Gesù dell’uragano e altre storie, di James Lee Burke

Autore: James Lee Burke
Titolo: Gesù dell’uragano e altre storie
Editore: Jimenez edizioni
Traduzione: Gianluca Testani
pp. 192 Euro 18,00


di Fabrizia Gagliardi

Proviamo a individuare il filo comune che unisce tutte le correnti letterarie contemporanee. Sarebbe come andare alla radice della misteriosa attrazione che abbiamo per le storie, il segreto di un vizio conosciuto da tutti.
A scomporle in particelle elementari troveremo in Shakespeare l’unico grande ideatore di tutte le trame primordiali, ma rimarrebbe una domanda: cosa sottostà a ogni storia raccontata, qual è il nucleo unico e condiviso, centro propulsore di tutto il resto?
Data una vicenda umana, il mistero della vita, se proprio vogliamo definirlo in questo modo, è che l’uomo genera un senso e risponde scegliendo dei valori, nel bene e nel male.
«Le battaglie più importanti avvengono in posti che non interessano a nessuno», sono le parole del detective Dave Robicheaux, protagonista della serie di romanzi di James Lee Burke. Un Philippe Marlowe contemporaneo, un attivista politico più spavaldo e mosso da una fede incrollabile.
È nella provincia, e negli spazi poco densamente popolati tipici dei luoghi americani lontani dai grandi centri, che la visione sociale e politica del personaggio coincide con le origini del suo autore. Burke è nato a Houston ed è cresciuto sulla costa del Golfo della Louisiana. Dopo gli studi all’Università della Louisiana e del Missouri la sua carriera letteraria non è stata da subito così scontata. Ci sono voluti molti anni, lavori come assistente sociale, professore universitario, impiegato dell’industria petrolifera, e innumerevoli rifiuti da parte delle case editrici, prima di stagliarsi nell’universo letterario americano con il personaggio di Robicheaux e il primo romanzo, Pioggia al neon, pubblicato nel 1987.
Anche l’editoria italiana negli anni ha recepito i gialli della serie in maniera frammentata comparendo nei cataloghi di editori come Baldini & Castoldi, Mondadori e Meridiano Zero.
A mettere ordine in una produzione che vanta oltre quaranta romanzi fa ben sperare il proposito di Jimenez Edizioni, nata con due principali scopi: «il primo era quello di riportare in Italia i romanzi di Willy Vlautin; il secondo, invece, era quello di pubblicare James Lee Burke, e in particolare Gesù dell'uragano».
Proprio la raccolta di racconti Gesù dell’uragano appena pubblicata, e tradotta da Gianluca Testani, riesce a conferire un senso nuovo e inedito a tutti i cliché che potremmo associare alle copertine dalla tipografia accentuata dei capolavori di Burke.
È qui che l’autore dimostra la grande capacità di spaziare tra il carattere più dinamico e intrattenente della tensione di un thriller e un talento narrativo e lirico che conferisce complessità ai personaggi dei racconti brevi.
Le storie, scritte tra 1990 e il 2005, sono tutte ambientate sulla costa statunitense affacciata sul Golfo del Messico, traumatizzata da uragani devastanti (come l’uragano Audrey nel 1957 e Katrina nel 2005), disastri ambientali intimamente legati alle vicende dei protagonisti colpiti in varie tappe fondamentali della vita da traumi, ingiustizie, fugaci sensibilità e un senso di giustizia tutto da costruire.
Mai come in questi racconti si avverte la presenza inesorabile di una vallata coperta di neve che col metodico susseguirsi delle stagioni è in grado erodere, in chi vi è immerso in solitudine, il senso dell’umana convivenza piegandolo alle leggi della natura.
In Luce d’inverno un professore universitario, ormai in pensione, vive al limitare di un canyon in una casa di legno che controlla l’accesso al parco nazionale. La quiete della contemplazione di una carriera appena conclusa e di una vita sentimentale tutta da definire subiranno la brusca interruzione a causa di alcuni uomini che vogliono accedere al parco per una battuta di caccia illegale.
Gli sprazzi paesaggistici, alternati alle parti narrative, creano chiaroscuri lirici che andranno a fondersi con una natura umana messa di fronte alla scelta di cedere al male o rispettare una giustizia tutta personale.
Una vicenda simile, con un protagonista dal passato oscuro, è presente nel più toccante La stagione del rimpianto. I Monti Bitterroot dominano una vallata che l’occhio umano non è in grado di abbracciare, e Albert è mosso dall’istinto innato di proteggere l’ambiente e la cittadina che ha scelto come casa dall’arrivo di quattro biker.
Dopotutto in un ambiente dimenticato da Dio la convivenza umana va a farsi benedire e la radicalizzazione di idee s’incunea in un carattere violento, un’intolleranza latente per la novità, un generale senso di abbandono in cui vince la legge del più forte e del farsi giustizia da sé. Ancora una volta nel corso del racconto il paesaggio naturale assiste all’arrovellarsi di un protagonista che si chiede se cedere alla pratica del male che genera altro male.

Gli piacerebbe credere che la terra si riprenderà, che un brav’uomo non ha nulla da temere dal mondo e che ormai ha messo da parte il male fattogli dai biker. Ma alla fine ha imparato che mentire a sé stessi è un reato per il quale gli esseri umani raramente si concedono l’assoluzione.
È giunto a credere che l’accettazione di un angolo oscuro nell’anima e il rifiuto di parlarne con gli altri siano la massima consolazione che un uomo possa ottenere, e per qualche strana ragione quel pensiero sembra dargli un po’ di pace.

È difficile che i personaggi di Burke cedano a un facile sentimentalismo, non per un qualche tipo di timida reticenza, ma perché non si abbandonano al ruolo di vittime per diventare eroi compatiti della propria storia. Non fanno niente per assecondare l’indulgenza del lettore, perché in tutte le vicende trapela una robustezza di spirito che resiste a città corrotte – come i jazzisti in tour alle prese con la mafia che gestisce la musica ai tempi di Jerry Lee Lewis e Big Mama Thornton ne La notte in cui Johnny Ace morì –; a quartieri nati nel sogno petrolifero, ma abbandonati alla candida lungimiranza dei bambini che ci dovranno fare i conti – come in TexasCity, 1947 –, al pentimento della memoria delle guerre in Corea e in Vietnam – come racconta il massacro paramilitare ne Il villaggio.
Lo sguardo di Burke riesce a cogliere il seme della violenza nei grandi spazi naturali, nelle città fino alle piattaforme petrolifere. Non si tratta di una crudeltà forzata e senza scampo, ma di una scelta dai contorni sfumati, dettata dalle condizioni economiche.
A volte tutto si avvicina alla fede masochista in un processo di espiazione le cui sorti si scopriranno solo alla fine. È quello che accade con Foschia, uno dei racconti più sorprendenti della raccolta. Lo spettro dell’uragano Katrina appare come un passato in cui si è sedimentata la vita desiderata di prima, ormai sommersa dai ricordi verso un baratro senza scampo.

Nelle sei settimane seguenti Lisa arriva a credere che la persona che pensava fosse Lisa forse non era mai esistita. La nuova Lisa impara anche che l’Inferno è un posto senza confini geografici, che può viaggiare con un individuo ovunque egli vada. Si sveglia alla sua presenza all’alba, dolorante e disidratata, il cielo come il fondo acquoso e macchiato di ciliegia di un bicchiere Collins.
Che sia per recuperare un panetto di eroina afghana da un armadietto della stazione degli autobus di Lafayette per conto di Herman o per bucarsi con una delle sue puttane, a volte usando lo stesso ago, Lisa passa dal giorno alla notte senza tenere conto di orologi o calendari o della macabra trasformazione del proprio viso che le restituisce lo specchio.

Se la strada per il bene è tortuosa ed è difficile intravedere, l’unica salvezza è costituita da visioni e allegorie, fugaci epifanie che sfondano la porta del realismo per ascendere alla speranza più profonda.
In una capacità evocativa del genere non è difficile immaginare che Burke ha colpito anche il mondo del cinema: il detective Dave Robicheaux è apparso sugli schermi interpretato da Alec Baldwin (in Omicidio a New Orleans, del 1996) e da Tommy Lee Jones ne L'occhio del ciclone - In the Electric Mist (2009).
Il racconto che dà il titolo alla raccolta è diventato un film, God’s Country, presentato all’ultimo Sundance Festival. E ancora una volta i suoi personaggi si ritrovano sui tetti di una New Orleans sommersa, senza salvezza, a osservare un Cristo in croce galleggiante e mossi da una speranza che poche volte è capitato di incontrare in una vita soltanto.

Ma considerando la compagnia con cui mi trovo – Gesù e Miles, e Tony che ci sta aspettando da qualche parte – non ho problemi con il mondo.