di Giordana Restifo
Che cosa succede alla popolazione di un paese quando questo vive un lungo e lento momento di transizione da regime autoritario a Repubblica democratica? Negli ultimi decenni la letteratura balcanica ci ha indicato alcune risposte. La storia della Bulgaria, con le sue trasformazioni, le sue stagnazioni, il suo incedere etilico, non è dispensata dal quesito. Per farsi un’idea su come trascorre la vita del popolo bulgaro basta leggere Circo Bulgaria, raccolta di racconti di Dejan Enev, appena pubblicata nella collana Radar da Bottega Errante Edizioni e tradotta da Giorgia Spadoni.
L’opera in lingua originale risale al 2005 (intitolata inizialmente Vsički na nosa na gemijata – Tutti sulla prua della barca), successivamente è stata tradotta per altri lettori europei – la versione inglese (dal titolo Circus Bulgaria), curata da Kapka Kassabova, è stata finalista al Frank O’ Connor International Short Story Award nel 2011 – e all’inizio di settembre è finalmente approdata nelle nostre librerie. Nei sessantadue racconti brevi, alcuni brevissimi, della versione italiana sono condensati tutta la miseria, lo squallore, la dignità, la tristezza e la rassegnazione dei bulgari. Sono frammenti di storie che creano un ritratto incisivo del paese. Principalmente ambientate nelle vie, nelle piazze e nelle case di Sofia, che brulica di personaggi anonimi e al tempo stesso particolari. Enev, considerato uno tra gli autori bulgari contemporanei più apprezzati, colloca i suoi protagonisti anche fuori dalla capitale, sul monte Vitoša, nei paesi di Kurilo, di Mali Dren e di Staro Selo, sui sentieri attorno al Monastero di Rila, nei piccoli centri abitati e disabitati disseminati sui monti Rodopi.
Evitando l’uso di toni didascalici, Enev ci mostra la metamorfosi della Bulgaria. Con l’affermazione del regime comunista, nella prima metà del ‘900, il paese, un tempo agricolo, ha intrapreso un lungo processo verso l’industrializzazione. In quegli anni, autori come Elin Pelin e Jordan Jovkov, citati da Enev, l’uno nell’introduzione dal titolo Tutti sulla prua della bagnarola e l’altro nel racconto La rondine bianca, caratterizzavano le proprie opere con uno spiccato realismo, raccontando della Bulgaria rurale e del passaggio dalla vita nelle campagne e nei villaggi a quella nelle città. Il dualismo campagna-città in Enev non è così marcato. Il fenomeno di urbanizzazione nella sua opera si è realizzato. Se nella maggior parte dei racconti il riferimento alla trasformazione della società è velato, in Casablanca, una storia d’amore e di esproprio, invece, è esplicito:
“La loro casetta era l’ultima del quartiere. In un paio di anni le erano cresciuti attorno decine di edifici residenziali a più piani, che di notte s’illuminavano come transatlantici. Solo la casetta a un piano del signor e della signora Sarafov rovinava la vista. […] Gli imprenditori erano impazienti di saperli morti, perché si era a conoscenza che i due non avevano eredi. E al posto della casetta nel giro di pochi mesi si sarebbe potuto erigere un altro condominio vertiginoso. Ma il signor e la signora Sarafov non morivano”.
La città cresce, si trasforma, lasciando dietro chi la abita, che, nel frattempo, soccombe sotto l’influsso dell’alcol (la rakija onnipresente nella letteratura balcanica non manca nemmeno in Circo Bulgaria, ma i personaggi bevono anche whisky, cognac e altri distillati e liquori), dei disturbi psichici, della povertà. Così, nei racconti di Enev il lettore incontra soldati annoiati nei loro giorni di permesso o spaesati perché appena tornati dal fronte, giovani donne (prostitute, bariste, cameriere, ballerine, impiegate di lavanderie) costrette ad avere a che fare con uomini rozzi, famiglie monche che faticosamente si reggono in piedi, giornalisti confusi dalla realtà dei fatti, pazienti e personale di cliniche psichiatriche. È verosimile che l’autore abbia attinto dalle sue precedenti esperienze lavorative per dare forma ai personaggi. Prima di diventare uno dei maestri bulgari della narrazione breve, ha svolto mansioni di operaio, imbianchino, insegnante, assistente ospedaliero notturno, redattore e giornalista.
In due aspetti, collegati tra loro, si riscontra principalmente la bravura di Enev. I racconti (o “razkazi” in bulgaro), nonostante siano concentrati nell’arco temporale della narrazione di poche giornate, riescono, invero, a fare addentrare il lettore nell’intera esistenza dei protagonisti. Arrivati al finale, di alcune storie si vorrebbe sapere di più, di altre bastano gli elementi colti durante la lettura. Non è solo grazie alla tecnica di scrittura che ci si appassiona ma anche alla caratterizzazione dei personaggi. L’autore riesce a renderli autentici, concreti, inducendo il lettore a non saper distinguere la finzione dalla realtà. Giorgia Spadoni, la sua traduttrice, ci dice:
“Nel frattempo mi ero trasferita a Sofia, studiavo e lavoravo e giravo per la Bulgaria e più volte mi sono imbattuta in situazioni e persone che sembravano uscite dalle storie di Dejan, come dei déjà-vu. Belle e brutte. Divertenti e tristi. Traducevo un racconto e subito mi ritrovavo il protagonista davanti, in carne e ossa”.
Ciò accade perché il narratore deve convincere i lettori usando «il visibile, il fisico, l’eminentemente tangibile», lo spiega bene in un’intervista Isabella Zani, traduttrice di Anthony Doerr, citando proprio l’autore statunitense. Per arrivare a far percepire e assimilare quel mondo sconosciuto, reale o immaginario che sia, il racconto deve essere costellato di dettagli e particolari giusti al posto giusto.
Se da una parte, nel libro, si avverte una sempre più incalzante e incurante economia di libero mercato che travolge chi non sta al passo, dall’altra c’è la natura che evoca ricordi ancestrali. Le stelle, l’astronomia, il «grande parco Borisova Gradina» di Sofia, la miracolosa sorgente nascosta sul pendio che porta al Monastero di San Giovanni, le stelle alpine di cui è pieno «il cortile del Buon Dio» e lo scenario rurale di quei posti in cui i contadini ancora lavorano la terra da generazioni, dove sembra che il tempo si sia cristallizzato; tutto concorre a creare il contrasto tra moderno e antico.
Anche gli animali sono parte integrante della composizione, alle volte sono a subire le crudeltà degli uomini, altre volte fonte di guadagno (come l’allevamento di coccodrilli nel racconto Il padre del soldato o Cezar, la tigre ormai dismessa e venduta, in quello che presta il titolo alla raccolta, Circo Bulgaria appunto). Quando tutto sembra irredimibile, irreversibile, mentre il fallimento, la disperazione, i toni cupi e una leggera vena di umorismo nero aleggiano sui racconti, Enev inserisce uno spiraglio, una crepa di ottimismo con Il gigante: un cacciatore di orsi bruni si reca, con il figlioletto, a Mali Dren per uccidere l’orso che sta danneggiando il paese e cibandosi del bestiame degli abitanti. Padre e figlio attraversano la collina, si fanno largo «tra gli enormi alberi barbuti dai licheni», a valle c’è l’Oscuro bosco («sopravvissuto chissà come al terribile disboscamento sui nostri Balcani») e avvistano l’orso. Al momento di sparare, però, l’uomo si blocca, lui e l’animale hanno uno scambio intenso di sguardi finché quest’ultimo non va via seguito da un piccolo orsetto uscito dai cespugli.
Inoltre, nelle pagine di Enev sono presenti elementi folkloristici, culinari (come il kozunak – dolce pasquale tipico – del racconto La mia Pasqua o i kebapceta – piccole salsicce di carne mista – di Santa Marija da Staro selo), musicali, della tradizione e della cultura bulgara; espedienti che l’autore utilizza plausibilmente per rendere le sue storie più realistiche e concrete.
Infine, c’è un forte richiamo alla religione, più che altro a Dio. Nel paese, a maggioranza cristiana ortodossa e storicamente caratterizzato dalla convivenza tra cristiani, musulmani ed ebrei, sembra che avere fede in Dio, o meglio affidarsi a Dio, sia rimasta una delle poche cose da fare. C’è un passaggio in Obitorio, il racconto più lungo della raccolta, che colpisce più che negli altri:
“Dio ci dà molto, ma chiede anche molto. E noi esseri umani, per avidità o egoismo o disonestà, non vogliamo pagarne il prezzo. Dio vuole la bontà da noi, Džo, una continua, raggiante bontà. Vuole che siamo generatori di bontà. Dio ha posto una concezione chiara del bene e del male. Il luogo in cui sentiamo quando facciamo del bene e quando del male si chiama anima. Si trova qui, dove c’è il diaframma”.
A pronunciare queste parole è zia Ani, una donna imponente fisicamente e caratterialmente, che ogni giorno ha a che fare con la morte, occupandosi dei corpi portati in un obitorio. Parla senza edulcorare, ma, inaspettatamente, nella fredda stanza dove lavora, nel seminterrato buio di un ospedale, mentre prova a spiegare l’esistenza di Dio al suo dipendente (nonché narratore del racconto), il suo registro cambia, s’ingentilisce. E, come se si rivolgesse anche a noi lettori, ci lascia questa chiara e pura deduzione:
La fede in Dio, la consapevolezza che esiste, non è un’illuminazione, non è un fulmine a ciel sereno. È una condizione, un dolce fardello che permette di vivere una vita piena, significativa e colma di dignità. Dio non vuole grandi opere da noi. Dio vuole una cosa sola da noi: che chiediamo sempre alla nostra anima se ciò che facciamo o pensiamo è buono o cattivo. Solo questo”.