Ricorso in appello al Consiglio di Stato
di Michele Frisia
I pompini non esistono. Così mi diceva Antonio, diciassette anni, mentre guidava la macchina di suo padre. Io ne avevo quindici e mi sembrava che lui, data l’età, fosse un eroe. Mi portava a bere in campagna, sulle rive di un qualche fiume senza nome, o con un nome del tutto uguale a quello di centinaia di altri fiumi, Rio Dora Stura Rivo Roggia, calavamo briscole e svuotavamo bicchieri infrangibili, rigati e sbiancati dai troppi lavaggi, poi alzavamo la mano come uomini consumati; il barista allora versava altro vino, sputava per terra, e se ne andava. Chissà perché mi è tornato in mente Antonio, oggi, qui al TAR; che tanto boccerà il mio ricorso e dovremo andare al Consiglio di Stato. Solo di marche da bollo, ho anticipato al cliente, spenderemo un capitale, senza parlare di schiarimenti e verificazioni. Lui ha allargato le braccia. Gli va bene, non vuole vincere, ha solo bisogno di tempo. Che poi Antonio aveva una ragione ben precisa per affermare che i pompini non esistono. Lo avevo scoperto il giorno in cui ero andato a casa sua, per il solito giro al fiume, e sua madre, anziché ignorarmi come faceva sempre, mi aveva allontanato, lo sguardo infastidito, con un movimento secco della mano. E così avevo capìto: suo padre aveva trovato il quaderno.
Il cancelliere mi guarda e scuote la testa. Ma almeno ascoltami, penso, cosa ti costa? E invece no. Basta fargli vincere un concorso e si montano la testa. Quindi mi alzo e vado in bagno. Antonio aveva una passione per i pompini. Sfrenata. Incontrollabile. Girava per la campagna con occhio vigile e, non appena una macchia di colore emergeva dentro a un fosso o dietro a qualche pianta, lui, incurante dello schifo, recuperava il giornaletto e lo sottoponeva a restauro. Prima l’asciugatura, sullo stendino nella soffitta calda e umida; poi separava i fogli con delicatezza, rappezzava le pagine strappate, fissava con qualche colpo di asciugacapelli gli ultimi dettagli; infine, una bella stirata col ferro della madre, a vapore, e il giornaletto era pronto. Ma quella era solo la fase uno.
Che poi fare l’avvocato è proprio un lavoro di merda. Me lo immaginavo più o meno così, quando ci sono finito in mezzo, però con più soldi. Ma non mi lamento: l’affitto va, il conto al bar è saldato, e ho anche qualcosa per portare le ragazze al mare. Loro adorano il mare. Se non le porti al mare non hai possibilità. Chissà cosa ci trovano, nel mare. Ed ecco perché il TAR mi deve concedere la sospensiva, altrimenti clienti non ne verranno più – è il passaparola che ti fa lavorare, in questo paese – e niente clienti vuol dire niente soldi, e senza soldi il risultato è che non si può andare al mare. Ci penso, a volte, a quelli che nemmeno hanno i soldi per andare al mare e allora che fanno, se li giocano al gratta e vinci, che poi magari vincono pure. E intanto sognano: mi trasferisco al mare e non faccio più un cazzo, pensano. Che banalità. Qualche tipo brillante, invece, ogni tanto se ne esce con qualche idea estrosa, li sento al bar. Eh no, dicono, tutto il giorno al mare ti annoi, se io diventassi ricco farei un corso di psicologia per i cani, dicono, e così divento psicologo del cane, una cosa che avrei sempre voluto fare ma non ho mai i soldi, dicono, non ho i soldi per il corso. All’inizio ero scettico ma poi, riflettendoci, fra me e me, mi ero convinto che fosse un’idea vendibile e così, una volta, l’ho usata anch’io questa cosa, con una ragazza, la storia dello psicologo per i cani. Non ha funzionato.
Quindi esco dal TAR, pensando che l’avvocato forse è il mestiere più bello del mondo, e che Roma mi aspetta. Dopo il rigetto ci sarà il Consiglio di Stato, sicuro, e allora ripenso al quaderno.
Antonio, fase due, ritagliava tutti i pompini dai giornaletti che recuperava in campagna e li incollava, in ordine non casuale, sul quaderno. Non lo faceva vedere agli amici, quasi mai, non era gay e quelle cose non le condivideva, ma si trattava di un piccolo capolavoro. I pompini erano divisi per etnia, angolo di attacco, profondità di deglutizione, ma soprattutto in base alla partecipazione dell’attrice. Già, perché Antonio non si limitava a un’analisi esteriore della faccenda, voleva scavare nell’intimità dei protagonisti, scardinare la crittografia del gesto, e gli riusciva pure bene. Finché suo padre non trovò il quadernetto, nascosto normalmente al sicuro nella cassa dello stereo, ma dimenticato quel giorno, forse per malavoglia, accanto al termosifone. E da lì la tragedia. Il padre vide tutti quei cazzi incollati sul quaderno, e stabilì: mio figlio è gay. Psicologo subito, non quello dei cani, quello vero, e per un po’ niente gite al fiume, niente carte da briscola, niente bicchieri infrangibili pieni fino all’orlo.
Un giorno raccontavo questa storia a un’amica, era molto carina quindi ci avevo provato, ovviamente, ma non aveva funzionato, e quindi eravamo tipo amici. Non ci credo! fa lei, perché mai la gente dovrebbe buttare i giornali porno in campagna? Li ha pagati, continua lei, e quindi se li tiene, secondo me. Era una ragazza giovane, nemmeno più tanto, ma aveva dieci anni meno di me e oggi come oggi sono parecchi. Abbastanza comunque per non capire. Una così non lo può sapere che, tutte le volte in cui ti masturbavi, finivi senza volerlo per immaginare il Cristo, o la Madonna, o l’angelo custode, che ti guardavano scuotendo la testa. Era già un miracolo venire ma il peggio era dopo, quando te ne stavi lì bello contento, perché la contentezza durava solo un secondo, due al massimo, e poi vedevi tua madre convocata dal Vescovo, lei affranta, quello che scuoteva la testa e allungava la mano per farsi baciare l’anello. Suo figlio si fa le seghe! avrebbe tuonato, me l’ha detto Cristo in persona! Ed ecco che era fondamentale, per liberarsi del peso, liberarsi prima dell’oggetto peccaminoso.
Al cliente intanto spiego che il sindacato sulla valutazione tecnica investe prima facie l’onere probatorio, ma poi si estende anche alle consulenze percipienti. Quello non capisce un cazzo ma pare contento, e mi consegna una busta con dentro un assegno ridicolo. Che vita di merda questo poveraccio; è un biologo, fa cose strane con la genetica e io non chiedo, così non devo sapere. Mi ha dato perfino un libro da leggere, sosteneva che sarebbe stato utile per la causa, ovviamente non lo è stato, almeno credo, perché comunque non l’ho letto tutto. Ma sfogliandolo ho scoperto che ai dinosauri veniva il cancro, così dicono gli scienziati; dinosauri, e per di più col cancro, in pratica una vita di merda. E intanto Antonio aveva superato anche lo scoglio dello psicologo. Continuava a raccogliere giornali pornografici, abbandonati dietro alle piccole balze di pianura, li restaurava, e quando il padre si convinse della sua eterosessualità, ricominciammo anche a frequentare i tavoli in fòrmica sul lungofiume. E così arrivò uno di quei giorni tutti uguali dell’adolescenza durante il quale mi disse, guidando, pensando ad altro, fissando l’istituto di agraria che scorreva sulla provinciale, ehi, disse, ci ho pensato bene e sono sicuro. I pompini non esistono.
Sono quasi all’uscita del TAR quando incontro un collega. Ehi, gli chiedo, mi faresti un favore? Lui attende prima di sbilanciarsi, per capire meglio, non è avvocato per niente. Dovresti solo controllare se fuori c’è una donna riccia, capelli rossi, alta. Lui mi fissa stranito. È una cliente, dico, abbiamo un contenzioso e stamattina mi seguiva, è una pazza. Lui annuisce, solidarizza, e si sporge. Ce n’è una col vestito verde, dice, accanto al fioraio. È lei, maledizione, la Gregoretti. Una delle poche persone rimaste insoddisfatte dei miei servizi. La colpa però, a essere sinceri, è stata sua. Voleva vincere, che parola ridicola, vincere, e peggio ancora voleva giustizia. Io provo a spiegare a tutti i miei clienti che non funziona così: verità, equità, onestà; belle rime ma parole inutili. Si entra in aula con una storia e l’avversario – che di solito è l’Avvocatura di Stato – ha una storia diversa. Non vince quella più vera, o corretta, o giusta, ma quella migliore, quella che suona meglio nelle orecchie di un giudice che, tra l’altro, nemmeno vorrebbe stare dove sta. Perché il TAR è solo il piano terra del palazzo del potere e il giudice amministrativo non vede l’ora di imboccare l’ascensore e salire, salire, salire: Corte dei Conti, Uffici di Gabinetto, Autorità indipendenti, Sottosegretariati, e poi su, fino alla Corte Costituzionale, e perché no, Ministro. Quindi io gli regalo una bella storia, esteticamente gradevole, farcita di infra e supra e de facto, nascondo nelle mie conclusioni le motivazioni della sentenza che vorrei, poi loro mi chiedono il documento via posta elettronica, per comodità, dicono, per copiare, in realtà, e ho risolto. E se non va, fa niente, si ricorre al Consiglio di Stato.
Antonio non conosceva il Consiglio di Stato, non avrebbe saputo che farsene, non ne poteva in alcun modo padroneggiare le grandi potenzialità, quasi illimitate anche se, a pensarci bene, forse neppure il Consiglio di Stato avrebbe potuto aiutarlo. Lui voleva solo un pompino, niente di più, ma le ragazze che incontrava nemmeno accettavano di toccarlo e, almeno di norma, il Consiglio di Stato non è in grado di intervenire su queste faccende. Di norma. E così Antonio chiedeva a noi. Ma ve li fanno i pompini?, chiedeva. E noi a scuotere la testa; chi le raggiungeva le ragazze a quei tempi. Fra padri, sacerdoti e preti, madri superiori e madri naturali, le nostre compagne di scuola erano blindate: condannate alla verginità dalle ultime unghiate di una religione ormai in declino. Si sarebbero rifatte col tempo, almeno quelle normali, e comunque Antonio aveva agito da buon scienziato sperimentale, galileiano direi: aveva interrogato quasi tutti quelli che conosceva e annotava le risultanze su un nuovo quadernetto, sul quale però non incollava più immagini di pompini, ma raccoglieva invece storie di pompini. Storie che, però, stavano ferme a zero: zero pompini. Antonio non conosceva nessuno che avesse gioito del frutto proibito di una bocca conciliante. Qualcuno aveva scopato, ma era gente sopra i vent’anni. Tipo un trattorista che conoscevo anch’io, e due ragazzi dell’acciaieria, e un ragazzo che studiava economia. Ma anche loro: pompini mai. Quindi Antonio, mentre guidava la macchina di suo padre, aveva giustamente dedotto quello che la sua natura galileiana gli aveva suggerito. La conosciamo tutti la storia del cigno nero. Gli europei hanno visto cigni bianchi per millenni, pensavano che i cigni fossero tutti bianchi, poi arrivano in Australia e tac: un cigno nero. Per quello che ne so l’Australia può essere il paradiso dei pompini, non credo ma potrebbe essere, fatto sta che un europeo dell’Ottocento, se avesse potuto vedere un cigno nero solo in fotografia, avrebbe, giustamente, dubitato. Non basta un’immagine per smantellare una sapienza millenaria. E allo stesso modo Antonio, avendo constatato l’esistenza dei pompini solo in fotografia, ne aveva dedotto una solida verità, ovvero che i pompini non esistono.
Finché accadde l’imponderabile, ovvero che Antonio trovasse la sua Australia, e non dall’altra parte del globo ma negli stessi fossi e nelle stesse rogge dalle quali recuperava i giornalini. Era diventato esperto, oltre che di paleografia pornografica, anche di restauro audiovisivo; si occupava delle videocassette che recuperava in campagna, le apriva col cacciavite, stendeva e asciugava, rattoppava con un nastro adesivo particolare che aveva comprato in città, e ci riusciva soltanto perché era un lavoratore di fino, dotato di costanza, perizia, e determinazione. Così, dai video, aveva scoperto qualcosa che rischiava di mettere in dubbio la sua primigenia teoria.
Intanto sono uscito dalla porta laterale del TAR, quella che conoscono solo gli addetti ai lavori, e mi sono diretto verso lo studio. Ma ho bisogno di qualche giornale e così mi fermo all’edicola. Il Sole 24 ore, chiedo, e l’occhio cade sulla vetrinetta per adulti. L’acquisto di un giornale pornografico in quegli anni era problematico. Io ne avevo visto uno, per la prima volta, in quinta elementare. Lo aveva procurato un tipo tosto, un romano, giù nella maremma. I miei genitori mi avevano mandato a cercare animali sull’Argentario e io avevo scoperto la topa; e mentre sfogliavamo quei giornalini, acquistati dal tipo tosto alla stazione ferroviaria di Orbetello, salta su un tipo molto meno tosto, un toscano, che la fa lunga come la fanno lunga i toscani. In sostanza la sua teoria era che: il Governo, sì sì, disse proprio Governo – guadagnandosi subito la mia ammirazione – il Governo, disse, non può permettere che vengano pubblicate certe cose. Gelo in sala. Le sue parole erano sensate, a parte il fatto che nessuno sapeva cosa fosse il Governo – avevamo dieci anni – però i cazzi erano lì davanti a tutti. E anche le fiche. Immagini viola, verdastre, arancioni, tutte variazioni cromatiche di tecniche fotografiche obsolete e raffazzonate. Ma cosa dici, si lamentò il tipo tosto, quello romano, le foto le vediamo tutti, disse. E il toscano: bravo! Non capivo. Come bravo? pensai. Ma il toscano non aveva finito: bravo, disse ancora, le foto sono lì, ma sono false. I cosi sono di gomma, le fiche magari sono vere, ma i cazzi no, i cazzi, come ha deciso il Governo, sono di gomma.
E così io avevo portato a casa questa teoria, che aveva anche resistito qualche tempo, almeno fino all’avvento del VHS, ben più fortunato del Betamax e soppiantato dal DVD; ma al di là della tecnica, col video si vede bene e i sofismi sono inutili, di gomma non c’è proprio niente. Quindi Antonio sapeva che i pompini esistevano, li aveva visti in movimento, la verifica galileiana era incontrovertibile; ma al tempo stesso conosceva anche la triste statistica del suo nuovo quadernetto, ovvero zero storie di pompini. E così, mentre il vecchio quaderno, come si diceva in paese, veniva abbondantemente sfruttato dal padre di Antonio nei bagni dell’ufficio, il buon Antonio, senza alcun ufficio, aveva capìto la verità. Come un novello Keplero che di fronte alla scelta: Sole al centro e Terra in orbita circolare, oppure, Terra al centro e Sole in orbita circolare, dopo aver lavorato anni e anni a quelle odiose e interminabili serie di numeri, cicli ed epicicli, sfere filosofiche perfette e tutto il resto, si era finalmente rotto il cazzo e aveva stabilito: io faccio la traiettoria ellittica. Più o meno allo stesso modo Antonio mi guarda e fa Certo che i pompini esistono – la strada a quel punto si muoveva al rallentatore – ma esistono solo nei porno e quindi, continua Antonio, io devo sposare un’attrice di film porno – la strada si muoveva sempre al rallentatore – perché solo così, sposandola, avrò accanto a me una donna che mi farà i pompini, i quali sono per me la cosa più importante.
Non ha detto proprio così, i quali sono per me la cosa più importante, questo è un linguaggio da avvocato. Intanto arrivo allo studio e trovo la Gregoretti, davanti al portone, con lo sguardo di chi aspetta proprio me. Per uscire da questa situazione c’è un modo solo, devo usare quello che ho imparato da Antonio. Perché, quando Antonio mi aveva esposto la sua teoria, ovvero che avrebbe dovuto sposare un’attrice di film pornografici, aveva anche aggiunto Ué, ma tu non è che la conosci una pornostar?
Ora, quando hai quindici anni e il tuo migliore amico, più grande, sebbene minorenne, ruba la macchina del padre per accompagnarti al fiume, e nemmeno ha la patente, perché giustamente non ha l’età legale per averla; e ti porta al fiume per giocare a carte con due vecchi che sono orologiai della scopa, e macchine da briscola, e a tressette manco ci mettevamo; e con le carte ci esce sempre anche qualcosa da bere, e hai quindici anni e non è che puoi bere come e quando ti pare; ecco che quando sei in quella situazione lì, faresti qualunque cosa per uscirne bene. E io mica lo sapevo come fare. Ma è stato allora che ho ideato la storia di uscita, ovvero quella storia che ti permette di cavartela anche quando non te la puoi cavare. Antonio, gli dico, io conosco parecchie pornostar, non hai idea quante, e dovresti vederle, sono pezzi pregiatissimi. Però sono ragazze riservate, se ti confido i loro nomi, quelle si imbarazzano.
E lì Antonio si è fermato un attimo, la strada si è fermata, anche i campi di granoturco dissodati, un attimo lunghissimo, si sono fermati, poi tutto è tornato alla velocità normale e lui ha annuito. Hai ragione, ha detto.
Avvocato di merda, grida la Gregoretti vedendomi, e brandeggia un taglierino. Sporco, tra l’altro. Ma suvvia, dico, cosa mi combina? E quella appoggia la lama sul mio cappotto nuovo. Pezzo di merda, grida, ti ho dato ventimila euro e non hai risolto un cazzo. È una sognatrice lei, crede davvero di poter vincere solo perché ha ragione. Ma Antonio mi aveva insegnato qualcosa. Signorina Gregoretti, dico, ha controllato la PEC? Lei mi guarda interdetta. Da quanto non la controlla? Lei scuote la testa. Signorina signorina signorina… Ma qui ho esagerato. Signorina un cazzo, dice, non mi chiamavi così quando scopavamo. E io quindi sono costretto a cambiare approccio.
Vittoria, le dico, di solito preferisco essere professionale, e tenere separati i livelli personali da quelli lavorativi, ma per te farò un’eccezione. Allora Vittoria, devi sapere che la Cassazione è un grado di giudizio superiore, rispetto al Consiglio di Stato – e mentre dico questa oscenità appoggio la mano sul taglierino e lo abbasso – orbene, la Cassazione ha riconosciuto il vulnus, dico, la discrezionalità amministrativa non è discrezionalità tecnica, per cui siamo a posto, alla prima riunione plenaria ci daranno ragione. Ma ora fammi salire in ufficio, che Roma potrebbe chiamare da un momento all’altro. E mi raccomando, dico, il telefono, lascialo acceso, così ti aggiorno sulle novità.
Lei guarda la lama con un’espressione che conosco bene, si sta sentendo stupida. Nota il cestino lì accanto, vorrebbe gettare il taglierino ma la fermo. Mettilo in tasca, dico, prima che ti veda qualcuno.
Lei obbedisce, sorride, e mi guarda con quegli occhi che conosco bene.
Il telefono, ripeto, tienilo accesso. Che poi, dico, magari ti chiamo comunque. Lei prova a rispondere ma io sono già oltre il portone.
La mia segretaria ha la schiena di fuori e le calze autoreggenti. Vuole sempre succhiarmelo, ma a me i pompini non piacciono, quindi le lascio sul tavolo la busta del biologo e le dico, la fattura, falla solo per la cifra dell’assegno. I contanti, aggiungo, vanno in cassaforte. Lei tira fuori la mazzetta del biologo, bella corposa, e sorride. Quanto mi piacciono le femmine con la passione per i soldi in nero. Poi, le dico, prepara una querela, contro la Gregoretti; e voglio anche un divieto di avvicinamento; anzi, telefona direttamente al 113 che se arrivano subito la trovano ancora qui sotto, specifica che ha il telefono sempre acceso, così la Questura può localizzarla; e aggiungi che le troveranno un taglierino in tasca. La segretaria annuisce e io chiudo la porta. Mi piace il Consiglio di Stato. Oggi pomeriggio scriverò una bella storia, solo per lui. Mi piace, perché là dentro hanno tutti qualcosa da perdere, ma anche qualcosa da guadagnare; sono così limitati, vedono quello che possono, gli spettatori perfetti per la mia tragedia. A loro, come a tanti, basta guardare un po’ di cigni bianchi, o parlare con tanti ragazzi sfigati ai quali una donna non l’ha mai succhiato, per convincersi che i pompini non esistono. E se credono a queste storie, allora io gli posso raccontare quello che voglio. Poi, certo, salta sempre su qualcuno a lamentarsi di come tratto le persone; gente illuminata, quella, gente che è incappata in un sacco di pompini quando era giovane; beati loro, io li porterei giù al fiume, con le carte da scopa e il vino negli infrangibili, e Antonio che continuava a lamentarsi di quei pompini immaginari. Non è colpa mia se un vecchio si è offerto di spiegare ad Antonio come funzionava, e non è nemmeno colpa mia se lui ha accettato. Quella cosa l’ha calmato, io ho fatto un po’ di soldi, siamo stati tutti più felici.
Ho pubblicato con Dino Audino Editore due saggi romanzati, Delitti e castighi (2019) e Corpi del delitto (2020). Nel 2021 uscirà l’ultimo libro della trilogia. Ho curato per Divergenze Editore il volume Je suis Charlie, racconto di Eva Luna Mascolino vincitore del XX Premio Campiello Giovani. Sono redattore della rivista letteraria Narrandom. I miei racconti sono usciti su riviste letterarie e lit blog quali Nazione Indiana, inutile, Carie, Grado Zero e altre. Ho vinto vari concorsi letterari tra cui il Premio Zeno col romanzo inedito Avere un piano. Svolgo attività di editing quando me lo chiedono, anche se nella vita sono un perito balistico.