Chiamatemi Esteban, di Lejla Kalamujić

Autore: Lejla Kalamujić
Titolo: Chiamatemi Esteban
Editore: Nutrimenti
Traduzione: Elvira Mujčić
pp. 112Euro 16,00

di Giordana Restifo

«Non alla terra
né al volo delle foglie
somigliano i morti
in autunno
ma al dolce fallire dell’estate
».
Chandra Livia Candiani – Bevendo il tè con i morti

 

È paradossale che in alcuni scritti si possa trovare la locuzione “stagione di guerra”, come fosse un calendario di eventi al teatro e noi ce ne stessimo, comodi, sulle poltrone ad ammirare e seguire lo spettacolo. Non solo. È paradossale riferirsi in tal modo a conflitti che durano per mesi, anni, mentre le stagioni cambiano e si ripetono e intanto le città e gli esseri umani vanno a fondo senza avere la certezza di una risalita, come successe nei paesi appartenenti all’attuale ex-Jugoslavia in quei tragici anni tra il 1991 e il 1999.
Esistono almeno due generazioni di autrici e di autori (come anche di registe e registi), nati in quella che era la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, la cui vita è stata in qualche modo sconvolta dalla guerra. Bozidar Stanišić, Azra Nuhefendić, Miljenko Jergović, Dušan Šarotar, e ancora Marina Lalović, Tatjana Dordević Simić, Elvira Mujčić, Lejla Kalamujić, sono solo alcuni. La dissoluzione del grande Paese coeso, unificato dal governo di Josip Broz Tito, ha lasciato un solco profondo nella popolazione jugoslava (artisti inclusi); sia in chi, al tempo, era adulto sia in chi era adolescente, sia in chi è partito durante la guerra, o poco dopo, sia in chi è rimasto a convivere da vicino con i propri e altrui fantasmi. Non l’età anagrafica né il domicilio ma il confronto con le radici, l’identità e la disgregazione, dopo anni di elaborazione, ha influito sulla letteratura balcanica degli ultimi decenni.

Sul filo di una dolorosa ricerca ontologica e genealogica («Tu chi sei? Di chi sei?»), provando a tracciare una linea netta tra Guerra e Pace, Dio e Tito, Estate, Autunno, Inverno e Primavera, si muove la protagonista di Chiamatemi Esteban di Lejla Kalamujić, edito nel 2015 da Dobra knjiga, Sarajevo, con il titolo Zovite me Esteban, finalmente tradotto in italiano da Elvira Mujčić e appena pubblicato da Nutrimenti.
I ventidue racconti che compongono l’opera sono inscindibili e tracciano un unico percorso narrativo legato alla figura eterea della madre morta prematuramente, quando la voce narrante, Lela o Leli, che si fonde verosimilmente con quella dell’autrice, aveva solo due anni, il 20 agosto 1982. Alcuni sono onirici, altri più realistici, in tutti è presente la traccia del genitore perduto, più lieve o più marcata: «Dentro di me non esiste il ricordo di mia madre, lei è soltanto il racconto sacro della genesi e del rifugio ancestrale».
Di lei sono rimasti solo alcuni oggetti (il diploma, un accappatoio, la fede nuziale, il libretto del partito e la macchina da scrivere), storie e aneddoti, ai quali si affida la memoria. E non importa se alle volte risultano incongruenti tra loro perché, come si legge nel racconto Cos’è per me la macchina da scrivere, «il sacro non si tocca, nel sacro si crede». 
Mentre la protagonista cresce, tra il vuoto abissale lasciato dalla scomparsa della madre e i ricordi alcolici del padre («Il nome di mia madre profuma di alcol», dal racconto Invano provi a svegliarla), il paese cade a pezzi, il mondo e i confini mutano; tutto, attorno e dentro di lei, si disgrega. Si ritrova ad affrontare grandi cambiamenti sociali e personali, come il “tradimento” nei confronti dei nonni che l’hanno cresciuta, Safeta e Nedzad, Boro e Brana, la loro perdita, gli spostamenti da Sarajevo, la sua città, a Šid, cittadina serba in Vojvodina, e viceversa (così accade anche di vedere la «prima neve di guerra lontano da casa», dal racconto Il deserto bianco).

 

Il tradimento è una ferita pericolosa. Difficilmente guaribile. Lo so oggi, dopo anni di terapie più o meno riuscite. Oggi, l’estate è mia. Pure l’autunno è mio. Dio e Tito sono miei. Guerra è mia. Anche Pace lo è. E miei sono l’inverno e la primavera. Tutto è mio. Ora che non ho più nulla.

 

Gli anni passano, la guerra è finita lasciando macerie e brandelli di esistenze scarne, e lei non smette di rievocare sua madre, nata Snezana (Biancaneve) e morta in estate. La incontra nei suoi sogni lucidi, in una dimensione così suggestiva e, insieme, ordinaria che sembra reale; fumano insieme, discutono, i loro sguardi e le loro mani si incrociano, si stringono. Annotare per non dimenticare, come la figlia di Dj. M. del racconto di Danilo Kiš (L’Enciclopedia dei morti, Adelphi, 1988).
La protagonista si cala nei panni di Esteban, defunto personaggio de L’annegato più bello del mondo di Gabriel García Márquez, immagina sua madre che la bacia e la accarezza mentre piange e veglia la sua morte in riva alla spiaggia; prova a immedesimarsi anche in Esteban, il figlio di Manuela (dal film di Pedro Almodóvar, Tutto su mia madre, del 1999), che avrebbe voluto scrivere un romanzo su sua madre e invece viene investito nel giorno del suo compleanno, fradicio a causa della pioggia e con il suo taccuino in mano. A lui sopravvive, devastata, Manuela. Ed è chiaro, in questo racconto (Chiamatemi Esteban, che dà il titolo all’intera opera) più che in altri, l’intento di chi narra, il gioco delle parti che produce domande ipotetiche esistenziali: e se invece di mia madre fossi morta io? Come sarebbe andata? Cosa sarebbe successo?
Al contrario di Esteban, però, lei è viva e, come suggerisce a Snezana alla fine del dolce e straziante Se t’avessi incontrata, forse un giorno scriverà un racconto sulla sua morte.

Nei racconti di Lejla Kalamujić non mancano, come si è potuto notare da quelli già citati in precedenza, diversi riferimenti mirati: cinematografici, dal regista Georges Méliès al bosniaco Hajrudin Krvavac; musicali, da Sofka Nikolić, «la più grande cantante del regno della Jugoslavia», a Laurie Anderson con la sua The beginning of Memory, dal musicista sarajevese Drazen Ričl a una significativa canzone dal titolo Nevica di nuovo, Snezana (Sneg je opet Snezana, del cantante serbo Šaban Šaulić). Abbondano anche i richiami letterari, come nelle conversazioni fantastiche con Kafka e con Elizabeth Bishop, o i richiami a William Faulkner («Fuori l’urlo e il furore. Lo scirocco è arrivato a Sarajevo») e a Il primo uomo di Albert Camus.
In Una preghiera per Elizabeth il lettore ha la conferma che per poter far fronte a dei grossi traumi, come quelli subiti, la protagonista ha bisogno di seguire una terapia e incontrare una dottoressa, la quale «A volte si fa trasportare e dice che dovrei pensare meno alle loro ossa che nutrono la terra e di più alle loro anime che sono in cielo. A lei non l’ho detto, ma a te lo dico, Elizabeth, ci ho riflettuto e sono giunta alla conclusione che le nostre anime sono troppo pesanti per il cielo», perché, e lo sostiene con il classico humor bosniaco, «Le nuvole non potrebbero reggere il peso dei loro piedi gonfi».
Così, senza accorgersene, o ben consapevole, si reca fin lassù, al cimitero di Bare, per ricongiungersi e riconciliarsi con sua madre, quella donna per la quale ha cercato di costruire una biografia che si incroci con la sua. Con lei c’è Naida (forse un’amica o la compagna che lei ha scelto di amare). Insieme dovranno ripetere scrupolosamente tutti i riti che celebrava con i nonni quando era piccola: strappare le erbacce, pulire il vialetto, lavare la lastra della tomba fino allo sfinimento, poi asciugare tutto, sistemare fiori e piante. In alto, alla fine della ripida salita, al numero 13, ci sono i lotti per gli atei, lì le aspetta Snezana. Come ci dice Miljenko Jergović nel suo Le Marlboro di Sarajevo (Bottega Errante Edizioni, 2020):

Ogni cimitero che si rispetti sta su un pendio … Da qui tu puoi scrutare tutta la sua vita. Solo i ladri, i bambini e quelli che hanno da nascondere qualcosa vengono seppelliti a valle. A valle di una vita non ti resta niente, perché da una valle non si vede nulla.

 

Tra una rakija e l’altra, sorseggiata insieme agli zii che non vedeva da anni[1], rigorosamente fatta in casa (punto di forte unione nei paesi dell’area balcanica), e alcuni ricordi della passione di suo padre per colombe, passerotti e fottuti uccelli [in corsivo nel testo], si arriva alla fine della raccolta di racconti, dove troviamo tre inediti che sono stati aggiunti nelle edizioni successive alla prima e nelle traduzioni. In uno di questi, L’Atlante delle cose morenti, c’è la frase rivelatrice: «Sul non avere una madre ho scritto un libro…». Vien da pensare che sia proprio questo il libro promesso alla sua amata Biancaneve, solo poche pagine prima. Un libro per lei e per noi, che ci esorta a credere come dopo la morte, anche senza dover chiamare per forza in ballo la religione, ci possa essere qualcosa di trascendentale, di ultraterreno.

 

 


[1] Il 13 dicembre del 2009 è stata ripristinata la tratta ferroviaria Sarajevo – Belgrado e la protagonista, il 22 dicembre, parte da Sarajevo per andare a trovare gli zii a Šid, con un treno che ha ripreso a viaggiare dopo diciotto anni di stasi. Per un approfondimento sulle linee ferroviarie e le rotte più remote dei Balcani e dell’Europa orientale si consiglia Binario Est di Marco Carlone, appena pubblicato da Bottega Errante Edizioni.