Tu ed io e altri racconti, di Andrej Donatovič Sinjavskij

Autore: Andrej Donatovič Sinjavskij
Editore: Voland
Traduzione: Benedetta Lazzaro
pp. 208 Euro 18,00


di Alice Pisu

“Da quattro giorni si trova nel mio campo di osservazione. Io gli sembro un pitone, il cui sguardo a sangue freddo fa perdere i sensi al coniglio. Le idee che si è fatto su di me sono una vera sciocchezza. Ma anche volendo basarsi su queste stupide fantasie non so chi di noi tenga intrappolato chi: io lui o lui me? Entrambi siamo caduti prigionieri, incapaci di staccare l’uno dall’altro gli sguardi ormai vitrei”.

 

L’indagine sul mistero di sé e il disagio mentale domina Tu ed io di Andrej Sinjavskij, il racconto centrale che dà il titolo alla raccolta appena pubblicata da Voland nella traduzione di Benedetta Lazzaro che torna in libreria dopo oltre settant’anni dalla prima pubblicazione. I racconti fantastici firmati come Abram Terc, uscirono inizialmente in Francia per una rivista di emigrati polacchi e arrivarono al pubblico italiano nel 1962 (La gelata, trad. Maria Olsoufieva, Rizzoli).
Necessario, per comprenderne la poetica e gli ideali, addentrarsi nella vicenda privata e pubblica dell’autore, a partire dal valore assunto da uno pseudonimo divenuto il suo alter ego, grazie a cui Sinjavskij poté pubblicare all'estero narrazioni, saggi e testi caustici in contrasto con i canoni dell’epoca e con il pesante clima culturale sovietico.
A sconvolgere l’esistenza di uno degli intellettuali moscoviti più acuti del suo tempo fu il processo epocale, subito tra il 1959 e il 1960, insieme al poeta russo Julij Markovič Daniėl'. La risonanza avuta dal caso fu imponente, portò alla mobilitazione di numerosi scrittori e critici che indissero petizioni e inviarono lettere aperte per rivendicare il valore artistico delle opere contestate. Nonostante ciò, Sinjavskij fu condannato a sette anni di gulag per attività antisovietica e propaganda reazionaria contro il regime. Le dure condizioni subite non gli impedirono però di continuare a scrivere anche durante la prigionia. Una volta libero, nel 1971 si trasferì a Parigi con la sua famiglia, divenne professore di Letteratura Russa alla Sorbona e seguitò a scrivere i suoi romanzi e i suoi saggi critici firmandosi Abram Terc. Fondò e diresse con sua moglie la rivista Sintaksis, rilevante nell’accogliere le firme della dissidenza russa e dell’emigrazione. Solo nel 1990 le sue opere furono pubblicate in Russia.
La condizione di alienazione e di assenza di libertà segnarono lo scrittore nel profondo, generando la necessità di insistere su tale esperienza attraverso narrazioni capaci di compiere un superamento del dato reale e tracciare un’evoluzione dell’esperienza personale in visione artistica.
Leggere Tu ed io e altri racconti offre la possibilità di scoprire anche un racconto inedito in Italia (Pchenc) che riflette sullo smarrimento di chi è lontano dai luoghi natii ed è consapevole che non vi farà più ritorno. Il testo è incentrato su un alieno che da oltre trent’anni vive sulla Terra mascherato da gobbo contabile sessantunenne, scapolo, non iscritto al partito, che ammira segretamente il proprio corpo di rami e fronde, emblema della bellezza perduta della sua patria.
Ricorrono nei racconti temi cari all’autore: il rapporto col passato, il rilievo della letteratura nell’inviare missive nel futuro, il ruolo dell’individuo nella Storia, l’emarginazione e la follia, la relazione con il soprannaturale e la reincarnazione, le possibilità insite in ogni fine.
La scelta di Sinjavskij di allestire contesti sovietici asfittici affini ai classici della letteratura russa è indicativa di una precisa volontà di enfatizzare il fantastico a partire da quadri di miseria, disperazione, follia tragicomica e delirio. Di particolare significato l’uso sottile dell’elemento comico come strategia per amplificare il dato reale e generare una trasfigurazione grottesca.
Il racconto Grafomani è emblematico nel raccontare le vicende di un gruppo di letterati alle prese con vani tentativi di pubblicazione per case editrici e riviste sovietiche. Emergono sottotraccia profonde affinità con la vicenda personale dell’autore, vissuto in ristrettezze economiche anche a causa delle velleità letterarie del padre che non ottenne mai il successo sperato e gravò sua moglie (come accade nel racconto) della conduzione della famiglia con il suo solo stipendio.
Il degrado dello scrittore che si ritiene un “cervello geniale” dal “cuore ardente” costretto a sostentarsi con polpette avariate, tra mura sporche di unto e tracce di cimici, è reso tra toni tragicomici. La frustrazione per il mancato successo si trasforma in mania di complotto nell’invidia del successo altrui, ottenuto depredando le sue intuizioni letterarie.
Sinjavskij compie una feroce critica del sistema editoriale senza rinunciare a evidenziare la natura ridicola di sedicenti letterati, attraverso un bizzarro campionario umano di correttrici di bozze licenziate per lapsus politici, insegnanti di botanica, “vecchiette in pince-nez alla Čechov che scrivevano di allevamenti di suini”, “giovani fanciulli neofiti con riccioli alla Puškin, imitatori di Esenin”, colonnelli in pensione, ragazzi che puzzavano di “alcol, prigione e suicidio”. Quell’epopea sugli scrittori falliti che il protagonista finisce per comporre su suggerimento dell’amico Galkin sarà il suo modo di congedarsi dalla letteratura e dedicarsi alla famiglia a lungo trascurata.
Le venature grottesche nei ritratti di miseria evidenziano la natura beffarda dell’indigenza, ricordano le atmosfere insane tipiche di Dostoevskij nell’angustia inestinguibile generata dal presagio del dramma e nel succedersi all’apparenza confuso degli eventi con al centro figure contraddittorie, divorate da un opprimente senso di ingiustizia. La natura farsesca e tragica delle sue storie riserva esiti sorprendenti, tra successioni all’apparenza incoerenti o ripetizioni di scene singolarmente ordinarie ma che nella sincronia concorrono a comporre un mosaico in prosa: “[…] non sapevano di fungere da dettagli in un quadro che ero io a creare mentre li osservavo”.
L’architettura formale eletta da Sinjavskij genera a tratti un divertito smarrimento nel lettore che, come nel racconto che dà il titolo alla raccolta, crederà sino all’ultimo di seguire le vicende di due personaggi distinti. Come accade infatti anche in Tu ed io, i toni fantasmagorici permettono all’autore di esplorare la perdita di contatto con sé stessi, l’inganno del vero, affrontare le ossessioni e i disturbi dissociativi, lo sdoppiamento della coscienza, immortalare la condizione che precede la follia in contesti di pesanti discrepanze sociali che traducono la ferocia della povertà attraverso storie che riservano slanci lirici inattesi, sulla scorta dell’esempio fornito da uno dei suoi maestri, E.T.A. Hoffmann. Di stampo hoffmanniano anche la disposizione a inglobare il comico, il grottesco e il fantastico in armonia con scorci di un quotidiano in cui convivono credenze diverse e aneliti sopiti. 

“All’improvviso il mio campo visivo veniva invaso da una strada di cumuli ciechi, e una lacrima gialla, mischiata con la neve scintillante, scendeva dal mio occhio sul naso, sui lampioni e sui tetti, coperti da quella stessa neve come capanne. Ogni volta che mi riscuotevo e asciugavo col guanto l’ennesima lacrima, la natura mi dava conferma del fatto che nevicava e che avrebbe nevicato ancora a lungo,
forse per tutta l’eternità”.

Tra i racconti della raccolta assume un particolare rilievo La gelata, incentrato su un uomo dalle doti di chiaroveggenza che vive nel costante presagio di una disgrazia imminente. Verrà sequestrato dalla polizia per occuparsi in segreto di crisi diplomatiche, smascherare nemici e contribuire a risolvere questioni politiche ma perderà il suo potere alla morte dell’amata, che nonostante i suoi avvertimenti non è stata preservata dall’incidente fatale.
Il racconto riflette sulla labilità delle relazioni, sulla presenza della morte nella vita, sul peso del futuro, sull’ipocrisia sociale. La valenza del testo risiede anche nella riflessione sulla perdita di sensibilità durante la reclusione vissuta da chi, pur assolvendo un dovere civile, pensa da intellettuale e si sente a disagio nel compiere azioni dannose per le minoranze. Pur avendo consapevolezza dei benefici rispetto ad altri detenuti comuni, l’uomo finisce per annientarsi in tale condizione: si riduce a perdere ogni riferimento, destinato prima al manicomio e poi al confino.
L’ossessione per la perdita della memoria ricorre nel racconto tra pagine dalle venature spiritualistiche. Certo della reincarnazione, il protagonista teme che l’assenza del ricordo della propria storia conduca a una cancellazione ben più temibile della morte stessa. Sinjavskij ama operare forti contrasti identificando in contesti di apparente evasione l’ineluttabilità del tragico. Così, una festa di capodanno diventa lo scenario ideale per un uomo dai poteri soprannaturali che osserva i moccoli delle candele immaginando che corrispondano all’esistenza dei presenti, tra chi si spegnerà con spensieratezza e chi si renderà conto con orrore della propria condizione solo poco prima della fine.
“La morte ci separa con le barriere dell’oblio”.
Qualsiasi tema affrontato da Sinjavskij può essere osservato da angolazioni diverse grazie all’espediente fantastico e trova nella cura estrema per la parola esatta e nell’armonia della composizione una ricerca estetica nata a partire dallo studio di Majakovskij. L’irriverenza di Sinjavskij risiede nel fare propri i dettami dei grandi maestri della letteratura e dell’arte in genere, per dare forma a opere che racchiudono una verve analitica e uno spirito creativo inconfondibili, la cui direzione è palesata nell’illuminante saggio Che cosa è il realismo socialista, dai tratti dissacranti nel minare i canoni del suo tempo e esplicitare i principi della sua rivoluzione letteraria.

 

“Attualmente, io spero in un’arte fantasmagorica, con ipotesi al posto dello scopo, un’arte in cui il grottesco rimpiazzi la descrizione realistica della vita quotidiana. È l’arte che meglio risponderebbe allo spirito dell’epoca. Possano le immagini di Hoffmann, Dostoevskij, Goya, Chagall e Majakovskij, con quelle di tanti altri realisti e non realisti, insegnarci a essere veridici con l’aiuto della fantasia più assurda!”.