I pericoli di fumare a letto, di Mariana Enriquez

Autore: Mariana Enriquez
Editore: Marsilio
Traduzione: Fabio Cremonesi
pp. 176 Euro 17,00

di Debora Lambruschini

Il perturbante, l’ossessione, i corpi e il desiderio; le rovine della città, l’adolescenza quasi mai innocente, il trauma, la denuncia sociale. Sono il fil rouge che attraversa la produzione letteraria di Mariana Enriquez e i suoi racconti incendiari, tesi tra realtà e horror, ambientazione contemporanea e contaminazioni. Di recente Marsilio ha portato in libreria nella perfetta traduzione di Fabio Cremonesi la raccolta I pericoli di fumare a letto, pubblicata per la prima volta nel 2007 e che precede quindi i racconti di Le cose che abbiamo perso nel fuoco (Marsilio, sempre traduzione di Cremonesi), un bestseller tradotto in trenta lingue. Dodici storie non pienamente mature, forse, ma parimenti esplosive, nelle quali il perturbante si mescola al quotidiano, l’horror alla denuncia sociale, la contemporaneità alla tradizione, aprendo la strada a tematiche e spunti che saranno propri della scrittura di Enriquez. Le etichette – quelle stesse che come quasi ogni autore anche la scrittrice argentina rifugge – che vi possiamo apporre collocano i racconti di Enriquez nel solco della tradizione e li avvicinano, con le dovute distinzioni, alle storie di Poe, Amparo Dàvila, Shirley Jackson per certi versi, King, Lovecraft, un repertorio classico la cui influenza è ben riscontrabile e che si rinnova in storie che a partire da questa tradizione riescono a trovare la propria dimensione, la propria ragione di essere nella contemporaneità. Ed è, forse, proprio nell’intreccio di horror e denuncia sociale, folklore e realtà quotidiana, che i racconti di Enriquez diventano qualcosa di proprio e si fanno molteplici.
La lingua è affabulatoria, la narrazione segue di volta in volta un ritmo diverso, indugia sul particolare, il dettaglio, qui e là vira sul macabro ma mai fine a sé stesso; è un ritmo che segue l’andamento della storia, le sensazioni che mira a suscitare nel lettore, si muove sapientemente tra prima e terza persona. Il mondo di Enriquez è quello della città (Buenos Aires per lo più) o delle periferie, del degrado, del male che le attraversa e corrompe, dell’alienazione, del disagio, situazione ideale dove la realtà si contamina con il mito. E dove il sovrannaturale – che a tratti sembra assumere vagamente la forma del distopico – si innesca perfettamente sulla realtà più riconoscibile e usuale, i piani della ragione e dell’invenzione che si fanno via via più confusi. È una scrittura affabulatoria che estende al massimo il potenziale dell’ambiguità, piega gli strumenti della narrazione breve e conduce il lettore in luoghi oscuri, impenetrabili, da cui è impossibile uscire.
C’è una particolare ossessione per l’adolescenza, l’età più letteraria e ammaliante: le ragazze – perché sono soprattutto donne le protagoniste – di Enriquez quasi mai innocenti, oscillano tra l’essere vittime e carnefici. Si trova già nelle prime battute de “La Vergine della cava”, il secondo racconto della raccolta:

 

Era la nostra amica “grande”, quella che ci teneva d’occhio quando uscivamo, quella che ci prestava la casa in cui potevamo farci una canna o vederci con i ragazzi. Eppure volevamo vederla rovinata,
indifesa, distrutta.
(“La Vergine della cava”, p. 17)

 

Sono la gelosia, l’ossessione, il desiderio di vendetta e un istinto animale a guidare verso la rovina e un macabro epilogo, brutale. Ecco, brutali sono i racconti di Enriquez, per l’oscurità che li attraversa, la tensione costruita con cura, la violenza pronta a esplodere. Non è la violenza di Shirley Jackson o Flannery O’Connor, ma qualcosa che si rincorre lungo tutta la narrazione, inevitabile; di Jackson, Enriquez ricorda certi meandri oscuri del cuore umano, che più di demoni e fantasmi sono gli uomini e le donne i veri artefici del male, mai davvero innocenti.
È la rovina di un quartiere perbene che di fronte al diverso mette a nudo la propria meschinità e cattiveria e non può esserci salvezza (“Il carrello”), neppure tra i non direttamente colpevoli; è una famiglia che condanna una delle figlie per liberarsi del maleficio che li affligge («Decisero di salvarsi loro, bambina», “La cisterna”); è il fanatismo di due adolescenti portato all’estremo (“Carne”).
Ci sono poi due racconti in particolare da cui emerge ancor più evidente che in altri la commistione tra horror e denuncia sociale, cui la narrativa sudamericana difficilmente può rinunciare. Se Amparo Dàvila, regina del cuento e del perturbante, nel trattare la questione femminile sceglie di calarla nel quotidiano, in stretto rapporto con il contesto sociale in opposizione ai proclami e alla patina dell’attivismo, anche Enriquez trova la propria dimensione per denunciare l’oppressione, il peso della Storia recente, le storture, i pericoli del quotidiano. Ne “Le cose che abbiamo perso nel fuoco”, lo farà con il racconto potentissimo e distopico che dà il titolo alla raccolta, dove le donne per protestare contro la violenza e i femminicidi iniziano a lanciarsi volontariamente nel fuoco, uscendone sfigurate, sopravvissute, un simbolo. In questi dodici racconti che lo precedono, il discorso sul femminile è forse meno apertamente di protesta ma ugualmente presente: è nella rappresentazione del desiderio – che sconfina nell’ossessione, nella dipendenza, nell’isolamento – , nella rottura con i modelli tradizionali di moglie e madre, nell’indugiare sui corpi, nel cannibalismo perfino delle adolescenti di “Carne”.
Il più lungo e per certi aspetti compiuto racconto de I pericoli di fumare a letto non è quello eponimo – quasi mai, dopotutto, lo è – ma “Ragazzi che ritornano”, in cui l’intreccio di distopia, folklore, horror, denuncia sociale è quantomai efficace. E parte con l’alienazione del lavoro di chi ha costantemente a che fare con la sofferenza altrui, il contesto ideale su cui si innesta il distopico:

 

Quello di Mechi era un lavoro silenzioso, la manteneva isolata: consisteva nel gestire e tenere aggiornato l’archivio dei bambini smarriti e scomparsi nella città di Buenos Aires, conservato nello schedario più grande dell’ufficio, che apparteneva al Consiglio per i diritti di bambini, bambine e adolescenti. Neppure lei aveva le idee chiare sulle reti burocratiche di consigli, centri e amministrazioni a cui faceva riferimento, e a volte faticava a capire per chi stesse lavorando […].
(“Ragazzi che ritornano”, p. 114)

 

 Un archivio perfettamente ordinato, laddove ordine nel caos generato dalla scomparsa non può esserci. La ripetitività del quotidiano mossa da qualche incontro occasionale, relazioni superficiali e fugaci. Poi, l’ossessione e la rottura dell’equilibrio: una di quelle storie, uno dei tanti volti e nomi di ragazzi scomparsi, Vanadis, si imprime nella mente della donna; una ragazza bellissima, dalla vicenda tragica, misteriosamente scomparsa. Un filmato sgranato pare indicarne la morte. Ma appena pochi giorni dopo il ritrovamento del filmato, Vanadis riappare. È proprio lei, bellissima, emaciata, silenziosa. E di lì a poco altri ragazzi e bambini scomparsi o morti, riappaiono in città.

 

Nelle settimane successive si arrivò all’isteria, e anche un po’ più in là. I ragazzi spariti dalle loro case cominciarono a ricomparire, ma non ovunque: in quattro grandi parchi della città, il Chacabuco, l’Avellaneda, il Sarmiento e il Rivadavia. Rimanevano lì, la notte dormivano fianco a fianco e non sembravano intenzionati ad andare da nessuna parte.
(“Ragazzi che ritornano”, p. 137)

 

Riapparizioni improvvise, inquietanti, e le persone in cerca di rassicurazioni accettano di buon grado spiegazioni superficiali. Ma chi sono davvero questi ragazzi? E dove può condurre l’isteria generale, la paura di qualcosa che non si comprende?
È un racconto sottilmente inquietante, che apre a molteplici spunti su tematiche differenti, dall’alienazione al controllo, i timori collettivi, la povertà, l’emarginazione, l’indifferenza, e che si regge su una struttura narrativa tradizionale, solida, in cui molto spazio è lasciato all’ambiguità, elemento fondante di questo racconto.
Ambiguità che assume sfumature differenti, inequivocabilmente politiche, in “Quando parlavamo con i morti”, il racconto che chiude la raccolta e richiama una delle pagine più oscure della storia argentina del Novecento: la dittatura militare e la questione dei desaparecidos, chiamata a gran voce, una parola che apre squarci:

 

Il fatto era che tutti sapevano che i genitori di Julita non erano morti in un incidente: i genitori di Julita non si trovavano più. Erano scomparsi. Erano desaparecidos. Non sapevamo nemmeno bene come dirlo. Julita diceva che li avevano portati via, perché così dicevano i suoi nonni.
(“Quando parlavamo con i morti”, p. 167)

Attraverso una tavola per parlare con i morti, un gruppetto di amiche cerca un contatto, una voce, una prova di come sia andata quella storia, una di molte altre. E ognuna di loro – tranne una – , per esperienza diretta o attraverso racconto di altri, porta una storia simile di persone scomparse. Fino all’ultima, misteriosa apparizione. Che mette fine a un gioco, ma non può rispondere a tutte le domande, rimaste appese ai fili della storia, rimaste sospese anche nella nostra realtà.
L’incanto è compiuto.