Uno shock, di Keith Ridgway

Autore: Keith Ridgway
Editore: Sur
Traduzione: Federica Aceto
pp. 306 Euro 18,00

di Debora Lambruschini

 

Delle etichette editoriali che si applicano alle raccolte di racconti quella di “romanzo a racconti” è una delle più frequenti. Certo, continua a far storcere il naso a noi amanti della forma breve, convinti che la subordinazione al romanzo dovrebbe ormai da tempo essere finita e i racconti avere dignità di mercato propria. Ma la realtà la conosciamo bene e vendere una raccolta esattamente per quello che è può alienarsi per partito preso una fetta considerevole di lettori e  - la grande affluenza all’ultimo Salone del libro di Torino non ci inganni – il mercato editoriale nostrano non se la passa poi benissimo. L’etichetta di romanzi a racconti in effetti si adatta bene però a Uno shock, dello scrittore irlandese Keith Ridgway – magistralmente tradotto dalla sempre ottima Federica Aceto per Sur – come a suo tempo per Olive Kitteridge di Elizabeth Strout. O forse, ancor più specifica, potrebbe essere l’etichetta di short story cycle, per primo utilizzata dal critico statunitense Forrest Ingram a indicare quella forma intermedia tra racconto e romanzo in cui la struttura è retta da un pattern complessivo, centrale: una serie di racconti, quindi, in cui ognuno è legato all’altro in equilibrio tra autonomia e unità del tutto, dove temi e motivi si esplicano nell’unità complessiva in una relazione su vari livelli tra i racconti della sequenza. Le nove storie di Uno shock, pur mantenendo un certo grado minimo di autonomia – specie alcune – è nell’insieme infatti che rivelano il loro potenziale; l’architettura che tiene insieme le storie è data in questo caso dalla ricorrenza di alcuni temi, dall’ambientazione, dall’occorrenza di personaggi e, non da meno, dalla circolarità della trama. Se vogliamo apporgli un’etichetta, quindi, per me quella di short story cycle è la più adatta da applicare a questo testo: identifica le scelte formali di cui si compone, è parte integrante della sua struttura, ci aiuta in un certo modo a ragionare sul testo che abbiamo di fronte e tentare di penetrare il mistero della scrittura. In quest’ottica mi sembra che il discorso sull’etichetta appropriata abbia una sua funzione critica ed è quindi dagli elementi peculiari del short story cycle che voglio partire per riflettere sul testo di Ridgway, le sue stratificazioni, le circostanze, il ponte che crea fra tradizione letteraria e aderenza al contemporaneo.
Le nove storie di Uno shock si muovono tutte sul palcoscenico urbano, in un quartiere popolare e a rischio gentrificazione del sud di Londra (ecco qui la prima occorrenza tra i racconti) e, zoomando ancora, nello spazio specifico e quotidiano di case e stanze. Del quartiere, di Londra, cogliamo le difficoltà di una politica distante e inetta, il divario economico, il problema sempre più urgente della gentrificazione. Un tema quest’ultimo che oggi ha sempre meno i contorni del topos letterario fine a sé stesso per farsi invece fotografia di una criticità globale, ben inquadrata per esempio da autori come Zadie Smith (penso per esempio alla raccolta di racconti Grand Union), Jonathan Coe (nell’ultimo romanzo, Bourville), Bryan Washington (Lot), Scott McClanahan (Crapalachia), Kali Fajardo Anstine (Sabrina&Corina), Ron Rash, per citarne alcuni, narrazioni letterarie di un fenomeno pericolosamente reale e che sta già da tempo coinvolgendo anche le nostre realtà italiane.
Sono le persone, che quella città, quel quartiere, quelle stanze le popolano, il cuore pulsante dei racconti di Ridgway, di cui l’autore con impeccabile orecchio riproduce i dialoghi, nelle case, ai tavoli del pub e, soprattutto, ne rappresenta le fragilità, le piccole gioie e i dolori, il quotidiano scosso da un elemento disturbante, una battuta d’arresto, un errore. Uomini e donne, bianchi e neri, un microcosmo che prende vita grazie appunto all’attenzione ai dialoghi e a un uso ben calibrato del flusso di coscienza. La condanna per ogni autore irlandese è quell’inevitabile confronto – per similitudine o contrasto – con Joyce e nemmeno Ridgway si è sottratto al paragone, evidenziato dallo strillo in copertina preso da una recensione del Times: «come Finnegans Wake, ma leggibile», a sottolineare tanto l’appartenenza letteraria quanto il distacco dalla tradizione. Ma, come anche altri critici hanno notato, se al parallelo con Joyce non vogliamo sottrarci è forse quello con i Dubliners ad avere qualche punto di contatto in più, quantomeno nel desiderio di raccontare storie di vita quotidiana entro i confini della città – Dublino in quel caso, Londra in questo. L’uso del flusso di coscienza di reminiscenza modernista è efficacemente utilizzato da Ridgway nel suo significato primordiale e magari meno letterario, permettendo al lettore di avvicinarsi quanto più possibile ai personaggi, partecipare ai loro dubbi, alle epifanie, al quotidiano, esplorando varie sfumature della natura umana e dei sentimenti, in una narrazione mai appesantita. La sensazione è quella di un narratore che ha presa salda sulla materia letteraria e che in un certo senso gli preferisce la realtà, il contemporaneo, l’orecchio sempre teso ai dialoghi, l’occhio sul mondo che lo circonda. E che nel pub, luogo simbolo per eccellenza, ha il suo ritrovo ideale: di fronte al bancone di The Arms sfilano tutti i personaggi di queste storie, inquadrati da angolature diverse, si svelano piano piano al lettore, ma mai del tutto. Ecco, c’è una certa misura di mistero che pervade le storie, di non svelato, una serie di spazi bianchi della narrazione che Ridgway dosa sapientemente e con i quali noi lettori di racconti siamo abituati a confrontarci, andando a caccia di indizi, colmando fin dove possiamo i “vuoti”, ciò che resta laterale nella fotografia e che pure intuiamo essere importante quanto i soggetti in primo piano, perfettamente a fuoco. È, per esempio, l’etichetta con cui il ragazzo de “Il piccione” – soprannominato appunto Pidgeon dal verso che ogni tanto emette – è abituato a fare i conti, il fratello bello che sottintende un “ma stupido” e che apre mondi nella narrazione; è la crisi che colpisce Stan, uno dei personaggi più ricorrenti eppure per certi versi il più inafferrabile, quando scopre un ratto nella cucina di casa; sono le chiacchiere a una festa, in apparenza superficiali, effimere, nel racconto che chiude la raccolta e ne rivela pienamente la circolarità della struttura.
Il flusso di coscienza controllato e i dialoghi vividissimi, si intrecciano a formare una narrazione tesa tra reale ed elemento imprevedibile che talvolta supera i bordi del realismo stretto per aprire ad atmosfere dai contorni meno definiti, in racconti ove il senso di mistero che pervade la scrittura assume una connotazione ulteriormente significativa.

 

Per un po’ non c’è niente. Cos’è un po’? Nessuno viene. Nessuno chiama. David non è in camera da letto. E nemmeno in bagno. L’ingresso è vuoto. Come anche il soggiorno e la cucina. Non è in queste stanze.

È nell’altra stanza, la quinta.

E a saperlo siamo solo io e voi.

(“L’appartamento”, p. 228, finale)

 

L’ambientazione – il quartiere popolare di Londra, il pub The Arms – , è il primo elemento di connessione, la postura autoriale, l’obiettivo puntato sulle persone, la circolarità della struttura. Ma è anche un inseguirsi di solitudini, un sentimento che pervade la raccolta tutta e lega in qualche modo ancor più degli incontri effettivi i personaggi che la compongono. Ne è esempio ideale il racconto di apertura – e a mio gusto il più riuscito della raccolta, che dialoga con l’ultimo – la cui eco continua oltre la fine della lettura. Ci aggiriamo tra le stanze di quella casa silenziosa insieme all’anziana protagonista e il suo gatto, la seguiamo nella routine di ogni giorno, tra i pasti semplici, la mente che vaga e indugia nei ricordi. Qualche giorno prima la coppia che si è da poco trasferita nell’appartamento accanto ha bussato alla sua porta, si è presentata con dei doni e delle scuse preventive per il disturbo che di lì a poco avrebbe causato la festa di inaugurazione della casa. Il punto di vista è quello della donna ed è da lì che ci aggiriamo in questa storia, è da lì che un pezzo dopo l’altro mettiamo insieme stralci di vite e di quotidianità, la narrazione che intreccia dialoghi e pensieri. L’occhio si posa sui dettagli delle stanze, dei gesti, e ognuno di loro è importante in qualche modo. Ognuno di loro, ogni parola – poche da parte dell’anziana – , ogni pensiero e sguardo è il modo dell’autore di dirci: guardate questa vita, l’ordinarietà del quotidiano, sentitela. La solitudine si fa tangibile, il ricordo del marito defunto da tempo pervade ogni cosa, ogni oggetto.

 

Le sembra assurdo. Cosa ci fa con tutto quel tempo? Eppure. Sembravano passati non più di due secondi da quando lui era morto, e solo uno o due minuti da quando si erano conosciuti, e forse mezz’ora da quando lei era piccola. Come la voltavi e la giravi era una cosa assurda. E quanto è banale, pensa, quanto è prevedibile e monotono pensare al tempo in genere.

(“La festa”, p. 22)

 

Il tempo, la solitudine, il ricordo. La festa pochi giorni dopo riempirà la casa dei vicini è l’elemento che modifica la routine e che porta la donna a un gesto inaspettato: incuriosita dalle voci che provengono dall’appartamento accanto, dalle risate, dalla musica, inizia a scavare un minuscolo foro nel cartongesso della parete, da cui poter osservare e osservando sentirsi parte della vita. Un foro sempre più grande, che diventa una nicchia nel muro entro la quale nascondersi e guardare. E da quella nicchia forse addirittura non riuscire più a venire fuori.
Nell’ultimo racconto siamo dall’altra parte del foro, nell’appartamento accanto, ed è lì che tutto si chiude o, come recita l’autore nelle ultimissime battute, è lì invece che tutto comincia:   

 

C’è un occhio nella parete, che luccica, stranissimo, in tutto e per tutto vivo. E sta guardando lei. Sembra impossibile da capire, ma Maria non ha paura, non grida. Per lei non è uno shock.

Forse la storia sarebbe dovuta cominciare così.

Forse è così che comincia.

(“La canzone”, finale del racconto e della raccolta, p. 303)

 

È anche un gioco metaletterario, è lo scarto improvviso del punto di vista come improvviso è l’elemento che scombina le cose, il quotidiano, le etichette che applichiamo alle storie. Ridgway utilizza sapientemente gli strumenti narrativi, sconfina da una forma all’altra, ma è l’equilibrio della prosa a rendere la raccolta tanto riuscita dal punto di vista formale, e la resa di una traduttrice esperta come Aceto senza dubbio fa la differenza. Un grado di sperimentazione minimo, ma ben evidente.
Messi da parte i confronti cui appunto un autore irlandese pare impossibile da sottrarre, quello che resta è una raccolta vibrante e viva, la sensazione di essere seduti al bancone di The Arms e osservare la vita che si muove intorno a noi, le sue storie inventate, quelle vissute e celate. Camminiamo non tra le vie di Dublino ma dentro le stanze e le vite di quel quartiere popolare di Londra, dove ognuno è intento a combattere la sua personale lotta contro la solitudine, la disuguaglianza, le mancanze. E dove le parole non sempre escono o sono quelle giuste per farci comprendere dagli altri, per comprenderli a nostra volta.
Ma qui, tra le pagine, le parole scelte sono sicuramente quelle più giuste.