Io, lui e Muhammad Ali, di Randa Jarrar

Autore: Randa Jarrar
Titolo: Io, lui e Muhammad Ali
Editore: Racconti Edizioni
Traduzione: Giorgia Sallusti
pp. 211 Euro 16,00

di Anna Lo Piano

 

C’è una cosa che mi preme dire sulla scrittura di Randa Jarrar, prima di ogni altra cosa: è incredibilmente divertente.
Se leggerete i racconti contenuti in Io, lui e Muhammed Ali, pubblicati da Racconti edizioni con la traduzione di Giorgia Sallusti, ve ne accorgerete subito.  C’è una voce narrante che ti aggancia a ogni frase, incipit fulminanti e battute che ribaltano i momenti di massimo sconforto.

 

Il vicinato si beccò la sua prima dose di Qamar nell’estate del suo nono compleanno, quando decise di restare seduta sul tetto del suo appartamento di Alessandria per dieci giorni aspettando che la luna scendesse da lei.

 

Le macchine schizzavano via sotto di loro, e Hilal ebbe l’impulso di saltare, per creare un grazioso motivo sull’asfalto di sotto.

(da L’Eclisse dei lunatici)

 

Ma c’è soprattutto il gusto della narrazione, di trame costruite, di elementi che ritornano e fanno da impalcatura, di intrecci e sospensioni che ti spingono ad andare avanti per sapere cosa succederà.  E no, non tirerò fuori il paragone con Sharazade, anche se l’identità araba è al cuore di tutti i racconti, e Jarrar evoca esplicitamente, per poi sovvertirla, la tradizione letteraria alla quale appartiene.
Non è un caso, quindi, che il riferimento a Le Mille e una Notte apra la raccolta, con l’atmosfera a metà tra favola e iperrealismo del già citato Eclisse dei lunatici, i cui protagonisti, in una storia che parla di luna, non possono che avere i nomi di Qamar (luna, che in arabo è maschile ma è dato alla ragazza, in un rovesciamento di generi) e Hilal (spicchio di luna).
In Persa nella maledetta Yonkers, che ha un ritmo da hard-boiled, la protagonista deve fare i conti con le reazioni della famiglia alla notizia che è rimasta incinta fuori dal matrimonio. Tutta l’americanità conquistata va in frantumi, e il padre, che da bravo stereotipo ha “citato poesie in ogni singola occasione speciale”, decide di farlo anche stavolta, e invece di affrontarla in modo diretto le manda un biglietto con dei versi di Mahmoud Darwish.

 

«Mi hai mandato una poesia?» ho detto. «Io sono incinta e tu mi citi Darwish?» Stavo tremando.

«Sei tu quella incinta, che cazzo. Chi ha il diritto di essere furioso? Non tu, mia cara.»

Era definitivo. Bambino = niente famiglia = niente soldi per il college = sono morta. Niente bambino = di nuovo in famiglia. Non mi è mai piaciuta questa famiglia, comunque, perciò scelgo il bambino.

 

Ma la suggestione letteraria che più mi ha colpito si trova in Ragazze in costruzione quando la protagonista, che ha sempre vissuto nello stesso vecchio palazzo sul mare, vicino ad Alessandria, si reca al mercato per conto dei vari inquilini, e passa davanti al banco dei libri.

 

Ho pedalato davanti al libraio esaminando velocemente copertine e titoli; tutti i libri erano su un uomo che viaggia molto lontano per studiare, torna in patria e decide che è quello il posto a cui appartiene. Durante l’inverno li leggo per noia e in tutta onestà devo dire che preferisco piantare fiori o annaffiare il banano o perfino farmi fischiare dietro da uomini sdentati invece che leggere quella roba.

 

Azzardo, ma non credo di sbagliarmi trovando qui un riferimento a un caposaldo della letteratura araba del novecento, ovvero il romanzo Stagione della migrazione a nord del Sudanese Tayeb Salah. Uscito alla fine degli anni ’60 e tradotto in più di trenta lingue, questo libro - bellissimo - ha segnato una sorta di spartiacque nella auto-rappresentazione degli uomini arabi in relazione con l’occidente. Il protagonista è un viaggiatore, ma la storia, contrariamente alla tradizione della rihla, del resoconto di viaggio, si focalizza sul suo ritorno. Il villaggio è visto come il ventre materno in cui rientrare per ritrovare se stessi, in opposizione alla freddezza del nord. Ma questa polarizzazione semplicistica dei due mondi è messa in crisi da una figura misteriosa: Mustafa Said. Come il narratore, Mustafa ha vissuto diversi anni all’estero, durante i quali ha vissuto una doppia vita, trasformandosi da rispettato economista a sensuale e istintivo predatore di donne, che seduce al punto di portarle al suicidio. Tornato al villaggio, i fantasmi del passato continuano a tormentarlo, estendendo la propria ombra anche sul resto degli abitanti. È come se l’esperienza del nord gettasse una nuova luce anche sul sud, come se l’incontro tra i due mondi non potesse che risolversi in un gioco di potere e sottomissione tra colonizzatori e colonizzati, tra seduttori e sedotti. Ma appunto, sembra dirci Jarrar attraverso una protagonista che è solo nominata per procura come Mamma di Saida, e che è sempre rimasta nel luogo in cui è nata, qui non stiamo parlando di migrazione, o almeno non di quella migrazione che ha raccontato una letteratura scritta da certi uomini in un certo tempo. Qui, adesso, non c’è un paese a cui tornare, casomai vari paesi da portarsi dietro, proprio come fa l’autrice.

Randa Jarrar, nata a Chicago nel 1978 da madre egiziana e padre palestinese, fino ad ora ha pubblicato tre libri. Il primo romanzo, a Map of Home, del 2008, le è valso l’ Arab American Book Award. Uscito in italiano per Piemme nel 2010 con il discutibile titolo de La collezionista di storie, è il racconto in prima persona della ragazzina Nadali, (la lottatrice) che è costretta a cambiare ogni volta paese insieme alla sua famiglia, senza poterne mai chiamare uno veramente “casa”.  La raccolta Him, Me, Muhammad Ali è del 2016, mentre è dell’anno scorso Love Is an Ex-Country, ancora inedito in Italia. Sebbene solo quest’ultimo si dichiari esplicitamente un memoir, la componente autobiografica è fortissima in tutti i suoi scritti. Leggendola mi viene istintivo accomunarla a quella tendenza recente di autori e autrici arabi di graphic novel nati negli anni ‘70 e ‘80 di cui ho parlato già in questo articolo, di usare l’autobiografia come dispositivo per raccontare un’intera generazione di giovani stretti nelle maglie della storia, della guerra e dello scontro tra mondi. Jarrar usa le parole al posto delle immagini, ma ritrovo lo sguardo in soggettiva, il sarcasmo e anche una certa leggerezza nel trattare i temi più oscuri. Se la narrazione è quasi sempre in prima persona, le voci sono però diverse. Nei racconti di Io lui e Mohammed Ali appartengono per la maggior parte a donne, ma ci sono anche due uomini, un animale, e una creatura a metà: sopra donna, sotto stambecco.
Ai due uomini sono affidati i racconti più politici, che hanno a che fare con i recenti avvenimenti storici. In Storia del mio palazzo, la situazione di Gaza è affidata al racconto del ragazzino Muhannad, con un’altra evocazione letteraria non priva di implicazioni, visto che si tratta di Storia della mia colombaia di Isaak Babel, che parla di pogrom, di fughe e di rifugi. È il padre di Muhannad, traduttore dal russo, a leggere davanti a tutti la fine, e il racconto si chiude con una frase che è un calco esatto di quella, cambiano solo i nomi.

 

E così andai con zio Fawzi nel suo palazzo, dove i miei genitori, scappati dal bombardamento, avevano trovato rifugio.

 

In Una cornice per il cielo, le guerre a ripetizione che hanno devastato il Medio Oriente sono raccontate attraverso i giorni peggiori della vita del protagonista.

 

Il terzo peggior giorno della mia vita è stato il 21 luglio 1991: ero in una stanza d’albergo a New York, in attesa di una telefonata del mio vecchio capo in Kuwait. Mi ricordo che il sole stava calando nel cielo limpido d’estate, con i suoi raggi che si insinuavano attraverso le persiane. Avevo speso gli ultimi soldi per venire qui ad assicurarmi un discreto progetto per la nostra società di architettura in Kuwait, perché il Kuwait era stato appena «liberato» e gli iracheni erano stati cacciati via.

 

Le protagoniste, invece, che vivano in Egitto o negli Stati Uniti, rappresentano le diverse possibilità di incarnazione della stessa donna sarcastica, disincantata e molto sola, che sia o meno accompagnata. Anche quando sono madri, queste donne sono soprattutto figlie, perché i loro genitori sono un bagaglio che si portano dietro anche quando fuggono a chilometri di distanza. C’è tanta famiglia in questi racconti, con discussioni e delusioni e riappacificazioni. Ci sono abbandoni, madri che fuggono o vorrebbero cose impossibili dalle loro figlie, padri con i quali si continua a lottare fino alla fine. E sorelle/amiche che improvvisamente appaiono molto lontane.

 Dopo le stagioni delle migrazioni, in cui si abbandonava la propria patria e la propria famiglia per ritrovarsi soli in terra straniera, le seconde e terze generazioni vivono la stagione della migrazione interiore, da un paese all’altro della propria identità. Ci si porta dietro il passato, la genetica, le frasi pronunciate e installatesi in testa, i pregiudizi di ogni cultura o sottocultura con cui si ha a che fare. L’identità è un mosaico, o meglio un puzzle, in cui I pezzi non sempre si incastrano.
E forse per questo in molti racconti, come nel romanzo, ritorna il tema della bambola, alter ego compatto e inerte delle protagoniste.
Ci vuole una figura artefatta, composita, per raccontare un’identità multipla, e infatti l’ultimo racconto, che ha come protagonista Zelwa la mezza, per metà donna e per metà stambecco transgiordano, riesce a riassumere in maniera esemplare cosa vuol dire essere musulmana in un paese cristiano, non proprio nera ma neanche proprio bianca, troppo queer per gli etero, troppo blasfema per i musulmani,  troppo americana per gli arabi.

 

Quando ho chiamato mio padre per dirgli che mi piacevano gli uomini e le donne, ha attaccato a gridare così forte che sono stata mezza sorda per una settimana. «Non ti bastava essere una mezza? Devi pure essere mezza gay e mezza etero?»

 

Zelwa fin da piccola cerca di sovrapporre le sue foto a quelle della Barbie, e immagina un futuro di interezza, ma si deve scontrare con la realtà. Certo c’è un dottore che fa queste magiche operazioni che rendono totalmente umane, ma ne vale la pena? Non rischierebbe allora di perdere il suo sguardo unico sulle cose?
Non vi dico come va a finire, ma sappiate che il finale è uno dei più struggenti che abbia letto ultimamente. Quindi vi invito a leggere la storia di Zelwa la Mezza, e anche di tutte le altre.