Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato, di Hilma Wolitzer

Autore: Hilma Wolitzer
Titolo: Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato
Editore: Mondadori
Traduzione: Bettina Cristiani
pp. 180 Euro 19,00

di Debora Lambruschini

 

In un racconto o, perlomeno, in un certo tipo di racconto, lo sguardo dell’autore è catturato dal dettaglio, dal particolare, dal quotidiano e ordinario che proprio attraverso una certa postura si carica di significato; dettagli minimi, ma che possono aprire uno squarcio e, a seconda dell’uso che se ne fa, farci entrare nell’anima dei personaggi. Il racconto è un frammento, non mira all’universalità del romanzo e di questi stessi frammenti si compone. Quasi mai sono necessari narrazioni straordinarie; come dice un personaggio di Andre Dubus «il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è capire e portare avanti le vite che abbiamo» e lì, su quei dettagli minimi e quelle vite ordinarie, si innesca la storia.
Leggendo la bella raccolta Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato della scrittrice statunitense Hilma Wolitzer, ho pensato molto a queste cose, a una certa postura autoriale, alla capacità di un bravo scrittore di prendere l’ordinario e trasformarlo in letteratura. Questi tredici racconti per la prima volta tradotti in italiano – e direi con particolare cura, da Bettina Cristiani per Mondadori – fanno esattamente questo, prendono un pezzetto del quotidiano e lo vivisezionano, restituendocene le pieghe intime, i conflitti, le svolte inaspettate, il punto di rottura. Scritti principalmente tra gli anni Sessanta e Settanta, accolgono atmosfere e urgenze del tempo in cui sono stati composti pur senza restarne intrappolati e, in un certo senso, riuscire anche a chiamarsene fuori, per arrivare a noi, lettori contemporanei, che a tratti riusciamo a dimenticare i confini temporali e geografici entro cui si sviluppano. A più di novant’anni, Wolitzer ha trovato un nuovo pubblico grazie a questa raccolta che mette insieme pezzi importanti della sua produzione letteraria, uno short story cycle in cui ogni racconto è legato all’altro in un equilibrio fra autonomia e unitarietà del tutto, a comporre un quadro in cui l’esperienza formale, i temi e i motivi, risultano evidenti nell’unità complessiva. Un’architettura che in questo caso si regge sull’occorrenza di taluni personaggi (Paulie e il marito Howard), ma anche dei temi (le relazioni, l’interesse per l’interiorità dei personaggi).
Il primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta, è del 1971, l’ultimo del 2020, scritto e ambientato nel pieno della pandemia e per quanto mi riguarda uno dei migliori pezzi di fiction letti su quel periodo surreale e terribile, insieme a certe pagine di Etgar Keret. Chiude la raccolta e chiude le storie di questa coppia come molte altre, la narrazione di un matrimonio, le piccole crisi, le battute d’arresto. «La vita. Sempre la vita» diceva il buon vecchio Ray.
Ecco, la vita, è dentro questi racconti, ne è l’anima. L’ordinario, diremmo noi, contraddicendo un po’ le parole dell’autrice riportate da Elizabeth Strout nella bella prefazione: Non credo che esitano vite ordinarie. Ogni vita è straordinaria.

Di certo lo sguardo dello scrittore è capace talvolta di trasfigurarle, di osservarle caricando oggetti semplici e usuali in qualcosa denso di significato. Il pregio di Wolitzer poi, oltre a quella particolare postura, è quel wit che percorre tutte le storie, perfino quelle più drammatiche, e la vivacità di cambiare rapidamente registro da un racconto all’altro, all’interno di uno stesso, virando ora all’ironia, ora al dramma, ora la tragedia, con atmosfere vagamente horror perfino.
Se penso alle occorrenze tra Wolitzer e altri autori statunitensi penso alle scrittrici e alcune anche molto diverse tra loro, per tempo e luoghi: Elizabeth Strout naturalmente, con quello sguardo pieno di grazia che si posa sulle cose; Lydia Davis, per la polifonia del testo e la particolare ironia, l’interesse per la quotidianità scandita dalla routine, il dettaglio banale che sulla pagina acquista significato; Lucia Berlin, per quello scavare l’anima dei personaggi, l’apparente banalità della vita; perfino a Shirley Jackson, quella delle storie domestiche, degli sketch – seppure il racconto di Wolitzer “Madre” ha una virata verso atmosfere horror che potrebbe avvicinarlo a certe narrazioni tipiche di Jackson – delle donne che arrivano a un passo dal cortocircuito.
Ecco, una di queste ci è arrivata sul serio e, a differenza di quello che potrebbe fare un personaggio di Jackson non sfonderà la testa al marito – forse, così almeno stando a quanto vediamo sulla pagina – ma ha una crisi, un crollo, in mezzo a una corsia del supermercato:

 

Eppure, trovo che andare fuori di testa al supermercato abbia perfettamente senso: quelle arance dipinte che minacciano di scoppiare; schieramenti di lattine armate di etichette, prezzi e pesi; tagli di carne sanguinolenti; pesche e mele che esibiscono la loro parte perfetta e brillante,
celando quella marcia e rammollita.
(“Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato”, p. 15)

 

È un’altra donna che è lì a fare la spesa, incinta, ad accorgersi per prima di quanto sta succedendo e a tentare di intervenire; bloccata al centro di una delle corsie, tra scaffali ben ordinati, quella sconosciuta è il caos, il punto di rottura dell’equilibrio. Ferma, immobile, poche parole che ripete come una cantilena, due bambini attaccati alla gonna. Intorno, altri clienti iniziano a osservare – ma a debita distanza – e dare giudizi; il titolare del negozio che prontamente accorre ma è incapace di fare qualcosa; il marito, infine, che arriva e la porta via. Resta la borsa, vuota, appoggiata sul rullo del nastro trasportatore. Ma, soprattutto, resta il carico che quella scena rappresenta per la protagonista, che in quella crisi sembra riconoscersi o avvertire un pericolo futuro.

 

«Che cosa succede?» si allarmò, preparato alla catastrofe.

«Di tutto» dissi, indicando la pancia che emergeva dall’acqua. «Tutto. La condizione umana. Il mondo».
(“Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato”, p. 21)

 

Molto più stratificato di quanto in apparenza appare, questo racconto è emblematico di ciò che Wolitzer fa nella raccolta tutta, nel suo modo di porsi nei confronti delle storie, nell’eco fortissima della storia sommersa che ben percepiamo seppur rimasta fuori dalla pagina scritta: nel racconto, sosteneva Čechov, va eliminato tutto ciò che non è necessario e che potrebbe allentare la tensione ma è fondamentale essere pienamente consapevoli di ciò che si elimina e lasciarne sulla pagina un’eco per far percepire al lettore ciò che si omette; l’iceberg di Hemingway, con i suoi sette ottavi sotto la superficie dell’acqua. Questi sette ottavi sono fondamentali nelle storie di Wolitzer, sono gli spazi vuoti della narrazione che colmiamo noi lettori e che ci richiedono uno sforzo nella lettura come nella natura stessa di un buon racconto.
Storie, quindi, solo in apparenza “banali”, semplici, che forse a un occhio meno allenato alle sfumature del racconto possono scivolare via ma che invece sono in grado di aprire nuovi spunti, in un dialogo non interrotto tra pagina e vita.
C’è poi l’ironia di Wolitzer a percorrere come una scarica elettrica ogni racconto, mai stonata anche quando contrasta con l’atmosfera o i temi trattati.

 

Tutti dicevano che c’era un maniaco sessuale che si aggirava a piede libero nel condominio e io pensai che era anche ora. Era stato un lungo inverno asessuato.

(“Il maniaco sessuale”, p. 85)

 

È anche questo, si diceva, un elemento – formale – che lega una storia all’altra, oltre le occorrenze di certi personaggi. È un’ironia pungente, feroce talvolta, che scava tra le pieghe di queste vite, lo sguardo distaccato, oggettivo, al punto giusto. Come a farci dire: guardate, la vita è un caos, forse per non impazzire è meglio usare il filtro dell’ironia. Anche perché, questo caos, non siamo sufficientemente equipaggiati per dominarlo e le relazioni restano per lo più un mistero.

 

«Cosa c’è che non va, Howie? Se c’è qualcosa che ti preoccupa, parliamone.»

Lui sorride, quel mezzo sorriso studiato, e io penso che raramente parliamo di cose importanti.

Ho atteso tutta la vita di diventare una donna, dannazione, di stare seduta in cucina e dire cose da adulta all’uomo di fronte a me, parole sospese come vapore sopra le teste dei bambini.
(“Domeniche”, p. 55)

 

In una relazione lunga tutta una vita, come quella tra Paulie e Howard, le crepe sono ben visibili sulla facciata, ma quelle stesse crepe sono le loro esistenze, l’altalena dell’amore, le tante sfaccettature del sentimento e della vita condivisa. Sono i giorni brutti e quelli buoni. Fino all’ultimo. Come, appunto, a quest’ultimo struggente e al tempo stesso ironico racconto, “La grande fuga”, del 2020, con cui si chiude la raccolta. Una storia che racchiude moltissimi spunti carichi di emotività, a partire dall’insinuarsi della pandemia nel quotidiano, ma anche la riflessione sulla vecchiaia, il tema della morte, la paura della solitudine, il rovesciamento del ruolo genitori-figli. Sempre accompagnato dalla voce ferocemente ironica di Wolitzer, che anche novantenne non perde un grammo della sua vivacità.

 

Una volta la prima cosa che facevo la mattina era verificare se anche Howard era sveglio, e se voleva che succedesse qualcosa prima che uno dei bambini facesse irruzione e piombasse sul letto tra noi come un comitato di Amish. Ultimamente però […] mi sono trovata a dare un’occhiata per vedere se Howard è ancora vivo, trattenendo il respiro mentre osservo il lieve alzarsi e abbassarsi del suo petto, allo stesso modo in cui un tempo osservavo un innalzamento promettente tra le lenzuola.
(La grande fuga, p. 149)