di Alice Pisu
Si interroga sulla vacuità del vivere, Manuel Moyano, nel costruire attraverso componimenti fulminanti dello spazio anche di una sola frase la sua personale visione del mondo tra continui rimaneggiamenti del reale inteso come abbaglio, inganno. Che si tratti di visioni allo specchio o di avventure mirabolanti in luoghi immaginati in giardino e distrutti poco dopo, con Teatro di cenere (trad. Antonio Candeloro, Del Vecchio editore) l’autore ritorna costantemente all’effimero, per eleggerlo come mezzo primario di misurazione della miseria umana.
Sfilano sulla pagina killer seriali, fan di Elvis in incognito disposti a sacrifici estremi, guru che propongono pozioni per incontrare Dio, uccelli intrappolati in una stanza, mercanti, esseri alieni, paracadutisti atterrati in giardino che si insediano in casa, illusionisti.
Nel raffigurare un mondo degradato e violento ogni figura è concepita come una maschera e l’esistenza stessa una farsa. Il titolo è un omaggio a César Gavela – “Le persone, le case e il tempo erano soltanto un teatro di cenere” – che a sua volta richiama un passaggio della Genesi per raffigurare la morte come pena e il ritorno alla polvere.
Moyano immortala l’istante che precede una dispersione inesorabile, si sofferma sulla descrizione di pulsioni senza nome, tra lamenti e silenzi. Tra i più alti esempi di micronarrazioni spagnole contemporanee, i suoi racconti custodiscono allegorie che nella misura breve si rivelano parabole.
L’attenzione estrema nei confronti della parola esatta, con slanci lirici e immersioni, cela l’intento di alternare registri diversi, dalla riscrittura del genere favolistico all’horror, al fine di compiere un’indagine anzitutto sulla lingua, ancor prima che tematica. L’esasperazione del reale nell’assurdo permette a Moyano di sollevare interrogativi esistenziali sul sotterraneo male del tempo, rintracciabili tra i sottili riferimenti interni ai racconti.
Arriva a riscrivere l’origine del mito per narrare la vendetta adulta di un neonato dalla testa di vitello e connetterla al presente riconoscendo negli atti puerili di un maggiordomo il peso della mancata ribellione come preludio al dramma. Perennemente in bilico sulle infinite possibilità di un presente cristallizzato, i racconti di Teatro di cenere svelano l’esatta raffigurazione della transitorietà di ogni cosa. L’indagine sull’identità trova nel rapporto tra l’individuo e l’ambiente intorno, destinato inesorabilmente alla distruzione, la misura dello straniamento, comune a ogni vicenda narrata.
Affascinato dall’ambiguità, Moyano mostra le anomalie che albergano in ogni scena immaginata anche attraverso il ricorso a rimandi letterari, allusioni cinematografiche e opere musicali come contrappunto alla narrazione. Identifica ogni figura come dominata in egual misura da tenerezza e ferocia. Nel racconto Luna pallida assegna all’inchiostro il simbolo di un contrasto straniante, il suo uso, da parte dell’imperatore, per comporre una lirica notturna ispirata dall’osservazione celeste e per la stesura, pochi istanti dopo, di una condanna a morte per un gruppo di contadini che chiedevano una riduzione dei tributi.
Ogni immagine è solo una delle raffigurazioni possibili del tempo, tra flashback, allucinazioni sull’orlo di un baratro e spiragli nel terreno che moltiplicano ciò che vi cade dentro rendendo eterna un’ossessione. I mostri, le paure oscure, ancor prima che nelle scene che evocano torture fisiche o psicologiche, prendono forma nella raffigurazione di una prigione interiore, nella definizione del terrore della propria invisibilità agli occhi degli altri. È quel che accade al clone di Beethoven, sottoposto agli stessi traumi infantili del grande compositore per costringerlo a completare al posto suo la decima sinfonia, o all’uomo intrappolato da oltre dieci giorni in ascensore con le buste della spesa che impazzisce nel chiedersi se nel frattempo l’umanità si sia estinta, se il suo palazzo sia stato fatto sgombrare per pericolo crollo o se ci sia un complotto nei suoi confronti per farlo morire d’inedia.
Gli scenari apocalittici, i sacrifici umani, le meschinità di vite mediocri, lo smarrimento nella follia, concorrono alla fondazione di un nuovo immaginario che trova, anche nella personale visione della geografia, una fusione tra il reale e la sua contraffazione. La danza macabra a cui i personaggi prendono parte richiama un gusto per il fantascientifico che sfocia nel grottesco. Moyano si interroga sul legame originario con la morte, si insinua sul significato della perdita e sulla necessità umana di trovare un senso a quel che accade per non prendere atto della propria inutilità. L’uso sapiente dell’elemento ironico e della satira per narrare il dramma – tra bare dalle fauci aperte che aspettano la razione quotidiana e morti che fanno telefonate – connota il ridicolo che caratterizza l’esistenza e la sua fine.
La mano mozza che giace sull’asfalto indossa il braccialetto della fortuna
Oggetti-simbolo assumono il valore di una premonizione o di una evidenza, tra ampolle etichettate con dentro lacrime sparse per animali e persone morte, e palline di plastica che sbucano da sotto il letto dopo decenni, a sancire l’irreversibilità della malattia. Quest’ultimo aspetto ritorna a più riprese nei racconti di Teatro di cenere, esplorato come agente di una trasfigurazione che annulla il noto e rende concreti gli abbagli.
Pur con debiti indiscussi – da Jonathan Swift a Jorge Luis Borges a H. P. Lovecraft a Franz Kafka, a Francis Scott Fitzgerald e Dylan Thomas – a rendere inconfondibile la voce di Moyano nel panorama letterario contemporaneo è la capacità di fondare un immaginario nella coesistenza di spunti favolosi, fantastici e realistici per innescare interrogativi legati ai grandi temi dell’esistenzialismo anche attraverso un particolare accento riservato al tempo, al suo scorrere angoscioso. Il culmine di tale esplorazione è raggiunto nel racconto Ritorno, una potente e visionaria interpretazione del ciclo ininterrotto di morte e vita.
Il tempo diventa lo spazio delle riflessioni sul possibile, sul peso di variabili all’apparenza minime nel tracciare esiti opposti nell’esistenza degli individui che richiama l’indagine di Krzysztof Kieslowski sulle vite ipotetiche che possono aprirsi all’essere umano. Può allora succedere di immaginare Dante sposato con Beatrice condurre una vita ordinaria con i loro sei figli. Sollecitato da Dio si interroga su quale sorte avrebbe preferito per scrivere o meno la Divina commedia. Passaggi memorabili richiamano le immagini di H.G. Wells; le suggestioni di Dino Buzzati nella capacità di Moyano di allestire di significati simbolici mondi fantastici al contempo realistici e favolosi; riportano a Nikolaj Gogol’ nell’assegnare al gioco letterario una valenza politica per compiere un feroce ritratto sociale con ingrandimenti sulla matrice corrotta celata in ogni individuo.
Tra i motivi ricorrenti non a caso ritorna a più riprese quello del clone, che richiama la riflessione sulla riproducibilità e la serialità di temi e motivi esplorati dai grandi filosofi classici. In Teatro di cenere è proprio l’osservazione degli esiti di deliri privati a misurare la segreta convinzione di immortalità, come accade all’uomo che scopre di avere un clone e si convince che, uccidendolo, farà credere di essere morto e potrà iniziare una nuova vita altrove.
I racconti di Manuel Moyano sono inviti ad abbandonare ogni logica per lasciarsi confondere dalla realtà in un mondo concepito – come sosteneva Vladimir Nabokov in Lezioni di letteratura – come una creazione artistica inconsistente e illusoria.
La porta funziona in entrambi i sensi, – ruggì la Voce. Volevate affacciarvi sull’Altro Lato, ma non avete calcolato che anch’Io avrei potuto entrare nel vostro mondo. Ora è troppo tardi per provare a richiuderla.