Recensioni — Cattedrale - Osservatorio sul racconto

Il Cristo iracheno, di Hassan Blasim

Autore: Hassam Blasim
Titolo: Il Cristo iracheno
Editore: Utopia
Traduzione: Barbara Teresi
pp. 140 Euro 18,00

di Anna Lo Piano

Come si racconta la guerra? Non quella delle battaglie, delle ragioni politiche, e nemmeno quella della resistenza, dei vincitori e degli eroi, delle vittime e degli aguzzini, ma una guerra che va avanti da un tempo così lungo che intere generazioni non hanno mai conosciuto altro, il cui numero dei morti non impressiona più nessuno, nella quale la sofferenza ha smesso di essere associata a qualcosa di umano, e la violenza ha impregnato ogni frammento di quotidianità al punto da fondersi nella materia stessa di cui è fatto il paese.

“Guerre e le violenze erano diventate una macchina fotocopiatrice e tutti portavamo la stessa maschera, forgiata dal dolore e dal tormento”, dice uno dei personaggi de Il Cristo Iracheno, in cui Hassan Blasim racconta l’agonia dell’Iraq, dal conflitto infinito con l’Iran alla dittatura di Saddam Hussein, dall’arrivo degli eserciti occidentali a quello di Daesh, fino all’esilio forzato.

Pubblicata in Italia dalla casa editrice Utopia, con la bella traduzione di Barbara Teresi, la raccolta è ancora inedita in arabo, nonostante i singoli racconti siano circolati in vario modo attraverso il web.
Blasim non è un autore facile. La sua scrittura fonde poesia e turpiloquio, e sovverte ogni ordine prestabilito mettendo a nudo i tabù, travalicando ogni possibile autocensura.

Nato a Baghdad nel 1973, è finito sotto osservazione della polizia di Saddam Hussein fin da giovanissimo, quando era ancora uno studente della scuola di cinema e già si era fatto notare per alcuni cortometraggi poco compiacenti con la politica del regime. Costretto a fuggire, ha viaggiato per anni attraverso la Turchia e l’Europa per poi approdare in Finlandia nel 2003, dove gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato politico e ha ripreso a girare film e a scrivere.

Questi racconti sono stati scritti negli anni dell’esilio, e nella versione inglese del 2013 a cura della casa editrice Comma press, gli sono valsi l’Indipendent Foreign Fiction Prize. I personaggi che li animano hanno un’urgenza di parola che è dichiarata fin dalle prime righe:

 

La gente faceva la fila per raccontare la propria storia. Sul posto è intervenuta la polizia per garantire l’ordine. La strada principale su cui sorgeva la stazione radio era stata chiusa al traffico. Borseggiatori e venditori ambulanti di sigarette circolavano tra la folla. Tutti avevano paura che un terrorista si infiltrasse nella calca e trasformasse tutte quelle storie in una poltiglia di carne e fuoco.

 

Il motivo di un tale assembramento è il concorso “Storie in prima persona” bandito da Radio Memoria, in occasione della caduta del dittatore. Il rovesciamento del potere, pur senza interrompere la catena di orrori, è come la rottura di un argine, un via libera alle voci che cominciano ad accalcarsi. Se il premio in denaro fa gola a tutti, ciò che davvero in palio è il riconoscimento della propria sofferenza, la liberazione da quella maschera che, come una fotocopiatrice, li rende una massa informe senza alcuna traccia di individualità.
Cominciano allora ad accavallarsi le storie. Tutti, anche i morti, e forse soprattutto loro, brandiscono una storia vissuta, ascoltata, immaginata o letta, rivendicando il diritto a non essere solo vittime ma anche testimoni dell’orrore, di avere il coraggio di guardare e portarne addosso le tracce. Testimoni e martiri, nel senso più profondo della parola.
Il tema dello sguardo e degli occhi percorre tutto il libro. Ci sono occhi che lacrimano per fare apparire e sparire coltelli, ci sono gli occhi di Karima, tranquilli come la notte di un albero in primavera, e quelli della sua amica che “guardavano e rimpiangevano insieme a lei le ombre del tempo” (Non uccidermi, ti prego…questo è il mio albero!) e ancora occhi di ragazzi come lenti di ingrandimento che costruiscono un mondo immaginario sulla base di quello che vedono intorno a loro.

Ne “La finestra del quinto piano”, il narratore, chiuso in una stanza d’ospedale con due altri pazienti, legge “Palomar” di Italo Calvino e cita:

 

Ma come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io? Di chi sono gli occhi che guardano? Di solito si pensa che l’io sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale d’una finestra e guarda il mondo che si distende in tutta la vastità lì davanti a lui”.

 

Non è l’unica volta in cui Blasim fa riferimento a un’opera letteraria. In questi racconti i libri e i loro autori sono chiamati in causa di continuo, da Rumi a Borges a Kakfa, fino al poeta al Mutanabbi e alla strada che porta il suo nome a Baghdad, sede di un popolare mercato di libri, devastata da un’esplosione.
Ma quella di Palomar è l’unica citazione esplicita da un testo, e definisce una poetica.
I tre pazienti nella stanza d’ospedale sono malati terminali di cancro in una città devastata dalle bombe. La loro finestra, sempre chiusa, dà sul piazzale del pronto soccorso, dove le ambulanze e le scene di morte di susseguono. Passano il tempo a giocare a carte e raccontare storie, intrappolati tra i lamenti di un moribondo e quella vista che ha “un potere irresistibile”, “una forza gravitazionale che spinge a commettere un crimine”.
Nel momento in cui il narratore cita Calvino, gli altri due pazienti stanno confabulando fra loro, si stanno alleando per farla finita. Uno spinge l’altro, aprono la finestra, si buttano di sotto, mentre il narratore, affacciato alla propria finestra, li osserva impietrito come le statue di Baghdad.

 Nel risvolto di copertina Gerardo Masuccio, editor di Utopia, scrive “chi fissa l’esistenza dritto negli occhi, fino a constatarne l’assurdità, si espone a rischi infausti”. L’orrore può essere pietrificante come uno sguardo di Medusa.
Come fa uno scrittore allora a maneggiare una simile realtà? In che modo può raccontare una storia che abbia senso in un mondo in cui la donna a cui un gruppo islamico ha rapito e torturato il marito viene derisa perché tutti hanno storie “più strane, più crudeli e più folli” della sua?  Se il limite ultimo dell’orrore sembra spostarsi sempre più avanti la realtà comincia a sgretolarsi, a cedere e ricostituirsi in forme nuove e inedite.

 Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Daniel è un soldato cristiano che ha una particolarità. Ogni qualvolta è in pericolo di vita, sente un impulso inspiegabile, una voglia, un fastidio, un prurito imbarazzante, che gli suggerisce il posto più sicuro dove andarsi a rifugiare. Gli altri soldati lo seguono, e stando nella sua ombra protettiva si salvano la vita.

 

Gli eventi di quella guerra in compagnia di Daniel somigliavano alle storie dei cartoni animati. In un batter d’occhio la realtà diventava elastica, perdeva coesione, e il delirio aveva inizio.
(Il Cristo iracheno)

 

Se la realtà diventa elastica e perde coesione, può riformarsi in versioni parallele che hanno lo stesso diritto all’assurdità.
E quindi arrivano pozzi abitati da Jinn cannibali dove i visitatori “imparano molto presto a leggere e conoscere gli eventi del passato, del presente e del futuro”, conigli che depongono uova come avvertimento, alcune persone hanno il dono di far sparire coltelli e altre di farli apparire, ma niente di tutto questo significa qualcosa in modo esplicito.

 

Due anni prima mi era stato affidato il compito di leggere dei libri per capire il significato dei coltelli, ed ero facilmente giunto alla conclusione che fossero solo una metafora dell’orrore, degli omicidi e della brutalità del paese. Ma che valore ha una metafora? Cosa può fare in questo mondo?
(Mille e un coltello)

 

Il fantastico non è una metafora di una realtà, come tiene a precisare la narratrice di “Caro Beto”, una lupa che si scaglia contro le orride metafore degli umani:

 

Il loro linguaggio ci ha avvelenati. Dovremmo limitarci ad abbaiare, smettere di capire le loro parole. Tutte quelle figure retoriche e sciocche metafore (…). La vita è un libro, la vita è una galassia. La vita è una gabbia, insonnia, una croce (…)
Non c’è parola, qualunque sia la sua forma e qualunque cosa significhi, che non possa accompagnare il termine vita senza veicolare un’idea. O senza condurre all’essenza della vita. Perché la vita è spazzatura e fiore nello stesso spazio-tempo. E se ci fosse una sola parola che non si adatta alla vita, quella parola sarebbe la chiave per arrivare al segreto di questi umani.

 

Questa chiave, questo accesso segreto, è il desiderio più profondo dei narratori di questi racconti, che sono impegnati a decifrare libri, enigmi, la vita stessa.
Anche l’amore ha perso la sua forza, non è in grado di salvare nessuno, al contrario. Il Cristo iracheno, dopo aver messo tutti al riparo, cede al ricatto di un terrorista pur di salvare la madre. Una donna, pur di proteggere sua figlia da “i fantasmi” che potrebbero arrivare, la espone al sole fino a ustionarle la pelle per renderla meno attraente, e alla fine, in preda al terrore, la uccide prima che possano ucciderla altri.
L’unica via di uscita allora non è cercare di capire la realtà nella sua interezza, ma scomporla in minuscole parti, dedicarsi all’approfondimento di ogni singolo dettaglio, come fa il narratore de “Il coniglio della zona verde” che passa le sue giornate a leggere, scegliendo un dettaglio preciso e concentrandosi nella ricerca di altri contenuti su quel particolare, aggirandosi in una biblioteca di referenze labirintiche, nella speranza forse di trovare, in qualche segreto meandro, la fantomatica porta chiusa.

E torna allora il riferimento a Palomar, a questo personaggio che osserva tutto nei minimi dettagli.
Nella quarta di copertina del romanzo Palomar (edizione 1983), così Calvino descrive il protagonista:

 

Chi è il signor Palomar che questo libro insegue lungo gli itinerari delle sue giornate? Il nome richiama alla mente un potente telescopio, ma l’attenzione di questo personaggio pare si posi solo sulle cose che gli capitano sotto gli occhi nella vita quotidiana, scrutate nei minimi dettagli con un ossessivo scrupolo di precisione. Le esperienze di Palomar consistono nel concentrarsi ogni volta su un fenomeno isolato. L’oggettività e l’immobilità dell’osservazione si trasformano in racconto, peripezia, coinvolgimento della propria persona. Più Palomar circoscrive il campo dell’esperienza, più esso si moltiplica al proprio interno aprendo prospettive vertiginose, come se in ogni punto fosse contenuto l’infinito. Uomo taciturno, forse perché ha vissuto troppo a lungo in un’atmosfera inquinata dal cattivo uso della parola.

 

 L’ultimo racconto di Palomar si chiama “Come imparare a essere morto”. È quello il suo ultimo fine esattamente come tutti i personaggi di questi racconti, che hanno già passato il confine, o si preparano a farlo, sapendo che anche oltre non scompariranno, ma continueranno a osservare ciò che avviene.

 

Essere morto non vuol dire non esserci, prima per mondo intendeva il mondo più lui, adesso si tratta di lui più il mondo meno lui.

 

Il mondo meno noi, “eliminata quella macchia di inquietudine che è la nostra presenza” ci fa osservatori esterni di qualcosa in cui non possiamo più intervenire, nella consapevolezza che “Tutto è calma o tende alla calma, anche gli uragani, i terremoti, l’eruzione dei vulcani”.

In questo tipo di osservazione è forse possibile raggiungere una forma di pace, convincersi che esiste una fine, basta scomporla in istanti e descrivere ogni istante fin nei minimi dettagli, fino ad esaurire tutta l’attesa

 

Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante – pensa Palomar e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più di essere morto. In quel momento muore.

 

Allo stesso modo, in “Sole e Paradiso”, il narratore, dalla sua terrazza, è stato testimone muto della desolazione di una intera città, ha visto svolgersi il dramma di una madre angosciata per la figlia, ha assistito alla fine tragica di entrambe. Rimasto solo, continua a osservare ciò che accade, le truppe di regime che la prendono d’assalto, le forze di opposizione che ne riguadagnano il controllo, le organizzazioni umanitarie che contano le carneficine perpetrate da entrambe le parti come arbitri che contino i goal. E alla fine si ricorda che lui ha già perso la sua vita. Che è un martire, un testimone che porta su di sé le tracce della battaglia. I fratelli che organizzano le operazioni di trapasso gli hanno detto di aspettare finché non lo faranno passare dall’altra parte.

 

Il tempo passava e io continuavo ad aspettare. Giravo per la cittadina abbandonata. Osservavo i vestiti degli abitanti, le stoviglie, i giocattoli dei bambini e gli ossi degli animali domestici morti. Anche i campi di cotono erano morti. Mi annoiavo. Ma è stata proprio la noia a svelarmi i miei veri poteri. Ho cominciato a volare insieme agli uccelli tra i rami e sui tetti delle case. A ondeggiare insieme alle foglie che cadevano dagli alberi. A giocare con il vento, strisciare con i vermi e litigare con gli insetti. Potevo fare qualunque cosa, senza preoccupazioni, né fame, né paura. La solitudine aveva smesso di essere un peso e gli ultimi ricordi della mia vita passata stavano ormai svanendo.
E una mattina, mentre me ne stavo seduto sul melo in casa di Sawsan e sua madre, mi è passata per la testa l’idea che ha inferto il colpo di grazia al senso della mia attesa: che sia questa cittadina abbandonata, il paradiso?

 

 

 

Le citazioni da Palomar sono prese dall’edizione Einaudi 1983

Una casa è un corpo, di Shruti Swamy

Autore: Shruti Swamy
Titolo: Una casa è un corpo
Editore: Racconti Edizioni
pp. 203 Euro 17,00

di Modestina Cedola

Non so bene perché, ma la maggior parte delle donne ha una certa camminata, non possono farci niente. Non una camminata spaccona tutta fianchi, e nemmeno qualcosa di delicato. Forse è soltanto dovuta alla consapevolezza di quanto spazio occupano in ogni momento.
Anche se fanno passi lunghi per muoversi in fretta sono consapevoli della quantità esatta di spazio che il loro corpo occupa espandendosi e contraendosi.

 

Rifugio è la prima parola che mi viene in mente se penso al titolo Una casa è un corpo
Corpi che accolgono come case in cui riparare. Case che contengono come corpi in crescita.
Sulla copertina, scelta per l'edizione italiana da Racconti edizioni, ritroviamo due corpi, che sembrano quasi librarsi in aria, stretti in un abbraccio accogliente (illustrazione di Elisa Talentino).
L'autrice Shruti Swamy, già apparsa con i suoi racconti su The Paris Review e su McSweeney's, in questo libro tradotto da Eva Kampmann, racconta la volatilità delle relazioni e di quello che si lasciano dietro. Solo il corpo rimane stoico con le sue ferite e con i gesti a dominare gli spazi. I racconti sono brevi, la struttura non è mai ripetitiva e le storie tutte diverse tra loro sono istantanee del caos che bisogna attraversare per diventare un essere umano.
Il caldo, il sudore e la stanchezza elementi ricorsivi a sottolineare la fatica della vulnerabilità, di quell'esatto momento in cui cade la maschera e si resta scoperti alle prese con il proprio dolore o il proprio desiderio.
In Cecità il sogno diventa l'unica alternativa in cui rifugiarsi per una donna appena lasciata dal marito perché depressa. Una rottura crudele consumata in maniera silenziosa. Il racconto si apre con la suggestiva festa per le nozze. Sidha, la sposa, viene preparata dalle donne della famiglia che con mani amorevoli le cospargono di curcuma tutto il corpo. La madre che la lava nel latte come faceva quando era ancora una bambina. E poi momenti di vita matrimoniale e ricordi di loro due bambini si alternano veloce. Quando arriva la depressione e lo strappo tra Sidha e il marito il racconto rallenta per poi riprendere ritmo con i sogni che la vanno a trovare ogni notte. Sono sogni in cui Sidha cerca protezione anche se non sono felici.
Mio fratello racconta di una donna incinta attraversa la città per seguire il fratello che non vede da anni. Un fratello amato ma allontanato dalla famiglia perché vedeva i morti. Trovarsi davanti un adulto sconosciuto e ritrovarne i familiari lineamenti infantili. Notare differenze e somiglianze, ad esempio, in una camminata, nella posa della mani o nel modo di dimenare i piedi. Una tenerezza muta e distante. 
Nel racconto La casa è un corpo, che dà il titolo alla raccolta, un incendio è alle porte. Bisognerebbe evacuare la casa ma la donna che la abita sembra non riuscire a decidere quali siano le cose importanti. La sua bambina è a letto con la febbre, suo marito è andato via e probabilmente non ritornerà più. Che cosa fare prima di abbandonare la casa? Prendersi cura di sua figlia, misurarle la febbre, darle delle medicine oppure mettere in salvo le cose da portare via? Sua figlia da grande sarà più felice di avere ricordi attraverso le foto o bellezza con i gioielli di famiglia? Un vortice di domande che immobilizza mentre il fuoco avanza.
E poi Piaceri terreni in cui una donna dedita all'alcol e alla sua arte incontra Krishna. Nasce in modo inaspettato una storia d'amore segreta e intensa:

 

La voglia di Krishna, il gin, il gin, la faccia di mia madre quando cucinava. I polsi sottili di Krishna. Il mio quadro, le faccine, gli occhietti. Il gin. Il primo sorso di gin della mia vita, a tredici anni, lo risputai sul pavimento della cucina. L’odore dell’alcol è simile a quello dei colori. Colore coincide quasi con la parola dolore, e le braccia ti fanno davvero male dopo un po’, anche i polsi. I suoi, di polsi, sembravano così delicati che avrebbero potuto spezzarsi in due.

 

Il desiderio in alcuni racconti è inopportuno ma liberatorio come a dire che il corpo non mente e sa sempre qual è la strada per la salvezza. Avviene nel racconto In lutto dove un uomo appena rimasto vedovo e sua cognata, arrivata per aiutarlo con sua figlia neonata, si concedono un momento di passione violenta. Oppure in Una composizione semplice dove una moglie taciturna e sola, trasferitasi in Germania per il lavoro del marito, ha la conferma della meschinità del Professore per cui il marito fatica giorno e notte, dopo averci fatto sesso nel suo ufficio. Selvaggio, istintivo come la donna forse non è mai stata. E poi ancora in Tempo di matrimoni dove la vacanza in India termina con loro due strette a fare l'amore orgogliosamente consapevoli delle regole culturali che stanno infrangendo.
I dodici racconti della raccolta di Shruti Swamy, ambientati tra l'India e l'America, hanno per protagoniste le donne e le loro identità. Il discrimine tra quello che sentono di essere e la percezione che ne hanno le persone che le circondano. In mezzo i loro corpi che non mentono e segnano ogni singolo momento vissuto, detestato e desiderato. Il dolore, il desiderio e la confusione sono esposti, a chi sa vederli, sui corpi. Mappe dei loro stati d'animo si propagano su gambe, braccia, e volti. Prendono vita nel modo in cui gesticolano, nel peso che spostano sulle gambe camminando, nel modo in cui sono seduti e in quello in cui dormono. Le pressioni sociali peso invisibile ma ingombrante che si portano sulle spalle per cui spesso sono portati a sbandare in direzioni che forse non gli appartengono. Eppure in ogni storia si svela un attimo di bellezza, un momento piccolo e intimo che fa venire voglia di andare avanti.
Un corpo che muta nel tempo. Si muove nello spazio. Smania nell'incertezza. Abbraccia per riconoscimento. Irrigidisce nella paura. Ascolta per sopravvivenza.
Corpi che sono difficili da abitare ma anche da cui è impossibile separarsi. In questa indecisione dell'anima il corpo si fa portatore di paure, relazioni, felicità e ambizioni. Spesso anticipando decisioni e azioni a lungo ragionate. E se quel che ti resta è quel che hai forse, allora, il corpo, tra tutte, è l'unica cosa davvero nostra. Appiglio e rifugio in qualsiasi situazione.

Le cattività domestiche, di Giorgio Ghiotti

Autore: Giorgio Ghiotti
Titolo: Le cattività domestiche
Editore: FVE Editore
pp. 142 Euro 17,00

di Anna Lo Piano

A dieci anni dall’esordio di Anche Dio giocava a pallone, Giorgio Ghiotti torna ai racconti, pubblicando con FVE, la casa editrice milanese per la quale è anche editor, Le cattività domestiche.

Fin dalle prime righe, ho provato quella sensazione che ogni lettore che ami la letteratura spera di provare quando apre un libro. Qualcosa che sta a metà tra il piacere di ritrovare qualcosa di noto - la scrittura come ritorno, un po’ come sedersi nel proprio divano – e il gusto dell’ignoto – la scrittura come trasporto, rapimento in mondi altri, in balia del ritmo dell’autore. C’è molta sperimentazione in questi racconti. Se il filo conduttore sono le galassie familiari, con le figure fatali che hanno segnato la nostra vita nel bene e nel male, è il modo di raccontarle il punto fondamentale.
Divisa in tre parti, la raccolta si nutre di ispirazioni letterarie diverse: dalla provincia americana di Haruf, Flannery O’Connor e soprattutto Elizabeth Strout con la sua “Olive Kitteridge”, al realismo magico ispano-americano fino al romanzo epistolare familiare di “Caro Michele” di Natalia Ginzburg e alle narrazioni di Celati.
La prima sezione, “I gerani”, si compone di quattro racconti molto diversi fra loro, di cui l’ultimo è una sorta di breve saggio sulla visione. Seguono poi i racconti che danno il titolo, “Le cattività domestiche”, scritti in forma di epistola, mentre “Lucernario”, dove ritorna la prima persona, è un canto a quell’età tutta in potenza che è la prima giovinezza.
Ho parlato di sperimentazione, ma forse dovrei dire più correttamente: esplorazione.
Si sente il gusto di Ghiotti nel muoversi in modo autonomo, avventuroso, in una tradizione novecentesca a lungo percorsa, i cui numi tutelari vengono continuamente evocati nei racconti, come se il modo di costruire la nostra memoria, la percezione delle cose, passasse anche dai mondi immaginari dei nostri autori di riferimento.

Di quante cose con il passare del tempo non si hanno più notizie. La bella Lucy, maestra d’asilo fresca di diploma che cucì dieci vestitini da pastore per la recita di Natale. Il primo bacio in pineta, l’estate della mia perfezione. La divisa del reduce Turner che ancora sfoggiava, malandato e mezzo zoppo, dopo così tanto tempo dalla fine della guerra, ogni domenica in chiesa. Qualcuno, i ragazzi più giovani specialmente, lo sbeffeggiava, “non ci sta mica tutto con la testa il vecchio Turner!”, ma lui non raccoglieva smorfie e risatelle e provocazioni. L’avrebbero seppellito in divisa con un fiore all’occhiello.
(I gerani)

Già nell’incipit del primo racconto, “I gerani”, troviamo un condensato dei temi che attraversano tutti gli altri. La coralità delle voci che ricostruiscono la memoria un ricordo alla volta, il senso fugace della storia che ha bisogno dei suoi cantori per rimanere viva (e non ho potuto non pensare all’incipit de “Gli anni” di Annie Ernaux con il suo monito “Tutte le immagini scompariranno”), il muoversi dei personaggi in uno spazio che li definisce – in questo caso la provincia americana con le sue case sparpagliate, tenute insieme dai rituali della comunità e dall’eco dei cantastorie di pettegolezzi. Gli spazi, i luoghi, hanno una grande importanza nel determinare il modo in cui guardiamo al mondo.

Ci sono persone che camminando per la strada tengono lo sguardo puntato verso il basso, e persone che guardano davanti a sé e per aria, quel che si dice avere un orizzonte.
(Avere un orizzonte)

Ma tenere gli occhi bassi permette di vedere molte cose a Roma, per esempio, e molte meno a Trieste. Ogni luogo determina uno sguardo, che è anche interiore. Ci si porta dentro una città, un mondo, se ce lo hanno raccontato, o se lo abbiamo attraverso i libri.

Ho imparato tante cose su Milano dai racconti del fratello, e sono certo che il giorno che ci andrò avrò una memoria nei passi.
(Educazione milanese)

Ghiotti ha creato dei ritratti di personaggi che non hanno niente di grandioso o di eroico, ma la cui memorabilità risiede nella traccia che hanno lasciato nel ricordo di altri. Specialmente le nonne, queste figure archetipiche, immense, capaci di dominare intere generazioni con la loro presenza, i loro giudizi, la loro visione delle cose. Leggo di queste ave e penso alla nonna descritta in “Althénopis”  da Fabrizia Ramondino, a quella di Brianna Carafa in Angeli personali. Ciò che siamo è in buona parte determinato dalle persone con cui siamo cresciuti o abbiamo scelto di crescere. Forse per questo, sebbene Ghiotti faccia un largo uso della prima persona, la visione è sempre spostata sull’altro. L’io narrante è un pretesto per parlare di altri, e quando parla di sé, o di un sé possibile, si tratta di una figura in mezzo alla folla delle altre.

Nel primo racconto c’è lo sguardo del bambino sul padre, il suo tentativo di ricostituire attraverso gli indizi e i sentito dire ciò che è avvenuto prima della sua nascita, di dare senso alle immagini confuse dell’infanzia, e poi di comprendere le scelte di un uomo che sembra seguire una sua strada misteriosa di attraversare il dolore.
Ne “L’appuntamento”, due uomini che si sono amati in gioventù si rincontrano a distanza di anni, e come in un duello o in duetto, contrappongono frammenti di ricordi, ricostruendo un po’ alla volta le fasi del rapporto e le ragioni della fine, senza che il lettore sia mai veramente sicuro di ciò che sia davvero accaduto.

Quale parte di quel racconto è realmente accaduta, quanto sono attendibile? Rievoco malamente a memoria il verso di una poesia, “forse il testimone perfetto è cieco”. Potrei dirti che sono ossessionato dalla verità ma mentirei ancora. Dopotutto la verità è un sentimento.
(Bambinacci)

Il ricordo è sempre una verità potenziale e anche parziale rispetto a quanto è successo.
Nei racconti epistolari l’autore si rivolge direttamente a cugine, nonne, componenti vari della famiglia, ricostruendo le vite e i fatti come un mosaico tra versioni contrastanti, edulcorate o rese leggendarie dalla magniloquenza della reiterazione.

Ancora la racconta, dopo trent’anni, questa storia; ne ha modificato a sua volta i dettagli, per esempio non ricordo che ci fosse una dependance a villa Claretta come invece continua a sostenere. Nella versione del padre Lente è un casotto per gli attrezzi. Ma può essere anche, informa la zia, che si trattasse di un dondolo, un dondolo con grandi cuscini a fiori cuciti dalla madre di Quartapelle. “Non ci avevi mai detto che c’era la madre!”

Più verità forse la troviamo negli oggetti, che hanno la capacità di serbare le tracce del nostro passaggio, di raccontare anche ciò che vorremmo dimenticare, come quando da un baule conservato salta fuori il vecchio strumento abbandonato della cugina Daria, memoria di un futuro da solista mai realizzato, i soli che sanno tutto di noi e anche, come per una delle nonne se davvero “è stata felice a ogni compleanno”. Ma allo stesso tempo anche gli oggetti sono capaci di parlare solo se manipolati dalla scrittura.
Perché la scrittura ha la capacità di manipolare il ricordo almeno quanto il racconto degli altri. Le cattività del titolo altro non sono che le prigioni in cui veniamo continuamente ingabbiati dal giudizio o dalle aspettative di chi ci circonda, a cominciare dai nostri familiari. Gabbie che tarpano le ali delle possibili nostre evoluzioni, come la cugina Daria che è tutta in potenza, anche quando la potenzialità è di un diritto alla non eccezionalità.

Che cos’è una bugia? Quel che gli altri hanno creduto di noi. Nessuno è al riparo dalla manomissione operata da una persona che ha amato.

La scrittura in questo senso è salvifica. Ricomporre nel mosaico, nella voce fuori campo che opera la parola mentre scorrono le immagini della vita, permette di non chiudere la gabbia ma lasciarla aperta a tutte le versioni dell’io. In più ripara, rimette insieme le eredità letterarie, ricuce le generazioni, permette di rifrangere la propria immagine in specchi infiniti, ripara le ombre, offre un futuro a chi non ce l’ha più. E sempre attesta la propria fragilità.

io ti racconto e tu non morire, pure se il tempo brucia e questa polvere che ci ingrigisce tutti si fa via via più pesante, s’infittisce, fino a farci sparire.”

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Gesù dell’uragano e altre storie, di James Lee Burke

Autore: James Lee Burke
Titolo: Gesù dell’uragano e altre storie
Editore: Jimenez edizioni
Traduzione: Gianluca Testani
pp. 192 Euro 18,00


di Fabrizia Gagliardi

Proviamo a individuare il filo comune che unisce tutte le correnti letterarie contemporanee. Sarebbe come andare alla radice della misteriosa attrazione che abbiamo per le storie, il segreto di un vizio conosciuto da tutti.
A scomporle in particelle elementari troveremo in Shakespeare l’unico grande ideatore di tutte le trame primordiali, ma rimarrebbe una domanda: cosa sottostà a ogni storia raccontata, qual è il nucleo unico e condiviso, centro propulsore di tutto il resto?
Data una vicenda umana, il mistero della vita, se proprio vogliamo definirlo in questo modo, è che l’uomo genera un senso e risponde scegliendo dei valori, nel bene e nel male.
«Le battaglie più importanti avvengono in posti che non interessano a nessuno», sono le parole del detective Dave Robicheaux, protagonista della serie di romanzi di James Lee Burke. Un Philippe Marlowe contemporaneo, un attivista politico più spavaldo e mosso da una fede incrollabile.
È nella provincia, e negli spazi poco densamente popolati tipici dei luoghi americani lontani dai grandi centri, che la visione sociale e politica del personaggio coincide con le origini del suo autore. Burke è nato a Houston ed è cresciuto sulla costa del Golfo della Louisiana. Dopo gli studi all’Università della Louisiana e del Missouri la sua carriera letteraria non è stata da subito così scontata. Ci sono voluti molti anni, lavori come assistente sociale, professore universitario, impiegato dell’industria petrolifera, e innumerevoli rifiuti da parte delle case editrici, prima di stagliarsi nell’universo letterario americano con il personaggio di Robicheaux e il primo romanzo, Pioggia al neon, pubblicato nel 1987.
Anche l’editoria italiana negli anni ha recepito i gialli della serie in maniera frammentata comparendo nei cataloghi di editori come Baldini & Castoldi, Mondadori e Meridiano Zero.
A mettere ordine in una produzione che vanta oltre quaranta romanzi fa ben sperare il proposito di Jimenez Edizioni, nata con due principali scopi: «il primo era quello di riportare in Italia i romanzi di Willy Vlautin; il secondo, invece, era quello di pubblicare James Lee Burke, e in particolare Gesù dell'uragano».
Proprio la raccolta di racconti Gesù dell’uragano appena pubblicata, e tradotta da Gianluca Testani, riesce a conferire un senso nuovo e inedito a tutti i cliché che potremmo associare alle copertine dalla tipografia accentuata dei capolavori di Burke.
È qui che l’autore dimostra la grande capacità di spaziare tra il carattere più dinamico e intrattenente della tensione di un thriller e un talento narrativo e lirico che conferisce complessità ai personaggi dei racconti brevi.
Le storie, scritte tra 1990 e il 2005, sono tutte ambientate sulla costa statunitense affacciata sul Golfo del Messico, traumatizzata da uragani devastanti (come l’uragano Audrey nel 1957 e Katrina nel 2005), disastri ambientali intimamente legati alle vicende dei protagonisti colpiti in varie tappe fondamentali della vita da traumi, ingiustizie, fugaci sensibilità e un senso di giustizia tutto da costruire.
Mai come in questi racconti si avverte la presenza inesorabile di una vallata coperta di neve che col metodico susseguirsi delle stagioni è in grado erodere, in chi vi è immerso in solitudine, il senso dell’umana convivenza piegandolo alle leggi della natura.
In Luce d’inverno un professore universitario, ormai in pensione, vive al limitare di un canyon in una casa di legno che controlla l’accesso al parco nazionale. La quiete della contemplazione di una carriera appena conclusa e di una vita sentimentale tutta da definire subiranno la brusca interruzione a causa di alcuni uomini che vogliono accedere al parco per una battuta di caccia illegale.
Gli sprazzi paesaggistici, alternati alle parti narrative, creano chiaroscuri lirici che andranno a fondersi con una natura umana messa di fronte alla scelta di cedere al male o rispettare una giustizia tutta personale.
Una vicenda simile, con un protagonista dal passato oscuro, è presente nel più toccante La stagione del rimpianto. I Monti Bitterroot dominano una vallata che l’occhio umano non è in grado di abbracciare, e Albert è mosso dall’istinto innato di proteggere l’ambiente e la cittadina che ha scelto come casa dall’arrivo di quattro biker.
Dopotutto in un ambiente dimenticato da Dio la convivenza umana va a farsi benedire e la radicalizzazione di idee s’incunea in un carattere violento, un’intolleranza latente per la novità, un generale senso di abbandono in cui vince la legge del più forte e del farsi giustizia da sé. Ancora una volta nel corso del racconto il paesaggio naturale assiste all’arrovellarsi di un protagonista che si chiede se cedere alla pratica del male che genera altro male.

Gli piacerebbe credere che la terra si riprenderà, che un brav’uomo non ha nulla da temere dal mondo e che ormai ha messo da parte il male fattogli dai biker. Ma alla fine ha imparato che mentire a sé stessi è un reato per il quale gli esseri umani raramente si concedono l’assoluzione.
È giunto a credere che l’accettazione di un angolo oscuro nell’anima e il rifiuto di parlarne con gli altri siano la massima consolazione che un uomo possa ottenere, e per qualche strana ragione quel pensiero sembra dargli un po’ di pace.

È difficile che i personaggi di Burke cedano a un facile sentimentalismo, non per un qualche tipo di timida reticenza, ma perché non si abbandonano al ruolo di vittime per diventare eroi compatiti della propria storia. Non fanno niente per assecondare l’indulgenza del lettore, perché in tutte le vicende trapela una robustezza di spirito che resiste a città corrotte – come i jazzisti in tour alle prese con la mafia che gestisce la musica ai tempi di Jerry Lee Lewis e Big Mama Thornton ne La notte in cui Johnny Ace morì –; a quartieri nati nel sogno petrolifero, ma abbandonati alla candida lungimiranza dei bambini che ci dovranno fare i conti – come in TexasCity, 1947 –, al pentimento della memoria delle guerre in Corea e in Vietnam – come racconta il massacro paramilitare ne Il villaggio.
Lo sguardo di Burke riesce a cogliere il seme della violenza nei grandi spazi naturali, nelle città fino alle piattaforme petrolifere. Non si tratta di una crudeltà forzata e senza scampo, ma di una scelta dai contorni sfumati, dettata dalle condizioni economiche.
A volte tutto si avvicina alla fede masochista in un processo di espiazione le cui sorti si scopriranno solo alla fine. È quello che accade con Foschia, uno dei racconti più sorprendenti della raccolta. Lo spettro dell’uragano Katrina appare come un passato in cui si è sedimentata la vita desiderata di prima, ormai sommersa dai ricordi verso un baratro senza scampo.

Nelle sei settimane seguenti Lisa arriva a credere che la persona che pensava fosse Lisa forse non era mai esistita. La nuova Lisa impara anche che l’Inferno è un posto senza confini geografici, che può viaggiare con un individuo ovunque egli vada. Si sveglia alla sua presenza all’alba, dolorante e disidratata, il cielo come il fondo acquoso e macchiato di ciliegia di un bicchiere Collins.
Che sia per recuperare un panetto di eroina afghana da un armadietto della stazione degli autobus di Lafayette per conto di Herman o per bucarsi con una delle sue puttane, a volte usando lo stesso ago, Lisa passa dal giorno alla notte senza tenere conto di orologi o calendari o della macabra trasformazione del proprio viso che le restituisce lo specchio.

Se la strada per il bene è tortuosa ed è difficile intravedere, l’unica salvezza è costituita da visioni e allegorie, fugaci epifanie che sfondano la porta del realismo per ascendere alla speranza più profonda.
In una capacità evocativa del genere non è difficile immaginare che Burke ha colpito anche il mondo del cinema: il detective Dave Robicheaux è apparso sugli schermi interpretato da Alec Baldwin (in Omicidio a New Orleans, del 1996) e da Tommy Lee Jones ne L'occhio del ciclone - In the Electric Mist (2009).
Il racconto che dà il titolo alla raccolta è diventato un film, God’s Country, presentato all’ultimo Sundance Festival. E ancora una volta i suoi personaggi si ritrovano sui tetti di una New Orleans sommersa, senza salvezza, a osservare un Cristo in croce galleggiante e mossi da una speranza che poche volte è capitato di incontrare in una vita soltanto.

Ma considerando la compagnia con cui mi trovo – Gesù e Miles, e Tony che ci sta aspettando da qualche parte – non ho problemi con il mondo.

Kalpa Imperial, di Angélica Gorodischer

Autore: Angélica Gorodischer
Titolo: Kalpa Imperial
Editore: Rina Edizioni
Traduzione: Giulia Zavagna
pp. 344 Euro 18,00

di Modestina Cedola

Pubblicato per la prima volta, in due volumi, tra il 1983 e il 1984 e tradotto poi in lingua inglese da Ursula K. Le Guin nel 2003, arriva anche in Italia Kalpa Imperial. Il più grande Impero mai esistito di Angelica Gorodischer, grazie alla casa editrice Rina Edizioni. Tradotto da Giulia Zavagna e con la prefazione di Loris Tassi “Kalpa Imperial” è il quarto volume della collana Água Viva curata da Luciano Funetta.
Undici storie e un Impero da raccontare. Di palazzi, segreti, protocolli, battaglie, cantastorie, principi, imperatrici, guerrieri e maghi. La lotta per il predominio, le scelte per il futuro, l'ambizione di restare nella storia, una dinastia da portare avanti o da interrompere per sempre, la morte agognata o subita atrocemente. Il potere è il centro di tutto, tutti ne sono asserviti ognuno nel modo che più lo rispecchia. L'Imperatore è figura dominante. Il potere che irradia è quasi sempre solitario e personale. Città fatte costruire per un capriccio, palazzi enormi e vuoti. Una vita vissuta spesso in una sola stanza. È un potere che ammala e rende folli. Un potere da conquistare o riconquistare ad ogni modo con ogni mezzo.

 

Non ci furono mai tanti ministri, mai durarono così poco; mai morì tanta gente, mai tante donne rimasero incinte. Mai le strade furono così spopolate e così popolati gli accampamenti. Mai ci furono tante denunce, tante torture, tanta tristezza. E fu così per vent'anni.

 

Niente è come sembra in Kalpa Imperial. Descritta da tutti come un'opera di fantascienza cela il racconto della dittatura argentina durante il quale è stato scritto.

 

Ora che soffia un vento propizio, ora che sono finiti i giorni di incertezza e le notti di terrore, ora che non vi sono più accuse né persecuzioni né esecuzioni secrete, ora che il capriccio e la follia sono scomparsi dal cuore dell'Impero, ora che noi e i nostri figli non siamo più assoggettati alla cecità del potere.

 

Le atrocità dei potenti, le parole dei saggi, il buon governo dei ministri, il silenzio delle donne, le cospirazioni segrete. Ogni tassello della storia è necessario per ricordare. La memoria è esercizio essenziale nel libro della scrittrice argentina. Attraverso la parola le storie vengono tramandate affinché sia possibile costruire un futuro migliore. La parola come forma di resistenza al potere. Un potere su cui fare anche ironia per rendere evidente le falle : “E un capitanuccio non molto coraggioso ma niente affatto stupido ricevette l'ordine di un colonnello che l'aveva ricevuto da un ministro che aveva sentito la domanda dell'Imperatore...”
Parola antidoto anche contro la paura. Che è contagiosa. Paura che non accompagna solo chi viene governato ma anche chi governa. Gorodischer racconta di Imperatori indomiti e illuminati, di Imperatori meschini e assetati di controllo ma anche di Imperatori che sono spaventati dal loro stesso potere. Un campionario di possibili modi di governare. Il dominio presente o la gloria eterna? Conta nell'esercizio del potere immaginare come si verrà raccontati? Che Imperatore vuoi essere per il tuo popolo?

 Caldamente sostenuta da Ursula K. Le Guin, che lo definì un testo ricco e complesso, ferocemente immaginativo e imprevedibile, Kalpa Imperial vede tra i suoi ispiratori, per stessa ammissione della sua autrice, Hans Cristian Andersen, J.R.R. Tolkien e Italo Calvino. Angelica Gorodischer nata nel 1928 ha vissuto quasi per cento anni ed è ritenuta una delle voci più originali e influenti della letteratura latinoamericana.

 Le undici storie che compongono Kalpa Imperial sono racconti? Oppure sono undici capitoli della stessa storia? L'Impero di cui si racconta è lo stesso che si distrugge e ricrea? Oppure leggiamo ogni volta di un Impero diverso? Gorodischer sembra chiedere un'attenta partecipazione a chi la legge lasciandogli la possibilità di aggiungere i tasselli che mancano attingendo dalla propria fantasia, reiterando il meccanismo della storia dentro la storia. Atteggiamento che rende palese attraverso il narratore, presente in tutti i racconti tranne l'ultimo, che dialoga apertamente con il lettore incitandolo a guardare oltre, ora celando alcuni dettagli ora facendo ironia sulle sue capacità d'intuito.

 

Certo capirete, se ne siete in grado, che il mondo era cambiato.

Era un'insolenza, nel caso non ve ne foste accorti.

 

Sulla copertina scelta da Rina Edizioni una città che si specchia su se stessa pur apparendo diversa nel riflesso. Una città fatta di palazzi alti e serratissimi. Un luogo che sembra inaccessibile e cupo, dove non c'è spazio né via di scampo. Edifici alti: piramidi, torri, colonne che puntano al cielo e simboleggiano la grandezza degli uomini che le hanno costruite. In mezzo a queste due città una bocca di pietra che spalanca un passaggio buio. L'oscurità e il volto sulla porta incutono timore ma allo stesso tempo invitano ad entrare. C'è un universo oltre quel buio che aspetta solo di essere scoperto. Kalpa Imperial di Angelica Gorodischer assomiglia a una porta pronta a portarti in altri mondi.

I morti dell’isola di Djal e altre leggende, di Anna Seghers

Autore: Anna Seghers
Titolo: I morti dell’isola di Djal e altre leggende
Editore: L’Orma edizioni
Traduzione: Daria Biagi
pp. 224 Euro 20,00


di Anna Lo Piano

C’è, nel riprendere in mano i libri che hanno segnato gli anni della nostra formazione, un senso di appartenenza, e allo stesso tempo il timore che ciò che allora ci aveva colpito risulti ora banale, e come per certi amori, deformato dalla patina del tempo.
È con questo duplice sentimento che ho preso in mano i racconti di Anna Seghers, I morti dell’isola di Djal e altre leggende, appena pubblicati da L’Orma editore con la traduzione di Daria Biagi. Seghers è stata una delle voci più significative della letteratura tedesca del ‘900, e una delle mie letture universitarie. Per noi ventenni della fine degli anni ‘80, leggere autori e autrici della Mitteleuropa era come riappropriarsi di un’identità che ci apparteneva e ci era stata sottratta. Lì c’era una ferita e la letteratura era come ricomporre una conversazione interrotta, appoggiare l’orecchio sul muro e tastarne la porosità, allo stesso modo con cui, zaino in spalla e Interrail in mano, facevamo incursioni sempre più audaci nel continente a parte dell’Est. E Anna Seghers, come e più di altri, quella ferita l’aveva vissuta e raccontata.
Netty Reiling, questo il suo vero nome, nasce nel 1900 a Magonza da una famiglia ebraica della borghesia colta. A Heidelberg, una delle università più progressiste della Germania dell’epoca, studia cinese e Storia dell’arte, laureandosi con una tesi su “Ebrei ed ebraismo in Rembrandt”. Il richiamo alla pittura, in particolare a quella fiamminga, sarà una costante del suo stile. Da un pittore fiammingo, Hercules Seghers, prende anche il suo nome d’arte, che usa firmandosi come autrice del suo primo racconto del 1924, “I morti dell’isola di Djal. Una leggenda olandese scritta da Antje Seghers”. Impegnata politicamente e culturalmente, ricopre incarichi di rappresentanza. Entra nel partito comunista tedesco e nella Lega degli scrittori proletari e rivoluzionari nel 1928. Nello stesso anno vince il premio Kleist per il romanzo “La rivolta dei pescatori di Santa Barbara” che racconta la lotta di un gruppo di pescatori bretoni per rivendicare migliori condizioni economiche. Anche se fallisce, la rivolta permette comunque loro di acquisire una nuova coscienza sociale e una consapevolezza esistenziale. È il tema della sconfitta che si trasforma nella promessa di  una futura vittoria, ricorrente nella letteratura socialista degli anni ’20.
Nel 1933, con l’avvento del nazismo, fugge a Parigi con la famiglia. Poi nel ’41 va in Messico, partendo da Marsiglia dopo una lunga e tormentata attesa che sarà l’ispirazione del romanzo Transito, ripubblicato da L’Orma nel 2020.
Scrive molto, sempre. Racconti, novelle, reportage. Il romanzo “La settima croce”, che racconta la fuga di un gruppo di ebrei da un campo di concentramento, diventa uno dei primi film ad affrontare il tema del lager, nel 1944, con la regia di Zinnemann e l’interpretazione uno dei volti sacri del cinema hollywoodiano: Spencer Tracy.
Finita la guerra, torna in Germania, decide di stabilirsi a Berlino est, di far parte della DDR. Apre la strada a una nuova generazione di scrittori e scrittrici, diventa una autrice da antologia.

 La raccolta pubblicata ora dall’Orma segue gli anni della sua produzione più intensa, dagli anni ‘20 alla fine degli anni ‘60. Ogni racconto viene presentato con qualche riga di introduzione in cui si indica la data di pubblicazione, il luogo, e la rivista o la raccolta di riferimento. Basta questo a dare il senso di una vita vissuta in gran parte in fuga, per la quale diventa essenziale il lavoro delle riviste che in tutto il mondo davano spazio alle voci plurime degli scrittori germanofoni, per impedire che il tedesco fosse solo la lingua del nazismo.  La divisione in due sezioni, Leggende e Storie, segue la doppia ispirazione di Seghers. Da una parte la passione per le narrazioni popolari, il fascino per il mito fondativo che può essere raccontato all’infinito sempre sotto nuove prospettive, dall’altro le vicende degli schiacciati della storia: la povertà degli Ziegler, le speranze del Sionismo, i giovani nazisti.
Per lei era chiaro che “in ogni epoca artistica si dovesse scoprire una nuova materia letteraria”, e la materia del suo tempo erano i proletari, le loro vite, le loro lotte, senza rinunciare però all’immaginazione. In un famoso carteggio del ’38, entra in polemica  con il critico György Lukács sulla questione del realismo. L’attenzione alle questioni sociali non può far rinunciare chi scrive alla creatività poetica. Contro la critica ideologica che produce descrittori e non narratori, rivendica i valori dell’autenticità soggettiva, dell’esperienza, di quel “futuro ricordato” che sarà la visione di Cassandra di Christa Wolf, capace di pre-vedere perché capace prima di tutto di muoversi nella propria memoria. Allo stesso modo nel racconto “Posta nella Terra promessa” il figlio, prima di morire, può scrivere a suo padre le lettere che gli arriveranno nel futuro perché sa che nel mondo “le cose non cambiano mai”. Ovvero l’essenza delle cose non cambia. Come nel mito, appunto, che per questo può essere raccontato infinite volte, adattandolo alle epoche, scoprendone ogni volta un lato nascosto.
Solo nella “Gita delle ragazze morte”, lunga novella, bellissima, sulla propria infanzia, Anna Seghers fa una concessione a un io narrante più intimo e autobiografico. In questi racconti si sente invece forte la sua voce più alta, epica. Si ha l’impressione di assistere a un racconto corale, che ha un andamento solenne, di qualcosa che è stato tramandato, passato di bocca in bocca. Mi colpisce che scrivendo da una prossimità storica così forte di nazismo, sionismo e colonialismo, ne colga il cuore estremo, la sostanza. Ed ecco che mentre parla di avvenimenti ormai lontani nel tempo, ci ritroviamo a viverne le eterne pulsioni che ne animano i protagonisti. La ricerca di un luogo da poter chiamare casa, l’essere trascinati da correnti che spingono in direzioni opposte e contrarie, il destino incombente, le speranze estenuate.
Nell’ultimo racconto, “La guida”, le contraddizioni del colonialismo sono raccontate attraverso una spedizione che sembra non potersi concludere mai, in un conflitto sempre più esplicito tra un giovane eritreo e i due soldati italiani che devono affidarsi alla sua guida, appunto, per attraversare il territorio che non conoscono, pur avendolo conquistato.
Di questa capacità di valicare i confini del tempo grazie al potere simbolico dell’immaginazione, Seghers parla anche in uno dei suoi ultimi racconti, “Incontro a Praga”, che è una sorta di manifesto poetico del suo modo di narrare. Qui immagina che Hoffman, Gogol e Kakfa si siano dati appuntamento, desiderosi di conoscersi.

 

“Io invece me ne infischio del tempo!” esclama Hoffman “Noi tre non staremmo affatto seduti insieme a questo tavolo, se ci attenessimo al tempo”.

E Kafka, poco dopo

Il tempo è strettamente cointessuto alla mia vita e alla mia scrittura. I miei personaggi non hanno bisogno di volti, i lettori possono immaginarseli da sé. A me interessa la loro indole, il loro comportamento in una determinata situazione. Io mi figuro, per esempio, come si comporterebbe il mio buon vicino se mi arrestassero improvvisamente e la mia abitazione venisse sigillata, senza nemmeno sapere perché. Il mio buon vicino, che finora mi ha stimato, immagina ora una cosa ora un’altra. Io però posso immedesimarmi in chi si sente minacciato da una misteriosa potenza. Del resto, anche la minaccia, il comportamento – che è reale come un volto o un carattere – hanno luogo in un determinato punto del tempo.”

 

Questa stessa immedesimazione nei personaggi come incarnazioni di sentimenti universali è molto forte nella scrittura di Anna Seghers. Anche per questo un romanzo come “Transito”, con una voce narrante in prima persona, legato a un momento storico molto preciso e a una radice autobiografica, può essere letto oggi come una storia contemporanea sull’esilio e sulla condizione di profugo, tanto che nel 2018 il regista Christian Petzold ne ha tratto un film ambientato nel presente: “La donna dello scrittore”.
E resta qualcosa da dire sulla qualità cinematografica dei racconti di Seghers, sulla sua capacità di evocare scene, paesaggi e colori. Basta leggere “Gli Ziegler” per ritrovare tutta la portata iconica del cinema espressionista e dei quadri fiamminghi. Volti deformati, corpi gialli, rinsecchiti, sguardi allucinati e muti, interni familiari e dimessi ricostruiti nei minimi dettagli, e macchie di colore gettate come speranze.Dice ancora Hoffman, in incontro a Praga, rivolgendosi a Kafka:

“poiché lei non scorge via d’uscita per se stesso, ecco che non ne vede alcuna nemmeno per gli altri. Occorre però cercarla, una via d’uscita, una breccia nel muro. Come la cerca un prigioniero, per infilarvi un messaggio per un altro essere umano. Bisogna veder brillare un puntino luminoso. Certi quadri scuri, quelli di Rembrandt per esempio, acquistano il proprio significato solo attraverso queste piccole luci inserite al posto giusto”

Mi ricorderò di te, di Mary South

Autore: Mary South
Titolo: Mi ricorderò di te
Editore: Pidgin edizioni
Traduzione: Stefano Pirone
pp. 276 Euro 16,00

di Fabrizia Gagliardi

Se osserviamo bene nella porzione di futuro immaginata, vagamente ottimista della nostra vita, è impossibile non includere la pervasività della tecnologia. Ed è proprio lo spazio tra le nuove questioni che s’impongono con innovazioni che abbiamo a disposizione oggi e le loro possibili conseguenze che s’instaura la malleabilità immaginifica di molti autori contemporanei. Scrivere di tecnologia, giocare con la distopia o l’ucronia, costituiscono i rischi più interessanti degli scrittori che vi si cimentano. Il pericolo è quello di produrre nel lettore lo stesso moto d’animo provocato dagli effetti speciali delle pellicole passate: un senso diffuso di tenerezza e nostalgia che però non nasconde un sapore anacronistico.
Ci sono autori che hanno efficacemente superato la prova come Cory Doctorow e le sue opere sulle scomode implicazioni future tra diritti e soprusi, oppure Joshua Cohen che ha riflettuto su tendenze e pratiche linguistiche influenzate da velocità e consumo di pensieri nei racconti di Quattro nuovi messaggi. Tra le nuove e più interessanti voci da aggiungere alla lista c’è Mary South con Mi ricorderò di te, pubblicata da Pidgin e tradotta da Stefano Pirone.
Una donna che si occupa di moderare commenti su un famoso motore di ricerca diventerà a sua volta la stalker dell’uomo che l’ha stuprata, in un vortice ossessivo di spionaggio d’identità online («Quando saremo morti e marciremo sottoterra o verremo cremati e trasformati in cenere, le nostre vagine saranno ancora su un server da qualche parte per gli occhi di tutti» dice Stronzetto).
Gli infermieri di una casa di riposo scopriranno la vita erotica, le fantasie sessuali, i bisogni e i desideri dei loro pazienti tramite registrazioni telefoniche. Le voci diventeranno così familiari da invadere anche la vita privata e sentimentale del protagonista.
La sezione delle domande più frequenti sulla craniotomia diventa la confessione della vita di una neurochirurga che ha perso il marito e che deve crescere due figli problematici.
I protagonisti delle dieci storie si muovono in un tempo indefinito ma altrettanto familiare: nei loro slanci per ricercare l’amore, la comprensione, e nei loro tentativi di mettere a tacere un senso di solitudine crescente, riconosciamo l’eco di una realtà atomizzata nel lavoro, nell’inseguimento di un indizio di memoria nel marasma di velocità e di precarietà crescente. Senza possibilità di fuga la tecnologia diventa la compagna costante, un sussurro continuo che suggerisce scorciatoie emotive.
In Non è Setsuko tinte orrorifiche definiscono la storia di una madre che cerca di ricreare la bambina che ha perso in passato, in un vortice di follia che coinvolgerà la bambina replicante e il padre.
Un’architetta all’apice del suo successo, protagonista di Architettura per mostri, si trova a raccontarsi in un’intervista affermando di prendere ispirazione dalle deformità della figlia. La vicenda giornalistica svelerà poi l’esistenza della rivalità con la sorellastra che ha donato alla bambina molto più amore e calore umano.

Quando ami l’amore non svanisce. Il sentimento resta per tutta la vita con la persona amata, viene tramandato a coloro che ella ama, e si proietta in tutto l’universo, espandendosi con esso nell’eternità.

Che siano debolezze da esibire in pubblica piazza o dolori privati che irrompono sconvolgendo una vita intera, le preoccupazioni dei protagonisti non sono i prodotti della tecnologia ma piuttosto una rassegna di vuoti emotivi alla ricerca di un antidoto immediato.
L’obiettivo dell’autrice non è quindi un esercizio d’inventiva che va alla ricerca dei modi nuovi e più geniali di impiegare le nuove tecnologie, ma integra perfettamente queste ultime fino a farle assumere un secondo piano, un piano neutrale e non giudicante, rispetto alle inquietudini, i dolori, le gioie e le questioni irrisolte.
La tecnologia non è un deus ex machina ma diventa parte del panorama più preoccupante di nevrosi contemporanee vittime di un benessere economico a tutti i costi, di disfunzioni emotive poco chiare, di rimpiazzi ricercati nelle illusioni.
In ognuna delle vite raccontate la chiave è da ricercare nella provocazione e nella profondità di un’iper-realtà da umorismo nero, contro quelle che erano le aspettative di vita poi tradite, fraintese e deluse. In un panorama del genere non s’intravede speranza all’apparenza, ma in ogni racconto s’intuisce che lasciarsi sgretolare davanti agli altri, farsi assistere nel fallimento e nelle ferite più dolorose, non è voglia di esibizione ma un sincero aprirsi, disintegrarsi e rinascere collegandosi ad altre anime turbate.

Le dame di Grace Adieu, di Susanna Clarke

Autore: Susanna Clarke
Titolo: Le dame di Grace Adieu e altre storie
Editore: Fazi
Traduzione: Paola Merla
pp. 276 Euro 17,00

di Anna Lo Piano

Può un racconto nascere da una nota a piè di pagina? Le vie della creatività sono infinite, ma è su questa che si è incamminata Susanne Clarke per scrivere il racconto che dà il titolo alla raccolta Le dame di Grace Adieu, da poco pubblicato da Fazi editore, con la traduzione di Paola Merla.
Con un termine da serie TV, potremmo definire questo libro lo spin off di “Jonathan Strange & il Signor Norrel”, il romanzo che ha reso Clarke famosa e che nel 2015 è diventato una fiction prodotta dalla BBC. Ma sarebbe fargli un torto, perché a livello creativo è successo qualcosa di molto più interessante.
Alla fine degli anni ’90, Susanna Clarke è alle prese con la scrittura del romanzo. Uno stile ottocentesco che vuole ricordare Dickens e Jane Austen per la lingua e il sottile umorismo, che sconfina nel fantasy senza essere un romanzo fantasy, che introduce la magia nel mondo accademico vittoriano per affrontare temi esistenziali. Un contenuto magmatico che le sfugge da tutte le parti e fatica a trovare la propria forma definitiva. E mentre è immersa in questo difficile processo, per trovare ispirazione e forse anche contenimento, si iscrive a un corso di scrittura tenuto da Colin Greenland e Geoff Ryman. Il corso prevede che per accedere gli studenti presentino un racconto, e lei scrive “Le dame di Grace Adieu”, ambientato in quel mondo magico e vittoriano, dove appaiono anche i protagonisti del romanzo.
“Le dame” è stato il primo racconto pubblicato, e a questi ne sono seguiti altri sette, quasi tutti apparsi su riviste o antologie prima di essere raccolti nel 2006.
La sperimentazione è forse la cifra più caratteristica di questi racconti, che sono stati scritti attingendo alle parti più sommerse, marginali, del romanzo, da quello che per stessa ammissione dell’autrice non poteva rientrare in una struttura compiuta. Come se il romanzo fosse il palazzo, e le storie la campagna selvaggia che lo circonda, popolata da mondi infiniti, ognuno dei quali ne racchiude altri, in una moltiplicazione che ricorda l’architettura labirintica del suo romanzo più recente: Piranesi.
In questi racconti ci sono molte donne, escluse dal mondo accademico ed esclusivamente maschile dei maghi. A Grace adieu abitano tre donne che sanno molto più di magia di Strange e Norrel. Impossibile non pensare a Jane Austen quando Clarke ce le presenta, facendoci scorgere il loro guizzo geniale dietro l’apparente sottomissione alla vita di provincia.

(il Signor Field) Non si riteneva cambiato rispetto all’uomo che era stato una volta e Cassandra era assolutamente del suo parere, dato che (si diceva) “voi, signore, eravate certamente noioso a ventun anni come lo siete a quarantanove”. E dunque il signor Field riprese moglie, una moglie giovane, intelligente e solo di un anno maggiore di Cassandra, anche se, a difesa della seconda signora Field, possiamo dire che non aveva denaro e non le restava che sposare il signor Field o fare la maestra di scuola.
La seconda signora Field e Cassandra andavano molto d’accordo e ben presto si affezionarono grandemente l’una all’altra. Anzi,
bisognava riconoscere che l’affetto fra loro era assai superiore a quello di entrambe per Field
.

  Come in una lente di ingrandimento che metta a fuoco dettagli apparentemente insignificanti, il racconto indaga un episodio che nel capitolo 43 di Jonathan Strange è solo accennato in una nota. E in qualche modo tutti i racconti sono espansioni di note. Percorrono strade impervie e poco battute di un universo inventato di cui è possibile raccontare solo una versione alla volta.
Nella sperimentazione si alternano le voci narranti. Sono accademiche e circostanziali come quella del fittizio professor Sutherland che introduce la raccolta, esperto di sidhe, ovvero la materia che riguarda le fate e il mondo magico, o soggettive, come la prima persona del diario di Simonelli alla scoperta delle proprie origini attraverso l’incontro con un antagonista misterioso, dove sentiamo echi del Dracula di Stoker.
L’ispirazione ucronica trova protagonisti il Duca di Wellington o Maria Stuarda, finiti malgrado loro in un universo parallelo nel quale, per una strana combinazione, sono ambedue nelle mani del fato, di parche magiche che tessono fili, che ricamano scene di vita prima che si realizzino. Starà a loro tagliare il filo o provare a rimbastire la trama.
C’è molta struttura fiabesca, come nella reinterpretazione di Tremotino, ma anche nelle ripetizioni, nelle triadi di prove e incantesimi, e un gusto della poesia in certe descrizioni, che si percepisce fortemente nella lettura ad alta voce.
C’è soprattutto la sensazione di una cavalcata a briglia sciolta, il gusto dello sconfinamento dei generi e delle costrizioni, di attingere a piene mani all’ispirazione letteraria più amata.
Sono racconti che potrebbero essere letti in un cenacolo, come le raccolte di fabliaux medievali, o meditati in solitudine nelle sere di autunno. La ribellione al destino, come la sua accettazione, la discesa incerta verso la propria identità, la beffa al sopruso come l’ossessione amorosa che confonde realtà e follia (La signora Mabb, il mio preferito) sono i temi che il fantastico permette di esplorare fino in fondo.
E inerpicandosi sulle vie meno battute della materia creativa del romanzo, i racconti riportano specifiche scoperte, fino a quella più essenziale, ovvero che la magia, al di là delle speculazioni accademiche, è qualcosa che ha che fare con il dialogo ininterrotto con la terra e con i suoi elementi, con la capacità di riconoscere in ogni essere, roccia, animale o albero che sia, una scintilla della stessa sostanza che ci ha formato.

 Allora la magia sarà per noi ciò che il volo è per gli uccelli, perché proverrà dal cuore, oscuro e pieno di sogni, proprio come proviene dal cuore il volo degli uccelli. E nel praticare questa magia, felici come lo è l’uccello quando si lancia nel vuoto, sapremo che la magia fa parte di ciò che l’uomo è, esattamente come il volo fa parte di ciò che è l’uccello.

Contemporaneo Occidentale, a cura di Andrea Gentile

Autore: AA. VV
Titolo: Contemporaneo occidentale
Editore: Il Saggiatore
Curatela: Andrea Gentile
pp. 328 Euro 22,00

di Matteo Moca

Nella lezione inaugurale che tenne nel 2006 allo IUAV di Venezia, Giorgio Agamben per introdurre il suo discorso si chiede: «Di chi e di che cosa siamo contemporanei? E, innanzitutto, che cosa significa essere contemporanei?». Agamben riflette sulla relazione necessaria con il tempo («La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo»), sottolineando come coincidere troppo con l'epoca che si vive porti con sé il rischio di non vederla davvero e quindi di non essere contemporanei perché, proprio per questa vicinanza estrema, non si riuscirebbe a vederla, non potendo «tenere fisso lo sguardo su di essa». Anche attraverso questa chiave si può provare a comprendere il titolo e i racconti che fanno parte di Contemporaneo occidentale, raccolta di racconti pubblicata da Il Saggiatore con la cura di Andrea Gentile: questo libro infatti sventa sin da subito il rischio compilativo che si paventa davanti a insiemi di racconti di autori vari e di generazioni diverse, perché queste prose sono tenute insieme da un piano teorico ampio e ambizioso che si interroga, come sottolinea nella sua fondamentale Introduzione Gentile, su come contemporaneo e letteratura possano andare insieme: «Per “contemporaneo”, allora, si intende ciò che in quanto non attuale non è visibile, e tenta una letteratura come pratica meditativa. Un testo inteso come stato, capace di diventare più grande del pensiero, fuori dunque dall'antica polarità del bello/brutto, mi intrattiene/non mi intrattiene». In linea con il pensiero di Agamben, anche nel caso di questi racconti osservare solo l'estremo contemporaneo immergendocisi completamente porterebbe a smarrire una prospettiva fondamentale in grado di dare un saggio più ampio di cosa significhi “contemporaneo”. Qui emerge allora il valore assoluto che Gentile affida alla letteratura e la sovrastruttura che sorveglia questi racconti che hanno a che fare con gli interrogativi più profondi e urgenti dell'umanità: che cos'è la realtà? Come l'uomo ci si muove dentro? La confusione tra “realismo”, “verosimiglianza” e “realtà”, dove le prime due vengono erroneamente confuse con l'ultima, viene qui messa alla prova in maniera radicale attraverso lo strumento letterario, via di fuga dalla stretta rete che intriga e stringe l'io coccolato, tracciato e confuso dentro l'età contemporanea. Gentile sceglie in maniera intelligente, ma d'altronde replicando lo stesso valore del catalogo del Saggiatore, non di selezionare una serie di racconti afferenti, in maniera didascalica, a un unico tema, quanto piuttosto di scegliere racconti diversi (eterogenei per argomento e, in alcuni casi, per riuscita) in grado di soddisfare la poetica che sostiene questo libro: quali e quante sono le declinazioni del nostro tempo? Come può la letteratura, e in particolare la narrativa breve, scivolare e soggiornare nell'ignoto che segna l'esistenza umana? Qual è la funzione della paura e dell'orrore in un mondo che sembra sempre di più imprigionato nelle loro spire? Per rispondere a queste domande Gentile sceglie racconti scritti in un periodo che occupa più o meno l'ultimo decennio (con alcune eccezioni), opere di autori ormai centrali del canone occidentale contemporaneo (il premio Nobel Olga Tokarczuk, Jeff VanderMeer, Karl Ove Knausgard, Mircea Cărtărescu e William T. Vollman), esponenti di spicco della casa editrice (Thomas Ligotti, David Peace, la giovane Emma Glass, Geoff Dyer o László Darvasi), suoi numi tutelari come Botho Strauss, ma anche scrittori che forse non si immaginerebbero in questo contesto come Ali Smith. L'eterogeneità di questi autori, per cultura, opere e attenzione a diversi mezzi letterari, concede a questo libro uno statuto particolare, trasformandolo in una sorta di carotaggio avanguardistico sulle funzioni della letteratura nel suo primigenio compito di raccontare. Contemporaneo occidentale è diviso in tre parti che sembrano rappresentare le tappe di questo processo di purificazione alle acque della letteratura intesa come racconto ancestrale dell'essenza stessa dell'umano, dei misteri che ne affollano l'esistenza e delle paure che ne scolpiscono il pensiero. La prima di queste, Nel bardo, attraverso i racconti di Tokarczuk, uno dei più belli dell'intera raccolta, Ligotti, VandeerMeer, Peace e Glass, scandisce le forme e i momenti in cui il rapporto tra corpo (cioè la nostra necessità di vivere in contatto continuo con le cose) e anima (la possibilità di immaginare) comincia ad allentare le sue strette razionali. In La montagna di tutti i santi di Tokarczuk per esempio, nella storia di una scienziata malata che lavora a un progetto segreto in un istituto per minori in Svizzera ospite di un gruppo di suore, la ricerca (scientifica e sperimentale) sulla santità sembra la via di salvezza da un mondo in fiamme, in Metaphysica Morum di Ligotti, come al solito vertiginoso saliscendi linguistico e stilistico, il sogno si rivela come luogo di accoglienza ed epifania dentro un mondo troppo pieno di significati reconditi per essere vissuto davvero senza l'appoggio dell'immateriale, nell'ambientazione giapponese del racconto di David Peace (Dopo la caduta, prima della caduta) la costruzione a scatola della narrazione richiama le fiabe dell'antico Oriente con la morale che però si sgretola davanti all'insipienza umana. Oppure, infine, nel breve Consenso Emma Glass sembra riflettere sull'arrivo dell'ineluttabile e su come la morte possa rendere più vivida la vita.
La seconda parte si intitola invece Meditazioni ed è composta da testi che soddisfano ciò che il titolo suggerisce, una sorta di stasi prima del movimento di allontanamento dettato dall'immaginazione: si tratta infatti di una serie di testi dalla natura più saggistica, a opera di Knausgard, Dyer, Cărtărescu e Strauss che provano a interrogarsi su quale posto la lingua, la letteratura e la conoscenza delle opere letterarie possano rivestire, come in Sul valore della letteratura di Knausgard (dove però la struttura argomentativa risulta forse un po' troppo scoperta). Seguono poi una nostalgica rievocazione di una vacanza in Italia di Dyer (Omaggio a Michele Avantario), esercitazione pratica di come la scrittura possa dare forma meno instabile al ricordo, e il bel testo di Cărtărescu «There are more things…» ragionamento verticale su cosa possa significare conoscere il mondo e su come il pensiero provi a ingabbiare le sue manifestazioni. Chiude il volume la terza parte, Apparizioni, costruita da racconti che appunto ruotano attorno allo statuto di reale o irreale di ciò che ai personaggi sembra di vedere, al viaggio metafisico che può aiutare a immaginare nuovi, ma non per questo migliori, orizzonti. Ragnatela di Mariana Enriquez è uno dei pezzi più belli della raccolta: affogato nel clima umido del Sud America dove il calore invita la mente a perdere le usuali costruzioni del Super-Io, il racconto è incentrato su come le due protagoniste, entrambe omaggiate dal dono di una seconda vista sul reale in grado di farle vedere cose che altri non vedono, vivano in una situazione di sospensione del reale, che la scrittura avvolgente è perfettamente in grado di restituire, e di come non siano tollerabili interferenze secolari. Dopo la storia di violenza e di skinhead di Vollmann (I cavalieri bianchi), anche questa una tra le vette del libro, chiude la raccolta il breve testo di Mariella Mehr, scomparsa a settembre, Un dito tagliato: L'arrivo del capodoglio dopo la messa domenicale, astratto racconto d'infanzia che fissa, una volta per tutte, la prospettiva mobile di questa raccolta sospesa tutta sul dirupo che il reale, il ricordo e la scomparsa spalancano.
Se dunque, per riprendere ciò che scrive Agamben in Che cos'è il contemporaneo, contemporaneo è chi osserva profondamente il suo tempo interessato non solo a vederne le luci quanto, piuttosto, a percepirne e ghermirne il buio, allora questa raccolta di racconti è in grado di funzionare come sentiero, non semplice e lineare, di perlustrazione e, forse, conoscenza. «Tutti i tempi – aggiunge Agamben – sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente». Leggendo Contemporaneo occidentale l'immaginazione potrà avvicinarsi alle tenebre che avvolgono il nostro tentativo di rasserenare il tempo che viviamo invitandoci ad affondare dentro questo materiale multiforme che affida la sua ancora di salvezza alla letteratura. Nel suo testo, lo scrittore norvegese Knausgard scrive che la letteratura «è incompiuta come la vita, priva di senso come la vita, molteplice come la vita, priva di direzioni come la vita e ogni tanto, proprio come la vita, riesce a condensarsi in enormi grappoli carichi di significato e di vicinanza al mondo»: affidarsi allora al suo mistero e alle sue possibilità di gettare uno sguardo obliquo e onesto sul reale attraverso l'antichissima forma del racconto di storie rappresenta una delle poche possibilità, reali, di conoscenza.

L'altra te, di Joyce Carol Oates

Autore: Joyce Carol Oates
Titolo: L’altra te
Editore: La Nave di Teseo
Traduzione: Alberto Pezzotta
pp. 320 Euro 20,00

di Fabrizia Gagliardi

Quante versioni di noi impersoniamo nel corso di una giornata o in un passato che non è più?
Quando uno prevale sui centomila che siamo stati alziamo le mani e ci appelliamo al cambiamento, una patina temporale paradossale perché realizziamo di averla vissuta solo quando si è conclusa e coniughiamo tutto al passato: le strade sono state imboccate, le scelte sono state fatte.
Funziona benissimo come una sorta di giustificazione che non ci salva però dal ricordo, dal ripercorrere chi avremmo potuto essere, cosa avremmo potuto fare se avessimo scelto di essere altro.
Sembra banale sviscerare un tema che la letteratura corteggia da sempre grazie al meccanismo, insito nel racconto stesso, della possibilità di avere a disposizione solo una vita, e allo stesso tempo di poterne vivere tante altre grazie alla parola che crea una corrispondenza empatica con personaggi e vicende impensabili.
Maschere e ipocrisie, violenze e apparenze borghesi, l’ampio respiro della Storia che investe tutti, dal ricco al più umile, sono state ampiamente documentate da Joyce Carol Oates, una delle più abili e prolifiche sperimentatrici narrative contemporanee. Senza lasciarci ingannare dalla mole di romanzi, racconti, saggi, poesie e opere teatrali prodotte dal 1963 a oggi (più di cento), ci seduce la versatilità di stile declinata in strutture narrative che vanno dal thriller psicologico all’epopea famigliare, dall’horror alla detective story. Si tratta di generi che l’autrice è in grado di condensare anche nello spazio di una raccolta di racconti e che ora l’editoria italiana sta recuperando, come una delle ultime novità in libreria: L’altra te, pubblicato da La Nave di Teseo, con la traduzione di Alberto Pezzotta.

Per orgoglio, ma anche per soddisfazione della vita che hai, non pensi mai a quella vita che si è svolta lontano da Yewville. La ragazza che ha impugnato la penna e ha affrontato l’esame con sicurezza e intelligenza. La ragazza che è riuscita a conservare la calma. I cui genitori non hanno litigato tenendola sveglia la notte prima del giorno più importante della sua vita. La ragazza senza tosse e mal di gola.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta è un desiderio in potenza che oscilla tra il presente della realtà vissuta e quello della possibilità mai avvenuta. La sensazione è di vivere due piani temporali che procedono paralleli nel corso di un momento fugace, la vita segreta e incredibilmente creativa della mente destinata a svanire come al risveglio di un sogno.
Aspettiamo Kizer è ambientato in un locale che ricorrerà spesso nella raccolta, diventando quasi un luogo occulto a causa della quantità di personaggi che si troveranno a subire la sopraffazione da parte delle loro versioni alternative. I toni da commedia nera si uniscono al gioco crescente di equivoci. In un assolo di rimandi alla personificazione del proprio doppio i protagonisti esploreranno la possibilità concreta che la vita alternativa immaginata possa materializzarsi assumendo aspetti non più così seducenti.
Lo studio della Oates è minuzioso e non si ferma a condurre il lettore sul filo dolceamaro del rimpianto. Passerà in rassegna anche i meandri di quanto il racconto della propria vita, il ripercorrere romanticamente momenti del passato, serva a proteggere una realtà molto diversa che forse dovrà rimanere sconosciuta. Si tratta della duplice esistenza prodotta da chi vive delle proprie memorie, come scoprirà l’anziano professore protagonista de La “Guida Blu”. Il viaggio in Toscana per rivivere i luoghi e la gloria della gioventù virerà sempre più in un testardo tentativo di autosuggestione. Il racconto lungo, nel pieno stile di un’autrice che spesso ama perdersi tra le maglie della storia, quasi come smarrita e senza via, centellinerà anche i dettagli più insignificanti portando la narrazione all’estremo, verso il conto alla rovescia di un’irrazionalità mossa da un’ossessione sempre più evidente.
Nonostante il filo comune delle possibilità mancate di un’identità metamorfica e di una vita alternativa, L’altra te è una raccolta dall’andamento sinusoidale per generi e scelte linguistiche, molto diversi, per esempio, dalla regolarità di Un’educazione sentimentale .
Ne La crepa un’incidente infantile diventerà un racconto dell’orrore provocando conseguenze imprevedibili per il futuro. Malattie misteriose, un passato di disastri ambientali fatto di frane, inondazioni e incendi, definiscono il mondo al limite della distopia di Peccatori nelle mani di un Dio adirato. Si tratta di uno dei racconti dalla sperimentazione più strana e riuscita perché riesce a unire inquietudini del presente in un futuro dove rammentare l’esistenza “di prima” si somma a una quotidianità sinistra, fatta di gioie fugaci, mascherine da indossare e morti inaspettate.

Senza che ci fosse il bisogno di parlare. Di comune accordo, senza parole, discorsi, senza che quasi ci fosse il bisogno di toccarsi, istintivamente cominciarono a evitare il giorno, ossia la luce – la luce del giorno. Era il conforto, il lenimento, l’oblio della notte a scorrere nelle loro arterie indurite e ad accelerare il battito dei loro cuori rinsecchiti come prugne.
Come in un tropismo rovesciato, ciascuno cominciò a ritrarsi dai bagliori diurni. L’uno all’insaputa dell’altra, cominciarono a bramare la notte con un appetito quasi sensuale.

Una citazione da Angoscia notturna chiarisce come nella seconda parte della raccolta si avverte un cambio di passo registrato dal mutamento stilistico e dalla costruzione di atmosfere che si servono di sprazzi di lirismo.
Tutte le premesse immaginifiche e alternative dei racconti precedenti qui assumono i contorni concreti di mancanze, cambiamenti inaspettati che hanno provocato un inevitabile scivolamento nella versione più oscura delle sliding doors. Ci sono momenti di luce, per quanto fuggevoli, che non potrebbero esistere senza l’imperversare di una tempesta. Non è la completezza a interessarci, è piuttosto la fallibilità di un investimento emotivo, la manchevolezza di un legame, il vuoto incolmabile dei ricordi. Crediamo al caso e vi affidiamo, a giorni alterni, più meriti del dovuto cercando di tamponare un’azione mancata. In fondo sappiamo che solo il dubbio di possibilità perse e di vite alternative deluse permette all’umano di esperire per cambiare e non solo per essere.

Nel paese delle donne selvagge, di Matsuda Aoko

Autore: Matsuda Aoko
Titolo: Sacrifici umani
Editore: Fazi
Traduzione: Gianluca Coci
pp. 240 Euro 17,00

Di Debora Lambruschini

 

Negli ultimi anni ho avuto il piacere di dialogare in diverse occasioni con Antonietta Pastore, scrittrice e traduttrice dal giapponese, profonda conoscitrice della cultura nipponica e persona gentilissima e generosa, da cui ho sempre imparato molto. Di recente ci siamo confrontate sull’ultima antologia da lei curata (Racconti del Giappone, Einaudi, qui l’intervista completa) e, fra le molte riflessioni interessanti, una mi è tornata in mente proprio durante la lettura dei racconti di Matsuda Aoko, Nel paese delle donne selvagge, in libreria per E/O: sottolineava Pastore come la cultura giapponese sia particolarmente fraintesa, specie nei suoi due elementi più simbolici – la geisha e il samurai – e di quanto la letteratura offra una chiave di interpretazione fondamentale:

Noto due modi di fraintendere la cultura giapponese. Uno consiste nel vederne solo i due aspetti stereotipati e contrastanti – da una parte il mito del samurai (coraggio, violenza), dall’altra quello della geisha e dei fiori di ciliegio (grazia, delicatezza) – che i media continuano tutt’oggi a rafforzare. Un altro fraintendimento è l’idea che i giapponesi siano persone fredde e anaffettive, un’impressione generata dal loro comportamento spesso rigido, da una facciata di impeccabile cortesia aldilà della quale è difficile intuire cosa si nasconda. Quando però si riesce a oltrepassare questa barriera, si capisce che in realtà i giapponesi sono molto sentimentali e partecipi della sofferenza altrui, e inoltre che sono persone capaci di grandi passioni – passioni che spesso sono costretti a soffocare per rispettare le convenzioni sociali. La letteratura aiuta a comprendere questi sentimenti profondi che spesso restano celati nel loro animo. Per fare un esempio, la scoperta dei grandi autori giapponesi – Natsume Sōseki, Taniguchi, Kawabata... – mi ha permesso di aprire una porta che senza la lettura sarebbe probabilmente rimasta chiusa. Dove avrebbero potuto trovare, mi sono chiesta, questi autori, tutte le emozioni e le passioni che mettevano in scena nelle loro opere, se non le avessero provate personalmente, se non le avessero constatate e riconosciute in altre persone?

Ho ripensato molto a quest’idea, a come la letteratura possa scardinare stereotipi e fraintendimenti, alla fascinazione verso una cultura di cui ne sfioriamo appena la superficie e i misteri che non potremo del tutto svelare; alla sovrapposizione nel nostro immaginario di una realtà fissata in un non meglio specificato passato, ma che si discosta dal mondo contemporaneo, dalle sue complessità e contraddizioni; alle contaminazioni, all’equilibrio fra tradizione e contemporaneità. E, come sottolineava Pastore, ho cercato una chiave di accesso affidandomi alla letteratura, alle sue voci contemporanee, nel tentativo di scalfire quella conoscenza di superficie, penetrarne il mistero. Matsuda Aoko è tra le autrici odierne più interessanti e apprezzate anche fuori dai confini nazionali, scrittrice e traduttrice i cui racconti hanno vinto o sono stati segnalati per prestigiosi premi, in Giappone e nel mondo anglosassone, e nel 2020 la raccolta Nel paese delle donne selvagge è stata inserita da Time nella lista dei dieci migliori libri di fiction dell’anno. Di recente è approdata nelle librerie italiane grazie alle edizioni E/O, nella puntuale traduzione dal giapponese a cura di Gianluca Coci, ad aggiungere un tassello molto importante nella delineazione del canone nipponico contemporaneo. A Coci senza dubbio il merito di aver maneggiato tanto abilmente un testo coeso, denso di rimandi interni e differenti registri e disseminando opportunamente qui e là alcuni termini ed espressioni lasciati in lingua originale – con rimando al sintetico glossario in appendice – che non appesantiscono affatto la narrazione ma, anzi, ne esaltano le atmosfere, allo stesso modo con cui non indugia troppo di frequente nelle note a piè di pagina. Di fronte a testi di questo genere credo dobbiamo accettare il mistero, quella parte della narrazione che non ci sarà mai pienamente svelata a meno di trasformarla in un’opera didascalica e rovinarne quindi la fruizione.
Matsuda Aoko compone quindi una raccolta molto compatta, in cui si rincorrono diversi intrecci narrativi, tesa fra tradizione e contemporaneità: elementi del folklore e della tradizione popolare giapponese sono lo spunto da cui l’autrice rielabora storie calate nel mondo attuale, in perfetto equilibrio, e che si aprono a ulteriori spunti e chiavi di lettura dati dalle complessità del contemporaneo. Alla realtà tangibile e ben nota, si intreccia il sovrannaturale, spesso nella forma degli yōkai, creature che assumono diverse sembianze, fantasmi, “mostri”, il cui ruolo è quantomai centrale negli sviluppi narrativi, nella definizione dei personaggi. Non esiste un confine netto tra realtà e sovrannaturale, un mondo si riversa nell’altro e a uno sguardo attento i vivi sono spesso consapevoli della presenza di questi “fantasmi”. Un confine labile o pressoché inesistente, al punto tale che all’interno della misteriosa fabbrica di incensi intorno a cui tutto ruota, esseri viventi e fantasmi lavorano fianco a fianco, i primi non sempre consapevoli della presenza degli altri ma consci del mistero che aleggia intorno a loro.
In narrazioni dal registro mutevole, in cui ironia e dramma si alternano spesso all’interno di uno stesso racconto, Matsuda Aoko tratteggia un mondo in cui quasi mai le cose sono quello che appaiono, il punto di vista e l’uso privilegiato della prima persona capace di ammaliare il lettore e condurlo alla sorpresa dello svelamento, inseguendo un racconto via l’altro. Storie autonome e autoconclusive, che nell’insieme rivelano tuttavia un quadro più complesso, la stratificazione di spunti e riflessioni con cui confrontarsi dentro e fuori la pagina.

Per mezzo dell’ironia, Matsuda Aoko compone una personale critica alla società patriarcale e a certe derive del capitalismo, tratteggiando problematiche come gli stereotipi di genere, le discriminazioni sul piano professionale, il ruolo delle donne nella società, che riecheggiano dal contemporaneo ad ambientazioni storiche: ne emerge un profondo desiderio di autodeterminazione dei personaggi femminili che ben si sposa con narrazioni concentrate sul cambiamento o, per meglio dire, sulla sua presa di consapevolezza, di cui forse non vedremo gli effetti compiuti ma ne intuiamo chiaramente la direzione e il potenziale. Le donne di questi racconti, dalla proprietaria di un piccolo negozio di complementi d’arredo, la giovane calligrafa, la moglie preda di una furiosa gelosia, al fantasma di una dama dell’epoca Edo o della custode di un castello, si confrontano con i limiti imposti dalla società patriarcale e una lunghissima tradizione di privilegi maschili. Che siano canoni estetici – come nel racconto d’apertura, “Farsi belle”, in cui la protagonista ossessionata dal desiderio di un corpo glabro si risveglia una mattina ricoperta di un pelo nero foltissimo e abbraccia la sua parte selvaggia, la nuova identità – , modelli di comportamento – il tanto stereotipato ruolo della moglie e madre silenziosa, assertiva, attenta – o scarti di opportunità professionali tra uomini e donne, è chiaro in quale direzione punti lo sguardo di Matsuda Aoko:

 

In teoria il testo [la legge sulle pari opportunità sul lavoro] affermava che bisognava garantire lo stesso trattamento e uguali possibilità a uomini e donne in ambito lavorativo, senza distinzioni di sorta. Ma all’atto pratico si trattava solo di un mucchio di vuote promesse. Di tanto in tanto alcune colleghe di Kuzuha osavano lamentarsi della situazione, ma sottovoce e soprattutto nel silenzio degli spogliatoi o di luoghi simili, quando erano sicure di non essere ascoltate dai colleghi maschi e dai superiori.
(“Vita di Kuzuha”, p. 114)

La critica sociale si realizza nell’ironia e in una sorta di pacata consapevolezza:

 

Scommetto che sei sorpreso, non è vero?, avrebbe voluto dirgli Kuzuha. Avevi immaginato qualcosa di molto diverso, ti avevano raccontato tutt’altro eh? Ma purtroppo oggi è così che va il mondo, e pensa che noi donne quel dannato soffitto [di cristallo] ce l’abbiamo sopra la testa da sempre e lo vediamo fin da quando siamo bambine, in ogni momento della nostra esistenza. Però in qualche modo abbiamo imparato a conviverci, e dovrai fare lo stesso anche tu.
(“Vita di Kuzuha”, p. 122)

 

Consapevolezza che non significa sottomessa accettazione ma, in molti casi, apre alla solidarietà, a un sottile ottimismo di fondo, all’aiuto più o meno esplicito tra donne, che siano esseri viventi o yōkai. Sono, per esempio, creature che instancabilmente difendono le donne in difficoltà, “fantasmi dei bimbi” che silenziosamente accorrono in soccorso di madri single preda del pregiudizio e della solitudine, ma anche, in direzione inversa, donne che intrecciano legami di intima amicizia e protezione con fantasmi vittime di morti violente, spesso per mano degli uomini o in qualche modo a essi collegate, o che chiariscono lo scopo della loro nuova esistenza da non vivi.

 

Continuava a fissare il nulla, come se vagasse disperata nei meandri della sua memoria nel tentativo di individuare il momento preciso in cui aveva intrapreso la strada sbagliata e il punto da cui, se mai fosse stato possibile, avrebbe voluto ricominciare.
(“Farsi belle”, p. 19)

 

E il cambiamento è il punto focale di queste storie, che sia la scoperta di sé stesse e dei propri desideri, l’autodeterminazione finalmente libere da stereotipi e ruoli prestabiliti, poco conta se ciò avvenga in vita oppure dopo:

 

Era come se tutte le ansie e le paure che mi avevano tormentata fossero scivolate via dal mio corpo in un solo attimo. La gente crede che i fantasmi siano sempre pieni di astio e risentimento, ma si tratta di un luogo comune. A dire il vero ero molto più rancorosa e arrabbiata quando ero viva che non adesso.
(“Ora sì che è uno spasso!”, p. 179)

 

Matsuda Aoko con questi racconti aggiunge un tassello importante nella costruzione di un rinnovato immaginario culturale e, come sosteneva appunto Pastore, attraverso la letteratura spalancare porte su un mondo complesso, ricco di fascino, stratificato, liberandoci da stereotipi e fraintendimenti.

Sacrifici umani, di María Fernanda Ampuero

Autore: María Fernanda Ampuero
Titolo: Sacrifici umani
Editore: gran vía
Traduzione: Francesca Lazzarato
pp. 148 Euro 14,00


di Beatrice La Tella

 

Che cos’è un sacrificio umano? Storicamente il termine fa riferimento all’atto di uccidere una o più persone, seguendo precise istruzioni rituali, in offerta propiziatoria a una o più divinità. Non c’è vendetta in un sacrificio umano, né giustizia, nessuna precisa espressione terrena riesce a contenerne la portata, nessuna legge può scandirlo al di là di un unico dogma: l’accettazione dell’ineluttabile. Forze terribili e potenti trascendono la comprensione e si può solo tentare di placarle, in una violenta ricerca di significato destinata a rimanere – almeno a livello razionale – insoddisfatta.
Che cos’è invece Sacrifici umani? Una raccolta di racconti della scrittrice ecuadoriana María Fernanda Ampuero, edita da gran via nella traduzione di Francesca Lazzarato, ma anche un piccolo, inquietante grimorio. Seconda incursione nella narrativa breve da parte di Ampuero dopo Pelea de gallos (2018) e i due libri di cronache non-fiction Lo que aprendí en la peluquería (2011) e Permiso de residencia (2013), Sacrifici umani è l’opera che la colloca in via definitiva tra le voci più importanti della narrativa latino-americana contemporanea.
Il volume è esile, si compone di dodici racconti che non superano il totale di centocinquanta pagine, ma sprigiona una grande potenza linguistica e narrativa. A farsene autentico proemio è la frase scelta come epigrafe: «Scrivere è anche benedire una vita che non è stata benedetta». La formula appartiene a Clarice Lispector, autrice che dell’assoluta intensità ha fatto la propria poetica, evocata in apertura da Ampuero come musa e nume tutelare.
I racconti di Sacrifici umani si concentrano su vite, appunto, tutt’altro che benedette. Protagoniste assolute sono figure che vivono ai termini ultimi della società: deboli, dimenticate, reiette, vittime per definizione e per definizione condannate al silenzio. È l’autrice a interrompere la maledizione e a restituire ai suoi personaggi la voce, la possibilità di esistere nel raccontarsi, sopravvivere osando pronunciarsi e così cercare forme inedite di riscatto. Le storie sono tutte vicende di marginalizzazione, spesso strutturata su più livelli. Per la protagonista del racconto Biografia, il torto da subire è doppio, in una dimensione di orrore crescente in cui può solo fatalmente avanzare:


Noi donne disperate siamo carne per il macinato. Noi immigrate, poi, siamo l’osso che si tritura per nutrire gli animali. La cartilagine del mondo. Nient’altro che cartilagine.

 

Altro riverbero del rifiuto investe le ragazze di Prescelte, giovani e libere ma non belle, non interessanti, non giuste, ragazze che sono soltanto esclusione e struggimento.


Volevamo, volevamo, volevamo. Eravamo puro desiderio. E pura collera. Sarebbe arrivato il giorno, sissignore, in cui tutti si sarebbero accorti di noi e avrebbero detto a chiunque fosse in grado di ascoltare: amatele. Amatele, l’ordine avrebbe percorso la terra» – in cui l’unica speranza di riscatto passa da un terrificante sabba necrofilo. O ancora le protagoniste di Sorellina, ciascuna con la sua condanna da scontare: «Le ragazzine grasse si nutrono di delusioni. Le ragazzine affamate si nutrono di impotenza. Le ragazzine solitarie si nutrono di dolore. E sempre, sempre, le ragazzine mangiano abissi.

 

L’abisso è un regno da incubo, humus fertile su cui germoglia ciascun racconto. Il culmine di ogni storia è in effetti una sorta di buia illuminazione, ascritta a differenti gradi di realismo: concreta come in Pietà, Edith, Lorena, in cui è più semplice trovare l’origine dell’oscurità (spesso incarnata da una figura maschile violenta o da una relazione malsana), o dall’impostazione più allegorica, in cui la narrazione si ibrida di elementi surreali costruendo una propria mostruosa mitologia popolare (come in Fischia) o si innesta su leggende ancestrali (come in Sacrifici). Ogni volta l’impatto è deflagrante, distruttivo, un’autentica riscrittura del mondo che si risemantizza alla luce della scoperta, di nuove indesiderate consapevolezze:

 

«In ogni vita ci sono momenti in cui si capisce tutto a un livello più profondo della propria capacità di comprensione. Le ossa capiscono, il grasso capisce, l’hamburger mezzo digerito capisce, il pancreas capisce, la bile capisce, le mucose, le membrane, i peli le unghie e ogni goccia di sangue capiscono. Capii che sotto certi aspetti i sentimenti sono simili alle infezioni: capaci di mandarti in cancrena da capo a piedi in pochi secondi, con una bocca grottesca che ti divora, un bagno interiore di mercurio, una palla di cannone. Se fossi morta me ne sarei andata sapendo che l’esistenza è puro orrore e che essere viva è puro orrore. E che quando lo sai, non puoi più non saperlo.

 

 Scoprire la tossicità dell’emozione, del relazionarsi all’altro – il sentimento come vox media, quel pharmakon che è rimedio e veleno al contempo –, scoprire l’orrore al cuore della vita si rivela l’unica epifania possibile.
In un mondo in cui «l’età dell’innocenza è l’età della violenza», i personaggi si muovono come vittime designate verso finali scritti da sempre, forse ancora prima che l’autrice li pensasse, perché la caratteristica cruciale della vittima è per definizione l’impossibilità di opporsi, avere come unico predicato possibile l’immolazione. A partire da questi presupposti Ampuero compone dodici racconti spietati, incastri di parole che non temono l’eccesso né l’anatema. È senza paura infatti che afferma, con tutta la lucida rabbia che serve: «Dio non ama, gli uomini uccidono, la natura fa piovere acqua pulita sui corpi insanguinati, il sole sbianca le ossa, un albero lascia cadere una foglia o due sul visetto irriconoscibile della figlia di qualcuno, la terra fa crescere robusti girasoli che si nutrono della carne livida delle scomparse». Eppure, ogni tanto, qualcosa accade, l’ingranaggio della sacertà e della condanna si inceppa. L’inatteso si insinua a scompaginare il designato, perché è questa una delle facoltà ultraterrene della narrazione: muri ciechi che diventano finestre, spalancare universi dove era possibile solo la fine, accogliere ciò che è terribile e incantarlo a nuovi significati.  

L’autrice realizza una raccolta composita, unita negli intenti e nelle tematiche ma variegata nella forma, nel genere, nel linguaggio. La prosa è attraversata da uno sperimentalismo vivo, ne è un esempio Biografia, col ritornello cadenzato che scandisce la storia «Guardatemi, guardatemi», in una continua richiesta di essere visti mentre si va incontro al più nero dei destini, in quello che è a tutti gli effetti un racconto di matrice horror; o ancora Sacrifici, composto soltanto da incalzanti linee di dialogo, mentre la coppia protagonista non riesce a smettere di litigare ignara di ciò che incombe su di loro; o Freak, in cui il pensiero spasmodico di due solitudini assolute che si uniscono in un ultimo gesto definitivo è scandito da soli verbi all’infinito, come un ossessivo elenco-componimento.
La vita si mescola a un paesaggio strabordante che, insieme ai personaggi, inghiotte la lingua per restituirla ora ricca ora scarna, a seconda di come l’autrice preferisce assestare il colpo, quanto vuole renderlo imprevedibile, quanto duro.
Cos’è dunque un sacrificio umano per María Fernanda Ampuero? È un momento selvaggio di scrittura – e, invocando ancora Clarice Lispector come sacerdotessa, apprendiamo che la scrittura è una maledizione, ma una maledizione che salva. È l’occasione di guardare fisso il buio lasciandosi trasformare, talvolta trovando insperate possibilità di consolazione nella ferocia.
«Splendevamo e ora siamo pieni di sangue», scrive Ampuero in un lampo di sintesi crudele.
Solo quando chiudiamo il libro ci rendiamo conto di quanto è accaduto: anche la scrittrice ha compiuto il suo rituale
.

 

Cane da petrolio, di Rick Bass

Autore: Rick Bass
Titolo: Cane da petrolio
Editore: Mattioli 1885
Traduzione: Silvia Lumaca
pp. 230 Euro 16,00

di Debora Lambruschini

E molti anni dopo, quando le loro vite erano già separate, aveva creduto che ci fosse qualcosa nel suono, negli armonici di quel fiume devastato, che si legava all’abilità che aveva Annie di amare e di provare piacere nel farlo, che liberasse qualcosa dentro di lei, trasformando, grazie a un’antica alchimia, la bellezza invisibile in bellezza manifesta.
(“Pagani”, p. 15)

 

Disclaimer o dichiarazione d’intenti: se è vero che una riflessione critica deve essere svincolata dallo sguardo soggettivo e dal sentire personale di chi la sviluppa, in certi casi ancorarsi al dato oggettivo diviene pressoché impossibile. Ecco, quindi, che non tenterò nemmeno di fingere: la mia lettura di Rick Bass si poggia su una stratificazione di letture, ricerche, studi accademici in area americanista, ma è soprattutto saldamente personale, emotiva. Perché proprio con i racconti di Bass? Che cosa c’è di diverso dalle altre innumerevoli letture e riflessioni sulla narrativa nordamericana? Le ragioni sono tutte nei luoghi evocati in questi dodici magistrali racconti, tradotti da Silvia Lumaca per Mattioli 1885 – che sta arricchendo il proprio catalogo con vere gemme letterarie di autori statunitensi, e in quella netta, seppur arbitraria, divisione che da sempre caratterizza la narrativa d’oltreoceano: lo spazio urbano, la città e, all’opposto, le piccole comunità, le terre selvagge, la natura. È nell’America rurale, nelle storie di provincia, nelle piccole città o nelle terre selvagge, che personalmente credo si muovano le voci più interessanti e oneste. Rick Bass è un autore dell’Ovest e, come tale, questo preciso ambiente ne pervade ogni pagina; l’ambiente in cui si muovono i suoi personaggi – città fantasma, il bayou, terre selvagge, piccoli centri – è parte integrante non della storia ma delle persone stesse, nella finzione quanto nella realtà. È in base all’ambiente che gli uomini e le donne di Bass – che costituiscono il vero centro nevralgico della riflessione letteraria – compiono le proprie scelte e vivono un certo tipo di vita, un quotidiano che talvolta appare lontanissimo per il lettore da questa parte del mondo, ma che diviene, nelle mani del narratore, così tangibile e vero da riuscire a percepirne gli odori, il ghiaccio o l’aria satura di umidità, le tradizioni, la vita tutta. Tra il Texas, Mississipi, Utah, Montana, le foreste e i laghi ghiacciati, il bayou e i serpenti, Bass dispiega le storie di questi uomini e di queste donne le cui vite sono tanto profondamente intrecciate allo spazio entro cui si compiono, in modi che altrove è difficile immaginare. Luoghi attraversati nella prima vita di Bass, ex geologo petrolifero, al centro oggi della sua riflessione ambientale e autoriale, membro di una piccolissima comunità con meno di quattrocento anime.

Cane da petrolio è composto da dodici storie fissate in un tempo dai contorni quasi sempre sfumati, un Novecento pretecnologico che contribuisce a creare l’epica della narrazione. Un’epica quotidiana, costruita mediante una narrazione in equilibrio tra l’asprezza del lavoro, delle condizioni ambientali, i silenzi, le profonde solitudini, e la parola che si fa ora lirica ed evocativa, ora asciutta e ruvida. È qui, nella stratificazione del testo, nei contrasti perfettamente intrecciati, che si compie il miracolo della scrittura, lo sguardo del narratore a raccontare uomini e donne a un passo da un cambiamento, da una svolta possibile, di cui non ci mostrerà gli effetti, perché non è quello che conta. Ciò che importa è raccontare quell’istante, il dubbio, il mutamento. Nel farlo, Bass tratteggia personaggi umanissimi e dolenti, tormentati dall’incertezza, talvolta dalla malinconia e dalla solitudine. In città semi deserte, in condizioni ambientali difficili, nel pericolo, nelle attese, nell’asprezza del quotidiano, sono le connessioni umane mancate o perdute a creare lo smarrimento più doloroso e tragico e quando le distanze sono colmate, ecco che per un breve attimo un lampo di luce irradia la pagina, la vita.
Centro nevralgico della narrazione, quindi, sono le relazioni umane, con le loro complessità, le attese e le mancanze. Spesso sono connessioni mancate, vite che si sfiorano appena ma non riescono davvero a intrecciarsi: la maratoneta e l’uomo ingaggiato per proteggerla dagli orsi durante gli allenamenti, l’intimità che si crea attraverso i corpi, i fuochi controllati, come loro (“Fuochi”); tre ragazzini, l’età incerta tra infanzia e adolescenza, la scoperta dei sentimenti e del corpo, con il timore del cambiamento, inevitabile

 

“Possiamo… si può…?” Restare gli stessi, voleva dire, ma non lo fece. […] E per un po’ furono tanto sciocchi, e tanto ottimisti, da credere che quella cosa non avesse importanza, che sarebbero potuti tornare nel vecchio posto, persino che il vecchio posto sarebbe stato meglio di qualsiasi altro nuovo posto futuro. (“Pagani”, p. 30)

 

O, ancora, storie del passato evocate durante un blackout, e l’attesa di un ritorno (“La storia di Rodney”); una comunità a prevalenza mormone, la nascita del sentimento, lo spazio ristretto delle possibilità e desideri futuri, la rinuncia (“Nel paese di Ruth”).
Il misticismo di cui sono intrise certe storie assume contorni onirici, sospese tra realtà e fiaba, a sostegno di una narrazione fatta di contrasti, dove talvolta è uno sguardo esterno a interrogarsi sul mistero delle relazioni:

 

C’era una completezza in lui che non si vede in giro molto spesso. Era amorevole e gentile con Amy, e io mi sono spesso meravigliato, nel corso degli anni in cui ci siamo frequentati, di come sembrava sempre pensare a lei, di come ogni suo gesto sembrasse sempre essere dettato da ciò che pensava avrebbe potuto farle piacere. Ed ero impressionato anche dai modi semplici e rilassati che aveva con lei. Quand’erano insieme sembravano sempre una giovane coppia: inviolati dal mondo,
e freschi come quel pane.
(“Cigni”, p. 199)

 

Ma il mondo, la vita, questo spazio lo viola, si insinua nelle esistenze di Amy e Billy, rompe l’equilibrio costruito e si insinua nella loro casa ai margini del bosco, pervasa dal calore dei tanti focolari accesi, dalle note del piano costruito per lei sulle sponde del lago dei cigni e che attraversano il bosco, fino ad altre case, altre vite, più solitarie, meno esposte al dolore. Anche stavolta, Bass ci mostra la frattura, l’attimo che precede il cambiamento, di cui intuiremo forse le conseguenze, le scelte da compiere; ma è tutto in quell’istante il fulcro della narrazione, la sua stessa esistenza. “Cigni” ha i contorni della fiaba, sospesa in un tempo antico, ma è la vita reale, come il matrimonio, a essere evocata. Della realtà del matrimonio, delle pieghe dei giorni, degli spazi delle relazioni, Bass indaga le fragilità, in “Cigni” come, per vie diverse, nella storia di un vigile del fuoco volontario che solo nelle pause dalla vita quotidiana ritrova sé stesso e le ragioni per non arrendersi:

 

Sembrerebbe il racconto di una fiaba: un matrimonio felice. […] Uno di quei rari matrimoni, più raro di un gioiello o di un bosco, che veniva salvato da una combinazione di forza interiore e di grazia e da una serie di coincidenze esterne e fortuite – il mondo che va a fuoco.
(“Il vigile del fuoco”, p. 173)

 

C’è dentro questa storia uno spazio di riflessione che in apparenza svicola dal tema cardine del racconto – la storia di un matrimonio – ma che scava dentro il lettore: è il cuore diviso del protagonista e il fragile equilibrio su cui costruisce il rapporto con la figlia avuta da una prima relazione; un fuoco che divampa dentro di lui, lo strazio delle ripetute separazioni dopo ogni visita concordata, la paziente attesa, il cuore a pezzi da tenere celato.
Sono le parole non dette, in molti casi, a costruire la narrazione, a creare solitudini o proteggere chi amiamo; nelle terre selvagge, tra città che stanno scomparendo, il passato che si incastra al presente, entro gli spazi ristretti di piccole comunità di provincia, Bass costruisce la sua epica quotidiana con dodici storie che si collocano perfettamente in una tradizione di cantori dell’America rurale: Kent Haruf, Larry McMurtry, Lorrie Moore o, ancora e di diversa natura, Chris Offutt, Annie Proulx, Eudora Welty, per citarne alcuni. È qui che affonda le radici la voce letteraria, unica e possente, di Bass, che accoglie la tradizione e la rinnova. Le sue storie non sono immediate e come ogni forma breve richiedono uno sforzo a noi lettori, un’immersione totale, emotiva anche, per accoglierne la polifonia, le occorrenze, i contrasti, gli spunti. Ne riconosciamo la bellezza, il valore letterario, appena fatto un passo indietro, qualche momento dopo la lettura. Ed è proprio da qui che ci appaiono in tutta la loro straordinaria quotidianità.

Io, lui e Muhammad Ali, di Randa Jarrar

Autore: Randa Jarrar
Titolo: Io, lui e Muhammad Ali
Editore: Racconti Edizioni
Traduzione: Giorgia Sallusti
pp. 211 Euro 16,00

di Anna Lo Piano

 

C’è una cosa che mi preme dire sulla scrittura di Randa Jarrar, prima di ogni altra cosa: è incredibilmente divertente.
Se leggerete i racconti contenuti in Io, lui e Muhammed Ali, pubblicati da Racconti edizioni con la traduzione di Giorgia Sallusti, ve ne accorgerete subito.  C’è una voce narrante che ti aggancia a ogni frase, incipit fulminanti e battute che ribaltano i momenti di massimo sconforto.

 

Il vicinato si beccò la sua prima dose di Qamar nell’estate del suo nono compleanno, quando decise di restare seduta sul tetto del suo appartamento di Alessandria per dieci giorni aspettando che la luna scendesse da lei.

 

Le macchine schizzavano via sotto di loro, e Hilal ebbe l’impulso di saltare, per creare un grazioso motivo sull’asfalto di sotto.

(da L’Eclisse dei lunatici)

 

Ma c’è soprattutto il gusto della narrazione, di trame costruite, di elementi che ritornano e fanno da impalcatura, di intrecci e sospensioni che ti spingono ad andare avanti per sapere cosa succederà.  E no, non tirerò fuori il paragone con Sharazade, anche se l’identità araba è al cuore di tutti i racconti, e Jarrar evoca esplicitamente, per poi sovvertirla, la tradizione letteraria alla quale appartiene.
Non è un caso, quindi, che il riferimento a Le Mille e una Notte apra la raccolta, con l’atmosfera a metà tra favola e iperrealismo del già citato Eclisse dei lunatici, i cui protagonisti, in una storia che parla di luna, non possono che avere i nomi di Qamar (luna, che in arabo è maschile ma è dato alla ragazza, in un rovesciamento di generi) e Hilal (spicchio di luna).
In Persa nella maledetta Yonkers, che ha un ritmo da hard-boiled, la protagonista deve fare i conti con le reazioni della famiglia alla notizia che è rimasta incinta fuori dal matrimonio. Tutta l’americanità conquistata va in frantumi, e il padre, che da bravo stereotipo ha “citato poesie in ogni singola occasione speciale”, decide di farlo anche stavolta, e invece di affrontarla in modo diretto le manda un biglietto con dei versi di Mahmoud Darwish.

 

«Mi hai mandato una poesia?» ho detto. «Io sono incinta e tu mi citi Darwish?» Stavo tremando.

«Sei tu quella incinta, che cazzo. Chi ha il diritto di essere furioso? Non tu, mia cara.»

Era definitivo. Bambino = niente famiglia = niente soldi per il college = sono morta. Niente bambino = di nuovo in famiglia. Non mi è mai piaciuta questa famiglia, comunque, perciò scelgo il bambino.

 

Ma la suggestione letteraria che più mi ha colpito si trova in Ragazze in costruzione quando la protagonista, che ha sempre vissuto nello stesso vecchio palazzo sul mare, vicino ad Alessandria, si reca al mercato per conto dei vari inquilini, e passa davanti al banco dei libri.

 

Ho pedalato davanti al libraio esaminando velocemente copertine e titoli; tutti i libri erano su un uomo che viaggia molto lontano per studiare, torna in patria e decide che è quello il posto a cui appartiene. Durante l’inverno li leggo per noia e in tutta onestà devo dire che preferisco piantare fiori o annaffiare il banano o perfino farmi fischiare dietro da uomini sdentati invece che leggere quella roba.

 

Azzardo, ma non credo di sbagliarmi trovando qui un riferimento a un caposaldo della letteratura araba del novecento, ovvero il romanzo Stagione della migrazione a nord del Sudanese Tayeb Salah. Uscito alla fine degli anni ’60 e tradotto in più di trenta lingue, questo libro - bellissimo - ha segnato una sorta di spartiacque nella auto-rappresentazione degli uomini arabi in relazione con l’occidente. Il protagonista è un viaggiatore, ma la storia, contrariamente alla tradizione della rihla, del resoconto di viaggio, si focalizza sul suo ritorno. Il villaggio è visto come il ventre materno in cui rientrare per ritrovare se stessi, in opposizione alla freddezza del nord. Ma questa polarizzazione semplicistica dei due mondi è messa in crisi da una figura misteriosa: Mustafa Said. Come il narratore, Mustafa ha vissuto diversi anni all’estero, durante i quali ha vissuto una doppia vita, trasformandosi da rispettato economista a sensuale e istintivo predatore di donne, che seduce al punto di portarle al suicidio. Tornato al villaggio, i fantasmi del passato continuano a tormentarlo, estendendo la propria ombra anche sul resto degli abitanti. È come se l’esperienza del nord gettasse una nuova luce anche sul sud, come se l’incontro tra i due mondi non potesse che risolversi in un gioco di potere e sottomissione tra colonizzatori e colonizzati, tra seduttori e sedotti. Ma appunto, sembra dirci Jarrar attraverso una protagonista che è solo nominata per procura come Mamma di Saida, e che è sempre rimasta nel luogo in cui è nata, qui non stiamo parlando di migrazione, o almeno non di quella migrazione che ha raccontato una letteratura scritta da certi uomini in un certo tempo. Qui, adesso, non c’è un paese a cui tornare, casomai vari paesi da portarsi dietro, proprio come fa l’autrice.

Randa Jarrar, nata a Chicago nel 1978 da madre egiziana e padre palestinese, fino ad ora ha pubblicato tre libri. Il primo romanzo, a Map of Home, del 2008, le è valso l’ Arab American Book Award. Uscito in italiano per Piemme nel 2010 con il discutibile titolo de La collezionista di storie, è il racconto in prima persona della ragazzina Nadali, (la lottatrice) che è costretta a cambiare ogni volta paese insieme alla sua famiglia, senza poterne mai chiamare uno veramente “casa”.  La raccolta Him, Me, Muhammad Ali è del 2016, mentre è dell’anno scorso Love Is an Ex-Country, ancora inedito in Italia. Sebbene solo quest’ultimo si dichiari esplicitamente un memoir, la componente autobiografica è fortissima in tutti i suoi scritti. Leggendola mi viene istintivo accomunarla a quella tendenza recente di autori e autrici arabi di graphic novel nati negli anni ‘70 e ‘80 di cui ho parlato già in questo articolo, di usare l’autobiografia come dispositivo per raccontare un’intera generazione di giovani stretti nelle maglie della storia, della guerra e dello scontro tra mondi. Jarrar usa le parole al posto delle immagini, ma ritrovo lo sguardo in soggettiva, il sarcasmo e anche una certa leggerezza nel trattare i temi più oscuri. Se la narrazione è quasi sempre in prima persona, le voci sono però diverse. Nei racconti di Io lui e Mohammed Ali appartengono per la maggior parte a donne, ma ci sono anche due uomini, un animale, e una creatura a metà: sopra donna, sotto stambecco.
Ai due uomini sono affidati i racconti più politici, che hanno a che fare con i recenti avvenimenti storici. In Storia del mio palazzo, la situazione di Gaza è affidata al racconto del ragazzino Muhannad, con un’altra evocazione letteraria non priva di implicazioni, visto che si tratta di Storia della mia colombaia di Isaak Babel, che parla di pogrom, di fughe e di rifugi. È il padre di Muhannad, traduttore dal russo, a leggere davanti a tutti la fine, e il racconto si chiude con una frase che è un calco esatto di quella, cambiano solo i nomi.

 

E così andai con zio Fawzi nel suo palazzo, dove i miei genitori, scappati dal bombardamento, avevano trovato rifugio.

 

In Una cornice per il cielo, le guerre a ripetizione che hanno devastato il Medio Oriente sono raccontate attraverso i giorni peggiori della vita del protagonista.

 

Il terzo peggior giorno della mia vita è stato il 21 luglio 1991: ero in una stanza d’albergo a New York, in attesa di una telefonata del mio vecchio capo in Kuwait. Mi ricordo che il sole stava calando nel cielo limpido d’estate, con i suoi raggi che si insinuavano attraverso le persiane. Avevo speso gli ultimi soldi per venire qui ad assicurarmi un discreto progetto per la nostra società di architettura in Kuwait, perché il Kuwait era stato appena «liberato» e gli iracheni erano stati cacciati via.

 

Le protagoniste, invece, che vivano in Egitto o negli Stati Uniti, rappresentano le diverse possibilità di incarnazione della stessa donna sarcastica, disincantata e molto sola, che sia o meno accompagnata. Anche quando sono madri, queste donne sono soprattutto figlie, perché i loro genitori sono un bagaglio che si portano dietro anche quando fuggono a chilometri di distanza. C’è tanta famiglia in questi racconti, con discussioni e delusioni e riappacificazioni. Ci sono abbandoni, madri che fuggono o vorrebbero cose impossibili dalle loro figlie, padri con i quali si continua a lottare fino alla fine. E sorelle/amiche che improvvisamente appaiono molto lontane.

 Dopo le stagioni delle migrazioni, in cui si abbandonava la propria patria e la propria famiglia per ritrovarsi soli in terra straniera, le seconde e terze generazioni vivono la stagione della migrazione interiore, da un paese all’altro della propria identità. Ci si porta dietro il passato, la genetica, le frasi pronunciate e installatesi in testa, i pregiudizi di ogni cultura o sottocultura con cui si ha a che fare. L’identità è un mosaico, o meglio un puzzle, in cui I pezzi non sempre si incastrano.
E forse per questo in molti racconti, come nel romanzo, ritorna il tema della bambola, alter ego compatto e inerte delle protagoniste.
Ci vuole una figura artefatta, composita, per raccontare un’identità multipla, e infatti l’ultimo racconto, che ha come protagonista Zelwa la mezza, per metà donna e per metà stambecco transgiordano, riesce a riassumere in maniera esemplare cosa vuol dire essere musulmana in un paese cristiano, non proprio nera ma neanche proprio bianca, troppo queer per gli etero, troppo blasfema per i musulmani,  troppo americana per gli arabi.

 

Quando ho chiamato mio padre per dirgli che mi piacevano gli uomini e le donne, ha attaccato a gridare così forte che sono stata mezza sorda per una settimana. «Non ti bastava essere una mezza? Devi pure essere mezza gay e mezza etero?»

 

Zelwa fin da piccola cerca di sovrapporre le sue foto a quelle della Barbie, e immagina un futuro di interezza, ma si deve scontrare con la realtà. Certo c’è un dottore che fa queste magiche operazioni che rendono totalmente umane, ma ne vale la pena? Non rischierebbe allora di perdere il suo sguardo unico sulle cose?
Non vi dico come va a finire, ma sappiate che il finale è uno dei più struggenti che abbia letto ultimamente. Quindi vi invito a leggere la storia di Zelwa la Mezza, e anche di tutte le altre.

Primo amore e altri affanni, di Harold Brodkey

Autore: Harold Brodkey
Titolo: Primo amore e altri affanni
Editore: Fandango
Traduzione: Grazia Rattazzi Gambelli
pp. 164 Euro 17,00


di Debora Lambruschini

«Dove sono le finestre? Da dove entra la luce?»

Lettori di racconti, riflettiamo su queste domande di Yates ogni volta che ci avventuriamo in una storia, cerchiamo la finestra da cui possa penetrare la luce a illuminare la stanza, a mostrarci la verità che contiene, la polvere, gli angoli rimasti in ombra. L’onestà con cui Yates scandagliava le relazioni e le vite dei suoi personaggi per restituirle sulla pagina in tutta la loro verità brutale, infilando un po’ di sé stesso e del proprio sentire fra le pieghe, mostrandoci quell’umanità dolente e ammaccata: è lì che nasce in noi l’ossessione per la prosa di Yates, è lì che modelliamo il nostro gusto, il metro con cui misuriamo tutte le altre storie, anche quando molto diverse e distanti. Un’onestà molto simile l’ho sempre trovata in un altro gigante della narrativa statunitense, Harold Brodkey, che a neanche trent’anni era già considerato la grande promessa della letteratura americana, caricato dal critico Harold Bloom del titolo di “Proust d’America”. Scomparso a poco più di sessant’anni, malato di Aids. Ma con una promessa mantenuta.

Quella pressione era arrivata con la prima, meravigliosa, raccolta di racconti, “Primo amore e altri affanni”, dieci storie di cui la maggior parte già apparse negli anni precedenti sulle pagine del New Yorker – di cui è stato oltre che autore anche redattore – e che gli avevano portato il successo di critica e pubblico tanto in patria quanto all’estero. La carriera letteraria avviata, la scrittura, l’insegnamento, il periodo in Italia in una residenza per artisti, i riconoscimenti. Poi, la vita era tornata a chiedergli il conto: nel 1993 la scoperta della malattia: l’Aids. che negli anni Novanta non era una malattia con cui si poteva convivere e nemmeno parlarne pubblicamente, specie se eri un personaggio di spicco nella scena culturale. Brodkey, non ascoltò i consigli di chi gli suggeriva il silenzio, lo dichiara pubblicamente, lo raccontò dalle pagine del New Yorker stesso: una lunga lettera ai lettori, che sarà poi quel libro meraviglioso, doloroso e pieno di luce che è This Wild Darkness, in italiano Questo buio feroce. Storia della mia morte, (Fandango), uscito postumo. Brodkey omaggiava la vita, pur ripercorrendo con limpida onestà momenti oscuri del proprio passato – gli abusi del patrigno, l’omosessualità irrisolta – per aprirsi alla grazia, alla bellezza di una vita piena, benedetta dalla scrittura e dall’amore. È il commiato di un uomo dalla vita, di uno scrittore dal suo pubblico, che apre uno squarcio su una malattia così profondamente equivocata, taciuta, intrisa di vergogna e senso di colpa. In mezzo, un corpus letterario composto di tre raccolte di racconti, due romanzi, quel memoir e poco altro, ma sufficiente a consacrarne il talento.

Non so se il nome di Harold Brodkey sia nel momento in cui scrivo, qui in Italia, realmente noto al grande pubblico, se circoli davvero fuori dal mondo accademico e letterario o se, come Yates, ci vorrà qualche anno ancora per farne una leggenda. In patria Brodkey è parte del canone fin dagli esordi, i suoi racconti presenti nelle antologie, nei corsi di studio e, soprattutto, negli scaffali dei lettori che continuano a leggere le sue storie, capaci di superare la distanza temporale grazie all’universalità di certi stati d’animo, la lingua tesa ora scarna ora ricchissima, le immagini vivide, le metafore, la fotografia di un momento preciso.


Pubblicata per la prima volta in Italia da Fandango – dopo una prima edizione Bompiani del 1962 e una rara Serra e Riva dell’88 – la raccolta Primo amore e altri affanni è tornata da poco in una nuova edizione per lo stesso editore, nella traduzione di Grazia Rattazzi Gambelli. È il punto di partenza naturale per scoprire Brodkey e bastano una manciata di pagine di questi dieci racconti per rendersi conto di quanto straordinario fosse il talento di questo autore, reso dalla traduzione di Rattazzi Gambelli attenta a preservarne l’immediatezza e la prosa asciutta contrastata dagli slanci lirici, dagli aggettivi e dalle metafore puntuali, in un equilibrio ideale.

 

Pensava a quel che doveva essere innamorarsi, adorare una ragazza e mettere la propria vita ai suoi piedi. […] il nocciolo degli eventi era una certa emozione che gli era estranea e verso la quale aveva, molto probabilmente, un atteggiamento troppo razionale. Perciò se ne stava sui gradini della biblioteca così sconvolto dall’inquietudine che soltanto la forza di gravità sembrava riuscisse a tenerlo insieme. (“Educazione sentimentale”, p. 91)

 

Verso la traduzione o meglio, a chi ne è l’artefice, Brodkey ha sempre avuto come altri un debito particolare ed è stato in passato grazie a Delfina Vezzoli – per non dire di Fernanda Pivano e altri contemporanei – che nel nostro Paese si è portata l’attenzione su questo americano dalla voce fresca, che rifiutava di adattarsi alla moda imperante di riscritture in stile Hemingway e a un certo tipo di minimalismo. Un debito ripagato dai lettori che una volta avvicinati alle storie di Brodkey ne restano ammaliati: dalla semplicità, dalla trama pressoché inconsistente, dalle inquietudini e dalla vulnerabilità dell’adolescenza, dalle difficoltà della vita famigliare e delle relazioni.

La finestra da cui entra la luce che illumina il quotidiano, le pressioni – matrimoniali per le donne, di carriera e successo per gli uomini – e le insicurezze in un continuo scambio fra invenzione letteraria e spunto autobiografico, mentre i personaggi si rincorrono da una storia all’altra pur mantenendo intatto il senso compositivo di ogni singolo racconto, fotografando per il lettore istanti diversi delle loro vite, dominati da inquietudini simili.

 

Guardando indietro, adesso, penso che fosse la loro veemente pressione a spaventarmi; dovevo diventare ricco e famoso e dare così significato e valore a tutte le loro tribolazioni. Ma io non volevo quella responsabilità. In ogni caso, se ero veramente destinato a diventare quello che volevano diventassi e se dovevo essere quello che ero, era aspettarsi troppo da me che li accettassi così com’erano. Dovevo superarli e disprezzarli, ma prima dovevo essere con loro e questo non era giusto.
 (“Lo stato di grazia” p. 13)

 

La responsabilità di concludere un buon matrimonio o avere successo, per risollevare le sorti della famiglia, garantire una posizione e un futuro e riuscire finalmente a soddisfare il «bruciante desiderio di risalire la cresta sottile del prestigio sociale» che consuma le madri di queste prime storie. Ma la pressione e le aspettative famigliari alimentano i dubbi, le insicurezze, la confusione di un’età già incerta, il dovere che si scontra con il desiderio di libertà; da un lato sfocia nella convinzione di non meritarsi l’amore senza il successo, dall’altro nella tensione fra identità e aspettative:

 

Nella primavera dei miei sedici anni, quello che più desideravo al mondo era di riuscire a essere qualcuno, da grande. Non sapevo che ci potesse essere altro modo per farsi amare.

(“Primo amore e altri affanni”, p. 33)

 

Il racconto Primo amore e altri affanni è un capolavoro, una storia densa di spunti ed efficacemente costruita, che si consuma per lo più fra le mura domestiche: tra le attese del telefono che suoni per la proposta di matrimonio che svolterà le vite di tutti, gli ammonimenti severi della madre, la sua freddezza e distanza, la resa e la rinuncia.

 

Giocando con la collana, ruppe il laccio e le perle rotolarono a terra spargendosi per tutto il pavimento; c’era qualcosa di folle nel modo in cui si diede a recuperare le piccole rotolanti gocce di luce. Capii che non sapeva quel che stava facendo; non era poi così sicura di tutto come sembrava. Fu difficile e penoso arrivare a questa conclusione, che si fissò in me profondamente.

(“Primo amore e altri affanni”, p. 50)

 

Ancora, nella confusa costruzione di un’identità emotiva, nei sentimenti difficili da comprendere quando mancano appigli. E allora non resta che rifiutarsi di amare, negare il sentimento a chi già ne possiede abbastanza insieme a tutto il resto. Per poi pentirsi e gridare al sé stesso di tanti anni prima «Amalo maledetto idiota! Amalo!» anche se forse è tardi e qualcosa si è spezzato.

Queste storie sono inquiete, attraversate dalle insicurezze di sentimenti nuovi che non si è capaci di affrontare, gli assoluti dell’adolescenza, i dubbi e le possibilità. L’amore, certo, ma anche l’amicizia, fra dipendenza e distacco, l’altro attraverso cui scoprire sé stessi. L’amicizia è totalizzante, è uno scudo grazie al quale affrontare il mondo e sentirsi finalmente riconosciuto, legittimato, un «esule meno a disagio». Lasciare tutto, per un’estate, deludere le aspettative famigliari e seguire l’amico per vagabondare nella vecchia Europa che porta ancora i segni della guerra, riempiersi di vita e di bellezza, per poi scoprirsi distanti, insofferenti l’uno all’altro. Una consapevolezza che pare annientare:

 

Le ombre, azzurre, liquide, si andavano addensando sulla spiaggia. E noi eravamo lì, noi due, con tutte le nostre paure e i nostri difetti, con tutte le speranze alle quali non credevamo realmente, e i nostri insuccessi; eccoci lì, diciannove e venti anni. […] Ascoltavo Duncan e il lontano grammofono e come in sogno lo scrosciare delle onde e sapevo che avrei superato la prova della mia giovinezza e sarei stato perdonato.

(“La lite”, p. 90)

 

È nel tratteggiare quel momento fra infanzia e adolescenza che la scrittura di Brodkey appare in stato di grazia, onesta e brutale nel raccontarne le pieghe, le increspature sulla superficie; ma forse basta anche osservare meglio i personaggi che gravitano intorno e condizionano le vite di questi bambini e ragazzi – le madri, le sorelle maggiori – per intuire quanto profonda sia la conoscenza del cuore umano, delle sue ambiguità e debolezze, della vulnerabilità che ci portiamo dentro. Che sia la madre che tenta disperatamente di risalire la scala sociale e assicurare a tutti loro un futuro dignitoso, algida e controllata all’esterno, ma nascondendo tumulti dentro lo sguardo; oppure la ragazza davanti allo specchio, divisa fra l’assecondare ciò che le è stato insegnato e conseguire un buon matrimonio celando sé stessa dentro un’apparenza di rispettabilità, o mostrarsi fasciata in un abito nero e rifiutare le convenzioni.

Ecco, forse Harold Bloom gli ha fatto un torto definendolo il Proust d’America, che certi paragoni soprattutto possono diventare una zavorra; quel che credo sia evidente, però, al di là dei paragoni, al di là dei riferimenti e della, forse, superflua definizione di canone, è  che se siamo bravi abbastanza possiamo «uccidere i maestri» e permetterci di essere solo noi stessi e la nostra voce. Se sei Harold Brodkey, almeno.

 

Gli occhi di mia madre erano incomprensibili: un palcoscenico buio sul quale venivano rappresentate indistinte scene di folla, e tutto quello che uno poteva percepire era tumulto e dramma, né aveva importanza quanto durasse l’attesa; le luci non si accendevano mai e la scena non veniva mai spiegata.

(“Lo stato di grazia” p. 16)

Chiamatemi Esteban, di Lejla Kalamujić

Autore: Lejla Kalamujić
Titolo: Chiamatemi Esteban
Editore: Nutrimenti
Traduzione: Elvira Mujčić
pp. 112Euro 16,00

di Giordana Restifo

«Non alla terra
né al volo delle foglie
somigliano i morti
in autunno
ma al dolce fallire dell’estate
».
Chandra Livia Candiani – Bevendo il tè con i morti

 

È paradossale che in alcuni scritti si possa trovare la locuzione “stagione di guerra”, come fosse un calendario di eventi al teatro e noi ce ne stessimo, comodi, sulle poltrone ad ammirare e seguire lo spettacolo. Non solo. È paradossale riferirsi in tal modo a conflitti che durano per mesi, anni, mentre le stagioni cambiano e si ripetono e intanto le città e gli esseri umani vanno a fondo senza avere la certezza di una risalita, come successe nei paesi appartenenti all’attuale ex-Jugoslavia in quei tragici anni tra il 1991 e il 1999.
Esistono almeno due generazioni di autrici e di autori (come anche di registe e registi), nati in quella che era la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, la cui vita è stata in qualche modo sconvolta dalla guerra. Bozidar Stanišić, Azra Nuhefendić, Miljenko Jergović, Dušan Šarotar, e ancora Marina Lalović, Tatjana Dordević Simić, Elvira Mujčić, Lejla Kalamujić, sono solo alcuni. La dissoluzione del grande Paese coeso, unificato dal governo di Josip Broz Tito, ha lasciato un solco profondo nella popolazione jugoslava (artisti inclusi); sia in chi, al tempo, era adulto sia in chi era adolescente, sia in chi è partito durante la guerra, o poco dopo, sia in chi è rimasto a convivere da vicino con i propri e altrui fantasmi. Non l’età anagrafica né il domicilio ma il confronto con le radici, l’identità e la disgregazione, dopo anni di elaborazione, ha influito sulla letteratura balcanica degli ultimi decenni.

Sul filo di una dolorosa ricerca ontologica e genealogica («Tu chi sei? Di chi sei?»), provando a tracciare una linea netta tra Guerra e Pace, Dio e Tito, Estate, Autunno, Inverno e Primavera, si muove la protagonista di Chiamatemi Esteban di Lejla Kalamujić, edito nel 2015 da Dobra knjiga, Sarajevo, con il titolo Zovite me Esteban, finalmente tradotto in italiano da Elvira Mujčić e appena pubblicato da Nutrimenti.
I ventidue racconti che compongono l’opera sono inscindibili e tracciano un unico percorso narrativo legato alla figura eterea della madre morta prematuramente, quando la voce narrante, Lela o Leli, che si fonde verosimilmente con quella dell’autrice, aveva solo due anni, il 20 agosto 1982. Alcuni sono onirici, altri più realistici, in tutti è presente la traccia del genitore perduto, più lieve o più marcata: «Dentro di me non esiste il ricordo di mia madre, lei è soltanto il racconto sacro della genesi e del rifugio ancestrale».
Di lei sono rimasti solo alcuni oggetti (il diploma, un accappatoio, la fede nuziale, il libretto del partito e la macchina da scrivere), storie e aneddoti, ai quali si affida la memoria. E non importa se alle volte risultano incongruenti tra loro perché, come si legge nel racconto Cos’è per me la macchina da scrivere, «il sacro non si tocca, nel sacro si crede». 
Mentre la protagonista cresce, tra il vuoto abissale lasciato dalla scomparsa della madre e i ricordi alcolici del padre («Il nome di mia madre profuma di alcol», dal racconto Invano provi a svegliarla), il paese cade a pezzi, il mondo e i confini mutano; tutto, attorno e dentro di lei, si disgrega. Si ritrova ad affrontare grandi cambiamenti sociali e personali, come il “tradimento” nei confronti dei nonni che l’hanno cresciuta, Safeta e Nedzad, Boro e Brana, la loro perdita, gli spostamenti da Sarajevo, la sua città, a Šid, cittadina serba in Vojvodina, e viceversa (così accade anche di vedere la «prima neve di guerra lontano da casa», dal racconto Il deserto bianco).

 

Il tradimento è una ferita pericolosa. Difficilmente guaribile. Lo so oggi, dopo anni di terapie più o meno riuscite. Oggi, l’estate è mia. Pure l’autunno è mio. Dio e Tito sono miei. Guerra è mia. Anche Pace lo è. E miei sono l’inverno e la primavera. Tutto è mio. Ora che non ho più nulla.

 

Gli anni passano, la guerra è finita lasciando macerie e brandelli di esistenze scarne, e lei non smette di rievocare sua madre, nata Snezana (Biancaneve) e morta in estate. La incontra nei suoi sogni lucidi, in una dimensione così suggestiva e, insieme, ordinaria che sembra reale; fumano insieme, discutono, i loro sguardi e le loro mani si incrociano, si stringono. Annotare per non dimenticare, come la figlia di Dj. M. del racconto di Danilo Kiš (L’Enciclopedia dei morti, Adelphi, 1988).
La protagonista si cala nei panni di Esteban, defunto personaggio de L’annegato più bello del mondo di Gabriel García Márquez, immagina sua madre che la bacia e la accarezza mentre piange e veglia la sua morte in riva alla spiaggia; prova a immedesimarsi anche in Esteban, il figlio di Manuela (dal film di Pedro Almodóvar, Tutto su mia madre, del 1999), che avrebbe voluto scrivere un romanzo su sua madre e invece viene investito nel giorno del suo compleanno, fradicio a causa della pioggia e con il suo taccuino in mano. A lui sopravvive, devastata, Manuela. Ed è chiaro, in questo racconto (Chiamatemi Esteban, che dà il titolo all’intera opera) più che in altri, l’intento di chi narra, il gioco delle parti che produce domande ipotetiche esistenziali: e se invece di mia madre fossi morta io? Come sarebbe andata? Cosa sarebbe successo?
Al contrario di Esteban, però, lei è viva e, come suggerisce a Snezana alla fine del dolce e straziante Se t’avessi incontrata, forse un giorno scriverà un racconto sulla sua morte.

Nei racconti di Lejla Kalamujić non mancano, come si è potuto notare da quelli già citati in precedenza, diversi riferimenti mirati: cinematografici, dal regista Georges Méliès al bosniaco Hajrudin Krvavac; musicali, da Sofka Nikolić, «la più grande cantante del regno della Jugoslavia», a Laurie Anderson con la sua The beginning of Memory, dal musicista sarajevese Drazen Ričl a una significativa canzone dal titolo Nevica di nuovo, Snezana (Sneg je opet Snezana, del cantante serbo Šaban Šaulić). Abbondano anche i richiami letterari, come nelle conversazioni fantastiche con Kafka e con Elizabeth Bishop, o i richiami a William Faulkner («Fuori l’urlo e il furore. Lo scirocco è arrivato a Sarajevo») e a Il primo uomo di Albert Camus.
In Una preghiera per Elizabeth il lettore ha la conferma che per poter far fronte a dei grossi traumi, come quelli subiti, la protagonista ha bisogno di seguire una terapia e incontrare una dottoressa, la quale «A volte si fa trasportare e dice che dovrei pensare meno alle loro ossa che nutrono la terra e di più alle loro anime che sono in cielo. A lei non l’ho detto, ma a te lo dico, Elizabeth, ci ho riflettuto e sono giunta alla conclusione che le nostre anime sono troppo pesanti per il cielo», perché, e lo sostiene con il classico humor bosniaco, «Le nuvole non potrebbero reggere il peso dei loro piedi gonfi».
Così, senza accorgersene, o ben consapevole, si reca fin lassù, al cimitero di Bare, per ricongiungersi e riconciliarsi con sua madre, quella donna per la quale ha cercato di costruire una biografia che si incroci con la sua. Con lei c’è Naida (forse un’amica o la compagna che lei ha scelto di amare). Insieme dovranno ripetere scrupolosamente tutti i riti che celebrava con i nonni quando era piccola: strappare le erbacce, pulire il vialetto, lavare la lastra della tomba fino allo sfinimento, poi asciugare tutto, sistemare fiori e piante. In alto, alla fine della ripida salita, al numero 13, ci sono i lotti per gli atei, lì le aspetta Snezana. Come ci dice Miljenko Jergović nel suo Le Marlboro di Sarajevo (Bottega Errante Edizioni, 2020):

Ogni cimitero che si rispetti sta su un pendio … Da qui tu puoi scrutare tutta la sua vita. Solo i ladri, i bambini e quelli che hanno da nascondere qualcosa vengono seppelliti a valle. A valle di una vita non ti resta niente, perché da una valle non si vede nulla.

 

Tra una rakija e l’altra, sorseggiata insieme agli zii che non vedeva da anni[1], rigorosamente fatta in casa (punto di forte unione nei paesi dell’area balcanica), e alcuni ricordi della passione di suo padre per colombe, passerotti e fottuti uccelli [in corsivo nel testo], si arriva alla fine della raccolta di racconti, dove troviamo tre inediti che sono stati aggiunti nelle edizioni successive alla prima e nelle traduzioni. In uno di questi, L’Atlante delle cose morenti, c’è la frase rivelatrice: «Sul non avere una madre ho scritto un libro…». Vien da pensare che sia proprio questo il libro promesso alla sua amata Biancaneve, solo poche pagine prima. Un libro per lei e per noi, che ci esorta a credere come dopo la morte, anche senza dover chiamare per forza in ballo la religione, ci possa essere qualcosa di trascendentale, di ultraterreno.

 

 


[1] Il 13 dicembre del 2009 è stata ripristinata la tratta ferroviaria Sarajevo – Belgrado e la protagonista, il 22 dicembre, parte da Sarajevo per andare a trovare gli zii a Šid, con un treno che ha ripreso a viaggiare dopo diciotto anni di stasi. Per un approfondimento sulle linee ferroviarie e le rotte più remote dei Balcani e dell’Europa orientale si consiglia Binario Est di Marco Carlone, appena pubblicato da Bottega Errante Edizioni.

Il miraggio del reale per rifondare l’immaginario. I microracconti di Manuel Moyano

Autore: Manuel Moyano
Titolo: Teatro di cenere
Editore: Del vecchio Editore
pp. 160 Euro 17,00

di Alice Pisu

Si interroga sulla vacuità del vivere, Manuel Moyano, nel costruire attraverso componimenti fulminanti dello spazio anche di una sola frase la sua personale visione del mondo tra continui rimaneggiamenti del reale inteso come abbaglio, inganno. Che si tratti di visioni allo specchio o di avventure mirabolanti in luoghi immaginati in giardino e distrutti poco dopo, con Teatro di cenere (trad. Antonio Candeloro, Del Vecchio editore) l’autore ritorna costantemente all’effimero, per eleggerlo come mezzo primario di misurazione della miseria umana.
Sfilano sulla pagina killer seriali, fan di Elvis in incognito disposti a sacrifici estremi, guru che propongono pozioni per incontrare Dio, uccelli intrappolati in una stanza, mercanti, esseri alieni, paracadutisti atterrati in giardino che si insediano in casa, illusionisti.
Nel raffigurare un mondo degradato e violento ogni figura è concepita come una maschera e l’esistenza stessa una farsa. Il titolo è un omaggio a César Gavela – “Le persone, le case e il tempo erano soltanto un teatro di cenere” – che a sua volta richiama un passaggio della Genesi per raffigurare la morte come pena e il ritorno alla polvere.
Moyano immortala l’istante che precede una dispersione inesorabile, si sofferma sulla descrizione di pulsioni senza nome, tra lamenti e silenzi. Tra i più alti esempi di micronarrazioni spagnole contemporanee, i suoi racconti custodiscono allegorie che nella misura breve si rivelano parabole.
L’attenzione estrema nei confronti della parola esatta, con slanci lirici e immersioni, cela l’intento di alternare registri diversi, dalla riscrittura del genere favolistico all’horror, al fine di compiere un’indagine anzitutto sulla lingua, ancor prima che tematica. L’esasperazione del reale nell’assurdo permette a Moyano di sollevare interrogativi esistenziali sul sotterraneo male del tempo, rintracciabili tra i sottili riferimenti interni ai racconti.
Arriva a riscrivere l’origine del mito per narrare la vendetta adulta di un neonato dalla testa di vitello e connetterla al presente riconoscendo negli atti puerili di un maggiordomo il peso della mancata ribellione come preludio al dramma. Perennemente in bilico sulle infinite possibilità di un presente cristallizzato, i racconti di Teatro di cenere svelano l’esatta raffigurazione della transitorietà di ogni cosa. L’indagine sull’identità trova nel rapporto tra l’individuo e l’ambiente intorno, destinato inesorabilmente alla distruzione, la misura dello straniamento, comune a ogni vicenda narrata.
Affascinato dall’ambiguità, Moyano mostra le anomalie che albergano in ogni scena immaginata anche attraverso il ricorso a rimandi letterari, allusioni cinematografiche e opere musicali come contrappunto alla narrazione. Identifica ogni figura come dominata in egual misura da tenerezza e ferocia. Nel racconto Luna pallida assegna all’inchiostro il simbolo di un contrasto straniante, il suo uso, da parte dell’imperatore, per comporre una lirica notturna ispirata dall’osservazione celeste e per la stesura, pochi istanti dopo, di una condanna a morte per un gruppo di contadini che chiedevano una riduzione dei tributi.
Ogni immagine è solo una delle raffigurazioni possibili del tempo, tra flashback, allucinazioni sull’orlo di un baratro e spiragli nel terreno che moltiplicano ciò che vi cade dentro rendendo eterna un’ossessione. I mostri, le paure oscure, ancor prima che nelle scene che evocano torture fisiche o psicologiche, prendono forma nella raffigurazione di una prigione interiore, nella definizione del terrore della propria invisibilità agli occhi degli altri. È quel che accade al clone di Beethoven, sottoposto agli stessi traumi infantili del grande compositore per costringerlo a completare al posto suo la decima sinfonia, o all’uomo intrappolato da oltre dieci giorni in ascensore con le buste della spesa che impazzisce nel chiedersi se nel frattempo l’umanità si sia estinta, se il suo palazzo sia stato fatto sgombrare per pericolo crollo o se ci sia un complotto nei suoi confronti per farlo morire d’inedia.
Gli scenari apocalittici, i sacrifici umani, le meschinità di vite mediocri, lo smarrimento nella follia, concorrono alla fondazione di un nuovo immaginario che trova, anche nella personale visione della geografia, una fusione tra il reale e la sua contraffazione. La danza macabra a cui i personaggi prendono parte richiama un gusto per il fantascientifico che sfocia nel grottesco. Moyano si interroga sul legame originario con la morte, si insinua sul significato della perdita e sulla necessità umana di trovare un senso a quel che accade per non prendere atto della propria inutilità. L’uso sapiente dell’elemento ironico e della satira per narrare il dramma – tra bare dalle fauci aperte che aspettano la razione quotidiana e morti che fanno telefonate – connota il ridicolo che caratterizza l’esistenza e la sua fine.

 

La mano mozza che giace sull’asfalto indossa il braccialetto della fortuna

 

Oggetti-simbolo assumono il valore di una premonizione o di una evidenza, tra ampolle etichettate con dentro lacrime sparse per animali e persone morte, e palline di plastica che sbucano da sotto il letto dopo decenni, a sancire l’irreversibilità della malattia. Quest’ultimo aspetto ritorna a più riprese nei racconti di Teatro di cenere, esplorato come agente di una trasfigurazione che annulla il noto e rende concreti gli abbagli.
Pur con debiti indiscussi – da Jonathan Swift a Jorge Luis Borges a H. P. Lovecraft a Franz Kafka, a Francis Scott Fitzgerald e Dylan Thomas – a rendere inconfondibile la voce di Moyano nel panorama letterario contemporaneo è la capacità di fondare un immaginario nella coesistenza di spunti favolosi, fantastici e realistici per innescare interrogativi legati ai grandi temi dell’esistenzialismo anche attraverso un particolare accento riservato al tempo, al suo scorrere angoscioso. Il culmine di tale esplorazione è raggiunto nel racconto Ritorno, una potente e visionaria interpretazione del ciclo ininterrotto di morte e vita.
Il tempo diventa lo spazio delle riflessioni sul possibile, sul peso di variabili all’apparenza minime nel tracciare esiti opposti nell’esistenza degli individui che richiama l’indagine di Krzysztof Kieslowski sulle vite ipotetiche che possono aprirsi all’essere umano. Può allora succedere di immaginare Dante sposato con Beatrice condurre una vita ordinaria con i loro sei figli. Sollecitato da Dio si interroga su quale sorte avrebbe preferito per scrivere o meno la Divina commedia. Passaggi memorabili richiamano le immagini di H.G. Wells; le suggestioni di Dino Buzzati nella capacità di Moyano di allestire di significati simbolici mondi fantastici al contempo realistici e favolosi; riportano a Nikolaj Gogol’ nell’assegnare al gioco letterario una valenza politica per compiere un feroce ritratto sociale con ingrandimenti sulla matrice corrotta celata in ogni individuo.
Tra i motivi ricorrenti non a caso ritorna a più riprese quello del clone, che richiama la riflessione sulla riproducibilità e la serialità di temi e motivi esplorati dai grandi filosofi classici. In Teatro di cenere è proprio l’osservazione degli esiti di deliri privati a misurare la segreta convinzione di immortalità, come accade all’uomo che scopre di avere un clone e si convince che, uccidendolo, farà credere di essere morto e potrà iniziare una nuova vita altrove.
I racconti di Manuel Moyano sono inviti ad abbandonare ogni logica per lasciarsi confondere dalla realtà in un mondo concepito – come sosteneva Vladimir Nabokov in Lezioni di letteratura – come una creazione artistica inconsistente e illusoria.

 

La porta funziona in entrambi i sensi, – ruggì la Voce. Volevate affacciarvi sull’Altro Lato, ma non avete calcolato che anch’Io avrei potuto entrare nel vostro mondo. Ora è troppo tardi per provare a richiuderla.

Le piramidi di giorni, di Daina Opolskaitè

Autore: Daina Opolskaitè
Titolo: Le piramidi di giorni
Editore: Iperborea
pp. 256 Euro 17,00

di Debora Lambruschini

Una raccolta pura, slegata dalle mode letterarie, composta da dodici racconti perfettamente autonomi e legati fra loro dal rincorrersi di alcune tematiche e spunti: Le piramidi di giorni, della premiata autrice lituana Daina Opolskaité e pubblicato in Italia da Iperborea, è un gioiello capace di coniugare padronanza tecnica del genere (le scelte efficaci dei titoli, l’accento su incipit e finali, le epifanie…) e costruzione di una propria voce autoriale, in italiano resa dalla traduzione di Adriano Cerri, che ringraziamo molto anche per aver tradotto per noi alcune domande rivolte all’autrice.

Nelle storie di Opolskaité tutto si incastra precisamente, scrittura e storia diventano l’una dipendente dall’altra, la capacità di maneggiare la materia si sposa al grado di intimità che riesce a costruire con il lettore.


Daina Opolskaité: Sono convinta che, in un buon testo, struttura e contenuto debbano comporsi in un’unità. Inizio a scrivere una storia nelle circostanze più diverse: a volte può capitare che mi balzi davanti agli occhi, o nell’immaginazione, un luogo particolare, per esempio una casa o una stanza dove potrebbe abitare qualcuno. Altre volte sono dei semplici oggetti a ispirarmi, piccole cose viste casualmente o ricordati: un paio di scarpe, un maglione, una bambola o una tazza da caffè. Inizio a domandarmi a chi potrebbero appartenere, e da lì comincia una storia. Ma la situazione più intrigante è quando all’improvviso mi si presenta un personaggio: vedo subito il suo carattere definito, sento quello che dice, che cosa ha in mente di fare, che cosa lo opprime. Mi dedico alla stesura di ogni racconto senza fretta, tornando un’infinità di volte sulle stesse frasi. Cerco le parole più adatte per quello che voglio raccontare. Faccio come un po’ come un orefice: limo il testo, lo lucido come una pietra preziosa fino a che non raggiunge un aspetto che non voglio più modificare.


Sono racconti dal gusto classico, immersi in un tempo e un luogo non particolarmente definiti di cui ne avvertiamo i contorni (la Lituania rurale, gli anni Novanta, il presente) ma che restano elementi di secondo piano, perché ciò che conta, ciò che rappresenta il cuore nevralgico della narrazione sono i movimenti minimi delle persone raccontate, le epifanie, i rapporti umani, il quotidiano. Uomini e donne di cui Opolskaité talvolta attraversa una vita intera ma, molto più spesso ed efficacemente, ne fotografa un istante denso di significato, ci mostra lo scarto dalla quotidianità, ci lascia intuire gli abissi; e tutto ciò che resta fuori dal racconto scritto è uno spazio vuoto che possiamo riempire.

 

D.O. : Scelgo di proposito di scrivere dei racconti che spingano il lettore a riflettere in maniera più ampia, a considerare che non è tutto così semplice come appare. E poi l’anima dell’uomo è davvero un mistero irrisolto. Che cosa nasconde, quante cose diverse può contenere dentro di sé? Questa indagine mi ha sempre affascinata. Sono convinta che ci sia dato qualcosa di molto speciale: viaggiare nel tempo, tornare al passato, immedesimarsi in un’altra persona e in tal modo vivere una trasformazione... ma i modi in cui questo avviene sono imprevedibili. Devo confessare che il superamento dei confini spaziali e temporali nei miei racconti non ha sorpreso solo i lettori, ma anche me stessa; mi sono stupita di come sono riuscita a rappresentare tutto questo. È qualcosa che dona al testo maggiore ampiezza, gli permette di evolversi, di respirare, di meravigliare.

Storie autonome l’una dall’altra come nella più pura tradizione di una raccolta di racconti, accomunate dalla ricorrenza di un tema, un simbolo, un motivo e a quel «momento di verità», per dirla come Nadine Gordimer, che costituisce l’anima della forma breve.
I rapporti umani e il senso di solitudine e mancanza, si rincorrono in molti di questi racconti e si fanno particolarmente interessanti quando implicano la riflessione – non stereotipata – sulla maternità, come evidente già dalla storia d’apertura, “Inferriate”, fra le più significative della raccolta:

 

Tra loro due si ergeva qualcosa di non oltrepassabile, qualcosa di più forte di loro. Come una solida inferriata impossibile da abbattere.
(“Inferriate”, p. 25)

 

Sono una madre single con i figli lontani e l’orfano che, tanti anni prima, aveva accolto, non per particolare slancio affettivo quanto per l’urgenza di trovare una piccola ulteriore forma di reddito che li aiutasse a tirare avanti; un legame sempre più debole con i propri figli, che si va allentando, e il senso di estraneità mai superato nei confronti di quel bambino inselvatichito, rude, che pare incapace di affetto. Ma non c’è cura da parte della donna che vada oltre le semplici questioni pratiche del quotidiano – un riparo, del cibo, dei vestiti – e non c’è desiderio di creare un legame, non c’è affetto. Tanto dalla parte di lei, focalizzata sui propri figli e sul legame sempre più debole con loro, quanto da parte di lui, bambino e poi ragazzo che non ha mai conosciuto affetto, calore umano.

 

Troppo tardi l’idea di una casa aveva bussato al suo mondo; le sue spalle tremanti, anziché percepire l’abbraccio accogliente di quel sentimento, si erano ritrovate gravate di un peso eccessivo. […]
Non era abituato a stare con qualcuno che si curasse di lui e che tutti i giorni gli insegnasse come vivere. (“Inferriate”, p. 25)

 

Le inferriate tra loro non possono essere abbattute, nemmeno col tempo, nemmeno quando restano soltanto loro in quella casa ormai vuota.
Della maternità Opolskaité racconta anche le ombre, le mancanze, la sensazione di essere sopraffatti; è la donna che cerca un attimo di libertà da un quotidiano difficile e fugge in piena notte, nel silenzio dell’auto ma sovraccarico di pensieri; è la madre andata via tanto tempo prima, senza dire una parola, il cui vuoto echeggia ancora in ogni stanza, nelle vite di chi ha lasciato; è, ancora, la madre che nelle scelte avventate della figlia teme di rivedere se stessa e la propria vita.
La maternità nei racconti di Opolskaité è anche rapporto simbiotico tra una donna e la figlia, in cui a tratti i confini fra l’una e l’altra paiono annullarsi: nei volti quasi identici riflessi nello specchio, nei cuori allineati, nella voce narrante. “Io e Madlena” è un racconto-mondo, teso fra istanze narrative divergenti che tuttavia riesce a reggersi e incatenare il lettore più che per lo scioglimento del “mistero” – il segreto sul passato della donna è chiaro quasi da principio – proprio per il gioco di specchi fra madre e figlia. E se c’è un mistero, quello è Madlena stessa: per quanto stretto sia il rapporto madre-figlia, per quanto i cuori seguano lo stesso ritmo, c’è una parte della donna per sempre inconoscibile.  

 

[…] capisco che c’è qualcosa che da sempre riguarda lei soltanto e che non conoscerò mai, e quel qualcosa è sempre stato ed è la sua vita, a me sconosciuta. Una campana di vetro di cui al massimo posso toccare la superficie con le dita.
 (“Io e Madlena”, p. 152)

 

Sono innumerevoli le declinazioni su questo tema, ma la prima e più immediata a cui la mia mente è tornata è nel romanzo di Zadie Smith “Swing time”: se Liucija accoglie quel mistero che è la vita di sua madre Madlena, qui la protagonista ne è sopraffatta, quasi offesa dal fatto che sua madre possa essere altro dal ruolo che ha nella sua vita; che possa essere una donna con un passato, una vita propria, dei desideri, delle esigenze. Un essere umano.
Tornando a “Io e Madlena”, è questo anche il racconto in cui maggiormente viene dato peso al tema del tempo, il fil rouge che non solo attraversa ma lega saldamente ogni storia di questa raccolta.


D.O. : Mi capita spesso di riflettere sul tempo, sento il suo pulsare, la sua provvisorietà. Guardo ogni cosa con la chiara consapevolezza che tutto cambia molto in fretta. Mi commuove la transitorietà dell’uomo in questo mondo, la sua innata fragilità. La protagonista del racconto “Io e Madlena” considera il tempo come una costruzione: la piramide dei giorni.
Ed è così, tutti noi costruiamo la piramide dei nostri giorni fino alla fine della vita. E ci chiediamo se dopo di noi resisterà nei ricordi di qualcuno o se invece crollerà e finirà in polvere.

La riflessione sul tempo è il centro da cui si dispiega ogni cosa, ed è fatta di innumerevoli sfumature, osservata da punti di vista differenti. Anche dal punto di vista della costruzione delle storie l’uso del tempo, in questo caso narrativo, è mutevole: talvolta tempo della storia e tempo dell’intreccio coincidono, altre volte la narrazione fa ampio uso di flashback e i piani temporali si intersecano fra loro. Anche queste scelte formali non fanno altro che confermare quanto detto in principio: scrittura e storia sono qui legate indissolubilmente, l’una al servizio dell’altra, ed ecco come la malleabilità del tempo – narrativo o meno – diventi fondamentale in questi racconti. 

Un tempo che si flette, che è mutevole, ora sfuggevole ora impercettibile; tempo che è memoria, nostalgia, che cambia il senso delle cose ma non le fa dimenticare; tempo che qualche volta pare tangibile, almeno nei suoi effetti, molte altre appare impossibile da comprendere.

 

Io la ascolto e penso che il tempo è un artigiano potente che crea le sue imponenti costruzioni con i secondi, i minuti e le ore. Sono delle vere e proprie piramidi di giorni che si stagliano sopra la mia testa e dalle quali non potrò mai uscire.

(“Io e Madlena”, p. 146)

Volevo essere Vincent Gallo, di Sergio Oricci

Autore: Sergio Oricci
Titolo: Volevo essere Vincent Gallo
Editore: Pidgin
pp. 156 Euro 14,00

di Fabrizia Gagliardi

Sono a letto e Clementine sostiene di essere un libro aperto, gli racconta anche le cose più insignificanti. Fino a quando Joel occhi chiusi, serafico, le dice che «Parlare in continuazione non significa comunicare».
È difficile assegnare un genere a The Eternal Sunshine of the Spotless Mind (in Italia meglio conosciuto come Se mi lasci ti cancello) perché è un film che all’impianto più classico di una commedia romantica affianca la science-fiction. E in una delle rare coincidenze in cui l’abilità registica e, soprattutto, la potenza della sceneggiatura innescano il potere trasfigurativo delle storie. Le scene del film diventano diapositive che fermano il tempo, così iconiche che la loro decontestualizzazione diventa più potente del significato originale.
A ricordarmi il sapore destabilizzante della pellicola è stata la lettura della raccolta di racconti di Sergio Oricci, Volevo essere Vincent Gallo, inclusa meritatamente nel lavoro di scoperta underground, di opere ruvide e sopra le righe di autori italiani di Pidgin edizioni.
In Ouă de gaşcă un uomo è convinto che il suo superpotere sia capire quando le persone attorno a lui hanno lavato i capelli l’ultima volta; il protagonista di Pesci di vetro vorrebbe rintanarsi nel mondo colorato e rassicurante di oggetti, come i pesci di vetro che colleziona; in Wolfie il ragazzo-cane un ragazzo viene cresciuto proprio come un animale da compagnia; un freak dalla peluria incontrollabile diventa arte contemporanea in IpertricoticofocomelicoTM.
È impossibile racchiudere in poche righe la varietà di storie e la versatilità immaginativa con cui i personaggi annodano pensieri, incomprensioni e desideri in grado di manifestarsi e di esaurirsi nel giro di poche pagine. A tenerli insieme è un impianto stilistico che ha il suo trucco nel dinamismo e nella semplicità.
Occorre grande abilità per controllare i confini precisi di un disagio crescente, il sussurro di un problema che forse non verrà mai affrontato, ma soprattutto dosare l’equilibrio tra solletico e frustrazione del lettore con ritmo e ironia. Le pagine di dialoghi fulminei abbondano in confronto alle parti descrittive e tutto crea la sensazione che la vicenda stia sfuggendo di mano: non c’è tempo per affrontare di petto un problema sopito che prima non era nemmeno lontanamente immaginato.
Si tratta di un esperimento interessante nella produzione di Sergio Oricci che con il romanzo Cereali al neon (pubblicato da effequ) si lasciava andare con frammenti epigrammatici, visioni fulminee che riproducevano in maniera sorprendente lo scarto magmatico tra realtà e astrazione. Se Cereali al neon era una sperimentazione ricca di ghirigori linguistici mai scontati, Volevo essere Vincent Gallo procede nella direzione opposta: persegue il tentativo di semplificare la complessità delle relazioni e l’inseguimento di una fine che potrebbe non rivelarsi così lieta.
Anche se uno degli interlocutori sembra riprodursi, unico e identificabile, nei botta e risposta di più racconti, la creatività nel tessere frammenti, uno diverso dall’altro, restituisce unità alla possibile dispersione. Lo si nota nelle conclusioni istantanee, di poche righe, a cui arrivano molte delle coppie che si confrontano: in Gucci Louis Vuitton il procedimento quasi metodico con cui i protagonisti divorano gli orsetti gommosi dà l’idea che ci sia lo stesso approccio per problemi ben più grandi: «Mastichiamo e inghiottiamo fino a quando gli orsetti sul tavolo non sono finiti. Proviamo a parlare ancora un po’, ma in fondo non ci diciamo più niente».
La scintilla che innesca un cratere di spiegazioni, passi falsi e chiarimenti è un dettaglio della quotidianità. Ne La marginalità del respiro l’annuncio dell’arrivo di una nuova collega genera un dialogo dai contorni amari:

Vorrei risponderle che non è vero, che parliamo sempre di qualcosa. Non ci riesco, in fondo ha ragione. Non è che me ne stia rendendo conto adesso, è solo che speravo di essere l’unico a essersene accorto. Pronunciamo tantissime parole ogni giorno, non smettiamo un attimo di parlare. A fine giornata quante ne restano? E il giorno dopo? Di cosa abbiamo parlato ieri a cena? E ieri mattina, il giorno prima?

I protagonisti affrontano inconsapevolmente uno spostamento di equilibrio (sentimentale, lavorativo, famigliare) che non riescono a padroneggiare. L’unica soluzione è sciorinare dialoghi che a tratti sfiorano il nonsense e altre volte svelano dettagli a intermittenza, piccole luci di emergenza che illuminano altrettanti possibili epiloghi mai svelati.
Oltre all’eccentricità delle vicende bisogna considerare anche il surrealismo che avvicina la presenza di un’anomalia. In molti racconti si percepisce tanta voglia di comunicare ma la voce è di qualcuno fuori dal coro, l’emarginato che ha intravisto tutto prima: una volta giunti all’incomprensione, la normalità come condizione precedente, diventa un punto di non ritorno simile all’oblio. Ne La parola con la effe, per esempio, una madre fatica ad ammettere di avere qualche problema affettivo nei confronti del figlio. La narrazione si sviluppa attraverso uno scambio di battute col padre del bambino, in un crescendo di tensione:

 Riesci a essere esattamente come tutti si aspettano che tu sia. Riesci a pensare e a provare tutto quello che gli altri danno per scontato che tu stia pensando e provando.

 

I sedici racconti di Volevo essere Vincet Gallo restano una lettura istantanea che smaschera l’incomunicabilità, il surrealismo e una quotidianità schiacciante e priva di causalità. Se a una prima impressione le vicende raccontate sembrano non avere alcuna conseguenza sul lettore, basterà pensare al primo dialogo in cui ci incaponiremo su un’ossessione schiacciante, una malinconia latente, una stranezza che ci rende unici.

 

Quattro nuovi messaggi, di Joshua Cohen

Autore: Joshua Cohen
Titolo: Quattro nuovi messaggi
Traduzione: Claudia Durastanti
Editore: Codice Edizioni
pp. 224 Euro 18,00


di Fabrizia Gagliardi

La storia di uno spacciatore finisce su un blog, in poco tempo diventa virale e la sua vita diventerà la disperata ricerca di un modo per cancellare l’identità online. Invece di insegnare scrittura creativa un professore chiede ai propri studenti di portare a termine la costruzione di un edificio nella città che lo ha ripudiato. La creatività frustrata di un copywriter che lavora per case farmaceutiche cerca di rivitalizzarsi con l’invenzione di una storia. Un aspirante giornalista conduce un’indagine per ricostruire i destini frammentati delle attrici di film porno.
I protagonisti di Quattro nuovi messaggi, raccolta di racconti di Joshua Cohen pubblicata nel 2012 e ora recuperata da Codice Edizioni (con la traduzione di Claudia Durastanti), sono alle prese con complessi stravolgimenti comportamentali e cognitivi provocati dalle nuove tecnologie.
Anche se la raccolta risale ad anni in cui la presenza virtuale non era così innervata nella vita di ognuno come oggi, si comprende come sia abilmente ricostruita l’origine di una metamorfosi: ogni storia è percorsa dal progressivo sgretolarsi dell’identità reale per l’affermazione di quella online, la scrittura dell’io è incerta, l’ansia, lo smarrimento e il senso d’impotenza percorrono ogni confronto con le briciole che sopravvivono o che non arrivano online.
Al contrario di quello che si possa pensare alle nuove tecnologie non è riservata un’attenzione privilegiata e quando vengono citati computer, caselle di posta, login, tecniche di hacking, non svolgono alcuna funzione futuristica. Joshua Cohen si allontana abilmente da ogni definizione di profeta della catastrofe per proporre una nuova prospettiva: fermare il tempo per sottoporre alla lente di ingrandimento alcune tendenze e pratiche linguistiche influenzate da velocità e consumo di pensieri come se fossero codice binario.
L’espediente più adatto a tale scopo è procedere con l’impostazione narrativa di parabole inusuali, perché il tipo di narrazione solenne amplifica il senso di un cambiamento epocale, una conversione universale irreversibile.
In Inviato, per esempio, il racconto si snoda dalla genesi della costruzione di un letto fino a un futuro in cui viene usato per girare un film porno:

Queste donne vivevano nella speranza, vivevano per il futuro come se ognuna di loro fosse già il personaggio di un film che si proiettava ben oltre la durata di un orgasmo, il film di un orgasmo costante che viene costantemente filmato: un biopic collettivista speranzoso che accumulava minuti filmati, accatastando incessantemente bobine e gigabyte di filmato, tutto quel lavoro sporco di montaggio per la coerenza e il lieto fine, da qualche parte tra molti anni e in molti paesi lontani. Vivevano come le aspiranti star dei film delle loro vite, che contenevano a loro volta i film degli altri (come i reattori nucleari contengono i loro nuclei).

«Ogni storia è connessa al tempo in cui viene scritta» affermerà l’autore in un’intervista su Rivista Studio, e in effetti basta guardare la sua opera successiva, Il libro dei numeri, romanzo mastodontico sull’avvento di Internet, per agevolare qualche parallelismo con le conseguenze dell’intrattenimento televisivo come aveva fatto David Foster Wallace in Infinite Jest. L’avvento della televisione aveva cambiato il modo di narrare nella letteratura americana. Il mondo culturale era profondamente segnato dalla cesura tra una generazione di scrittori americani «guardoni» e un esercito di letterati delle generazioni precedenti pronti a stabilire cosa fossero Classico e Letteratura, alla ricerca di “opere senza tempo dal momento della loro creazione”.
Posizioni e preoccupazioni della critica che oggi appaiono anacronistiche perché l’oggetto d’interesse è un quesito opposto: gli stravolgimenti che sfuggono al controllo umano (come una pandemia dilagante o la crisi climatica), il bombardamento informativo quotidiano e la conseguente tendenza a creare bolle ideologiche volte a proteggere una versione di noi stessi, non hanno fatto altro che creare megafoni di singolarità che si rivolgono a tante altre unità disconnesse tra loro.
Non è strano che per la fiction oggi ci s’interroghi sulla «trappola della riflessività» definita dal New Yorker come la modalità con cui alcuni scrittori contemporanei costruiscono una trama imperniata su loro stessi, un intreccio autoriferito che non diventa mai reale opportunità di riflessione oltre il proprio limite. «Come si scrive un romanzo che non diventi stantio alle prossime elezioni?» è l’altra domanda ironica di un articolo dal titolo emblematico: Are Novels Trapped by the Present? Il dubbio è lecito se pensiamo al flusso di messaggi, notifiche, idee, news che amplificano il senso di smarrimento: chi scrive è più orientato a rappresentare la realtà piuttosto che «rispondere ad essa, criticarla o impegnarsi. La rappresentazione – e la sua attraente controparte, la relatività – sono celebrate come conquiste piuttosto che riconosciute come la linea di base da cui un romanziere dovrebbe iniziare il suo lavoro».
Proprio perché ci capita di leggere e scrivere molto più rispetto al passato è inevitabile che ci sia una contaminazione tra i testi brevi e sintatticamente semplici e una semantica ridotta all’osso, ad alto grado di polarizzazione. Joshua Cohen si allontana dal pericolo di ogni riferimento autobiografico per recuperare la complessità di linguaggi e destini che l’identità virtuale, il riflesso dell’identità negli altri, si trova inevitabilmente a negoziare.
Ogni protagonista dei suoi racconti è un atomo in corrispondenza complementare con un altro. Così Mono, lo spacciatore di Emissione, è la versione tragica di Moc, la pornoattrice che si lascia sedurre da una carriera online in Inviato. Il professore del Quartiere universitario sceglie un mutismo artistico, mentre il copywriter di McDonald’s sente il bisogno di riappropriarsi della propria fantasia ormai distorta dalla lingua del marketing.
Per Cohen il decentramento del sé non è tanto una pratica empatica ma un vero e proprio esercizio di libertà di essere altro da sé. In questo modo evita ogni implicazione legata a uno sguardo che si lascia sedurre dalla centralità della propria esperienza individuale, un po’ come invece aveva fatto Jia Tolentino nella raccolta di saggi Trick Mirror. Le illusioni in cui crediamo e quelle che ci raccontiamo ), in cui l’incursione autobiografica rendeva il personal essay una composizione ibrida tra la finzione dell’autore e la formulazione di un’ipotesi. Contrariamente a quanto fatto dall’autrice americana Cohen si apre a una provocazione: «Mi interessa la morte della terza persona: l’incertezza dello scrittore, l’incapacità di abitare la prospettiva altrui ma anche il dubbio profondo della nostra missione. La prima persona può sembrare più autentica, ma non lo è perché ogni prima persona è un personaggio». Più che avvicinarlo al tipo di riflessione filosofica di un saggio Cohen può essere accostato alla consapevolezza di Cory Doctorow): scrivere per alimentare il potere identificativo della fiction ed entrare nel lettore molto più di quanto non faccia la saggistica.