Spazzolare il gatto, di Jane Campbell

Autore: Jane Campbell
Editore: Atlantide
Traduzione: Federica Bigotti
pp. 176 Euro 17,50

di Francesca Piovesan

“ La voglia di un vecchio è disgustosa ma la voglia di una vecchia è peggio.
Lo sanno tutti. Susan lo sapeva di sicuro.”

Inizia così la raccolta di racconti Spazzolare un gatto dell’esordiente Jane Campbell, autrice inglese di ottant’anni, pubblicata da Atlantide Edizioni, collana Blu, per la traduzione di Federica Bigotti.  Credo sia fondamentale sottolineare l’età per due aspetti: il tanto agognato esordio che, come si può notare in questo caso, non arriva mai troppo tardi perché la creatività e il saper scrivere, l’allenarsi a scrivere,  è un esercizio continuo, di ricerca, di coraggio nelle proprie capacità e abilità, coraggio anche nel decidere di uscire dalla propria comfort zone come è successo alla stessa Campbell che, per anni, come lei stessa ha dichiarato in un’intervista uscita su Il Libraio, ha scritto continuamente, febbrilmente, di tutto: articoli, testi brevi, poesie, per poi approdare a un primo racconto.
Spazzolare il gatto è stato scritto mentre era in vacanza con il figlio e la nuora e si prendeva cura di Lucy, uno dei due siamesi anziani. Da questa gatta, che inarcava la schiena per il piacere, è nato tutto.
Campbell, poi, aveva spedito il racconto a The London Review of Books e benché la rivista non pubblichi fiction, il testo aveva visto la stampa in poche settimane.
Da lì, da questa serie di circostanze che si riassumono nella parola vita, e anche nella fiducia nelle proprie parole, sono nate le storie di tredici donne; tredici donne anziane, tutte sopra la settantina come lo era l’autrice al tempo della stesura, tutte donne con un punto in comune: la riscoperta del desiderio.
Qui, entra in gioco il secondo aspetto legato all’età: il desiderio in età avanzata, il desiderio che una vecchia, come Susan, non dovrebbe provare, perché primariamente inficiato dall’età, un’età che non è nemmeno matura, è oltre, è senilità, pace dei sensi, oblio.
Vecchiaia che richiama gli anni Quaranta, Cinquanta, fatti di cose appropriate, di educazione impartita, di donne rispettose di voleri paterni o materni: matrimonio, figli, una vita di serenità da rivista, che con il sopraggiungere della fine biologica, svolta; svolta all’improvviso, repentinamente, ancora per la vita, verso il desiderio da realizzare.

È proprio la stessa Susan a dire nel primo racconto “Susan e Miffy”:

“Susan sapeva che era importante essere, prima di tutto, una signora. Non era appropriato, non era mai appropriato, pensare in certi modi, vestire o mangiare o parlare in certi modi. E fantasie come quelle erano oltraggiosamente, terribilmente sbagliate. Erano palesemente sbagliate, si disse. Erano disgustose. E distolse gli occhi da Miffy…”.

Ma il richiamo del piacere che, in questi racconti, si declina in vari modi: dall’erotico, al mentale, al romantico, al piacere che deriva da una piena e rotonda consapevolezza del proprio corpo, della fine, della caducità, della volontà di decisione che può trascendere le protagoniste per liberare altri corpi, è forte, impetuoso, travolgente; conta poco l’età, conta pochissimo, sebbene sia un elemento evidente nella sua, a volte, goffaggine, paura:

Guardò la mano di Miffy poggiata sulla trama ruvida della coperta d’ospedale colorita e ricordò che un tempo, come dolcetto all’ora del tè, le era concesso del pane caldo tostato con burro e sciroppo di zucchero e che quando il burro gocciolava da sotto lo sciroppo luccicante aveva esattamente quel colore; il colore della pelle di Miffy. E Susan dovette trattenersi dall’allungare il braccio per toccarla e quasi, pensò, confusamente, dal mettersela in bocca.

Se queste righe cariche di erotismo non vi hanno spiazzato per fastidio, ma incuriosito per la scoperta di un punto di osservazione insolito, la raccolta è fatta per voi.

Scorrerete attraverso “Il graffio”, il racconto di un corpo vecchio che dimentica l’atto del ferirsi, forse sepolto in un incontro del passato, con un altro corpo, ma giovane: “ Lo splendore di quella ragazza, l’odore del suo sangue, la piega dei suoi fianchi, il profumo che sprigionavano i suoi capelli e la sua pelle umida. Com’era stata bella.”

Spazzolare il gatto, finalmente, è la vita domestica di due femmine anziane, forse la stessa Jane e la gatta; femmine che si cercano, hanno cura l’una dell’altra, in un continuo rispecchiarsi fisico che lascia poco scampo: “Ha un muso invecchiato, come ce l’ho io, ovviamente.” “ È praticamente senza denti. Sono un punto debole  nei siamesi. Questo probabilmente aggrava il problema della caccia. Io ho ancora  i miei denti ma sono tutti rivestiti e incapsulati e così via. Mi fanno abbastanza male. A volte penso che sarebbe più semplice farseli togliere come hanno fatto con quelli della gatta.”

Ci sono moltissimi animali in questi racconti: gatte e farfalle che trasportano il lettore in Africa come in “Lamia”, il nome d’amore, il nome che può annunciare un morso, il veleno, la tragedia, che diventa un atto di estrema e assoluta bellezza nelle descrizioni del paesaggio che Campbell conosce bene perché ci ha vissuto, nello Zambia e in Sudafrica:

Adesso la luce si stava scurendo, ma con quella luminosa qualità che l’immenso cielo africano conserva anche la notte. Le zebre che erano state a girovagare tra le palme erano tutte sparite. Un piccolo motoscafo con il tetto di foglie e turisti in gita la tramonto si stagliò per un attimo nel cielo albicocca e tra le nuvole porpora. E ,giusto in tempo, sopra il mormorio del fiume
e il tuonare delle cascate lei avvertì il ronzio di una zanzara….

Ci sono cani amati, perduti come in “Schopenhauer e io”, dove un robot, un’intelligenza artificiale, vuole monitorare costantemente la vita di Martha, residente in “una discarica per anziani”o aggressivi, enormi, vittime di un ego maschile che esce sempre distrutto da queste righe, a pezzi, frantumato, vero fautore della fine, salvo rarissimi episodi di amore e piacere vicendevole.

“Gentilezza” è sicuramente il racconto più spietato dove una piccola cittadina balneare sulla costa occidentale dell’Inghilterra (c’è sempre molto mare in questi racconti anzi, molta acqua. Acqua salata, acqua dolce, acqua che lava, che nasconde, che ristagna, che dona vita e morte, quasi una trasposizione del piacere, una sorta di orgasmo primitivo e mortale. Bisognerebbe sempre domandarsi perché si scrive d’acqua, cosa scava e porta alla luce questo elemento di cui siamo per la maggior parte composti) è il palcoscenico dell’atto più gentile della vita della protagonista, una donna sola, senza un cane, che passeggia, sempre all’interno o appena appena all’esterno di una comunità di pensionati.
Il cane Bruto, senza ironia, è di una coppia di vicini e sarà il perno del racconto.

“Ogni giorno le spiagge si riempiono di anziani come me che portano a spasso i loro cani nei loro Barbour e stivali da pioggia. Io sono decisamente troppo egoista per avere un cane ma mi piace camminare e so che mi fa bene, quindi faccio una passeggiata di un paio di chilometri ogni mattina sulle spiagge disegnate dalle onde, dentro le tante piccole pozzanghere d’acqua salata depositate dalla corrente in ritirata e guardo lì sulla sabbia bagnata le nostre orme tanto numerose e varie. Comunque, per quanto varie possono essere, sta di fatto che le mie sono indistinguibili dalle altre e questa osservazione porta, come fanno così spesso le passeggiate lungo il mare, a meditazioni filosofiche su quanto io sia davvero diversa da questa gente spaventosa o se in realtà non sia anche io stupida e insulsa come loro.”

La morte è ovunque in queste pagine.
Tuttavia è naturale solo per i personaggi di contorno; spesso è indotta volontariamente o meno, perché anche le sponde di un fiume, se non conosciute possono essere quel vascello che traghetta, anche due occhi uguali possono essere la spia di un futuro in una scarpata nel bosco, anche un vialetto ghiacciato può portarti a immaginare una morte da amata ma sola, come nell’ultimo della raccolta “Essere soli” che è, sicuramente, il racconto più emotivo, delicato, dove l’amore fra due donne molto diverse nasce in una maniera insolita: un rifugio, una cura dopo un’alluvione, ancora l’acqua che travolge e trasporta, e la scoperta, per la prima volta, del sentire la solitudine, nel desiderare così tanto un’altra persona da percepire la propria solitudine in una casa, durante una tempesta, dall’altra parte del telefono.
Ci sono sprazzi di pandemia, parole che si dimenticano, algoritmi che dovrebbero rendere migliori le giornate di chi non ha famiglia, o figli, righe oniriche su amori di gioventù, ma i racconti dove il piacere, di qualsiasi tipo, predomina, perché è potere nel dare e nel darsi, rendono questo libro il caso letterario che profuma di olio per pelle secca e frutti proibiti.