Le cattività domestiche, di Giorgio Ghiotti

Autore: Giorgio Ghiotti
Titolo: Le cattività domestiche
Editore: FVE Editore
pp. 142 Euro 17,00

di Anna Lo Piano

A dieci anni dall’esordio di Anche Dio giocava a pallone, Giorgio Ghiotti torna ai racconti, pubblicando con FVE, la casa editrice milanese per la quale è anche editor, Le cattività domestiche.

Fin dalle prime righe, ho provato quella sensazione che ogni lettore che ami la letteratura spera di provare quando apre un libro. Qualcosa che sta a metà tra il piacere di ritrovare qualcosa di noto - la scrittura come ritorno, un po’ come sedersi nel proprio divano – e il gusto dell’ignoto – la scrittura come trasporto, rapimento in mondi altri, in balia del ritmo dell’autore. C’è molta sperimentazione in questi racconti. Se il filo conduttore sono le galassie familiari, con le figure fatali che hanno segnato la nostra vita nel bene e nel male, è il modo di raccontarle il punto fondamentale.
Divisa in tre parti, la raccolta si nutre di ispirazioni letterarie diverse: dalla provincia americana di Haruf, Flannery O’Connor e soprattutto Elizabeth Strout con la sua “Olive Kitteridge”, al realismo magico ispano-americano fino al romanzo epistolare familiare di “Caro Michele” di Natalia Ginzburg e alle narrazioni di Celati.
La prima sezione, “I gerani”, si compone di quattro racconti molto diversi fra loro, di cui l’ultimo è una sorta di breve saggio sulla visione. Seguono poi i racconti che danno il titolo, “Le cattività domestiche”, scritti in forma di epistola, mentre “Lucernario”, dove ritorna la prima persona, è un canto a quell’età tutta in potenza che è la prima giovinezza.
Ho parlato di sperimentazione, ma forse dovrei dire più correttamente: esplorazione.
Si sente il gusto di Ghiotti nel muoversi in modo autonomo, avventuroso, in una tradizione novecentesca a lungo percorsa, i cui numi tutelari vengono continuamente evocati nei racconti, come se il modo di costruire la nostra memoria, la percezione delle cose, passasse anche dai mondi immaginari dei nostri autori di riferimento.

Di quante cose con il passare del tempo non si hanno più notizie. La bella Lucy, maestra d’asilo fresca di diploma che cucì dieci vestitini da pastore per la recita di Natale. Il primo bacio in pineta, l’estate della mia perfezione. La divisa del reduce Turner che ancora sfoggiava, malandato e mezzo zoppo, dopo così tanto tempo dalla fine della guerra, ogni domenica in chiesa. Qualcuno, i ragazzi più giovani specialmente, lo sbeffeggiava, “non ci sta mica tutto con la testa il vecchio Turner!”, ma lui non raccoglieva smorfie e risatelle e provocazioni. L’avrebbero seppellito in divisa con un fiore all’occhiello.
(I gerani)

Già nell’incipit del primo racconto, “I gerani”, troviamo un condensato dei temi che attraversano tutti gli altri. La coralità delle voci che ricostruiscono la memoria un ricordo alla volta, il senso fugace della storia che ha bisogno dei suoi cantori per rimanere viva (e non ho potuto non pensare all’incipit de “Gli anni” di Annie Ernaux con il suo monito “Tutte le immagini scompariranno”), il muoversi dei personaggi in uno spazio che li definisce – in questo caso la provincia americana con le sue case sparpagliate, tenute insieme dai rituali della comunità e dall’eco dei cantastorie di pettegolezzi. Gli spazi, i luoghi, hanno una grande importanza nel determinare il modo in cui guardiamo al mondo.

Ci sono persone che camminando per la strada tengono lo sguardo puntato verso il basso, e persone che guardano davanti a sé e per aria, quel che si dice avere un orizzonte.
(Avere un orizzonte)

Ma tenere gli occhi bassi permette di vedere molte cose a Roma, per esempio, e molte meno a Trieste. Ogni luogo determina uno sguardo, che è anche interiore. Ci si porta dentro una città, un mondo, se ce lo hanno raccontato, o se lo abbiamo attraverso i libri.

Ho imparato tante cose su Milano dai racconti del fratello, e sono certo che il giorno che ci andrò avrò una memoria nei passi.
(Educazione milanese)

Ghiotti ha creato dei ritratti di personaggi che non hanno niente di grandioso o di eroico, ma la cui memorabilità risiede nella traccia che hanno lasciato nel ricordo di altri. Specialmente le nonne, queste figure archetipiche, immense, capaci di dominare intere generazioni con la loro presenza, i loro giudizi, la loro visione delle cose. Leggo di queste ave e penso alla nonna descritta in “Althénopis”  da Fabrizia Ramondino, a quella di Brianna Carafa in Angeli personali. Ciò che siamo è in buona parte determinato dalle persone con cui siamo cresciuti o abbiamo scelto di crescere. Forse per questo, sebbene Ghiotti faccia un largo uso della prima persona, la visione è sempre spostata sull’altro. L’io narrante è un pretesto per parlare di altri, e quando parla di sé, o di un sé possibile, si tratta di una figura in mezzo alla folla delle altre.

Nel primo racconto c’è lo sguardo del bambino sul padre, il suo tentativo di ricostituire attraverso gli indizi e i sentito dire ciò che è avvenuto prima della sua nascita, di dare senso alle immagini confuse dell’infanzia, e poi di comprendere le scelte di un uomo che sembra seguire una sua strada misteriosa di attraversare il dolore.
Ne “L’appuntamento”, due uomini che si sono amati in gioventù si rincontrano a distanza di anni, e come in un duello o in duetto, contrappongono frammenti di ricordi, ricostruendo un po’ alla volta le fasi del rapporto e le ragioni della fine, senza che il lettore sia mai veramente sicuro di ciò che sia davvero accaduto.

Quale parte di quel racconto è realmente accaduta, quanto sono attendibile? Rievoco malamente a memoria il verso di una poesia, “forse il testimone perfetto è cieco”. Potrei dirti che sono ossessionato dalla verità ma mentirei ancora. Dopotutto la verità è un sentimento.
(Bambinacci)

Il ricordo è sempre una verità potenziale e anche parziale rispetto a quanto è successo.
Nei racconti epistolari l’autore si rivolge direttamente a cugine, nonne, componenti vari della famiglia, ricostruendo le vite e i fatti come un mosaico tra versioni contrastanti, edulcorate o rese leggendarie dalla magniloquenza della reiterazione.

Ancora la racconta, dopo trent’anni, questa storia; ne ha modificato a sua volta i dettagli, per esempio non ricordo che ci fosse una dependance a villa Claretta come invece continua a sostenere. Nella versione del padre Lente è un casotto per gli attrezzi. Ma può essere anche, informa la zia, che si trattasse di un dondolo, un dondolo con grandi cuscini a fiori cuciti dalla madre di Quartapelle. “Non ci avevi mai detto che c’era la madre!”

Più verità forse la troviamo negli oggetti, che hanno la capacità di serbare le tracce del nostro passaggio, di raccontare anche ciò che vorremmo dimenticare, come quando da un baule conservato salta fuori il vecchio strumento abbandonato della cugina Daria, memoria di un futuro da solista mai realizzato, i soli che sanno tutto di noi e anche, come per una delle nonne se davvero “è stata felice a ogni compleanno”. Ma allo stesso tempo anche gli oggetti sono capaci di parlare solo se manipolati dalla scrittura.
Perché la scrittura ha la capacità di manipolare il ricordo almeno quanto il racconto degli altri. Le cattività del titolo altro non sono che le prigioni in cui veniamo continuamente ingabbiati dal giudizio o dalle aspettative di chi ci circonda, a cominciare dai nostri familiari. Gabbie che tarpano le ali delle possibili nostre evoluzioni, come la cugina Daria che è tutta in potenza, anche quando la potenzialità è di un diritto alla non eccezionalità.

Che cos’è una bugia? Quel che gli altri hanno creduto di noi. Nessuno è al riparo dalla manomissione operata da una persona che ha amato.

La scrittura in questo senso è salvifica. Ricomporre nel mosaico, nella voce fuori campo che opera la parola mentre scorrono le immagini della vita, permette di non chiudere la gabbia ma lasciarla aperta a tutte le versioni dell’io. In più ripara, rimette insieme le eredità letterarie, ricuce le generazioni, permette di rifrangere la propria immagine in specchi infiniti, ripara le ombre, offre un futuro a chi non ce l’ha più. E sempre attesta la propria fragilità.

io ti racconto e tu non morire, pure se il tempo brucia e questa polvere che ci ingrigisce tutti si fa via via più pesante, s’infittisce, fino a farci sparire.”