L’uomo che vendeva aria in Terrasanta, di Omer Friedlander

Autore: Omer Friedlander
Editore: NN
Traduzione: Abigail Piccinini.

pp. 240 Euro 18

 
di Anna Lo Piano

Omer Friedlander L’uomo che vendeva aria in Terrasanta, NN, traduzione dall’inglese di Irene Abigail Piccinini.
Per iniziare a parlare della raccolta di racconti di Omer Friedlander L’uomo che vendeva aria in Terrasanta, da poco pubblicata in Italia da NN, e tradotto da Abigail Piccinini, vorrei partire dalla fine.
A pagina 231, dopo una doverosa lista di editor, mentori e amici, e una di libri, film e documentari sulla storia di Israele e della Palestina che sono serviti per le sue ricerche, Friedlander ringrazia David Grossmann. Lo fa inserendo fra le fonti “A un cerbiatto somiglia il mio amore”, ma soprattutto riportando un brano di una sua intervista:

 

«Ciascuno di noi ha una specie di storia ufficiale che presenta agli altri[...] Ma se siamo abbastanza fortunati da trovare un buon ascoltatore, un testimone empatico, allora ci indurrà a raccontare non solo la nostra storia ufficiale, ma anche la storia sottostante. [...] Questo ci costringerà a rinunciare alla protezione della storia ufficiale che per noi è diventata una trappola e persino una prigione. [...] Il potere di una buona storia non è quello di proteggerci, ma di esporci e portarci a più stretto contatto con la nostra stessa vita»

 

Negli undici racconti che compongono la raccolta, la storia ufficiale è certamente presente, da “Le arance di Giaffa”, che attraverso la memoria di un anziano coltivatore ripercorre le vicissitudini della città dall’impero ottomano alla Nakba, fino al “Miniaturista”, dove la memoria si spinge fino alla Spagna Omayyade. Non mancano i check point, i campi profughi, le città del deserto e le tribù beduine, la guerra in Libano e nel Golan, i bombardamenti su Gaza e i tunnel per il contrabbando. Ma a raccontare sono voci che veicolano una propria versione dei fatti, molto poco ufficiale. E i personaggi nascondono, dietro la forma visibile che mostrano al mondo, dolori e desideri stratificati in segreto.
Nato a Gerusalemme nel 1994 e cresciuto a Tel Aviv, Omer Friedlander è nipote di Saul Friedlander, famosissimo in Francia come storico dell’Olocausto. In vari suoi interventi, c’è un ricordo del nonno che riporta spesso. Lui e il fratello, ancora bambini, erano andati a trovarlo a Parigi, con l’intenzione tra l’altro di registrare i suoi racconti. C’è molta aspettativa sull’incontro con questo avo dai capelli grigi e fluenti. Ma alla fine, seduti al ristorante insieme a lui, rimangono così affascinati dall’enorme piatto di patatine che troneggia sul tavolo che dimenticano di accendere il registratore.
Un’eco di questa figura si trova in “Il sopravvissuto sefardita”. “Sono sempre stato geloso dei miei compagni di classe ashkenaziti con i nonni sopravvissuti alla Shoah” spiega il giovane narratore “Mio fratello Zohar e io siamo sefarditi”. La loro missione è portare anche loro, come gli altri compagni di classe, un parente sopravvissuto per il Giorno della Memoria, che possa raccontare gesta epiche e terribili. E soprattutto battere il terribile e antipatico

 

Matan Mordechai Mendelbaum, che aveva sempre le storie migliori. Suo nonno non era solo un sopravvissuto, era anche uno storico stimato, uno specialista mondiale del settore, i cui libri sulla Shoah avevano vinto premi e riconoscimenti.”

 

I due fratelli trovano quindi un vecchio sefardita e gli chiedono di fare la parte del nonno. Per Yehuda inventano delle storie mirabolanti e avventurose, ma il vecchio, invece di limitarsi a ripeterle, si comporta in modo strano: cura il giardino, cucina, ha ribellioni adolescenti. La loro idea appare come un completo fallimento finché non decidono di ascoltare finalmente la vera storia del vecchio, che è bellissima, e malgrado non abbia niente a che fare con la Shoah, contiene il senso di tutte le stranezze che ha fatto sino a quel momento.
Se c’è una terra in cui a raccontare la propria storia si finisce sempre per pestare i confini di quella dell’altro è sicuramente Israele. Lo sa bene Grossman che ne ha fatto il cuore della sua narrativa, con la capacità di vedere attraverso altri occhi, anche quando sono quelli del nemico.
Nel racconto “Il collezionista di sabbia”, una ragazzina che abita nel deserto del Negev scopre che c’è un altro modo di guardare e nominare la terra su cui abita, ma soprattutto per la prima volta si rende conto che fa parte di un “voi”, che può essere vista come “altro”. Un bel colpo per la propria identità.

«Mio padre mi ha insegnato tutti i vecchi nomi beduini dei luoghi del deserto» disse Salim. «Prima che arrivassero i sionisti e cambiassero tutti i nomi».
Non mi piacque come disse “sionisti”. Era come se avesse detto una parolaccia. Io non sapevo proprio di che cosa stesse parlando, ma non ero disposta ad ammetterlo.
«Non abbiamo cambiato nessun nome» dissi, provando a suonare sicura di me.
«Sì, invece. La mia famiglia è qui da moltissimo tempo. Io sono della tribù Al-Azazmeh. Avevamo i nostri nomi per tutti i posti e voi li avete cambiati tutti».
«Non è vero» dissi io. «Come abbiamo fatto a cambiare i nomi?».
«Il Comitato per la designazione dei toponimi nel Negev».
«Te lo sei appena inventato».

 

Per riuscire ad assumere la visione dell’altro bisogna spostare la propria prospettiva, conquistare una distanza necessaria a vedere le cose più chiaramente. In una intervista Friedlander fa riferimento alle lezioni americane di Calvino, quando affronta il mito di Perseo e Medusa per parlare della scrittura, della necessità di riflettere lo sguardo del mostro per non esserne inceneriti. Lui, dice, ha cercato sia lo sguardo di sbieco di Perseo che quello pietrificante di Medusa.
Dopo aver studiato in Inghilterra e negli Stati Uniti, Friedlander ha scelto di scrivere in inglese, e per sua stessa ammissione è una scelta che ha un preciso valore nel modo di rapportarsi a una materia tanto vicina a sé. Nella nota finale, la traduttrice Piccinini la commenta così:

 

Mi piace pensare che abbia scelto di scrivere in inglese perché aveva bisogno di staccarsi emotivamente almeno un po’ dai suoi personaggi per raccontarli vivi e autentici nel loro coacervo di contraddizioni surreali, tenere e crudeli, dolorose e immaginifiche, senza lasciarsene risucchiare troppo. Mi piace pensare che abbia avuto bisogno di tradurli in una lingua diversa dall’ebraico per poterli raccontare in modo più avvertito, più autentico e più vero.

 

Creare una distanza per raggiungere l’autentico, può sembrare una contraddizione, ma forse è necessario a liberarsi di quella narrazione fossilizzata di cui parla Grossman, dalle identità standardizzate. Al cuore di ogni racconto c’è una relazione conflittuale che mette a nudo le proprie molteplici identità.  Ognuno dei suoi personaggi fornisce una propria visione del mondo, maturata attraverso perdite e desideri, ma anche il modo di interpretarli. L’attivista di mezza età che ogni giorno si reca al check point fa continuamente riferimenti al teatro, a Kakfa, perché quel tipo di storie hanno formato il suo modo di leggere la vita, persino il proprio lutto. I bambini di “Meduse a Gaza” interpretano la tristezza del padre di ritorno dalla guerra attraverso le favole che lui raccontava. Nell’”Uomo che vendeva aria in Terrasanta”, l’accanimento a ribadire l’assurdo è tanto di Simcha quanto di sua figlia Lali, che finge di credere alle storie del padre per non ferirlo, per non togliergli il suo pezzo di realtà.
In “Sherazade”, un soldato israeliano è ben consapevole del potere delle storie della donna. Sa che il finale sarà tragico, e allora come in una battaglia sguaina il proprio, e racconta come un lupo, una volta, gli ha salvato la vita.

C’è molta ironia, molta infanzia e molta immaginazione in queste storie, costruite in parte come favole, usando ripetizioni, ribaltamenti e strutture simmetriche, come nel racconto delle due donne, madre e figlia, che camminano sette giorni avanti e indietro (Walking Shiva), con un riferimento esplicito nella parte centrale a Cappuccetto Rosso.
E mi piace chiudere allora con un’ultima storia, che la traduttrice inserisce nella nota finale, come un’ennesima possibilità:

 

Quando Omer Friedlander aveva cinque anni, vivevo a Gerusalemme, studiavo l’ebraico grazie a una borsa di stu-dio e conoscevo e frequentavo i paesaggi e i personaggi dei racconti che lui avrebbe poi scritto in inglese una ventina d’anni dopo. Mi piace pensare che potremmo esserci incro- ciati per caso senza saperlo, per strada oppure sull’autobus, o magari sulla spiaggia a Tel Aviv. Se ci fossimo incontrati ci saremmo ignorati, non ci saremmo degnati di uno sguardo, chiusi nei rispettivi mondi delle rispettive età. Oppure sarei entrata anch’io in uno dei suoi racconti.

Forse quella bottiglia di aria della Terrasanta che tengo sul comodino non l’ho comprata invano.