di Debora Lambruschini
«Dove sono le finestre? Da dove entra la luce?»
Lettori di racconti, riflettiamo su queste domande di Yates ogni volta che ci avventuriamo in una storia, cerchiamo la finestra da cui possa penetrare la luce a illuminare la stanza, a mostrarci la verità che contiene, la polvere, gli angoli rimasti in ombra. L’onestà con cui Yates scandagliava le relazioni e le vite dei suoi personaggi per restituirle sulla pagina in tutta la loro verità brutale, infilando un po’ di sé stesso e del proprio sentire fra le pieghe, mostrandoci quell’umanità dolente e ammaccata: è lì che nasce in noi l’ossessione per la prosa di Yates, è lì che modelliamo il nostro gusto, il metro con cui misuriamo tutte le altre storie, anche quando molto diverse e distanti. Un’onestà molto simile l’ho sempre trovata in un altro gigante della narrativa statunitense, Harold Brodkey, che a neanche trent’anni era già considerato la grande promessa della letteratura americana, caricato dal critico Harold Bloom del titolo di “Proust d’America”. Scomparso a poco più di sessant’anni, malato di Aids. Ma con una promessa mantenuta.
Quella pressione era arrivata con la prima, meravigliosa, raccolta di racconti, “Primo amore e altri affanni”, dieci storie di cui la maggior parte già apparse negli anni precedenti sulle pagine del New Yorker – di cui è stato oltre che autore anche redattore – e che gli avevano portato il successo di critica e pubblico tanto in patria quanto all’estero. La carriera letteraria avviata, la scrittura, l’insegnamento, il periodo in Italia in una residenza per artisti, i riconoscimenti. Poi, la vita era tornata a chiedergli il conto: nel 1993 la scoperta della malattia: l’Aids. che negli anni Novanta non era una malattia con cui si poteva convivere e nemmeno parlarne pubblicamente, specie se eri un personaggio di spicco nella scena culturale. Brodkey, non ascoltò i consigli di chi gli suggeriva il silenzio, lo dichiara pubblicamente, lo raccontò dalle pagine del New Yorker stesso: una lunga lettera ai lettori, che sarà poi quel libro meraviglioso, doloroso e pieno di luce che è This Wild Darkness, in italiano Questo buio feroce. Storia della mia morte, (Fandango), uscito postumo. Brodkey omaggiava la vita, pur ripercorrendo con limpida onestà momenti oscuri del proprio passato – gli abusi del patrigno, l’omosessualità irrisolta – per aprirsi alla grazia, alla bellezza di una vita piena, benedetta dalla scrittura e dall’amore. È il commiato di un uomo dalla vita, di uno scrittore dal suo pubblico, che apre uno squarcio su una malattia così profondamente equivocata, taciuta, intrisa di vergogna e senso di colpa. In mezzo, un corpus letterario composto di tre raccolte di racconti, due romanzi, quel memoir e poco altro, ma sufficiente a consacrarne il talento.
Non so se il nome di Harold Brodkey sia nel momento in cui scrivo, qui in Italia, realmente noto al grande pubblico, se circoli davvero fuori dal mondo accademico e letterario o se, come Yates, ci vorrà qualche anno ancora per farne una leggenda. In patria Brodkey è parte del canone fin dagli esordi, i suoi racconti presenti nelle antologie, nei corsi di studio e, soprattutto, negli scaffali dei lettori che continuano a leggere le sue storie, capaci di superare la distanza temporale grazie all’universalità di certi stati d’animo, la lingua tesa ora scarna ora ricchissima, le immagini vivide, le metafore, la fotografia di un momento preciso.
Pubblicata per la prima volta in Italia da Fandango – dopo una prima edizione Bompiani del 1962 e una rara Serra e Riva dell’88 – la raccolta Primo amore e altri affanni è tornata da poco in una nuova edizione per lo stesso editore, nella traduzione di Grazia Rattazzi Gambelli. È il punto di partenza naturale per scoprire Brodkey e bastano una manciata di pagine di questi dieci racconti per rendersi conto di quanto straordinario fosse il talento di questo autore, reso dalla traduzione di Rattazzi Gambelli attenta a preservarne l’immediatezza e la prosa asciutta contrastata dagli slanci lirici, dagli aggettivi e dalle metafore puntuali, in un equilibrio ideale.
Pensava a quel che doveva essere innamorarsi, adorare una ragazza e mettere la propria vita ai suoi piedi. […] il nocciolo degli eventi era una certa emozione che gli era estranea e verso la quale aveva, molto probabilmente, un atteggiamento troppo razionale. Perciò se ne stava sui gradini della biblioteca così sconvolto dall’inquietudine che soltanto la forza di gravità sembrava riuscisse a tenerlo insieme. (“Educazione sentimentale”, p. 91)
Verso la traduzione o meglio, a chi ne è l’artefice, Brodkey ha sempre avuto come altri un debito particolare ed è stato in passato grazie a Delfina Vezzoli – per non dire di Fernanda Pivano e altri contemporanei – che nel nostro Paese si è portata l’attenzione su questo americano dalla voce fresca, che rifiutava di adattarsi alla moda imperante di riscritture in stile Hemingway e a un certo tipo di minimalismo. Un debito ripagato dai lettori che una volta avvicinati alle storie di Brodkey ne restano ammaliati: dalla semplicità, dalla trama pressoché inconsistente, dalle inquietudini e dalla vulnerabilità dell’adolescenza, dalle difficoltà della vita famigliare e delle relazioni.
La finestra da cui entra la luce che illumina il quotidiano, le pressioni – matrimoniali per le donne, di carriera e successo per gli uomini – e le insicurezze in un continuo scambio fra invenzione letteraria e spunto autobiografico, mentre i personaggi si rincorrono da una storia all’altra pur mantenendo intatto il senso compositivo di ogni singolo racconto, fotografando per il lettore istanti diversi delle loro vite, dominati da inquietudini simili.
Guardando indietro, adesso, penso che fosse la loro veemente pressione a spaventarmi; dovevo diventare ricco e famoso e dare così significato e valore a tutte le loro tribolazioni. Ma io non volevo quella responsabilità. In ogni caso, se ero veramente destinato a diventare quello che volevano diventassi e se dovevo essere quello che ero, era aspettarsi troppo da me che li accettassi così com’erano. Dovevo superarli e disprezzarli, ma prima dovevo essere con loro e questo non era giusto.
(“Lo stato di grazia” p. 13)
La responsabilità di concludere un buon matrimonio o avere successo, per risollevare le sorti della famiglia, garantire una posizione e un futuro e riuscire finalmente a soddisfare il «bruciante desiderio di risalire la cresta sottile del prestigio sociale» che consuma le madri di queste prime storie. Ma la pressione e le aspettative famigliari alimentano i dubbi, le insicurezze, la confusione di un’età già incerta, il dovere che si scontra con il desiderio di libertà; da un lato sfocia nella convinzione di non meritarsi l’amore senza il successo, dall’altro nella tensione fra identità e aspettative:
Nella primavera dei miei sedici anni, quello che più desideravo al mondo era di riuscire a essere qualcuno, da grande. Non sapevo che ci potesse essere altro modo per farsi amare.
(“Primo amore e altri affanni”, p. 33)
Il racconto Primo amore e altri affanni è un capolavoro, una storia densa di spunti ed efficacemente costruita, che si consuma per lo più fra le mura domestiche: tra le attese del telefono che suoni per la proposta di matrimonio che svolterà le vite di tutti, gli ammonimenti severi della madre, la sua freddezza e distanza, la resa e la rinuncia.
Giocando con la collana, ruppe il laccio e le perle rotolarono a terra spargendosi per tutto il pavimento; c’era qualcosa di folle nel modo in cui si diede a recuperare le piccole rotolanti gocce di luce. Capii che non sapeva quel che stava facendo; non era poi così sicura di tutto come sembrava. Fu difficile e penoso arrivare a questa conclusione, che si fissò in me profondamente.
(“Primo amore e altri affanni”, p. 50)
Ancora, nella confusa costruzione di un’identità emotiva, nei sentimenti difficili da comprendere quando mancano appigli. E allora non resta che rifiutarsi di amare, negare il sentimento a chi già ne possiede abbastanza insieme a tutto il resto. Per poi pentirsi e gridare al sé stesso di tanti anni prima «Amalo maledetto idiota! Amalo!» anche se forse è tardi e qualcosa si è spezzato.
Queste storie sono inquiete, attraversate dalle insicurezze di sentimenti nuovi che non si è capaci di affrontare, gli assoluti dell’adolescenza, i dubbi e le possibilità. L’amore, certo, ma anche l’amicizia, fra dipendenza e distacco, l’altro attraverso cui scoprire sé stessi. L’amicizia è totalizzante, è uno scudo grazie al quale affrontare il mondo e sentirsi finalmente riconosciuto, legittimato, un «esule meno a disagio». Lasciare tutto, per un’estate, deludere le aspettative famigliari e seguire l’amico per vagabondare nella vecchia Europa che porta ancora i segni della guerra, riempiersi di vita e di bellezza, per poi scoprirsi distanti, insofferenti l’uno all’altro. Una consapevolezza che pare annientare:
Le ombre, azzurre, liquide, si andavano addensando sulla spiaggia. E noi eravamo lì, noi due, con tutte le nostre paure e i nostri difetti, con tutte le speranze alle quali non credevamo realmente, e i nostri insuccessi; eccoci lì, diciannove e venti anni. […] Ascoltavo Duncan e il lontano grammofono e come in sogno lo scrosciare delle onde e sapevo che avrei superato la prova della mia giovinezza e sarei stato perdonato.
(“La lite”, p. 90)
È nel tratteggiare quel momento fra infanzia e adolescenza che la scrittura di Brodkey appare in stato di grazia, onesta e brutale nel raccontarne le pieghe, le increspature sulla superficie; ma forse basta anche osservare meglio i personaggi che gravitano intorno e condizionano le vite di questi bambini e ragazzi – le madri, le sorelle maggiori – per intuire quanto profonda sia la conoscenza del cuore umano, delle sue ambiguità e debolezze, della vulnerabilità che ci portiamo dentro. Che sia la madre che tenta disperatamente di risalire la scala sociale e assicurare a tutti loro un futuro dignitoso, algida e controllata all’esterno, ma nascondendo tumulti dentro lo sguardo; oppure la ragazza davanti allo specchio, divisa fra l’assecondare ciò che le è stato insegnato e conseguire un buon matrimonio celando sé stessa dentro un’apparenza di rispettabilità, o mostrarsi fasciata in un abito nero e rifiutare le convenzioni.
Ecco, forse Harold Bloom gli ha fatto un torto definendolo il Proust d’America, che certi paragoni soprattutto possono diventare una zavorra; quel che credo sia evidente, però, al di là dei paragoni, al di là dei riferimenti e della, forse, superflua definizione di canone, è che se siamo bravi abbastanza possiamo «uccidere i maestri» e permetterci di essere solo noi stessi e la nostra voce. Se sei Harold Brodkey, almeno.
Gli occhi di mia madre erano incomprensibili: un palcoscenico buio sul quale venivano rappresentate indistinte scene di folla, e tutto quello che uno poteva percepire era tumulto e dramma, né aveva importanza quanto durasse l’attesa; le luci non si accendevano mai e la scena non veniva mai spiegata.
(“Lo stato di grazia” p. 16)