Afterparties, di Anthony Veasna So

di Anthony Veasna So
Racconti Edizioni
Traduzione di Emanuele Giammarco
pp. 280 Euro 18

di Fabrizia Gagliardi

«La nostra gente è sopravvissuta alle navi degli schiavi. Siamo sopravvissuti al genocidio dei Taíno. Siamo sopravvissuti a colonizzatori e dittatori. Mi stai dicendo che non possiamo sopravvivere alla linea D fino a Grand Concourse?»
«La maggior parte delle volte che sono a Stanford, sembra un tradimento.»
«Non c'è comunità per me a scuola.»

In modi baldanzosi e a tratti commoventi i personaggi di In the Heights cantano i capisaldi e le battaglie interiori dei figli di immigrati di seconda generazione. La storia ruota attorno a Usnavi, proprietario di una bodega nel quartiere Washington Heights a Manhattan, che prova sentimenti contrastanti all’idea di chiudere l’attività e tornare nella terra d’origine, la Repubblica Dominicana, grazie a una fortunata eredità.
Da lui si snoderà il racconto collettivo dei giovani abitanti del quartiere alle prese con una comunità che li ha protetti e che ha impresso in loro le origini senza preoccuparsi delle loro aspirazioni e di un futuro che cambia.
Il film del 2021 diretto da Jon M. Chu traspone al meglio il ritmo e le atmosfere del musical da cui è tratto, originariamente composto da Lin-Manuel Miranda e Quiara Alegría Hudes. Le origini portoricane dei creatori, il clima di energia, movimento e calore dei quartieri settentrionali di Manhattan, rivivono non solo nella malinconia e nel divertimento ma anche nel tratto distintivo dell’ironia.
Traduzioni maldestre, scambi culturali che sanno di colonizzazioni, accenti che diventano macchiette nella lingua di arrivo: la condizione di straniero in altro paese ha la doppia faccia di esilarante generatore di aneddoti e stereotipi da una parte e scherno razzista misto a vergogna dall’altra.
Anthony Veasna So nella sua raccolta Afterparties (tradotta da Emanuele Giammarco, Racconti edizioni) fa dell’humor un ingrediente tagliente, usato nei monologhi autoironici, nelle solitarie divagazioni dei protagonisti fino ai sorrisi amari di alcuni passaggi.
Il libro, pubblicato nel 2021 negli Stati Uniti, arriva dopo la prematura scomparsa dell’autore che in poco tempo è diventato una voce unica, già notata da riviste come The Paris Review, The New Yorker, Granta e n+1.
I nove racconti si concentrano sui residenti della polverosa Central Valley «nel buco del culo della California», come dirà uno dei protagonisti, in quartieri popolati da cambogiani pressoché autosufficienti per la comunità cambogiana stessa.
Lo si avverte chiaramente ne L’officina dove il padre del protagonista possiede uno sgangherato locale di ricambi per auto che arranca per attrarre clienti non esclusivamente cambogiani: «un intero ecosistema, sia per il servizio offerto al quartiere sia per la dozzina di cambogiani che aveva messo sotto contratto».
Le nascite, i compleanni, le morti e le reincarnazioni suggellano abitudini culinarie, sociali, religiose e culturali, tutte rigorosamente vissute insieme. Una costellazione di parentele e voci tra fratelli e sorelle, cugini, mamme e nonne, le Ming e le Ma, popolerà stabilmente ogni storia facendo entrare in un mondo che è celebrazione continua delle origini.
In una collettività così sentita le dissonanze non tardano ad arrivare e l’affiatamento di un coro intonato traballa davanti a chi resta impigliato nel passato senza neanche averlo vissuto.
I cambogiani americani di prima generazione scappavano dal regime degli Khmer Rossi, dai racconti terribili dei campi di concentramento durante il genocidio e da Pol Pot al potere. Una volta in America il trauma è rimasto, ma la rinascita è passata per condizioni economiche conquistate con dignità grazie a lavori da colletti bianchi e posti di rilievo in ambito scientifico e ingegneristico.
I loro bambini e nipoti, in piena adolescenza, rivivono in modo frammentato i racconti dell’orrore reale. Non riusciranno mai a partecipare fino in fondo al trauma della diaspora, provando continuamente un senso di inadeguatezza.
Il loro disprezzo non sarà mai dissacrante, ma sempre timoroso di rifiutare un legame così forte, anche se traumatizzato, che nonostante tutto ha saputo assicurargli un futuro. «Ogni nonna nella comunità», si lamenterà un adolescente, «è diventata una psicopatica dal genocidio».

 

Quando provavo ad articolare i miei sentimenti riguardo a casa, inevitabilmente il pensiero mi tornava a queste canzoni, al modo in cui l’incomprensibile si intrecciasse con tutto ciò che mi faceva sentire a mio agio. Ero vissuto nell’incomprensione talmente a lungo che avevo persino smesso di vederla come una cosa sbagliata. Stava semplicemente lì, incarnata in tutte le cose che amavo.

 

Cosa è davvero casa? E com’è costruirne una con l’ingombrante presenza della precedente? Cosa significa essere davvero cambogiani? La sensazione che pervade il lettore è essere al cospetto di un senso di colpa da espiare e una libertà che non è mai vissuta fino in fondo.
Ne Le tre donne del Chuck’s Donuts, per esempio, la quiete di un locale aperto fino a tarda notte è scossa da un uomo che entra e ordina una ciambella che puntualmente non mangerà. In un crescendo di tensione le voci delle tre protagoniste si alterneranno tra l’incubo di un passato oscuro che ritorna per la madre, il desiderio di avere una possibilità per un futuro diverso dall’amore tormentato e tradizionale dei genitori da parte delle due figlie: «Può di per sé la sopportazione portare a ferite che sanguinano nei pensieri, si chiede Tevy, distorcendo il modo stesso in cui si fa esperienza del mondo?».
Una volta capito che il vero nodo di Afterparties è l’individuo isolato che contempla le contraddizioni di una comunità affiatata ma avvoltolata su se stessa, la divagazione ironica e le improvvise epifanie che intramezzano battute sagaci diventano la difesa che travalica i confini dell’adeguatezza e della rispettabilità.
Nel lettore cresce la sensazione di essere uno spettatore privilegiato, e in fondo non così poco coinvolto: per quanto possa essere lontano dalle identità etniche in scena avrà provato il sentimento di rivalsa per origini che coccolano e che intrappolano allo stesso tempo, avrà assaporato il punto di rottura tra quello che è sempre stato e quello che gli altri volevano che fosse, si sarà domandato a quale costo s’impara a camminare senza deludere tutte quelle figure che hanno fatto parte di lui.
Ogni cambiamento passa per l’atto di coraggio di demistificare il proprio passato per non restarne vittima, per non scegliere la strada già tracciata lastricata di valori non più sentiti. E come può una generazione per giunta queer, alle prese con una dose prestabilita di discriminazione ed emarginazione, viziata dalla tecnologia e abituata a legami fugaci, portare sulle spalle il peso storico di un genocidio?
La scrittura di So posa lo sguardo su chi fugge e chi resta dissezionando cosa vuol dire sobbarcarsi le aspettative disilluse di vecchie generazioni e cercare di immaginare oltre le proprie origini. In entrambi i casi la moneta di scambio è una solitudine irrimediabile che arriva dolorosamente come rivelazione ultima prima andare via.

Segna ancora Superking Son racconta di un allenatore di badminton idolatrato da tutti i ragazzini del quartiere:

Poteva schiacciare il volano così forte, e farlo vorticare così veloce, che quando quello ci sfrecciava accanto, mano sul fuoco, riusciva a scuotere persino il campo di forza che ci soffocava tutti, quello composto dalle irragionevoli aspettative dei nostri genitori, la loro paranoia che il nostro mondo avrebbe potuto sbriciolarsi da un momento all’altro e spedirci di nuovo tutti dove avevamo cominciato, morti di fame e poveri sottomessi a un dittatore genocida.

 

Ma la sua nomea è destinata a estinguersi con l’arrivo di un nuovo e talentuoso ragazzino. La verità è che Superking Son si trasforma in un tipo bizzarro, sempre più lontano dalla speranza di un futuro diverso delle nuove generazioni. Ogni giorno l’anziano vive a metà tra il senso di appartenenza per essere rimasto nella comunità d’origine, a curare il superstore di famiglia, e il rimpianto per non aver osato seguire il sogno di diventare altro.
Conosciamo i Superking Son dei nostri paesi e dei nostri quartieri, li conosciamo forgiati dalla discriminazione e dalla povertà che li trasformano immediatamente da archetipo a stereotipo: il vincente ammantato di fascino nei nostri occhi di bambini diventa uno zimbello. L’eredità di una figura del genere non può che essere la prevedibilità, l’arrivo di contorni prestabiliti che nella vita adulta si ripresentano per chiedere il conto.
Lo stesso titolo di Afterparties suggerisce che qualcosa accade dopo le maschere obbligate che indossiamo a una festa. L’insularità vissuta nella comunità sbracata e informale delle aggregazioni post-matrimonio rilascia la speranza di poter sbrogliare l’incomprensione o, almeno, di confessarla alla ricerca d’indulgenza.
Nel racconto I monaci, per esempio, il protagonista decide di trascorrere un periodo in un tempio buddhista insieme ad altri monaci («La smetterò di pensare a me stesso come una cosa, e come parte di un'altra»). La comunione di gruppo squarcia la prevedibilità – i percorsi della vita degli immigrati segnati dalla storia e dalla lotta – e introduce la casualità.
Il ritorno alla comunità sembra un ciclo da incubo, eppure anche la struttura della raccolta ricorda la circolarità della reincarnazione buddhista. In un arco temporale indefinito ritroveremo gli stessi personaggi, improvvisamente invecchiati o nel mezzo della vita adulta: ora non possono più cavarsela con le solite battute perché alla fine credevano nella reincarnazione di una madre suicida nel corpo della nuova nata in famiglia (è il caso di Maly, Maly, Maly e Somaly Serey, Serey Somaly).
Come ha scritto So in un saggio su n+1, nelle parole di Deleuze, «la ripetizione consente la reinvenzione», i cicli e le loro rotture aprono a «nuove comprensioni, sentimenti radicali mai sperimentati prima».
Solo in mezzo agli altri si può sperare di invertire la rotta ed evolvere senza distruggere.