Il pianto dei colombi
di Elisabetta Romersi
Ti riconosco dal gesto di portare i capelli dietro l’orecchio, l’anulare che sfiora la tempia. Hai sempre la frangia lunga e spettinata e quel taglio fino al mento che ti fa sembrare una mela, o la luna. Ti ho frequentata abbastanza da capire che sei confusa. D’altronde sei per conto tuo di fronte al vetro dei panini e la caffetteria del Policlinico è sempre ben fornita. Ecco che ne indichi uno, agiti il dito per dire che non lo vuoi scaldato, così lo ricevi dalla mano del barista e subito dai un gran morso. Sei sempre stata golosa, avida. Quell’unica volta che lo sono stato io, mi hai punito a morte. Osservo il cappotto lungo e gli stivali tipo cavallerizza. Ricordi come ci siamo messi insieme? A sedici anni ero timido come se ne avessi dodici. Appena potevo me ne andavo dietro la palestra con le sigarette e un libro, o la musica, spesso entrambi. Un giorno sei arrivata e ti sei messa seduta a fumare sui gradini più alti. Mi fissavi e io non capivo cosa volevi. Non ti avevo mai vista a scuola, eppure c’eri sempre stata. Sei scesa e ti sei messa accanto a me. Mi hai fatto vedere il tuo Zippo e mi hai parlato del codice alfanumerico inciso sul fondo di ogni esemplare per datarne la produzione. Il tuo apparteneva a una serie limitata e ne eri molto orgogliosa. Sei stata la prima che ho baciato, che ho accarezzato, la prima con cui ho goduto. Non facevo niente senza averti in testa. Mi affascinava il tuo cinismo e mi divertiva che dicessi un sacco di parolacce davanti ai tuoi. Da quando stavo con te mi sembrava che la gente mi guardasse in modo diverso. Se non restavamo in casa andavamo al cinema o da McDonald’s o a passeggiare in centro. Camminavamo abbracciati ed evitavamo i lampioni per non doverci staccare.
Mando giù il caffè ormai freddo. Tempo di riabbassare la testa e scopro che ti sei girata, mi guardi, anzi, mi squadri masticando l’ultimo boccone del tuo panino. Faccio finta di niente, ma non mi viene mai bene e a questo punto ci siamo scambiati fin troppe occhiate. Alzi anche una mano. Incerta, ma lo fai. Tra noi ci sono quattro metri e diciannove anni di lontananza. Ti sorrido e ci muoviamo incontro, dico: “Ciao Roberta”, tu dici: “Chi non muore si rivede”, ti accosti per baciarmi. Hai cambiato profumo, ma il tuo vero odore, l’odore della tua carne trasuda sempre e comunque e mi stacco a malincuore, perché vorrei annusarti ancora e ancora. Dici qualcosa che non capisco, mi distraggono gli schiocchi delle stoviglie e le voci delle persone. Mi afferri per un braccio, dici: “Andiamo fuori”, la sigaretta che pende dalle labbra senza rossetto. Ci facciamo largo nella nuova ondata di gente che si riversa nel bar. Dopo le porte scorrevoli ti fermi appena sulla destra. Ci investe una luce acida che filtra dalla cappa di nuvole come un’immensa plafoniera al neon. Il suolo è pieno di coriandoli, galleggiano nella pozzanghera e formano una fanghiglia dove finisce il passaggio carrabile. Non ci sono posaceneri e leggo il divieto ovunque, ma non siamo gli unici a trasgredire, così mi tendo verso la fiamma che mi offri. È un accendino Bic, rosso, normale. “Il tuo adorato Zippo?” Mi guardi tra l’imbarazzo e il rimpianto, dici: “L’ho venduto” e fai due tiri di sigaretta, uno dietro l’altro. Sei sempre tu, solo con qualche ruga intorno agli occhi. I tuoi denti stanno molto meglio dei miei. “Era un momentaccio”, dici, “m’è dispiaciuto un sacco darlo via”.
“Perché sei qui?” Lo chiedo per genuina curiosità, ma forse la domanda è troppo invasiva, è passato tanto di quel tempo che potremmo essere involuti allo stato di estranei. Tu fai una faccia come a intendere che la storia è lunga e tortuosa, ma poi cominci a parlare: “Ho portato il collare, oggi avevo l’ultimo controllo. Tutto a posto”. “Perché? Che hai fatto?” Ridi, poi tossisci. “Mi sono incartata nel cancello di una villa ristorante.” “Ma a quanto andavi?” “Il bello è che neanche correvo. Non so perché non ho frenato.” Fai una pausa per guardarti intorno, giri e rigiri l’anello d’argento che porti al medio. “Meno male che mio figlio non c’era. Quel giorno di solito lo accompagno a judo. È rientrata tutta la fiancata. Il carrozziere ha detto che se al posto del passeggero c’era qualcuno ci rimaneva secco.” Sospiri: “La rottura adesso è che mi hanno tolto la patente”.
Hai fatto un figlio con un altro. Mi pare giusto. Dovevamo farlo noi, ricordi? Abbiamo tanto pregato che il test fosse negativo, ma poi abbiamo pianto, perché sotto sotto entrambi un po’ lo volevamo.
Mi sfilaccio lo strappo nei jeans. Mi chiedo chi di noi due porterà il discorso là dove sappiamo entrambi. Io non ci tengo. Soffi il fumo, schiacci il mozzicone. “Tu invece? Che fai in questo posto allegro?” Si libera una panchina, c’è spazio anche per te, ma resti in piedi. “Vengo tutti i giorni da due mesi. Mia madre è in terapia intensiva. I reni sono partiti. Tra un intervento e l’altro le hanno tolto mezzo apparato digerente. Dicono che il cuore si fermerà di nuovo e a breve. L’hanno già rianimata due volte, adesso insomma bisogna decidere se accanirsi o lasciarla andare.” Tu mormori: “Cazzo” e mi strofini la spalla. Poi finalmente mi siedi accanto. “Mi spiace”, dici. “Anche se, poi, ammettiamolo: mi odiava.” “Ma no che non ti odiava. Lei è fatta così, schiva, non c’era niente di personale.” Ma mento anche a me stesso, ti riservava un disprezzo particolare, altroché. Quando ti portavo a casa spariva nel suo studio per non doverti parlare. Con me non faceva mistero di evitarti di proposito. “Sarà”, dici. “Comunque mi dispiace, ci mancherebbe. Per il resto? Ti fai ancora?”
Eccoci qua. “No, da un pezzo”, rispondo. Ed è sempre un trionfo poterlo affermare. Alzi un sopracciglio. “Che bravo. E ti sei fatto poi per quanto tempo?” Incrocio le gambe sulla panchina nell’illusione che la postura anarchica mi faccia assomigliare al ragazzo che ero quando stavo con te. “Non tocco niente da quattro anni. E tu? Com’è andata? Ti trovo bene però.” Sorridi. “Mi lascia e mi riprende come e quando vuole lei”, inizi a cantare. “Riesce solo a farmi male.” Ondeggi le mani, te le porti al cuore per farla più teatrale. La tua voce si è arrochita e serve bene il brano. Non hai perso il gusto di rispondere per citazioni. Storpiavi le parole quando volevi deliberatamente irritarmi. “E, adesso, ti lascia o ti prende?” “Mi prende. Dopo l’incidente mi hanno pure alzato il metadone.” La risposta non mi stupisce, anche se ammetto che ne avrei preferita una diversa. “Lavori?” dico allora seguendo la logica più becera. Ti metti gli occhiali da sole, sono grossi, anni sessanta. “Sto in azienda da mio padre.” “Dove non volevi finire”, faccio io, ma subito mi mordo la lingua. Tu sorridi: “Meglio che vivere in una scatola di cartone”. Ti suona il cellulare, chiedi scusa, lo prendi dalla tasca, leggi e digiti qualcosa. Poi scatti in piedi: “Devo andare a Vigna Clara, mi daresti un passaggio?” Dico di sì: per Vigna Clara devo solo fare una piccola deviazione.
Seguiamo il vialetto pedonale per raggiungere l’uscita, mi precedi, è troppo stretto e affollato per camminare accostati. Entrambi siamo costretti sul percorso per ciechi e lo calpestiamo con diligenza. Almeno ti posso guardare da dietro, i capelli castani che oscillano al passo. Era il nostro primo viaggio in macchina, all’Argentario, l’estate degli esami. Avevi comprato dei braccialetti di bambù a un mercatino. Per qualche motivo che non ricordo, la sera, in albergo, hai dato di matto e hai cominciato a prendermi a schiaffi. I braccialetti si sono frantumati sotto la tua stessa ira e ti sono caduti dai polsi. Ti sei inginocchiata, hai raccolto quei brandelli di legno piangendo convulsamente come se fossero cadaveri.
Quel novembre ho iniziato a frequentare Architettura. Tu non eri convinta di niente e hai deciso di concederti un anno di riflessione.
Ci infiliamo in un altro vialetto transennato, ancora più affollato e angusto. Ora sono io che conduco. Tra una falcata e l’altra penso che è stato allora, all’inizio del tuo anno sabbatico, che hai conosciuto quella Claudia. Dicevi che faceva la cantante jazz, ma non ho mai visto una sua esibizione, né sentito la sua voce. E quando ci ho parlato, per quanto poco mi interessi il genere, ne sapevo quasi più io. Spesso mi chiamavi solo per raccontarmi di lei. Claudia ha detto. Claudia ha fatto. Quando la criticavo diventavi feroce. Non ero mai stato geloso di un uomo, sul serio dovevo esserlo di una donna? Con l’università di mezzo non riuscivo a starvi dietro. Andavate per negozi, proprio tu, che non ti era mai piaciuto. Uscivi con lei quattro sere a settimana e ogni volta facevate più tardi. Era chiaro come il proseguimento degli studi fosse l’ultimo dei tuoi pensieri. Prima ti vestivi come Sporty Spice, adesso mettevi tacchi e roba aderente. Avevi diciannove anni e tutt’a un tratto ne dimostravi venticinque. Mi portavi a certe feste gonfie di musica che mi faceva schifo e di gente che non mi interessava. Mi supplicavi in lacrime di mettermi una giacca, di legarmi i capelli. Ti stavi allontanando e non sapevo come trattenerti, mi piacevi ancora tanto, e per certi versi anche di più. Cercavo di convincermi che fosse una fase da superare, che avremmo trovato un compromesso e saremmo andati avanti.
Mi lancio nel traffico per attraversare. Tu mi imiti, pronta. Ancora pochi passi e siamo al parcheggio ventiquattrore. Recupero il ticket, tu aspetti tra le scale e l’ascensore e intanto guardi il telefono. Alzi gli occhi, sorridi, dici: “Senza patente è una vitaccia.” “Non c’è problema”, dico io, “davvero”. Ti raggiungo, chiamo l’ascensore, ma già ti stai avviando a piedi, così non mi resta che seguirti. Arriviamo al livello meno due. Ti sorpasso sulla porta per fare strada, intercetto il Doblò dove l’ho lasciato stamattina. Quando vedi il mezzo da lavoro, il tuo passo ha una piccola esitazione, ma poi prosegui e sali dalla tua parte. Tiri la cintura, la agganci guardandoti intorno sospettosa, com’era prevedibile. “Fai le pulizie adesso? Ma non andavi all’università? Cos’era? Sociologia?”
La carrozzeria interna è coperta di graffi, dietro ci sono le scope di saggina, il montacarichi e il bidone aspiratutto. Il cruscotto è pieno di cartacce, sui tappetini c’è terra mista a sassolini da vaso. Ma i sedili sono ragionevolmente puliti. Incrocio il tuo sguardo mentre cerco lo specchietto per fare retromarcia. “Architettura”, dico, “ma non mi sono laureato. Ho aperto un piccolo vivaio insieme a un compagno di comunità”. Tu sussulti e fai una ics con le mani davanti al viso, un gesto che mi sgomenta. “Non mi parlare di quei postacci.” Ti metti a cercare qualcosa in borsa. “Una gelatina alla frutta?” Porgi il pacchetto mezzo consumato, dico: “No, grazie”. Una volta fuori, accendo la radio. C’è uno che parla. Rispengo. “E com’è?” domandi. Dico: “Che cosa?” “Lavorare in un vivaio.” Apro la bocca per parlare, ma di colpo ti getti a indicare qualcosa. “Accosta. Accosta un attimo. Devo prendere le sigarette.”
Vai decisa verso il bar-tabacchi e per un momento i lembi del tuo cappotto si aprono e fluttuano come ali nere. Sull’ingresso sorridi e fai ciao con la mano alla bambina vestita da principessa che il padre ha appena issato sullo scooter. Entri e ti perdo di vista. Sul cellulare non ci sono chiamate dall’ospedale né messaggi del primario. Il cielo sembra quasi da neve.
Alla fine dell’anno ci vedevamo di più, ma stavamo sempre a discutere. È arrivato Natale, poi c’era Capodanno. Dei compagni d’università mi avevano invitato a un veglione rock in un locale di via Saturnia. L’invito era esteso anche a te, ma tu hai detto che volevi andare da un’altra parte. Io non avrei sopportato ancora una festa delle tue e te l’ho detto. Ma tu hai risposto che era una cosa tra poche persone, amici di amici di Claudia: un paio erano musicisti e avrei trovato di che parlare. Claudia non ci sarebbe stata, potevo dormire sereno. Litigammo per una settimana. Poi hai concluso che ognuno avrebbe festeggiato per conto suo, pazienza che fosse il Duemila. Quella frase mi sembrò l’inizio della fine.
La casa si trovava in campagna, giù in fondo a Testa di Lepre. Era di un solo piano, ricordo un pergolato senza piante e che il proprietario aveva tipo cinquanta gatti. I tuoi amici erano tutti più vecchi di noi. Ci hanno dato zampone e lenticchie anche se non erano ancora nemmeno le undici. Poi ci siamo trasferiti in una specie di garage mezzo arredato. Dal momento in cui avevo acconsentito a venire alla tua serata eri diventata docile e carina, addirittura non avevi fatto storie perché mi ero messo una delle mie solite magliette. Quando ho visto le siringhe volevo alzarmi e andarmene. Ma prima dovevo liberarmi dalla tua stretta, dalla tua coscia sopra la mia. Ho rimandato di minuto in minuto, finché alla fine ho smesso di pensarci, e sono restato.
Così è iniziato il mio millennio: svaccato su un divano a ciondolare la testa, con un gatto a pelo lungo arrotolato addosso.
Ecco che torni. Entri in macchina e hai già acceso la sigaretta. “Scusa, eh, la tabaccaia m’ha attaccato un pippone sul malessere del Paese, poi un altro sul beneficio di fumare sigari… Dai, riparti, facciamo la galleria, no? Perfetto. Anche se non ho un vero e proprio appuntamento, devo più che altro passare al negozio di un’amica a darle una cosa.” Abbassi il finestrino di tre dita. “Insomma adesso la reggia diventa tutta tua. Sai che vengo ad abitare vicino a te? Abbiamo dato l’anticipo su una casa in via Carissimi, terzo e quarto piano con terrazza su villa Borghese.” Mi viene da tossire. Su cosa mi dovrei concentrare? Sul plurale, che di sicuro comprende il tuo uomo, la tua famiglia, il che mi fa ricordare di non averne una mia, sul riferimento all’eredità che sta per schiacciarmi, oppure sulla notizia che potrei incontrarti a spasso col cane o a prendere un cono da Blue Ice? Mi schiarisco la gola. “Ottimo”, dico mentre scivolo nel tunnel verso l’Olimpica. Ho paura in ogni momento che ti metta a parlare di noi, e insieme non aspetto altro.
Dopo sei tornata come non eri da tempo. Dormivamo di nuovo abbracciati, mi chiamavi amore, amore mio, in tre anni non l’avevi mai fatto, mi avevi chiamato in tanti modi, ma mai così. Sapevo dove mi stavo infilando, eppure mi son detto che, se era l’unico modo di riaverti, tanto valeva correre il rischio. Meglio mutilato con te, che integro e senza. L’ingenuità è stata credere che saremmo morti insieme. “Poi ti lascio il mio numero”, dici levando gli occhiali da sole. “Anzi, se mi dai il tuo ti faccio uno squillo, così mi metti in memoria.” Prendi l’iPhone, lo rianimi col pollice. “Che poi il numero mio non è mai cambiato, cioè, cosa più unica che rara.” “Tre tre uno nove tre cinque tre quattro uno nove”, recito in un’esaltazione che non mi spiego.“ ”Caspita!”, dici sgranando gli occhi. “Allora lo squillo non serve. Io però il tuo non me lo ricordo, scusa.” Mi fai quasi tenerezza. L’avrai dimenticato dieci minuti dopo che ci siamo lasciati. “Non importa”, dico. Tu ridi: “Vabbè. Eri tu quello bravo coi numeri. Ricordi quando mi facevi i compiti di matematica?”.
Parlarti mi affatica. Guardarti negli occhi brucia. Accendi una sigaretta, è per me, fai per passarmela. Vedo la colonna di traffico alla fine del tunnel, freno e metto le quattro frecce. Dici: “Non la vuoi? Mo’ smetti pure di fumare?” Sfilo la paglia dalle tue dita e mi sposto nella corsia di destra, che sembra scorrere un po’ meglio.
Ci lasciamo il traffico alle spalle uscendo verso lo Stadio. “Ricordi la mia Twingo?”, domandi lasciando filare lo sguardo lungo il muro bianco della Farnesina. “Quante cose ci abbiamo fatto, eh?” Strizzo la bocca in una smorfia, guardo le tue belle gambe in pantaloni neri riflesse nel finestrino dalla mia parte. “Ci siamo andati a Porto Santo Stefano. Te la ricordi la cena di caciucco?” Rido di cuore per la prima volta, ma tu mi rivolgi un sorriso remoto. A che stai pensando? Ai braccialetti di bambù? Io penso a quando ci infilavamo con la tua macchina nuova nelle frasche di Valle Aurelia. Penso allo Zippo sotto la fiala. A te che addenti la sigaretta per cavare fuori il filtro. Eri ancora tu a prendermi la vena. Mi leccavi il sangue dal braccio, cazzate che si fanno all’inizio.
Mi accorgo di aver superato lo svincolo per Ponte Milvio. Questione d’abitudine, potrò recuperare tra poco. “Oggi è giovedì?”, domando. “Sì”, fai tu riscuotendoti, “perché?”. “Niente”, dico, “niente di importante”. Ma la realtà è che proprio adesso mi è venuto in mente che oggi la donna ha il giorno libero e allora, giunto alla seconda possibilità per svoltare, ignoro anche questa. Tra un attimo mi farai notare che sto sbagliando, che dobbiamo andare dalla parte opposta, allora dirò che mi sono distratto, cosa che in parte è vera, e tornerò indietro appena consentito. Ma attraversiamo il ponte, sbuchiamo sull’altro lato del Lungotevere e non hai ancora protestato. Mi offri un’altra gelatina e stavolta l’accetto. Ci siamo lasciati un pomeriggio di febbraio. Tuo padre aveva iniziato a fare domande strane, così mi hai dato una busta da nascondere, l’abbiamo messa insieme nel vinile di Machine Head, il primo da sinistra in basso. Due giorni dopo sei tornata e il disco non era più lì, ma per terra accanto al letto. Era un pomeriggio scuro, di pioggia fitta, eri tutta bagnata. Hai infilato la mano nella copertina, hai chiesto dove fosse la roba, e siccome non rispondevo, ma ridacchiavo e mi grattavo, hai capito che me l’ero sparata tutta, che non ti avevo lasciato niente, e hai cominciato a dirmi che facevo schifo, che ero un pezzo di merda, che dovevo morire. Non distinguevo il sotto dal sopra, ma sento ancora il tuo anello che mi si aggancia ai capelli e me li strappa via. Continuavo a dire Te la ripago, te la ridò!, ma tu mi hai spinto, ho perso l’equilibrio e sono caduto col culo a terra. Allora hai alzato la mano alla libreria, hai afferrato la copia di IT che mi avevi prestato quand’eravamo ancora a scuola, e ordinandomi di non cercarti più sei uscita dalla stanza, quindi dalla casa. Non ti ho seguita, mi sono sdraiato sul pavimento e sono rimasto lì per non so quanto tempo, ad ascoltare la litania dei piccioni sotto le gronde, quel punto linea punto che in codice Morse sta a indicare la lettera erre. Ti ho chiamata la sera stessa, ma non hai risposto. Per giorni sono venuto a cercarti a casa, al citofono dicevano sempre che non c’eri, finché tuo padre non mi ha intimato di smetterla, altrimenti avrei passato guai. Avevi chiuso con me e ho dovuto inghiottire l’evidenza.
Oggi non è la prima volta che ti rivedo da allora. È successo quattro o cinque anni dopo, al boschetto, mentre ero in fila per prendere dieci euro di nera. Eri alla mia sinistra appoggiata a un tronco caduto. Rapido, ho tirato su il cappuccio della felpa, anche se non ero sicuro che fossi tu. Primo perché eravamo lontani da Roma, poi perché avevi una giacca a vento rossa e abbondante e dalla tua spalla pendeva uno zaino dai colori chiassosi, giallo fluo, arancione. Una roba che al tempo non avresti mai messo. Ma eri tu. Ti guardavi intorno in attesa, ti mordevi le unghie. Ti portavi i capelli dietro l’orecchio. Vicino a te c’era un africano che ogni tanto ti parlava, tu gli rispondevi per monosillabi e tornavi a controllare lo sterrato alle tue spalle. Ti sbirciavo dall’orlo del cappuccio, mentre avanzavo a piccoli passi verso il banchetto col bilancino e stringevo i miei soldi nel pugno sudato. Avevi un’espressione nuova negli occhi, un liquore che te li rendeva lucidi e duri, appuntiti come quelli di un avvoltoio. A un certo punto hai sbuffato e ti sei staccata dal tronco, hai camminato sempre più lontana fino a sparire tra erbacce e rifiuti. Finalmente ho preso il pezzo e sono corso nella tua direzione, ma non ti vedevo, lo sterrato era ampio e deserto, era quasi buio e tra gli alberi potevi essere ovunque. Proprio allora ho trovato il mio amico che si stava già facendo e mi sono fermato con lui. Tanto, che ti avrei detto?
Ormai devi aver capito che non stiamo andando dove volevi. Osservi il cerchio rosso di Staccioli e la scalinata della Galleria, ti giri fino a torcere il collo, come se fosse la prima volta che li vedi. Porti gli occhiali sulla testa e mi sorridi. Dici: “L’attico è proprio qui dietro. Al ritorno ci passiamo davanti, ti va?” Annuisco appena, mentre saliamo per via Aldrovandi, verso casa. Hai capito, dunque, e sei d’accordo: c’è qualcosa da cui tornare, qualcosa verso cui stiamo andando. Mi fletto per prendere il telecomando, dici: “Scusa”, scosti le ginocchia dal portaoggetti. Hai una mano adagiata nell’altra e sei immobile con lo sguardo in avanti, nonostante le piccole scosse del furgoncino. Entriamo. Ti abbassi per guardare la facciata celeste e bianca del villino. “È in ottima salute mi pare.” “Come no, sprizza gioia”, dico e tiro il freno a mano. Apro lo sportello e quasi rotolo fuori, con l’ansia che ora dobbiamo parlare per forza di questo. Con una lentezza che sembra inversamente proporzionale alla mia fretta, poggi gli stivali sul ghiaietto, ma non levi gli occhi dalla casa. “Tua madre partiva per due giorni”, dici come se raccontassi un sogno. “Al cambio dell’ora sei venuto in classe e mi hai chiesto se volevo venire a casa tua. Non ci ero mai venuta ancora.” Parlando muovi qualche passo verso il portico, le mani nelle tasche del cappotto. “Allora ho detto che in teoria avrei potuto fermarmi anche la notte e tu hai risposto: ‘Non solo in teoria, anche in pratica’. ‘Sta scena mi è tornata in mente adesso. Non solo in teoria, anche in pratica”, ripeti cercando di imitare il tono serioso che avrei usato. “Poi m’hai dato una schicchera sulla tempia e te ne sei tornato in classe tua.”
Non ricordo questo dettaglio, ricordo però che bevemmo parecchio vino, e quella specie di moscacieca in cui dovevo riconoscere il tuo corpo attraverso il lenzuolo usando solo la bocca.
Sbotti a ridere. “Che è?”, dico quando vedo che non ti fermi, anzi, ti tieni pure la pancia. “La frase…” dici tu, “lassù”. Ti riferisci a Aeque impartitur, che i miei trisnonni fecero inscrivere sul fregio del portico alla costruzione della casa. Ti asciughi gli occhi e tiri su col naso, cerchi di parlare senza ridere. “Adesso che la rivedo mi pare più comica che altro. Dividere equamente, sembra pensato da un tossico, era proprio nel tuo destino...” Ridi ancora, ma è giusto un ultimo sbuffo, poi finalmente la smetti. Scelgo di non commentare la battuta. Ti raggiungo al portone con le chiavi pronte. Anche tu starai pensando a quel giorno dei colombi e mi monta dentro un imbarazzo che intendo non farti vedere. Mi strappi di mano le chiavi, trovi quella giusta, è facile riconoscerla, magari te la ricordi pure. Due mandate e il portone ci lascia entrare. Blocchi uno starnuto, poi subito un altro. “C’è sempre puzza di chiesa qua nell’atrio, ma che ci fate? Le messe nere?” Annuso anch’io e capisco che intendi: “È il detersivo, hanno lavato ieri”, dico raddrizzando la bicicletta contro la parete. “E usate lo stesso da vent’anni?” Cominci a salire lo scalone, io salgo uno, due gradini dietro di te, mi fermo, guardo te che sei sempre più in alto. Recupero correndo. Apro le mani sulla tua schiena, ti afferro per il cappotto, ti spingo giù, tu cadi sulle ginocchia, non opponi resistenza. Il mio inguine preme sui tuoi lombi. Volti il viso fino a incontrare i miei occhi, apri la bocca, la spalanchi, mostri la lingua per dirmi che vuoi essere baciata e io mi getto sull’invito come un affamato, ma le nostre lingue riescono appena a toccarsi e così con le mani continuo a cercare un accesso alla tua pelle e invece trovo solo stoffa e il cuoio morto della tua borsa. Intanto salgo di un gradino tra le tue gambe, inarco le spalle indietro e lascio cadere il giubbotto che si affloscia ai miei piedi. Tu ti sbarazzi del cappotto, sfili il maglione, getti tutto intorno. Ed eccola la tua pelle iridescente, le vertebre che mi divertivo a suonare come tasti di pianoforte, la costellazione dei tuoi nei. Ti sbottoni i pantaloni e li abbassi quel tanto che serve, io faccio lo stesso, mi reggo al mancorrente e alla tua schiena per cercare una posizione meno scomoda e alla fine decido di restare in piedi. “Una volta”, dici mentre ti scopo, “una volta, in quinto, eravamo sull’autobus… L’auto, l’auto era pieno, si stava tutti pressati… abbiamo cominciato a toccarci… sei riuscito pure a mettermi la mano nelle mutande… ricordi? Siamo dovuti scendere alla fermata appresso per chiuderci nel bagno di un bar.” Io dico: “Sì, sì, certo che mi ricordo”, e sorrido tra me, le nostre mani si intrecciano nei fiori di ferro della balaustra. Un boato improvviso fa vibrare il finestrone piombato. Scattano anche gli allarmi delle macchine. “Cazzo che tuono!”, dici staccandoti da me. Rotoli via di lato, mi spingi e mi fai sedere sullo scalino gelido, ti sfili uno stivale, poi liberi dai vestiti una sola gamba. Mi cavalchi, mi baci per la prima volta dopo diciannove anni, ma temo che questo non sia niente di quello che è già stato. Si aggiunge il fragore della grandine sui vetri. Tu ridi, nell’oscurità dell’androne i tuoi denti sembrano più bianchi e mi viene il dubbio che siano anche finti. Mi afferri le mani e te le premi sulle tette, come la prima volta che me le hai fatte vedere. Ridi e ridi. “Abbiamo fatto incazzare Dio!”, gridi distorcendo il viso in una smorfia da pazza. Io non riesco a parlare, il cuore mi pulsa nello stomaco, ti accarezzo come se volessi recuperare il tempo che non ho passato a farlo, ripeto il tuo nome - Roberta. Sei calda, sudata, hai il sorriso beffardo che amo. Ti prendo, affondo il naso nei tuoi capelli. Dico:” Ti ho amata. Ti ho amata”. Tu dici: “Anch’io, sì”, e intanto ti tocchi, ti tocchi e gemi, e la tua voce ritrova le frequenze che pensavo avesse perso, e appena vengo anch’io mi stringi e mi culli come se volessi addormentarmi.
“Fammi usare il bagno”, dici recuperando il maglione e lo stivale.
Metto su il caffè. Le strade sono bianche di grandine. Dall’ospedale nessuna notizia. Mi fanno coprire ogni volta dalla testa ai piedi per entrare da lei. Una volta, con la mascherina e la cuffia, non mi ha nemmeno riconosciuto e si è agitata tanto che sono dovuto uscire. È passata una settimana dall’ultima volta che ci siamo parlati. Lei mi ha chiamato Giulio, confondendomi con papà, poi ha capito che ero io. Ho avvicinato l’orecchio, me lo sentivo dentro che stava per dire qualcosa di definitivo. “Conserva la casa. È tutto quello che abbiamo.” Un attimo per riprendere fiato: “Non dar via la casa”. Ho fatto sì con la testa, ma non so cos’abbia capito, sì la tengo o sì la vendo. Dopo ha chiuso gli occhi, non è stata più cosciente. Il nostro rapporto è finito con un malinteso. Da piccolo pensavo che il motto fosse un invito cristiano a compatire, invece poi ho saputo che fu scelto per scongiurare contese patrimoniali. Ma io non ho fratelli, con chi dovrei litigare? E non è solo la casa, ma tutto quello che c’è dentro. I quadri hanno sicuramente un certificato di autenticità, solo che non ho idea di dove venga custodita questa roba. Vero che mi sarei potuto interessare io, ma fino a un mese fa sembrava che dovesse riprendersi. Bisognerà far venire una casa d’aste per valutare ogni oggetto. Dovrò essere presente. Col corpo e con la testa. Di certo non sarà una cosa breve. Mi copro la faccia e soffoco un verso simile a un raglio.
Hai tirato su i capelli, ma non sono abbastanza lunghi e molti sfuggono via dall’elastico. Il cappotto è rimasto sulle scale. Ti siedi e accavalli le gambe. “Giusto il tempo di una sigaretta.” Ne sfili una dal pacchetto che trovi là accanto. Metto le tazzine sul tavolo, allontani la tua. “Grazie, ma non lo bevo più il caffè. Mi fa riempire di bolle.” Io mi sono appena seduto e faccio per rialzarmi. “Succo di frutta? Bicchiere d’acqua? Non ho molto altro.” Scrolli un cilindretto di cenere dai pantaloni: “Non ti disturbare, tra un minuto mi passano a prendere. Insomma, hai già unito le mani per acchiappare i milioni che ti arriveranno? Sei sempre il Delfino di Francia, sì?” “Forse sarebbe il caso di aspettare che sia morta”, dico forzando un sorriso. L’accostamento infausto e sproporzionato mi sa di presa per il culo, un atteggiamento che conosco e che sguinzagli quando sei invidiosa. “Sì va bene, ma devi fare un figlio anche tu, altrimenti chi sarà il prossimo Delfino?” Mi accendo una sigaretta, allungo le gambe sul pavimento. “Parliamo di qualcos’altro, ti spiace?” Ma comunque qualsiasi discorso rischia di venire interrotto. Riecco infatti il trillo del tuo telefono. “Com’è il civico, qui?”, dici picchiettando veloce sullo schermo. “Ventiquattro?” “Dipende da chi lo vuole sapere”, rispondo serio. “Andiamo, non fare l’imbecille, è una mia amica che lavora qua dietro e mi dà uno strappo a casa.” “Settantasei”, dico allora di malavoglia. Butto giù quel che resta del caffè. “Hai sempre un sacco di amiche tu. Che ne è stato della cantante jazz?” Mi guardi confusa, poi ti illumini. “Ah, vuoi dire Claudia Massimi. Non c’è più. Over nel duemilasei, l’hanno trovata con la faccia nel vomito. Non una gran perdita, comunque. Era una mentecatta.” Inverti l’incrocio delle gambe: “Quindi tu basta pere”. “Quindi io basta pere.” Sbadigli e subito mi viene da sbadigliare appresso a te. Ti rimetti a digitare e non capisco a che livello ti interessi la mia storia, e a ‘sto punto anche quanto interessi a me raccontartela. Mi stiracchio, spero che vengano presto a prenderti. La cucina è buia, potrei accendere la luce, ma non mi va di alzarmi. Le foglie della magnolia gocciolano fuori dalla finestra. Non c’è stato un raggio di sole in tutta la giornata.
Posi il telefono a faccia in giù sul tavolo. “Fai tanto il ripigliato…”, dici, e resti a fissarmi come se dovessi completare la frase. “Sì, cioè, fai tanto il ripigliato, ma ti trovi ancora in zona rossa. Che credi? Tanta gente è ricaduta dopo molto più tempo.” “Ti sfugge che io non sono tanta gente”, dico, ma ti metti a tirare fuori roba dalla borsa, scatole di medicinali, li getti sul tavolo, qualche blister scivola fuori. Halcion. Efexor. Depakin. Li nomini uno per uno. Canti: “Tossicità. Quando tu ce l’hai dentro non te la levi la tossicità. Na na na na.” Osservo senza capire, poi vedo le posologie scritte da me sulle scatole e intendo che sono mie, che le hai prese dal mio bagno. “Cazzo significa?” dico alzandomi. “Questa è roba che devo prendere.” “Sì, vabbè, lo dicono tutti quelli che si fanno di qualcosa, fosse anche di noccioline.” Ti giri verso la finestra e ricominci a digitare. Sto per esplodere. Puoi sentire il mio naso che succhia l’aria e la ributta fuori con la velocità di un mantice. Lascio la cucina, calpesto il corridoio fino all’ingresso. Entro nello studio. Potrei ucciderti con questo tagliacarte, ma purtroppo ho già abbastanza problemi. Ritorno in cucina. “C’è da ammettere che hai avuto una bella parte nella questione della mia tossicità”, dico piantandomi a un metro da te. Tu sorridi sprezzante: “Bello mio, se l’hai fatto è perché lo volevi fare tu. Non darmi colpe che non ho”. Agguanti la borsa, ti alzi. “Devo andare, mi stanno aspettando al cancello”. Ti blocco per un braccio, stringo per farti male. “Ma dove, dove devi andare?” ti urlo in faccia. “Dal marito che hai appena tradito? Dal figlio che solo per caso non era con te mentre ubriaca o fatta o entrambe, ti schiantavi sul cancello di un ristorante? Ma non sei stufa? Non sei stanca?” Ti spingo contro il muro, sembri un sacco vuoto, quasi sono io che ti reggo. Mi scruti con quegli occhioni da bambola triste, piagnucoli: “M’hai portato qui per farmi stare male”. Allora ti lascio, e crolli sui talloni, e scoppi a piangere sul serio. Io sospiro, dico: “Adesso pure le lacrime”. Mi accosto alla finestra anche se da qui il cancello non si vede. Ma davvero, mentre ti baciavo, mi è venuto il pensiero di ricominciare tutto quanto?
All’improvviso un dolore fortissimo alla tempia e il posacenere si schianta sul pavimento. La cenere mi è entrata negli occhi, non li posso aprire. “Stronza!” Barcollo cercando a tastoni il rubinetto, butto la faccia sotto l’acqua, mi strofino, tossisco. “Guarda, farò finta che non sia successo niente”, dici in piedi accanto al microonde, la borsa che pende dal gomito. “Capisco che sei angosciato per tua madre. Se ti va, cercami. Il numero lo sai.” Mandi un bacio e sparisci dalla cornice della porta. Chiudo l’acqua nell’impulso di seguirti per fare non so cosa, ma la riapro subito. La botta mi ha lasciato un fischio nella testa, ho mozziconi dappertutto, nella maglietta, nelle tasche della camicia. Sento i tuoi passi che raggiungono il portone, ti immagino recuperare il cappotto dalle scale. Il cancello scatta e dopo un attimo il rombo della macchina ti porta via. Siamo stati insieme un’ora e mezza e non hai mai detto il mio nome. Ma mi ha riconosciuto davvero? Oppure hai dimenticato anche quello? Mi asciugo la faccia, ho ancora il fiatone. Qui c’è il foglio con le accortezze alimentari che chi ha subito una gastrectomia deve osservare. Parlavano di dimissioni, dopo due giorni il primo infarto. Non tornerà più a casa, tra poco arriverà la telefonata e dovrò essere pronto a segnarmi le indicazioni della camera ardente. Dovrò scegliere i vestiti per la bara. Mi piacerebbe quella blusa di seta verde che porta nelle foto del mio battesimo. Magari ce l’ha ancora, lei non butta mai niente. O dovrei dire buttava? Mi fa strano non sapere che tempo usare, a lei ormai è rimasto solo il passato.
Una notte d’estate sono piombato qui e l’ho buttata giù dal letto. Sapevo che teneva dei contanti nel sécrétaire e l’ho minacciata con una pistola. Per aprire la ribalta ci ha messo una vita, le tremava troppo la mano.
Accendo una sigaretta, prendo la scopa e mi metto a pulire il casino. È come guardare il mare e dover alzare gli occhi per trovare l’orizzonte. Capisci che l’onda si abbatterà su di te e non c’è scampo, ti raggiungerà ovunque ti nasconda.