui ho frequentato un corso di scrittura con Giulio Mozzi e Carola Susani organizzato dal Centro Studi Narrazione - Le città invisibili - a cura di Leonora Cupane. Nel 2017 ho seguito un corso di editing avanzato con Christian Raimo alla Scuola del Libro di Roma. Nello stesso anno ho esordito in poesia con la raccolta "La stanza vuota" (Ladolfi Editore). Poesie e racconti sono pubblicati su diversi litblog e riviste come: Nuovi Argomenti, Cattedrale, Colla, Vibrisse, ecc. 


La buona educazione, di Anna Lo Piano

La buona educazione

di
Anna Lo Piano

Sulla chat le sue amiche fanno a gara a chi ha avuto più storie, ma lei non scrive niente. Ieri sera Diego l’ha portata dietro le cabine, dove c’è sempre un odore di umido e sale, e di qualcosa di rancido, come nei bagni di scuola. Lui si è appoggiato su un’asse di legno ma lei è rimasta immobile, con la sabbia infilata a tradimento nelle scarpe. Allora lui le ha afferrato la mano e l’ha tirata verso di sé, e in quel momento si è sentito un trapestio in mezzo al canneto. Un’altra coppia era andata ad appartarsi poco distante. Il ragazzo ha detto qualcosa, e lei ha riconosciuto la voce di Antonio. Diego intanto le aveva infilato la lingua tra i denti e spingeva, e lei ha cercato di spingere più forte, e intanto pensava ad Antonio e alla sua ragazza, così vicini che poteva sentire i loro corpi strusciarsi. Poi Diego le ha sollevato la maglietta e ha piazzato le mani proprio dove comincia il sedere, e lei un po’ si è vergognata e un po’ le è piaciuto, e poi si è vergognata che le piacesse così tanto, e alla fine si è appoggiata a lui con tutto il peso e gli ha esplorato l’aspro della saliva, la consistenza sudaticcia della pelle sotto il cotone della camicia, e a occhi chiusi si è chiesta quanto mancasse ancora alle dieci, ora limite del suo coprifuoco.
”Ti è piaciuto?” Le ha chiesto Diego mentre tornavano a casa, ma lei non ha risposto. Si sentiva pizzicare la pelle come dopo una scottatura. Sì, i baci in fondo le erano piaciuti, ma lui, no, proprio non le piaceva, con quei capelli ricci schiacciati sulla fronte e gli occhi a spillo che si accavallavano sul naso. Non era sicura di volerci tornare, con lui, alle cabine, ma non sapeva come dirglielo, e intanto pensava ad Antonio. Con lui sì che ci andrebbe, ma tanto figurati, a stento la saluta, anche se abitano a tre metri e una volta hanno giocato a pallavolo nella stessa squadra.  Forse Diego stasera glielo chiede di nuovo, ma non deve sapere che è stato il primo e l’unico a baciarla, e soprattutto non devono saperlo le sue amiche. A settembre compirà quattordici anni e andrà al liceo. Non può mica arrivarci così, le serve un passato.
”Giulia! Mi vuoi ascoltare?”
Suo fratello le tira via le cuffiette dalle orecchie e la costringe a  guardarlo.
”Mamma ha detto che devi giocare con me”.
”Ma quando mai. Ha detto solo che ti devo controllare”.
”Guarda che glielo dico che non vuoi giocare”.
”Prova a svegliarla e ti ammazzo”.
”Provaci tu a fermarmi, se hai coraggio”.
Se i suoi genitori si svegliano, non la faranno uscire per una settimana.
”Dai, Tommy fa’ il bravo. Se vuoi, ti presto il telefono” dice tutto di un fiato, e subito dopo se ne pente, perché prima che possa rimangiarsi l’offerta, lui glielo ha già strappato di mano.
Bene, brava, proprio una bella idea. Così adesso lo stronzetto gioca a Candy Crush e lei non ha più niente per passare il tempo.
Si siede sul letto, e afferra il beauty di stoffa imbottita.  Dalla finestra entra un alito di peperoni arrostiti e citronella.  A quest’ora le persone normali sono in spiaggia, mentre lei, per colpa delle fisime dei suoi - a mezzogiorno via dal mare, all’una a tavola, poi si dorme – è chiusa qui dentro a fare la guardia a suo fratello.   Non è giusto, pensa, e intanto si tinge le unghie dei piedi di blu glitterato, dieci piccole scaglie iridescenti lasciate a seccare sull’asciugamano. Non è giusto per niente. Giulia si alza e gira la maniglia della porta. Tommy neanche si accorge di lei. Il corridoio è immerso nella penombra. Cammina in punta di piedi attenta a non fare rumore. Dalla camera dei suoi arriva un brusio sommesso. Non è vero che quei due dormono, dopo pranzo. È una bugia e lei lo sa perché il letto scricchiola e c’è sempre un avanti e indietro con il bagno. Questo silenzio obbligato è solo una vendetta contro lei e suo fratello, un modo per fargliela pagare per averli portati al mare un mese intero, e il broncio, e il telefono, la scuola, e quanto ci costate e lo stipendio che non basta.
Il soggiorno e la cucina sono un unico ambiente, e Giulia ci entra a passo di danza, e quasi va a sbattere allo spigolo vivo della vetrinetta che li separa. Odia le case in affitto. Sono sempre piene di mobili rimediati da vecchi traslochi, e questa è anche peggio delle altre, con le strisce di muffa sul battiscopa e il televisore che non prende i canali.  Si guarda intorno cercando qualcosa da fare. Sul divano c’è ancora il suo libro. Ha letto dieci pagine e ne mancano ancora duecento cinquantasette, non ce la farà mai a finirlo ma in fondo chissenefrega, tanto quest’anno nessuno le controlla i compiti, e se sua madre insiste, si leggerà il riassunto su Wikipedia e amen. Apre la porta finestra che dà sulla veranda. La bicicletta è appoggiata al muro, accanto allo stendino. Un giro, uno solo. Chi vuoi che se ne accorga.   Afferra il manubrio e spinge la bici sull’erba, con la mano sul campanello per non farlo suonare. Fa scattare il cancelletto e lo richiude alle sue spalle, poi si arrampica sul sellino e comincia a pedalare lungo il vialetto che porta all’uscita. Il brecciolino scricchiola sotto le ruote. Via, via. È fuori finalmente. Un sasso schizza nel canale che costeggia il lungo rettilineo d’asfalto.
In fondo, sospesa sull’orizzonte, balugina una striscia di mare. Se si sbriga forse riesce a raggiungere gli altri, forse vede anche Antonio. Prima però ci sono campi a perdita d’occhio, dove stanno accucciate contadine del Bangladesh con i fazzoletti in testa per proteggersi dal sole. “Buongiorno!” urla Giulia e saluta con la mano, e quelle alzano lo sguardo, ma solo una le risponde. Pedala e passa davanti alla chiesa, così striminzita che d’estate il prete dice la messa in cortile, e bisogna portarsi le sedie da casa. Cento metri più avanti, la strada fa una curva e scende restringendosi, e lei come al solito dimentica di rallentare, mentre dal lato opposto una macchina sta arrivando sparata. “Ehi ma che!” urla Giulia. Il manubrio le sfugge di mano e lei svelta punta un piede per terra. La macchina quasi la sfiora, poi rallenta fino a fermarsi qualche metro più in là. Un uomo con gli occhiali scuri sporge la testa dal finestrino e si gira verso di lei.  “La prossima volta vai piano” le dice “che puoi farti male”. Giulia vorrebbe rispondergli che si è già fatta male, si è graffiata la gamba su un cespuglio di rovi che cresce lì accanto, ma lui sta fermo e la osserva dietro quegli occhiali enormi.
Idiota, pensa, mentre si rimette sul sellino.
L’uomo riparte con una sgommata.
E che avrà avuto da guardarla, poi, pensa Giulia, questo non si capisce, anche se lo sa che agli uomini piace guardare, perché si fermano a capannello quando lei e le sue amiche escono da scuola, e a passargli davanti sembra sempre che tu debba inciampare, o sporcarti il vestito.
“Rassegnati. Hai cominciato a piacere”, le ha detto l’altra sera Melissa, mentre erano al pub a dividersi un cheeseburger maxi con le patatine.  Questa cosa di piacere ai maschi è una specie di superpotere che non si capisce bene come funziona. La prima volta che si è accorta di averlo è stata in primavera, quando il tipo del quinto piano l’ha chiamata «signorina» tenendo aperto l’ascensore per farla salire. Solo perché aveva un top con le bretelle e un po’ di trucco, quello l’aveva scambiata per chissà chi ed era tutto gentile. Però non funziona con tutti.  Uno come Antonio, per dire, se ne frega di lei, anzi manco la vede.
“Anche mio fratello ha detto che sei carina” ha continuato Melissa, e una briciola di pane le è schizzata sul piatto.
Suo fratello si chiama Andrea, ha quasi vent’anni e da qualche tempo se la incontra si ferma a chiederle della scuola e di quello che le piace fare, come se gli importasse davvero di saperlo.  A sentire Melissa che parlava di lui, Giulia ha tirato su col naso, e la cannuccia nel bicchiere ha fatto un gorgoglio da vergognarsi a morte.
Senza quasi accorgersene cambia direzione.  La casa di Melissa è quella bianca e azzurra. L’hanno costruita tanti anni fa. L’ultimo piano è ancora tutto da fare, per ora ci sono soltanto quattro spuntoni di ferro, ma a breve è lì che andrà a vivere Andrea. Che strano, da quando sa di piacergli il suo nome fa un suono diverso. Giulia lo immagina in bilico sulle travi, a piedi nudi, con il costume a fiori e l’asciugamano buttato su una spalla. Si sorprende di conoscere a memoria il colore del nastrino che porta alla caviglia e il tatuaggio cinese che si intravede sotto. Una volta, per salutarla, le ha dato un bacio sulla guancia, e un altro bacio sull’altra guancia, e intanto le teneva un braccio intorno alla vita, come per non farla scappare. E se la prossima volta girasse un poco la testa, che succederebbe? No, non deve pensarci. Pedala, e intanto immagina il sapore della sua lingua. Sarebbe diverso da quello di Diego, diverso anche da quello di Antonio, anche se non sa niente del sapore di Antonio. Ma con Diego è stato facile lasciarsi andare, perché ha la sua età ed è anche un po’ imbranato. Invece Andrea è quasi un uomo, e abita in una casa di studenti con una stanza che può chiudere a chiave, e se per caso c’è anche lei, in quella stanza, perché lui magari la invita con una scusa scema che però adesso così al volo non riesce a inventare, insomma se per caso succede, allora saranno loro due e nessun altro. “Fidati di me” le pare che le dica e poi la stringe tra le braccia e la bacia, e la sua lingua non è larga e goffa come quella di Diego ma è dolce, le esplora i denti, si ritrae, ritorna, e lei non si oppone, anzi si lascia andare. Andrea le solleva la maglietta, le poggia le mani sulla schiena, proprio dove inizia il sedere. E poi? Giulia si rimette a pedalare e prende il rettilineo in discesa senza mai frenare, e tutto si interrompe come con la pubblicità. La prima volta che è andata in bici senza rotelle aveva sei anni, e da allora appena sale sul sellino, quell’insieme di tubi e catene si tramuta in una carne viva, e mentre corre il bianco della strada quasi l’abbaglia. Andrea a poco a poco si scontorna, diventa una sagoma senza espressione, senza odore né sapore, un oggetto di plastica.  Come Ken di Barbie, quando alle elementari giocava a farli innamorare. Si chiudeva in camera, in quei pomeriggi, perché sentiva che c’era qualcosa di proibito nell’accanimento con cui schiacciava uno sull’altro i loro corpi di bambola, mentre quelli ostinatamente si ribellavano, frapponendo seni a cono, schiene rigide, e braccia puntate come baionette. Ancora non sapeva, anche se in qualche modo lo intuiva, che ciò che li separava davvero era la spianata deserta che avevano in mezzo alle gambe.
Giulia spinge sui pedali, piede e ginocchio e poi l’altro piede, mentre la strada scorre sotto le gomme zigrinate della bici. Intanto il tempo è passato, ben più dei pochi minuti che si era ripromessa, ma non ha ancora voglia di tornare a casa, chiudere il giro con il clang del cavalletto e le gambe febbrili per lo sforzo.  Sulla bici si sente libera, con tante strade tra cui scegliere e il brecciolino che schizza sotto le ruote. Via, via, il mare è così vicino che può vederne il bagliore. Mancano le ultime traverse e poi è arrivata. Ora pedala come se fosse al rallentatore, uuuuno e duuuuue, un braccio lungo i fianchi, poi anche l’altro, e via senza mani, che non ce n’è bisogno, la bicicletta fa parte di lei.
”Buongiorno, mi scusi”.
Giulia nel voltarsi perde per un attimo il controllo, la bici sbanda, e lei è costretta a rallentare.
”Mi scusi”. Una macchina si è accostata a fianco a lei e dentro c’è un tipo che le sorride dietro gli occhiali scuri. “Scusi. Non volevo spaventarla”.
Giulia poggia le punte a terra, tiene stretto il manubrio. L’uomo schiaccia un pulsante e il finestrino si abbassa del tutto. Lo riconosce. È il tizio di prima, quello che quasi la faceva cadere.
”Solo un’informazione”. Dalla radio accesa arrivano le note di una canzone di Tiziano Ferro. Non le piace Tiziano Ferro. È da vecchi. L’uomo continua a sorridere e Giulia si ricorda che i suoi genitori non vogliono che esca a quest’ora perché è pericoloso, non c’è in giro nessuno. “Solo un’informazione” ripete l’uomo e lei sa che non si parla con gli sconosciuti ma anche che bisogna essere gentili e allora china un po’ la testa e dice “Prego”, perché lui ha uno sguardo strano, come se si fosse perso e forse è proprio così, deve essersi perduto tra quelle strade tutte uguali e ora sta girando in tondo, è già due volte che lo incontra.  L’uomo biascica qualcosa, ma Giulia non capisce. “Come?” dice, e pensa che forse è colpa della musica, che è troppo alta. Come si fa ad ascoltare Tiziano Ferro a tutto volume? È da cafoni. Ma lui le grida “Ehi!” e lei sbatte le palpebre come se l’avessero appena svegliata.
”Lo vuoi questo?” dice l’uomo.  Alla radio hanno cambiato canzone e l’uomo si è tolto gli occhiali e non sorride più come prima. Giulia guarda bene dentro la macchina e si chiede se è normale quello che vede. L’uomo ha i pantaloni abbassati e con una mano si tiene il coso e glielo mostra. “Insomma, lo vuoi questo?” insiste, ed è proprio scocciato, forse perché pensa che lei non abbia sentito, anche se è già due volte che glielo ripete. Ma lei ha sentito benissimo, solo che non sa proprio cosa fare, davvero non ne ha idea, e un po’ si mette a guardarlo, anzi lo osserva proprio nei minimi dettagli, perché in fondo è la prima volta che ne vede uno così da vicino, un cazzo, minchia, uccello, i nomi le sfilano in testa tutti insieme e non riesce a fermarli, sempre che non contiamo quello di suo fratello che però è di un bambino, pisello, pisellino, pistolino ed è sicuramente diverso da questo qui, e non contiamo neanche i cosi cazzi minchie dei video proibiti che ogni tanto girano a scuola e che bisogna guardare in finestre nascoste per non farsi scoprire. Ma un conto è un video, pensa Giulia, e un altro questo coso qua, che sembra muoversi da solo a scatti e ha una punta tutta rossa come se si fosse ferito. E poi quest’affare è attaccato a un uomo vero, che emana un odore di sudore e dopobarba e ascolta Tiziano Ferro, e ha una strana smorfia sulla faccia, come se sentisse un dolore. «No, non lo voglio. Certo che non lo voglio il tuo coso cazzo schifoso, rimettilo nei pantaloni, brutto stronzo». Ecco quale sarebbe la risposta perfetta a una domanda così idiota, ma Giulia guarda negli occhi dell’uomo e un po’ di quel dolore arriva addosso anche a lei. “No grazie” dice allora, perché è una ragazzina proprio educata, ed è così che le hanno insegnato a rispondere all’offerta di un adulto.
Nella villetta di fronte un cane abbaia. L’uomo fa un’altra smorfia strana e mette in moto. Forse, pensa Giulia, se ne sta andando perché quel dolore è troppo forte, o perché non si aspettava che lei dicesse “No grazie”. O forse se ne va solo perché il cane si è messo ad abbaiare e a nessuno piacciono i cani che abbaiano, specialmente se hai i pantaloni calati.
Però intanto si allontana e lei si sente sollevata di non avere più a che fare con qualcuno che si contorce su un sedile per riuscire a spogliarsi. Questa sì che è una cosa da raccontare alle sue amiche, ma più ci pensa più si rende conto che non ha voglia di dirlo a nessuno quello che è successo, e intanto le tremano le labbra e le viene un po’ da vomitare.
Questa è l’ultima volta che lascia il telefono a suo fratello, che non le venga in mente mai più. Chissà se quel tizio l’ha capito che lei non l’aveva mai visto un uomo senza mutande, e in nessun modo avrebbe mai immaginato che la prima volta sarebbe stata così, su una strada verso il mare, mentre lui diceva «lo vuoi» come se fosse un oggetto che si può regalare. Forse avrebbe potuto suggerirgli di darlo a Ken, invece. Lui sì che avrebbe apprezzato l’offerta. «Grazie» avrebbe detto tirandosi giù i calzoni, (risente anche lui dell’ottima educazione familiare), e si sarebbe piazzato quell’affare in mezzo alle gambe, al posto della spianata di plastica. «Grazie mille. Adesso sì che si comincia a ragionare», avrebbe detto, e poi avrebbe chiamato Barbie e le sue amiche che si vantano di essere così esperte, per fargli vedere lui come si fa.
L’uomo dopo un centinaio di metri accosta la macchina sul bordo della strada, e  spegne il motore.
Giulia si sente le ginocchia che diventano dure.
Si aspetta di vederlo scendere e venire verso di lei,  invece rimane seduto, con i finestrini aperti. Adesso lei se fosse davvero coraggiosa dovrebbe fregarsene e passargli davanti con aria di sfida. Voleva andare al mare e ci andrà. Magari lui è solo uno di quelli che aspettano le ragazze fuori dalla scuola, che si accontentano di vedere i loro sguardi smarriti quando bisbigliano certe parole.  Ma se ti avvicini e li provochi, ha detto Melissa, se ne vanno con la coda tra le gambe, e se lo ha fatto Melissa può farlo anche lei.
Ferma in mezzo alla strada, Giulia fa oscillare il manubrio a destra, poi a sinistra.
Come vorrebbe essere a casa, in questo momento, sentire il clang del cavalletto e le ruote che strisciano sull’erba, l’odore di citronella e peperoni. Ma forse è quello che lui vuole, che lei si volti e cominci a pedalare. Vuole lasciarle l’illusione di averla scampata, per poi raggiungerla quando meno se lo aspetta. Non è forse la cosa più divertente del mondo, giocare ad acchiapparti quando sai di essere il più veloce?
Ma se torna a casa, dovrà dirlo a qualcuno, quello che è successo. E se lo dice, le toccherà confessare che è uscita senza permesso.  E se le fanno domande precise? Se non basta dire senza mutande? Se deve elencare tutti i nomi che le sono venuti in mente e fare un identikit dell’uomo, anzi no del suo cazzo? Non può parlare, non può farlo per nessuna ragione, e poi se parla si agiteranno tutti e non la faranno più uscire, non potrà neanche più andare dietro le cabine a baciarsi con Diego, né scoprire se è vero che piace un po’ ad Andrea.  Le diranno che avevano ragione a ripeterle di finire il libro invece di andarsene in giro da sola, anche se giura e spergiura che non è successo niente, che l’uomo non è neanche sceso dalla macchina e forse se tutto va bene non scende più, lo vedi se ne sta lì seduto buono al suo posto di guida, con il coso tra le mani.
Chissà, magari ci ha ripensato davvero. Si è reso conto di aver fatto un errore, una cosa proprio stupida di cui subito si è pentito, non sa neanche perché l’abbia fatto, forse neanche se lo ricorda più, non è sicuro che sia mai successo, e ora si è rivestito e ha la zip dei pantaloni tirata fino in cima, e legge il giornale, si gode il paesaggio, o sta scrivendo un indirizzo nuovo sul navigatore.
Però Giulia lo sa che non è così.
Dalla sua posizione gli intravede la nuca, un’ombra scura piegata da un lato, come la stesse spiando dallo specchietto retrovisore.
Lo sente che lui non si è rassegnato e che sta solo aspettando che lei faccia qualcosa per poter dire che alla fine è stata lei, che è tutta colpa sua.
Scende dalla bici e gli va incontro sbilenca, tenendo il manubrio con le due mani, e i pedali le sbattono sul polpaccio. Glielo vorrebbe proprio chiedere, che cosa ha in testa, che cosa cazzo vuole da lei, ma le parole in testa fanno un rumore di ruggine.  Lui sta immobile come un rapace in agguato, mentre dalla sua radio arrivano le note di una canzone che non conosce e questo per qualche motivo la fa sentire ancora più a disagio. Annusa l’aria e si guarda intorno a scatti, come se cercasse una via di fuga. È strano non sapere cosa fare, non avere neanche una minima idea di cosa fare. La gente normale, sì che lo sa, invece, perché in giro a quest’ora non c’è nessuno, sono tutti al mare tranne loro due. E lei di sicuro oggi al mare non ci andrà, e forse neanche domani, perché all’improvviso le è passata la voglia di tutto, e l’unica cosa che le martella la testa è che «no grazie» non era la cosa da dire a un uomo con una smorfia di dolore sul viso e un cazzo che sembra una salsiccia. Le viene quasi da ridere a pensarci. Ma neanche ridere è la cosa giusta. L’unica cosa giusta l’ha fatta il cane che si è messo ad abbaiare, e forse adesso dovrebbe abbaiare anche lei, e mostrare i denti ringhiando, tanto non se ne accorgerebbe nessuno, stanno tutti sotto gli ombrelloni o chiusi nelle loro stanze in un silenzio obbligato, a sospirare nella penombra e nella polvere.
E l’uomo sta sempre nascosto dentro la macchina.
E allora Giulia comincia a correre, e si fionda verso di lui con il manubrio stretto tra le mani, urlando come se volesse strapparsi le corde vocali e lanciargliele addosso, invece gli lancia addosso la bici, e colpisce la macchina di striscio, sul retro, e fa un rumore di ferraglia e molle, e sembra che la strada e i campi e persino la luce si mettano a vibrare mentre la bici rimbalza all’indietro e rimane sospesa su un filo invisibile, ondeggia, sbanda, poi una ruota si prostra in avanti, e l’altra cede trascinandosi dietro il manubrio con tutto il peso della carcassa. Si schianta sull’asfalto e per qualche secondo i pedali girano all’impazzata, cercando aria. Poi tutto tace.
Intorno c’è solo un frinire ossessivo di cicale.

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Sono nata a Palermo nel 1966 e mi sono trasferita a Roma quattro anni dopo, l’inverno che ha nevicato. Nella vita ho soprattutto viaggiato e imparato lingue, oltre a fare quasi tutti i mestieri che hanno a che fare con le storie e le parole: traduttrice, giornalista, producer, copywriter, editor e insegnante. Ho pubblicato libri per ragazzi e racconti in antologie. Ho seguito i due moduli e la Masterclass del laboratorio Trenta Cartelle. Attualmente sto terminando una raccolta di racconti.


 

Stacca e scappa, di Jacopo Marocco

Stacca e scappa

di
Jacopo Marocco

 

A Roberto

  

L’avevamo chiamato “stacca e scappa”, una specie di gioco che io e Daniele facevamo d’inverno, dopo la scuola. Nel pomeriggio ci vedevamo quasi sempre da me per fare i compiti, ma in realtà facevamo ben poco, presi com’eravamo dallo sfogliare qualche giornaletto porno di mio fratello, uno di quelli che si era dimenticato di aver nascosto chissà dove e che io, più per ricerche estenuanti che per caso, trovavo. Eravamo all’ultimo anno delle elementari e non sapevamo ancora come sfogare tutto quel groviglio emotivo che quelle immagini ci scatenavano. Così, una volta annunciata la fine dei compiti ai miei, io e Daniele uscivamo per il paese a staccare i contatori della corrente di qualche casa, per poi scappar via di corsa. Stacca e scappa.
Quel giorno però avevamo deciso di non creare problemi a nessuno perché a Daniele faceva male una caviglia: durante la ricreazione quello stronzo del figlio del bidello gli aveva dato un calcio, senza motivo. Proposi allora di riprovare a fare due tiri di sigaretta: stavolta avremmo provato con le Multifilter Extra Light di mia madre in modo da non strozzarci come con le Philip Morris marroni del padre di Daniele.
Eravamo usciti da poco, quando per strada incontrammo un ragazzo con una grossa macchina fotografica, una di quelle professionali, mica quelle compatte che avevamo in casa e usavamo solo al mare o per i compleanni. Fotografava una voragine, larga un paio di metri e profonda non so quanto, che si era aperta il giorno prima sulla strada principale del paese. Non era chiaro cosa fosse successo, ma tutti cercavano di non finirci dentro, perché nessuno ancora ci aveva messo una protezione intorno.
Daniele, che fino a un attimo prima non aveva fatto altro che bofonchiare cose contro il figlio del bidello, si zittì e fece un fischio vedendo l’obiettivo della macchina fotografica che si allungava e accorciava.
“Sembra l’uccello di un robot” disse sottovoce.
Il fotografo si girò verso di noi, fece l’occhiolino e tornò a fotografare la buca.
“Sei del giornale?” chiese Daniele.
Il ragazzo si voltò di nuovo e annuì.
“Ma che è muto?” domandò Daniele guardandomi.
Buttai un occhio al giornalista, ma quello aveva già ripreso a fare le foto alla voragine.
Iniziava a far buio e così prendemmo la strada che portava a ridosso del bosco, diretti verso uno spiazzo dove i ragazzi più grandi si ritrovavano la sera. A fare cosa, lo capii poco dopo. 

Daniele fischiò indicando qualcosa per terra. Guardai, ma non capii lì per lì. Additava una cosa che ne richiamava tante altre. Droga, pericolo, drogati, malattie, crimine, contagio, spacciatori. E altre cose ancora, parole che sentivo pronunciare di continuo e che non capivo mai in maniera chiara. Overdose, aiz, aidiesse, accaivu.
Non tirai fuori nemmeno le sigarette che avevo rubato a mamma. Dissi solo: “Andiamo via”.
“Hai paura?” chiese Daniele stupito. “Ma dai, quelli ci vengono la sera.”
“Non sto tranquillo.”
M’incamminai, convinto che Daniele mi seguisse. Dopo qualche metro mi girai e lo vidi fermo dov’era prima, intento a studiare la siringa che ora teneva tra il pollice e l’indice.
Urlai e iniziai a sudare freddo. Sapevo che la malattia o il diventare drogati aveva a che fare con l’ago: dovevi pungerti per trasformarti in un tossico o in un malato, o entrambe le cose. Ma per me bastava toccarla e diventavi subito uno di quelli.
Daniele ormai è spacciato, pensai. Rimasi dov’ero e gridai: “Butta via quella siringa, buttala via subito!”. A bassa voce aggiunsi: “Poi troveremo una soluzione per curarti”.
Daniele continuò a esaminare quell’oggetto con la stessa curiosità che riservava a qualche figura che vedeva sui giornaletti di mio fratello. Poi lo vidi abbassarsi e raccogliere qualcosa da terra.
“Il tappo!” disse soddisfatto. Si rimise in piedi, coprì l’ago e, con calma, venne verso di me.
“Non provare a toccarmi!”
Cercai di bloccarlo, ma lui riuscì comunque a sfiorarmi. Quando sentii la plastica della siringa sulla pelle, mi irrigidii e urlai, mentre lui non riusciva a smettere di ridere.
“Guarda che non ti succede niente così”, disse. “Ho visto una trasmissione dove parlavano di queste cose e non ti prende niente in questa maniera, se tocchi la siringa e basta che vuoi che ti succeda?”
Restai in silenzio e, insieme, ci incamminammo verso il paese. 

“Ma quindi anche mia cugina Paola è una drogata?” chiesi a Daniele dopo un po’.
“Perché?”
“Be’, perché so che la sera va spesso in quello spiazzo, ho sentito che lo diceva a mio fratello.”
“Ah, magari allora la siringa è la sua”, buttò lì Daniele.
Forse avevamo una drogata in famiglia e solo io sapevo la verità. Paola malata, siringa nel braccio, sangue infetto, overdose, aiz, aidiesse, accaivu.
Passammo davanti alla casa del bidello. Il contatore era ben esposto sulla strada. Guardai Daniele che annuì tenendo ancora tra le dita quell’affare maledetto.
“Sicuro?” chiesi buttando un occhio alla sua caviglia.
Lui rispose forzando lo sportello dell’Enel. Io, rapido, tirai giù la levetta del contatore.  

Ci trovammo a riprendere fiato appoggiati a un albero davanti al bar del paese. Fuori dal locale non c’era nessuno. Dentro intravedemmo qualche vecchio giocare a carte e il giornalista che beveva qualcosa mentre parlava col barista. Era buio ormai, e il paese era già deserto.
Daniele tolse il tappo della siringa e la ficcò sul tronco dell’albero.
“Sei scemo?”
“Io devo andare e non so dove buttarla”, fece lui, salutandomi poi con un fischio.
Mi guardai intorno e vidi un secchio dell’immondizia. Feci per indicarglielo, ma sentii un tonfo. Vidi Daniele addosso al tronco dell’albero, immobilizzato dal braccio del bidello. Lo teneva per il collo e più Daniele cercava di liberarsi, più il bidello stringeva la presa. Mi ordinava di avvicinarmi.
“Giuro sulla Madonna che l’ammazzo se non vieni qui!”
Ma io non riuscivo né a muovermi, né a parlare o chiedere aiuto.
Diceva che eravamo delle merde a fare uno scherzo del genere, che se non fosse stato a casa sarebbe potuta andargli a male tutta la carne che aveva nel congelatore. Diceva che stavolta era andata bene a lui, e male a noi.
Nel frattempo Daniele aveva assunto un colore e un’espressione che nemmeno nei film avevo mai visto, e io non riuscivo a fare nulla. Se fossi stato al suo posto, addossato all’albero, lui si sarebbe inventato qualcosa. Io invece assistevo immobile alla sua morte.
Poi il bidello smise di parlare, di provare ad afferrarmi con la mano che aveva libera, di parlare della carne che rischiava di scongelarsi, dei danni che un contatore dell’energia elettrica staccato all’improvviso poteva causare. Smise di stringere Daniele per togliersi la siringa che lui gli aveva piantato nel collo. La tenne qualche secondo in mano, incredulo, poi la gettò veloce a terra, come se stesse per scoppiargli in mano. Daniele, tossendo e riprendendo un colore umano, venne di fianco a me.
Il bidello ci fissò a bocca aperta.
“Che m’avete fatto?”
“Tuo figlio è un gran coglione!” urlò in risposta Daniele.
Scappammo.

Sirene. Quella sera non feci che attendere il suono delle sirene. E non saprei dire bene a che ora, ma alla fine quel suono arrivò.
Avevamo corso fianco a fianco per un po’, ma a un certo punto Daniele si era fermato. Non me ne accorsi subito, e quando mi voltai per vedere dove fosse finito, lo vidi fermo sul ciglio della voragine. Non feci in tempo a dire nulla, potei solo osservarlo mentre schivava il bidello che arrivava lanciato contro di lui, facendolo volare diritto in quel buco nero. Ed eccolo Daniele qualche secondo dopo, che mi passava accanto salutandomi col suo solito fischio, andandosene come se nulla fosse.
Appena rientrato a casa, corsi in bagno a vomitare. A cena sbocconcellai qualcosa che rigettai poco dopo. Ai miei, mezzi addormentati sul divano, sussurrai un buonanotte e poi mi chiusi in camera in attesa delle sirene, dei lampeggianti, dell’irruzione dei Carabinieri, delle manette, del carcere. Della fine della vita.

La mattina dopo mi trascinai verso la fermata del pulmino. Avevo la nausea ed ero stravolto dalla notte passata quasi insonne. Nei pochi istanti in cui ero riuscito a dormire sognai mia cugina Paola che mi guardava in silenzio mentre dei vermi corti e tozzi le uscivano dal naso. Il resto del tempo fu un logorante rimuginio. Se non lo ha ucciso la caduta, lo avrà ucciso l’aiz o l’aidiesse o magari l’accaivu, pensavo. Quando poi sentii le sirene, mi feci piccolo piccolo sotto le coperte e desiderai di essermi punto io con quella siringa.
Allarme droga nella frazioni. Era il titolo di una delle locandine che lessi passando di fronte all’edicola. Sotto, la foto della siringa a terra davanti al bar. Nessun accenno alla voragine. O al bidello.
Alla fermata Daniele non c’era e di solito arrivava prima di me. Lo staranno interrogando e tra poco toccherà a me, pensai. Vomitai di nuovo, di fronte allo sguardo schifato degli altri ragazzini presenti. Quando vidi il pulmino arrivare, mi girai e tornai a casa.
Mia madre, vedendomi in quello stato, mi spedì a letto senza fare storie.
Mentre mi spogliavo, il telefono squillò. 

“Stai chiamando dal carcere?” fu la prima cosa che chiesi a Daniele.
Lo sentii ridere dall’altra parte del telefono. Io ero serio, e lui rideva. Io credevo davvero che poteva trovarsi in galera, e lui rideva. Io stavo morendo, mangiato dentro dall’ansia, dall’angoscia e dal senso di colpa, e lui rideva. Mi raccontò che la sera prima, appena tornato a casa, aveva trovato la madre che lo aspettava con in mano uno dei giornaletti che gli avevo dato io. “Il bidello, me l’ha dato il bidello” la incalzò subito Daniele. Sua madre, senza indagare oltre, andò subito in città a denunciare la cosa in caserma. 
Non so cosa faccia Daniele ora, ma sono quasi sicuro che si occupi di uno di quei lavori in cui serve velocità nel pensare per inventare balle e pararsi il culo. Forse è un politico oppure un avvocato o forse direttore marketing di qualche multinazionale. 
"Che razza di pervertito è uno che fa vedere certe cose a un bambino?" disse in falsetto, imitando la voce indignata della madre. "Era furiosa, avresti dovuto vedere le facce dei Carabinieri mentre gli diceva quanto fosse porco, maiale e schifoso il bidello, quasi ci stavo per credere pure io", disse soddisfatto. Poi aggiunse: “Così ora quello stronzo di suo figlio ci penserà due volte prima di darmi un calcio”.
Riattaccai. 
Il bidello sarebbe sopravvissuto all'aiz, all'aidiesse, all'accaivu e anche alla caduta nella voragine. Ma non a quell'infamia, a quel sospetto che ormai passava di bocca in bocca come un virus. 
Quando i conati di vomito, quella mattina, sembrarono darmi una tregua, andai a letto. Rimasi a contorcermi sotto le coperte per tutto il giorno, senza mai uscire dalla mia stanza, senza mai uscire da quel silenzio, senza mai avere il coraggio di dire a qualcuno ciò che era davvero successo. 

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Mi chiamo Jacopo Marocco, ho 34 anni e vivo a Spoleto. Amo scrivere, viaggiare, andare a funghi e pescare a mosca. Da grande vorrei gestire un allevamento di Chupacabra. Scrivo da quando avevo vent'anni e i primi racconti li ho pubblicati sull'ormai scomparso myspace.com. Ho partecipato a un laboratorio di narrativa tenuto da Matteo Pascoletti nel 2017 e, tra marzo e maggio 2019, al seminario "Io scrivo, tu scrivi" organizzato da Cattedrale - Osservatorio sul racconto, con Teresa Ciabatti, Davide Orecchio, Gaia Manzini, Francesco Pacifico e gli editor di Racconti Edizioni.
Alcuni miei racconti sono stati pubblicati su Verde Rivista, Umbria Noise e Settepagine Rivista. Altri racconti sono pubblicati sul mio blog
https://jacopomarocco.com


Lunedì 9. I Racconti degli allievi diventano un e-book

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Quando, nel 2015, è nato Trenta Cartelle, si pensava a un semplice corso dedicato a chi ama scrivere e leggere racconti. Poi, alla sua terza edizione, il laboratorio si è trasformato in qualcosa di molto più complesso, articolato, profondo e significativo: è diventato, infatti, un luogo e uno spazio di condivisione fortissima, in cui non si scrive semplicemente, ma dove la scrittura – e la sua gemella lettura – permettono agli allievi (e anche ai docenti) di aderire a un progetto didattico che svicola dalla semplice formazione. Ciascuno, infatti, diventa parte di un mosaico luminoso di partecipazione attiva, che contribuisce sì al perfezionamento della propria scrittura, ma anche a dare vita a un laboratorio di umanità strettamente connesso alla condivisione del potere letterario. Scrivere finzione, in questo spazio, non significa solo imparare a comporre una storia ma anche a capire come queste storie ci compromettono e ci coinvolgono in quanto persone. Condividere qualcosa di tanto intimo significa, prima di tutto, creare dei legami. Questo e-book, quindi, nasce proprio così: avendo creato diversi e specifici legami. Prima di tutto tra sé stessi e la propria scrittura. Poi tra allievo e docente. E poi, infine, tra gli allievi e i docenti di Trenta Cartelle e quelli del master «Il lavoro editoriale» della Scuola del libro, che con il loro lavoro hanno impreziosito le voci autoriali nate dal laboratorio di Cattedrale. Un lavoro sinergico prima di tutto umano, senza il quale sarebbero vane le precise e necessarie competenze acquisite. Una sinergia che rende il libro quello che deve essere: una creatura strana in cui si incontrano tutti ‒ autori, lettori e il complesso mondo di mestieri e saperi che coinvolge un mucchio di persone che opera dietro le quinte. La collaborazione nata da queste due scuole è preziosa proprio per questo: perché fornisce una formazione specifica, forte e fattiva per due classi di studenti. Ma, soprattutto, perché rende cristallino ciò che spesso è tenuto in ombra: che i libri si scrivono da soli, ma si fanno insieme agli altri.

Rossella Milone
dalla prefazione


Vi proponiamo uno dei racconti della raccolta, e vi invitiamo a leggere l’e-book scaricando il pdf


TRAGUARDI

di Carmine Pignata

Ti senti stranamente sollevata quando ti dice: «Ho bisogno di stare per un po’ lontano da tutto». Siete seduti sui gradini sotto il monumento al centro della piazza e dopo avertelo detto si infila in bocca il suo cono pistacchio e fragola. Poi aggiunge: «Non credere ti stia lasciando, è una cosa momentanea, sento di essermi perso, tutto qui». La sicurezza con cui ti dice tutto qui te la fa sembrare quasi una cosa normale. Quattro turiste giapponesi si fermano a fotografare la statua sopra di voi, osservi i loro piedi, le punte che si toccano e i talloni perfetti. «Capisco bene», dici. «Anch’io mio sono persa una volta da piccola, è brutto quando succede». È la prima cosa che ti passa per la testa e sai che non ha senso, ma non hai più voglia di discutere e sei stanca di chiedere alle persone di smetterla di andare via. Giri il cucchiaino di plastica nella poltiglia incolore che fino a pochi minuti fa era una coppetta limone e amarena. Assomiglia molto alla tua vita. La butti giù tutta d’un fiato. Il freddo rimasto del gelato ti si infila sopra gli occhi, fastidioso e senza preavviso come i tanti venditori di rose che spuntano da ogni angolo della piazza. Serri la mascella e con forza premi il palmo della mano tra il naso e la fronte. Se qualcuno si fermasse a guardare avrebbe l’impressione che stai piangendo.


Dopo due mesi che è andato via l’aria s’è fatta più fresca. Ti sei data delle regole e hai tirato giù una lista di sole cose negative che ricordi di lui: i peli della sua barba mischiati ai residui di dentifricio secco nel lavandino, il suo improvviso fischiettare durante le passeggiate, il trascinare i piedi in giro per casa. Hai sempre fatto così con quelli prima di lui, ed è servito ogni volta per andare avanti. Ogni giorno cerchi di aggiungere qualcosa in più. Su una rivista hai letto dell’importanza delle azioni ripetitive e quindi hai preso l’abitudine di andare a correre tutte le mattine. Esci sempre un’ora prima dell’alba e acceleri le ultime centinaia di metri in modo da avere il sole in faccia. Quel calore ti sembra una specie di traguardo ideale, un qualcosa tutto tuo che ti sei finalmente meritata. A casa per prima cosa spalanchi tutte le finestre e ti muovi facendo più rumore possibile. Poi prepari il caffè e lo bevi che sei ancora sudata, sdraiata sul divano davanti la tv. Ti allunghi e appoggi i piedi su quello che una volta era il suo cuscino preferito. Li affondi lentamente, con cura, fino a sentirlo diventare completamente umido. Pensi che se fosse stato ancora lì t’avrebbe montato una scenata assurda. E allora ti dici ad alta voce, con tutta la sicurezza di cui disponi che sì, per forza quello non poteva essere amore: chi ti ama davvero te li fa riposare i piedi quando sono stanchi. Finisci il caffè e aggiungi questo pensiero alla lista.

È la fine di febbraio e hai cambiato colore ai capelli. Hai buttato il divano in soffitta e comprato una poltrona nuova. È bianca, di pelle e ha lo schienale reclinabile e la modalità massaggio. Il tizio che è venuto a montarla ti ha spiegato che è come avere una decina di mani che ti accarezzano e si prendono cura di te. Hai smesso di far caso al silenzio della casa. Una sera a cena ti hanno detto che è stato in Thailandia e che è tornato una settimana fa. Non hai fatto domande (ma di nascosto hai controllato i messaggi). Pensi di dare una riverniciata al salotto e che sia arrivato anche il momento di cambiare le pentole della cucina. A tutti quelli che te lo chiedono dici: no davvero, sto bene adesso, non ci penso nemmeno più, le persone adulte vanno avanti, no? Poi sorridi ogni volta e davvero cerchi di non pensarci.

Ti chiama un lunedì sera da un posto affollato. Dal telefono senti rumori e risate e annunci fatti da una voce elettronica. Una stazione forse. «Ho voglia di vederti», dice come se non fosse mai stato dall’altra parte del mondo. «Io non sono mai dovuta andare così lontano per trovarmi», dici. «Se ti va ne parliamo più tardi», dice. «E poi a casa ho delle cose da prendere». Mentre tagli la verdura pensi che in effetti metà dell’affitto lo paga ancora lui. Allora dici: «Se vuoi c’è la minestra. Io ceno alle nove». «Non m’è mai piaciuta la minestra, lo sai». «Lo so». E agganci. Arriva che sono le dieci e mezzo. Quando apri la porta senti odore forte di cocco e di qualcos’altro che ti ricorda l’estate. È dimagrito male. La pelle sotto il mento è più flaccida di come te la ricordi, straborda dal colletto troppo stretto della camicia. Le rughe intorno ai lati degli occhi sono profondi solchi bianchi che fanno contrasto col colore rossiccio dell’abbronzatura. Fai fatica a immaginarlo a quattro mesi fa. Sembra una versione diversa di sé stesso. «Mi sei mancata piccola», ti dice e ti allunga una bottiglia di rosso. Non ti ha mai chiamata piccola e hai l’impressione di parlare con un estraneo. Gira per casa tenendo le mani in tasca, lo osservi per intero facendo su e giù con gli occhi, e in quel momento pensi a quelli che vanno in certi paesi per le ragazzine. L’hai visto una sera in uno speciale in tv e ti ha fatto schifo. Provi a immaginarlo fare sesso con decine di puttane contemporaneamente, che sorridono ogni volta che le chiama piccole. Ti accorgi che la cosa un po’ ti eccita e cerchi di scacciare via quel pensiero. Senza chiederti il permesso prende un disco e lo lascia scivolare delicatamente sul piatto. La musica si mischia al gracchiare della puntina. È la tua canzone preferita e lui lo sa. Sorride e tu non sai cosa fare. Ti aspetti una qualche spiegazione e invece ti sorride soltanto. Quando si avvicina e ti accarezza i capelli sai bene che rovinerai tutto, ma ti lasci trascinare comunque verso la camera da letto. «Mi sei mancata davvero», dice. Ti scopa da dietro, con la tua faccia schiacciata contro il cuscino, come se fosse un altro o come se tu fossi un’estranea, non riesci a capirlo. Nessuno dei due dice nulla. Lo spingi via per un attimo e ti giri per costringerlo a guardarti negli occhi. Alla fine crolla senza fiato dandoti le spalle in quella che era la sua parte di letto.

Il tuo corpo ha una memoria tutta sua e sa le cose meglio di te. Alle cinque spalanchi gli occhi e scatti fuori dal letto pronta per correre. Dovresti ascoltare le tue gambe e fuggire il più lontano possibile, invece ti trascini lentamente verso la cucina. Prepari il caffè e dal mobiletto sopra il lavello prendi una tazza pulita per te e ne sciacqui una per lui. Dalla fine stra arriva un vento freddo. Stringi con tutt’e due le mani la tazza bollente. Senti il rumore delle sue scarpe che arrancano sul parquet. È vestito di tutto punto. Ha anche pettinato i capelli all’indietro. Tiene stretta tra le mani una cartellina azzurra. Si avvicina sorridendo per darti un bacio. Ti scansi ed eviti di guardarlo. Anche se non ti tocca senti comunque il profumo della sua pelle. Vorresti che l’aria del mattino fosse più forte del suo odore. Accende la tv e si siede a bere il caffè. «Oggi ho delle cose da fare», dice senza togliere gli occhi dallo schermo. «Però dobbiamo parlare, sarebbe un peccato perdere tutto questo, non credi?» Gli dai le spalle e vai verso il bagno. «Ho sempre odiato quando lo fai, quel cazzo di modo in cui cammini», dici mentre chiudi la porta.

Esci di casa che lui è ancora seduto in cucina. Per la prima volta da mesi sei in ritardo sulla tua tabella di marcia. Correndo ti ripeti che stavolta non sarà lui il primo a parlare, sei decisa a chiudere la cosa alle tue condizioni. Gli ultimi metri rallenti il ritmo fino a fermarti, ti pieghi con le mani sulle ginocchia per prendere fiato. È appena tornato e già ti sembra di non riuscire più a tenere il passo. Respiri profondamente e l’aria fredda ti dà un piccolo capogiro. Controlli l’orologio e ti accorgi che è troppo tardi, l’alba inizia a coprire con una luce leggera gli alberi e l’erba umida del parco. Te ne resti lì immobile a guardare. Tutto ti sembra essere come qualcosa di non ancora compiuto, sospeso in quel momento opaco che non è ancora il giorno, che non è ancora niente. Ti sdrai sull’erba e respiri lentamente. È davvero un bel momento questo, pensi. Dovrebbe essere sempre tutto così.