La radio e il ferro da stiro sono spariti, di Pauline Melville

Autore: Pauline Melville
Titolo: Uno di questi due paesi è immaginario
Editore: Tamu Edizioni
Traduzione: Pietro Deandrea
pp. 270 Euro 16,00

La casa editrice Tamu, nata a Napoli nel 2020, esordisce con la narrativa portando in Italia i racconti di Pauline Melville, contenuti nel libro ‘Uno di questi due paesi è immaginario’.
Tra Londra e i Caraibi vanno in scena le metamorfosi di questa raccolta di racconti di Pauline Melville. Tra negozi di spezie africane nella metropoli inglese e caseggiati popolari in desolate città dell'America centrale si muovono i personaggi di queste storie, dove emarginati della working class incontrano carismatiche figure dai poteri soprannaturali e il confine tra sogno e realtà si fa labile tanto quanto la distanza tra le due sponde dell'oceano. Nei racconti, la pura cattiveria della vita quotidiana è compensata da un'immaginazione comica, componendo trame inquietanti e allo stesso tempo divertenti, che giocano con il "caleidoscopio genetico" offerto dalla storia delle migrazioni e del colonialismo.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

LA RADIO E IL FERRO DA STIRO SONO SPARITI
di Pauline Melville

«Sono una naufraga, Molly!»
In piedi sulla veranda, Donella Saunders contemplava l’arida macchia di giardino fino alla casa dei vicini. Una casa che, come la sua, aveva bisogno di una mano di vernice. La bianca costruzione in legno aveva ceduto in vari punti, con la ruggine insinuatasi fin sul tetto di zinco della rimessa. Tra le due proprietà, la recinzione zigzagava coi paletti tutti storti sotto il peso degli ibischi che, non potati, la percorrevano dall’inizio alla fine. Seduta sulla sedia di vimini, la grassoccia donna bianca, con una catenina di punture di zanzara attorno al collo, non diceva nulla.
«Non riesco proprio a spiegarmi perché tu sia venuta», proseguì Donella. «Siamo in una situazione critica, qui. Estremamente critica».
Oltre la cinquantina, la pelle bruna, era una donna alta e incredibilmente magra, con la fronte spaziosa e l’aria di un’eleganza devastata. Si era tirata via dal volto i capelli castani ondulati, appuntandoli alla buona con dei pettini. Faceva cadere la cenere nel giardino con colpetti nervosi, imbronciata, gli occhi fissi di fronte a sé, senza guardare nulla in particolare.

Molly Summers si crogiolava nella soddisfazione di conoscere il motivo preciso per cui lei era lì, nell’assolata capitale della Guyana. Il fine era quello di arricchire la vita dei suoi scolari in Inghilterra. Consapevole solo in parte del malumore dell’altra donna, stava gustando una tazza di caffè freddo e si esaminava i sandali nuovi. Provò a immaginarsi il negozio di scarpe di Finsbury Park dove li aveva comprati, là a continuare la sua solita attività mentre lei era seduta migliaia di chilometri lontano, sull’altra sponda dell’Atlantico. Dal primo momento in cui, già un po’ di anni prima, aveva mormorato «Oh sì, Signore» nel silenzio e nella quiete della Friends’ Meeting House di Muswell Hill, aveva individuato la propria missione: comprendere, promuovere e sostenere la cultura delle razze oppresse in Inghilterra; garantire parità di trattamento almeno per quanto riguardava la scuola elementare Moseley Road – aveva persino proposto (senza successo) di cambiare il nome alla scuola. Ritrosa di natura, vinceva spesso la propria timidezza per fare interventi alle riunioni collegiali. Frequentava tutti i corsi contro il razzismo organizzati dalle autorità scolastiche locali e lanciava occhiate di rimprovero ai colleghi che facevano osservazioni razzialmente ambigue. Studiava la storia delle Indie Occidentali preemancipazione, provando un sommesso piacere per il ruolo del movimento quacchero nella lotta contro la schiavitù. La fede quacchera faceva per lei, con quel suo unico dio così pallido e semplice e quieto che a malapena pareva esistere. Una grande autostima era un’idea ripugnante per Molly, da sempre in bilico sulla corda tra il cercare di fare del bene e il cercare di non compiacersi per averlo fatto. Ma sulla questione razziale si gloriava di stare proprio dalla parte della ragione. L’opportunità di visitare le Indie Occidentali era giunta grazie a una proposta buttata lì dall’unica insegnante nera della scuola, la quale non avrebbe mai immaginato venisse accolta e messa in pratica: volendo visitare i Caraibi, Molly avrebbe potuto stare da suo fratello. E Molly l’aveva colta al volo: andarci era suo dovere. Soffocando decisa ogni timore, si era consultata con la collega sull’abbigliamento appropriato. Ed eccola qui.

Erano le dieci del mattino. Il sole si stava mettendo in posizione per i colpi di mezzogiorno e Molly avvertì un formicolio lungo gli avambracci, come se minuscoli aghi di cristallo le si infilassero sotto la pelle. Levò una mano paffuta per darsi lievi pacche sul capo. Se solo le avessero ricordato di portarsi un cappello qualsiasi. Il volto gentile e insignificante era incorniciato da un casco curato di capelli grigioferro, con un taglio a scodella con la frangia. Quando sorrideva, l’espressione trepidante unita al taglio infantile la faceva sembrare una di quelle foto sfocate sui giornali, tipo di una bimba di dieci anni assassinata. In realtà aveva cinquantanove anni.
Donella si strinse il kimono giallo attorno a un corpo tutto spigoli, come un insetto stecco, e guardò Molly dicendo: «Scusami il déshabillé, mi devi perdonare. Anche la mia testa è in disordine, stamattina». L’accento era bizzarramente da inglese snob, senza quasi traccia di guyanese, risultato di anni trascorsi in Inghilterra come figlia di un diplomatico d’alto livello. Se ne stava in piedi davanti a Molly, dando boccate di sigaretta brevi e nervose.
«La radio e il ferro da stiro sono spariti», annunciò. «Qualcuno è entrato dalla finestra. Sono decisamente sconvolta. Assolutamente, decisamente sconvolta. Pensi che la domestica non abbia chiuso a chiave la parte superiore della porta? ...O sono entrati dalla finestra? Oltre tutto, questa è l’ultima goccia. Della radio posso fare a meno, ma non del ferro da stiro. Mi è costato trecento dollari. Non abbiamo niente, qui. Sono affranta». Aleggiò dalla veranda verso il salotto, in cerca di un posacenere. Un minuto dopo ritornò: «Scusami tesoro. Ecco alcune riviste da sfogliare». Lasciò cadere sul tavolo qualche copia datata di «Harper’s» e una di «Tatler»: «Temo che il telefono esiga la mia costante attenzione».

Molly la sentì comporre un numero e poi raccontare con voce lamentosa la storia della radio e del ferro da stiro. Era stata scaricata a casa di Donella dal suo riluttante padrone di casa, Ralph Rawlings, che aveva delle faccende da sbrigare in città. Una volta tornato, Molly voleva convincerlo a darle un passaggio in una libreria dove avrebbe potuto trovare del materiale didattico da portarsi a casa. Aveva iniziato a collezionare piccoli oggetti come una calabassa, cartoline, manufatti amerindi, quel tipo di cose che potevano diventare uno stimolo durante le lezioni. Adesso le servivano libri, libri di racconti e storie illustrate.
Prese svogliatamente una rivista e la rimise subito giù. Una nera grassa e vecchia uscì sulla veranda della casa di fronte e rovesciò in giardino il contenuto di una pentola. Il caldo teneva Molly incollata alla sedia. Le venne in mente la notte in cui era arrivata all’aeroporto di Timehri. Nulla l’aveva preparata alla bellezza di Georgetown. Le strade erano le più ampie che avesse mai visto. Verso il cielo si assottigliavano palme reali alte e slanciate, il fogliame stagliato contro le nubi notturne come un ragno danzante sulla punta di un bastoncino. Il taxi costeggiava palazzi coloniali antichi ed eleganti, in cui tramezzi e verande parevano bianchi merletti lignei, e proseguiva lungo ponticelli per attraversare reticoli di canali. Ma il mattino seguente, al suo risveglio, la città le sorrideva con denti putridi. Molly si trovava su una fogna a cielo aperto. Un’esitante passeggiata le aveva rivelato che la città era costruita su un sistema di scarichi e canali stagnanti, odorosi di liquirizia e ostruiti da spazzatura. In uno di questi, un enorme ratto rigonfio galleggiava a pancia in su. Molly era scioccata. Più tardi, col suo passo regolare da maestrina, aveva raggiunto l’argine marino, gettando lo sguardo oltre il mare rosa metallico, dove immaginava si trovasse l’Inghilterra. Uno di questi due paesi è immaginario, aveva pensato. E credo che sia questo.

Donella era ferma sull’uscio. Dietro di lei, la domestica dall’incarnato d’ebano teneva lo sguardo basso, intenta a spolverare con scrupolo e a spostare oggetti attorno al tavolo.
«Mia cara, saresti così gentile da porgermi le sigarette? Ti prego di comprendere che mi hai colta in un tremendo stato confusionale, a causa dell’effrazione. Maxine! Portami dei fiammiferi, per cortesia». La domestica le portò i fiammiferi. «Sarà il caso di recarmi al mio guardaroba per trovare qualche abito da gettarmi addosso dopo la doccia. Sai, in Inghilterra facevo la doccia con qualunque freddo ci fosse, incurante di quali mie parti si stessero congelando fino a staccarsi. Se ben ricordo, gli inglesi non si detergono troppo frequentemente». Poi se ne andò in un’altra stanza della casa.

Il legno della veranda scricchiolò, dando per un momento a Molly l’impressione di trovarsi sul ponte di un’enorme nave bianca che veleggiava senza meta sulla terraferma. Scosse la testa per scacciare quella sensazione d’irrealtà e si alzò dalla sedia per spostarsi in fondo alla veranda, dove Maxine stava spazzando. L’acqua sporca e maleodorante del canale di cemento lungo la strada le rivoltò lo stomaco. Molly fece per incrociare lo sguardo di Maxine con un sorriso. La domestica la ignorò risoluta.

Qualcosa si avvicinava giù dalla strada. Molly sgranò gli occhi: a prima vista sembrava un albero errante. Guardò di nuovo: era un uomo, nero e magro, interamente rivestito di stracci e brandelli d’indumenti che tempo, sudore e calura avevano reso neri come la sua pelle. I capelli raggrumati e selvaggi, l’andatura maniacalmente regolare, le gambe rigide come rami ricoperti da pezze svolazzanti di tessuto. A piedi nudi, procedeva con velocità stupefacente, gli occhi fissi davanti a sé.
«Chi è questo, Maxine?»
«Il Re degli Stracci», rispose, masticando uno stecchino.
«Che fa?»
«E che ne so? Cammina e basta».
Maxine teneva ancora il broncio perché Donella l’aveva accusata di non aver chiuso a chiave la porta. Continuò a spazzare in modo sistematico, poi aggiunse con un ghigno: «Forse cammina per qualcuno». «Che intendi dire?» Molly si chiese se voleva dire che aveva qualche commissione da sbrigare.
«Forse cammina per far fuori qualcuno». Controsole, strizzò gli occhi guardando Molly. «Noi la possiamo fare, ’sta cosa qui, sai? Camminerò io per te». Le puntò il dito contro come a fingere una minaccia, poi si mise a ridere.

Donella ricomparve vestita con pantaloni grigio chiaro e una costosa camicetta fatta su misura. Maxine le servì la colazione in veranda: «Perdonami, cara, se consumo la mia colazione. Suppongo tu l’abbia già fatta».
«Non preoccuparti», disse Molly con una sopportazione da martire, mentre la guardava rimpinzarsi di uova strapazzate e pomodoro. Dalla bocca le cadde del cibo sul tavolo: «Sai, quand’ero in Inghilterra ero in ottimi rapporti con la famiglia del Duca di Blenheim. Sua cugina era una mia carissima amica. Li conosci, per caso?»
«Temo di no. Sono un po’ fuori dalla mia portata», rispose Molly con aria compiaciuta.
Donella continuava a cianciare: «Sì, venne a farmi visita in clinica quando nacque mio figlio – così ubriaca, mia cara, che continuava a cadermi attorno al letto, pregandomi di farle tenere in braccio il bambino e io che le dicevo: ‘Ehm… no… per favore no’. Mi viene quasi da dire che, se tornassi là adesso, si aspetterebbe le spazzassi i pavimenti». Si pulì la bocca con uno di quei tovagliolini di carta strappati in quattro per farli durare più a lungo: «Lasci quel paese e a nessuno importa un cappero!» aggiunse con amarezza.

Suonarono alla porta. Dopo un paio di secondi, Ralph Rawlings attraversava l’ampio pavimento verniciato per venire a salutarle. Era un mulatto robusto e quasi calvo, di circa quarantacinque anni, con una camicia sgargiante e le scarpe che cigolavano. Si aggiustava di continuo gli occhiali dalla montatura nera sul naso: «C’è una specie di rivolta di polli, in centro».
Ralph sembrava sempre esasperato, impaziente. Ora si sentiva particolarmente oppresso da questa straniera bianca che la lontanissima sorella gli aveva affibbiato, a cui doveva fare gli onori di casa.
«Che tipo di rivolta?» Donella accentuò un leggero panico.
«Stamattina dovrei svolgere una sorta di supervisione per una persona in città».
«A quanto pare è arrivato un po’ di pollo dagli Stati Uniti a metà prezzo. La gente ci si scanna. Il problema è la distribuzione, in ’sto cacchio di paese. La distribuzione, come sempre».
«Chiamerò immediatamente il negozio, devo avvisarli che sono troppo affranta per svolgere supervisioni oggi. La perdita della radio e del ferro insieme è una catastrofe. Coglierò l’occasione per volare nel Rupununi. È da giorni che tento di organizzare un volo per andarci. Quindi, Ralph, come potrei persuaderti ad accompagnarmi in aeroporto? La mia auto è fuori servizio, finché non giunge la nuova frizione in volo da Miami. Ho la valigia bell’e pronta». Batté le mani con un entusiasmo da ragazzina.
Ralph guardò l’orologio: aveva un paio d’ore libere e Donella gli era utile, con quei suoi contatti nel ramo trasporti e le conoscenze per il commercio di legname.
«Che ne dici di venirtene in aeroporto con noi?» domandò a Molly.
«Beh, per stamattina avevo in programma di andare in centro a comprare un po’ di libri e materiali per i miei studenti…»
Donella la interruppe: «Che sciocchina che sei, mia cara. Tutti quei libri vengono dall’Inghilterra, puoi comprarteli al ritorno. Oltretutto ne abbiamo già così pochi qui, ci manca solo che tu te ne parta con metà della letteratura del paese».
Molly non provò neanche a discutere. La strada per l’aeroporto era lunga e dritta. Molly rimbalzava su e giù tra le molle rotte del sedile posteriore. Di tanto in tanto spuntava tra la boscaglia il marrone del fiume Demerara. Donella si rivolse a lei dal sedile anteriore: «Vedi Molly, ho una cara amica, la mia alter ego, che è rimasta bloccata nella sua fattoria nel Rupununi. Non ha nulla da mangiare, letteralmente nulla, se non farina. Lei conta su di me. Il gregge le si è ammalato di rabbia. Ora è stato vaccinato, ma non potrà vendere animali per tre mesi. La situazione è decisamente critica».
Si rivolse a Ralph: «Ho a mia disposizione una quarantina di litri di lattice. A quanto me li compreresti?»
I due si misero a contrattare accaniti sul prezzo.

Molly si aggrappò al finestrino per guardare fuori. Lungo il ciglio erboso a lato della strada sfrecciava verso di loro un uomo scuro, basso e mingherlino, con un piede sul pedale della bicicletta. All’avvicinarsi dell’auto, Molly lo sentì tirare su il catarro dal fondo della gola. Lo sputo la colpì dritto in fronte. Si ritirò svelta contro il sedile e prese dalla borsetta un fazzoletto per ripulirsi, che poi gettò di soppiatto fuori dall’auto. Non c’è da stupirsi, pensò, vista la storia del luogo, che qualcuno debba sputare su una faccia bianca. Si sentì rincuorata dall’essere così magnanima e comprensiva riguardo all’accaduto. Sempre impegnati a trattare sui litri di lattice, gli altri non si erano accorti di nulla. Dopo un po’ Ralph accostò per comprare lungo la strada tre fette di ananas fresco tagliate per lungo, da una donna indiana con lo sguardo penetrante. Molly rimase sul sedile posteriore, sorridente. Mi dà sui nervi, pensò Ralph nel rimettersi alla guida.

Attraversarono un aeroporto in preda al caos. L’aria condizionata era rotta e una moltitudine di gente assediava il solo uomo dietro al banco del check-in, con mani che sventolavano biglietti e permessi di soggiorno per attirare la sua attenzione. Seduti sulle valigie accanto al banco, altri passeggeri si rifiutavano di andarsene, anche se il loro volo era stato cancellato. Ralph sospinse Molly verso uno spazietto libero in mezzo alla folla. Attorno al telefono, un gruppetto sconsolato guardava un uomo sbattere su e giù la cornetta per cercare di farla funzionare. Donella se ne andò a cercare di organizzarsi il volo. Molly soffocava il proprio disgusto di fronte a quella baraonda.
«Scusami Ralph», disse, «devo andare alla toilette».
Si fece strada per l’atrio pieno di gente, col rimpianto di non aver fatto un salto in libreria come programmato. Quella confusione la turbava. Raggiunto il bagno delle signore, venne colpita da un tanfo di marcio. Trattenendo il respiro, entrò in uno dei servizi: il water era stracolmo di merda. E così l’altro, e l’altro ancora. Uscì di corsa e riprese fiato: «Non è molto bello lì dentro», disse in tono di scuse.
«Dovrebbero fare qualcosa per questo posto», rispose Ralph, cupo in volto.
Andarono al bar al piano di sopra. Era buio, ma non così affollato come all’esterno. Una nera con il grembiule a quadretti bianchi e verdi ciondolava indolente dietro al bancone: «C’abbiamo un blackout… Niente bevande fresche, solo aranciata frizzante o amarena», disse mentre passava un pezzo di carta su e giù per il bancone.
Ralph ordinò vodka e amarena, Molly finì per ritrovarsi con un’aranciata che non voleva. Le era venuta la nausea. «Vedi quell’uomo laggiù», le fece Ralph. «È il ministro per lo Sport, a quanto pare soffre di cuore e dovrebbe dimagrire».
Molly si voltò a guardare un gruppo di uomini afroguyanesi che bevevano e ridacchiavano nell’angolo della sala. Rideva anche il ministro, ma pareva inquieto allo stesso tempo, gli occhi che guizzavano a destra e sinistra come se nel bar potesse esserci un nemico. «Ralph Rawlings!»
Spalancò le braccia verso Ralph un’elegante donna malese, con i capelli neri in una permanente ben curata e una boccuccia a bottone. Il suo completo di lino rosso dava uno spruzzo di colore all’oscurità del bar. Molly si sforzò di sorridere, mentre attendeva di essere presentata.
«Signora Chan, come va? Questa è Molly Summers, in visita dall’Inghilterra».
Una rapida stretta di mano e la signora Chan si rivolse di nuovo a Ralph: «Beh», sospirò, «sono dovuta tornare. Pensavo di essermi sistemata a Miami per sempre, ma poi mi sono risposata con un guyanese e sono dovuta tornare».
Si diede un’occhiata intorno e un velo di disgusto le passò sul volto. Si accorse che Molly la stava fissando: «I miei figli sono rimasti, però», aggiunse con orgoglio, «ora sto proprio andando a trovarli».
Abbassò la voce in modo da essere appena percepibile nel baccano del bar: «Anche Joan Robson è tornata», disse con malevola soddisfazione.
«Guardala là. Te la ricordi com’era sempre brillante? È successo qualcosa. Stava alla Columbia University. Qualche storia, razzismo… è successo qualcosa di orribile. Un suicidio… qualcosa. C’è stato anche un incidente stradale, guarda che cicatrici ha in faccia».
Molly esaminò l’esile donna dall’incarnato color miele che sedeva al tavolo accanto. La pelle del volto delicato era a chiazze più chiare. Innesti cutanei. «Era così bella!» continuava la signora Chan, mascherando a stento la propria esultanza. «Ha un corpo che sembra vecchio, adesso. C’è stato una specie di esaurimento nervoso. Anche cocaina, ho sentito… Pare una appena uscita dalla riabilitazione, non credi?»
Un truce compiacimento le brillava dagli occhi neri: «In ogni caso… è tornata anche lei. Commercia in peperoncino. Il che mi ricorda… Ralph, vuoi comprare del cemento? Posso vedermela io con il carico, ma non con i dazi, con quelli proprio no. Ti chiamo quando rientro, tu pensaci. Beh, suppongo sia ora di andare a dimenare un po’ il didietro per quelli dell’immigrazione».
Ralph scosse la testa, nel guardarla sgusciare via tra i passeggeri in attesa: «Sono le donne, oggi, a fare tutti gli affari», disse, come se anche lui sentisse l’indefinibile subbuglio che colpiva Molly.
All’arrivo di un volo da Trinidad a lungo atteso, si levò un urlo di gioia. Sulla camicia di Ralph, sotto le braccia, erano comparse due chiazze scure di sudore, e ora stava litigando con quella del bar, che per sbaglio gli aveva servito acqua naturale al posto della vodka. La ragazza si stava sbellicando dalle risate per il proprio errore.
Una nera in avanzato stato di gravidanza e i capelli molto corti, che aveva tenuto d’occhio Molly, colse subito l’occasione per scivolarle proprio di fronte. Molly dovette piegare il capo per sentire cosa le diceva: «Ce l’hai un dollaro per me, per favore?» Il pancione le sollevava il vestito sul davanti e lo faceva lungo di dietro, come una bambina.
Parlava sottovoce. Molly frugò nella borsetta e le diede volentieri tre dollari. Lei li prese e sparì. La sala buia brulicava di conversazioni: Molly aveva la sensazione di trovarsi sott’acqua. Incapace di respirare liberamente. Chiuse gli occhi per cercare di concentrarsi sullo scopo del proprio viaggio. La voce squillante di Donella penetrò il rumore diffuso: «Che disperazione».
Stava giusto di fronte a loro, le mani sui fianchi. «Niente voli! Freddie deve aspettare la consegna di un qualcosa bloccato alla dogana. È devastante. La mia alter ego morirà di fame».
I tre si trascinarono per il parcheggio dell’aeroporto: Donella a lamentarsi torcendosi le mani, Ralph in un bagno di sudore, e dietro Molly che camminava sulle punte per via dell’asfalto, che le stava bruciando la pianta dei piedi perfino attraverso i sandali. Un calore disumano e incessante sostituì la confusione vorticosa dell’aeroporto. Molly sentiva di essersi trasformata in un miraggio, luccicante e irreale. Il suolo irradiava calore. Prima di salire in auto, si sollevò dal petto il vestito blu di cotone, ormai fradicio. Il sedile le ustionava le cosce. Si sentiva girare la testa.

«La macchina c’ha ancora tutt’e quattro le ruote, signore… L’ho tenuta d’occhio io per te».
Ralph diede al monello un po’ di spiccioli e si infilò alla guida. Molly si appoggiò sfinita allo schienale non appena ripartiti. I pensieri le si facevano sconnessi, non riusciva a concentrarsi su nulla. Chiuse per un istante gli occhi, ma poi di colpo li riaprì e vide una distesa infinita di cielo azzurro e due nuvole bianche come meringhe. In lontananza una macchiolina nera, un avvoltoio, volteggiava sulla boscaglia. Chiuse di nuovo gli occhi: troppo cielo, pensò. Nel viaggio di ritorno, dietro le palpebre le fluttuavano diverse immagini: la mendicante incinta che teneva una lezione nella sua scuola di Londra; Maxine, la domestica, che guardava un espositore di scarpe al negozio di Finsbury Park mentre con noncuranza masticava uno stecchino. Arrivati in città, Ralph passò davanti allo Stabroek Market, verso la banca Chase Manhattan. Molly intravide il Re degli Stracci, stavolta immobile accanto a una pila di gusci di cocco secchi, mentre parlava a un uomo che teneva in mano un vassoio con degli orologi in vendita. Accostarono davanti alla banca, e dal marciapiede la gente si riversò attorno all’auto. Molly cercò di sopprimere una sensazione di ripugnanza verso quell’ammasso di facce sconosciute: facce color mogano, facce cannella, facce ebano, facce agata. Anelava alla fresca quiete della Meeting House.

La sagoma si avvicinò al suo lato dell’auto con una tale rapidità che lei ebbe appena il tempo di accorgersene. Per qualche secondo il sole accecante le impedì di vedere che si trattava di un bianco, di venticinque anni al massimo. La barbetta grezza, corta e ispida gli luccicò rossiccia sulla parte inferiore del viso, mentre si sporgeva dentro il finestrino. Aveva i capelli corti tagliati a spazzola, come un soldato o un detenuto. Il viso arrossato dal sole dava intensità a quegli occhi azzurri. Nel chinarsi verso Molly, sbatté le palpebre: «Sei inglese?» Aveva un accento londinese cockney.
«Sì».
Per lo stupore, Molly corrugò la pallida fronte.
«Dammi dei soldi», piagnucolò in tono minaccioso.
Lei lo fissava incredula. «Dammi dei soldi, voglio mangiare».
Molly tentò debolmente di alzare il finestrino, ma la manovella era rotta.
Lui insisteva: «Ero nella prigione di Pentonville, la conosci? Vicino a Kings Cross».
Lei annuì senza dire una parola. Quello spingeva la testa sempre più dentro l’auto, mentre Molly si ritraeva nel suo nido di doppi menti.
«Vivevo a Streatham Hill. Le conosci quelle zone?»
Annuì di nuovo, ammutolita, la bocca secca. L’immondizia nel canale di scolo lo fece scivolare indietro di un passo: gli vide le scarpe da ginnastica sudice e senza lacci, i jeans stracciati al fondo, la canotta blu scuro strappata e macchiata.
Alzando gli occhi, lui le sembrò enorme. Un’aureola fiammeggiante gli danzava attorno alla testa, che eclissava il sole, mentre il cielo si estendeva alle sue spalle.
«Mia moglie m’ha lasciato, ho avuto un esaurimento nervoso, è stato lì che m’hanno messo a Pentonville. M’ha spedito qui il dottor Rhodes, di sicuro avrai sentito parlare del dottor Rhodes. È lui che m’ha spedito qui. Lui m’ha spedito qui».
La voce riecheggiava nelle orecchie di Molly. «Aiutami, devo tornare a casa. Sto cercando di tirare su i soldi del biglietto».
«Ma… ma», balbettò Molly, «ma tu sei inglese, non dovresti fare così».
Le stava accadendo qualcosa. Sembrava che il sole avesse rotto gli ormeggi e girasse in tondo nel cielo. Sentì di nuovo quella voce, che ora pareva lontana: «Dai, dammi almeno i soldi per mangiare. Sto morendo di fame».
Ralph uscì dalla banca, spinse via l’uomo e salì in auto. Sul sedile posteriore, Molly emetteva piccoli gemiti. «Tutto bene ragazza?» le domandò preoccupato.
«È inglese… quel mendicante… un bianco».
Si rese conto che Donella e Ralph si erano voltati indietro e la osservavano in modo strano. Di colpo si sentì consumare tutta da una rabbia enorme, come se in un certo senso fosse stata ingannata. Provò a parlare, ma non le venne neanche una parola. Ralph si accorse che le mancava l’aria, e che le stavano spuntando sul viso delle chiazzette viola. Molly provò a correggere il proprio errore: ciò che voleva dire le era perfettamente chiaro in testa e avrebbe rimesso tutto a posto. Avrebbe messo fine agli sguardi dubbiosi e accusatori sulle facce di quei due che la fissavano dai sedili davanti. Ma le labbra si muovevano senza produrre suono, come un pesce fuori dall’acqua. Accasciata sul sedile posteriore, cominciò a farfugliare. Aveva i capelli grigi zuppi di sudore. Un bimbo la punzecchiò attraverso il finestrino per cercare di venderle delle noccioline.
«Che diamine!» pensò Ralph. «Non mi dire che ’sta donna s’è fatta tutto il viaggio fin qui per morirmi sul sedile di dietro». Mise in moto e si diresse verso l’ospedale pubblico.

Una notte di luna, di Giovanni Comisso

La Nave di Teseo, porta in libreria Un gatto attraversa la strada, di Giovanni Comisso, autore prolifico che con questi racconti ha vinto il Premio Strega nel 1955.
In questo volume, Comisso rappresenta con sguardo disincantato e anticonformista un microcosmo, un’umanità presa dalla strada, le sue ambizioni raramente soddisfatte, la fatica del vivere e gli inaspettati momenti di felicità.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

Una notte di luna

Era la più bella della stalla: aveva i fianchi grassi come un maiale, le spalle compatte, le zampe giuste e la vena che andava alle mammelle turgida a garantire latte in abbondanza. Nell’imminenza del parto le mammelle si erano gonfiate fino a rimpicciolire i capezzoli, ed era costretta a stare sempre alzata con le zampe divaricate. Sarebbe stato il suo primo parto, e il contadino ne aveva costante il pensiero da quando erano già passate le nove lune e non dava segno di sgravarsi.
Ma in quella sera, nel darle il pasto abituale si era accorto che il momento era giunto, ed ebbe un sollievo, perché da più notti era stato costretto a scendere per vedere se accennava a partorire. Mandò ad avvertire le case vicine che dopo cena venisse qualcuno per aiutare. In campagna si creano certi consorzi spontanei basati sul principio della mutua assistenza. Per i parti degli animali, per il taglio e per la battitura del frumento, per la falciatura del fieno, per le arature pesanti, e così in tutte le occorrenze tristi o liete, gli uomini o gli animali o i mezzi di una famiglia vengono scambiati con quelli di un’altra. Questi consorzi si creano strettamente nel raggio più corto di vicinanza, per chiare ragioni di prontezza ad accorrere nell’urgenza del bisogno. Di una lunga assistenza che viene convalidata col farsi reciprocamente da compari alle nozze o ai battesimi dei figli.
Vennero dalle case vicine tre uomini e nell’entrare furono concordi a giudicarla: la più bella della stalla. “Bella sì, ma è stramba come sua madre, ve la ricordate, e temo che ci faccia dannare: sono già quindici giorni che è fuori dal termine,” disse il contadino. Il più vecchio che aveva esperienza di parti di animali, disse che dipendeva dalla luna, la quale solo da tre giorni aveva fatto il colmo, e si avvicinò a osservare attento: “Primaiuola; sarà un po’ difficile, ma speriamo bene.” Nell’attesa si misero a giuocare a carte e il contadino ogni tanto dava un’occhiata per vedere come andava.
Si era coricata come tutte le altre, illuminate nei fianchi dalla lampada bassa sulla tavola, mentre le teste rimanevano in ombra. La sera passò presto, già erano giunti al pieno della notte e non si vedeva nulla di nuovo, erano stanchi di giuocare, qualcuno sbadigliava e il contadino disse: “Volete vedere che ci manderà a dormire all’alba, mi dispiace per voi, mi basta che rimanga uno con me, se vi sarà bisogno degli altri vi manderò a chiamare, un caso simile non mi è mai toccato.” Anche agli altri non era mai toccato un caso simile, il più vecchio decise di rimanere, fuori era un bel chiaro di luna nella notte fredda e le fronde spoglie degli alberi facevano intreccio contro le stelle basse dell’orizzonte. Il contadino allora ebbe meno ritegno a confessare la sua paura: “Mi dispiacerebbe, compare, che non potesse liberarsi, che mi dovesse morire.” L’altro gli contradisse con calma che se mai sarebbe morto il vitello, e tenevano fisso lo sguardo su quel corpo rigonfio che ansava lento. “Un caso simile non mi è mai toccato,” ripeté il contadino vedendola alzarsi. “È primaiuola, e non sa aiutarsi. Il vitello potrebbe essere già morto. A quest’ora un’altra avrebbe partorito dieci volte,” disse il compare ed ebbe un brivido di freddo. “Benedette le brutte, certe bestie bislacche, non sono strambe come queste di bella apparenza. Se provassimo ad aiutarla,” disse il contadino. “Aiutarla, sì, ma se il vitello non si presenta.” Il contadino sentiva con ansia ogni attimo che passava. “Io ho freddo, compare, e voi?” “Io anche, l’alba è già vicina.” E l’altro andò a prendere da bere, bevettero, ma, scacciato il freddo, gli rimase tuttavia la paura di perdere il più bel capo della sua stalla. “La luna sta per calare, ho svegliato anche mia moglie, ci prepara il caffè, che ne dite se si mandasse a chiamare il veterinario? Da soli non possiamo fare niente.” L’altro disse che era meglio, e il contadino svegliato suo figlio lo affrettò ad andare in paese. Anche le altre si erano alzate in attesa del pasto mattutino, ed essa come se volesse approfittare che la vicina le aveva lasciato più spazio si coricò lentamente. Intontiti dal freddo e dal sonno guardavano fissi quei fianchi inerti. Un gallo cantò. “Sono le cinque e mezzo, il vostro gallo canta sempre a quest’ora, è più giusto del mio orologio, fra poco suonerà l’Ave Maria,” disse il compare, e subito dopo si intese una campana suonare.
Il contadino tramutò un sospiro in uno sbadiglio. Poco dopo abbaiò il cane segnalando l’arrivo del veterinario. Il contadino si scusò di averlo fatto chiamare così presto. “Presto? dovevate chiamarmi prima, è il mio mestiere.” E subito si tolse la giacca, si rimboccò le maniche della camicia, si mise un grembiule, fece mettere paglia fresca per terra, richiese due corde, erano intanto sopraggiunti altri vicini e il figlio del contadino e sua moglie col caffè. Bevettero in fretta, e il veterinario si inginocchiò sulla paglia. La moglie del contadino si era fermata nell’ombra: “Povera bestia,” disse, “da ieri sera e non si è ancora liberata. Ricordo anch’io il mio primo parto, dal sabato al lunedì, quanto ho dovuto penare”, e si ritrasse in cucina, sebbene fosse curiosa di vedere. Il veterinario aveva affondato il braccio entro il corpo, e, visto che si agitava, ordinò a uno che la tenesse. Fece un nodo scorsoio a una delle corde e dopo averlo stretto dentro al ventre affidò la corda a uno degli uomini dicendo che era quella delle zampe. Ne fece un altro all’altra corda e, dopo averlo assicurato dentro, avvertì che era quella della testa e che tirassero adagio.
Gli uomini tirarono barcollando sugli zoccoli. “Basta, tirate l’altra. Piano, è un fenomeno questo vitello, lo sento. Ancora quella delle zampe.” Gli ordini si susseguirono. I quattro uomini tenevano le corde e il contadino stava vicino alla mangiatoia accarezzando il collo alla sua bestia che sbarrati gli occhi agitava la testa: “Forza, ancora la corda delle zampe, ci siamo.” E d’un balzo ne sgusciò fuori il vitello sopra la paglia insanguinato, viscido. “È un fenomeno, morirà, ha le zampe deformi.” Tutti si erano fatti su di esso per vedere come era fatto, chi lo asciugava con un sacco, chi gli soffiava in bocca, chi gli metteva altra paglia sotto, ebbe subito un fremito, respirò roco, dischiuse le palpebre. “Vive,” uno disse con gioia. “Presto lasciate stare quel mostro, bisogna pensare alla bestia,” disse il veterinario. “Guardatela è in affanno, del vino, bisogna farle bere del vino, dell’aceto, spruzzateglielo sul muso.” Aveva sollevato la testa all’indietro e fissi gli occhi respirava rapida. Le venne spruzzato l’aceto, le diedero il vino, e tutti ritornarono a guardare il vitello che pulito e poi asciugato già muoveva la testa, ma le sue zampe restavano ferme grosse e anchilosate. “Questo non vive,” disse il veterinario lavandosi le braccia. “Fate una buca, concimerà la terra.” Il vitello ebbe un belato, che attrasse la premurosa attenzione di tutti. “Vive, vive,” ripeterono ed era come dicessero, evviva, per incoraggiarlo a non morire. “Se vivrà dategli il latte per alcuni giorni e poi lo venderete,” disse il veterinario apprestandosi per uscire.
Tutti gli stavano dietro per uscire con lui. Il mattino biancheggiava già tutto il cielo, impallidendo la luna che ancora non era tramontata e nel silenzio intesero dalla città vicina le sirene che suonavano stridule. “L’allarme,” dissero tutti e rimasero cupi in ascolto. Poco dopo si susseguirono lontani scoppi sempre più densi, più forti, la terra ebbe un lieve sussulto, tremarono i vetri e rossi bagliori vampeggiarono. “Bombardano la città,” disse il veterinario. Tutti rientrarono impauriti nella stalla. Il vitello ebbe un altro belato, deforme come era, voleva vivere ancora.

Senso dell'umorismo, di Damon Runyon

Mattioli 1885 porta in libreria Del tutto illegale, la raccolta di racconti di Damon Runyon, grande giornalista e cronista sportivo, e autore di Bulli e pupe. Attingendo dallo slang del Jazz, dal mondo dello sport e da quello della malavita di New York, Runyon ha inventato una vera e propria lingua. Questi diciotto racconti, tradotti da Silvia Lumaca, confermano una geniale capacità di osservazione della realtà, rendendo le sue storie eternamente attuali.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.


Senso dell’umorismo
di Damon Runyon
traduzione di Silvia Lumaca

Una sera sono in piedi davanti al Mindy’s, il ristorante sulla Broadway, pensando praticamente a niente di niente, quando tutto a un tratto sento un dolore terribile al piede sinistro. In effetti, questo dolore è così terribile che mi fa saltellare su e giù come una rana toro, e cacciare delle forti grida di agonia, per usare un linguaggio parecchio profano, che non è per niente mia abitudine, anche se ovviamente riconosco che il dolore viene da un piede caldo, perché ho fatto esperienza di questo dolore in passato.
Per di più, so che Joe il Giullare dev’essere nei paraggi, perché Joe il Giullare ha un senso dell’umorismo più fantastico di chiunque in questa città, ed è sempre in giro a fare il piede caldo alla gente, e me lo ha fatto più volte di quante ne possa ricordare. In effetti, ho sentito che Joe il Giullare ha inventato lui il piede caldo, e alla fine è diventata una pensata molto popolare in tutto il paese.
Il modo in cui si fa un piede caldo è andando di soppiatto dietro un tizio che è in piedi a pensare a molto poco, e piazzandogli un cerino nella scarpa, tra la suola e la parte di sopra dove dovrebbe stare il mignolo, e poi accendere il cerino. A poco a poco il tizio sentirà un dolore terribile al piede, e comincerà a saltare di qua e di là, e a urlare, e in generale a lamentarsi, ed è sempre uno spettacolo molto comico e un gran ridere per chi lo guarda soffrire.
Nessuno al mondo sa fare un piede caldo bene come Joe il Giullare, perché ci vuole un tizio che sa avvicinarsi molto silenziosamente al tizio a cui deve fare il piede caldo, e Joe può avvicinarsi così silenziosamente che molti tizi sulla Broadway scommetterebbero che può fare il piede caldo a un topo, se trova un topo che porta le scarpe. Per di più, Joe il Giullare può prendersi parecchia cura di sé se il tizio che riceve il piede caldo vuole discutere della cosa, come a volte capita, soprattutto con i tizi che hanno le scarpe fatte su misura da quaranta verdoni e non gli va a genio avere dei fori bruciacchiati in queste scarpe.
Ma a Joe non interessa il tipo di scarpe che portano i tizi, se gli viene voglia di fare dei piedi caldi in giro, e per di più, non gli importa chi sono i tizi, anche se molti tizi pensano che ha commesso un errore quando ha fatto il piede caldo a Frankie la Belva. In effetti, molti tizi sono parecchio orripilati da questo gesto, e vanno in giro a dire che non ne uscirà niente di buono.
Questo Frankie la Belva viene da Brooklyn, dove è considerato un cittadino in ascesa da parecchi punti di vista, e da nessun punto di vista un tizio a cui fare un piede caldo, specialmente perché Frankie la Belva non ha per niente senso dell’umorismo. In effetti, è sempre molto solenne, e nessuno lo vede ridere mai, e di sicuro non ride quando Joe il Giullare gli fa un piede caldo un giorno sulla Broadway quando Frankie la Belva è in piedi a parlare di affari con qualche tizio del Bronx.
Guarda solo di traverso Joe, e dice qualcosa in italiano, e anche se non capisco l’italiano, suona così spiacevole che garantisco che, se lo dicesse a me, lascerei la città in un paio d’ore.
Ovviamente Frankie la Belva non si chiama veramente la Belva, ma qualcosa in italiano tipo Belvino, e sento che originariamente viene dalla Sicilia, anche se vive a Brooklyn da un bel po’ di anni, e si fa strada da un’origine modesta fino a diventare un operatore parecchio grosso nel commercio di questo e di quello, specialmente alcol. È un tizio grosso di forse trenta e qualcosa anni, e ha i capelli più neri di un centone infilato in un camino, e gli occhi neri, e le sopracciglia nere, e un modo lento di guardare la gente. Nessuno sa granché di Frankie la Belva, perché non ha mai granché da dire, e ci mette parecchio a dirlo, ma tutti gli fanno parecchio spazio quando arriva, perché si sente dire che a Frankie non piacciono mai le situazioni affollate. Io di mio non sono interessato da nessun punto di vista a Frankie la Belva, perché il suo modo lento di guardare la gente mi rende sempre nervoso, e mi spiace sempre che Joe il Giullare gli ha fatto il piede caldo, perché mi immagino che Frankie la Belva la debba considerare un’azione parecchio irrispettosa, e che ce l’abbia con lui e gli metterà contro chiunque sull’isola di Manhattan.
Ma Frankie la Belva ride e basta quando qualcuno gli dice che è fuori fase a fare il piede caldo a Frankie, e lui dice che non è colpa sua se Frankie non ha senso dell’umorismo. Per di più, Joe dice che non farà più nessun piede caldo a Frankie se ne ha la possibilità, ma che farà il piede caldo al principe di Galles e a Mussolini, se li piglia nel posto giusto, anche se Rimorso, lo scommettitore di cavalli, sostiene che può dare Joe 20 a 1 in qualsiasi momento che non farà un piede caldo a Mussolini passandola liscia.
A ogni modo, proprio come sospetto, c’è Joe il Giullare a guardarmi quando sento il caldo del piede caldo, e sta ridendo a crepapelle, e per di più, un buon numero di altri tizi sta ridendo a crepapelle, perché Joe il Giullare non si diverte se fa il piede caldo a meno che non ci sia gente presente che apprezza lo scherzo. Beh, naturalmente quando vedo chi è che mi ha fatto il piede caldo mi metto a ridere anch’io, e vado a stringere la mano a Joe, e quando gli stringo la mano tutti ridono più forte, perché sembra che Joe ha un bel pezzo di formaggio Limburger nel pugno e quello a cui stringo la mano è il formaggio Limburger. Per di più, è un qualche formaggio che viene dal Mindy’s, e tutti sanno che il Limburger di Mindy è molto molle e anche molto colloso.
Naturalmente rido anche per questo, anche se a dir la verità riderei più volentieri se Joe il Giullare cadesse stecchito davanti a me, perché non mi piace essere fatto oggetto di burla sulla Broadway. Ma rido anch’io piuttosto di gusto quando Joe prende il resto del formaggio che non è tra le mie dita e lo spiaccica sul volante di alcune automobili parcheggiate davanti al Mindy’s, perché mi viene da pensare a cosa diranno gli autisti quando accenderanno le loro macchine.
Poi mi metto a parlare con Joe il Giullare, e gli chiedo come vanno le cose a Harlem, dove Joe e suo fratello minore, Freddy, e parecchi altri tizi, hanno una piccola organizzazione che opera nel settore della birra, e Joe dice che le cose sono ok, considerate le condizioni del commercio.
Poi chiedo come sta Rosa, essendo questa Rosa la benamata moglie di Joe, e una mia amica personale, perché la conosco da quando era Rosa Mezzanotte e cantava all’Hot Box, prima che arrivasse Joe e la sposasse.
Beh, a questa domanda Joe comincia a ridere, e posso vedere che qualcosa solletica il suo senso dell’umorismo, e alla fine dice quanto segue:
“Beh” dice, “non hai sentito le novità su Rosa? Ha preso il largo da me un paio di mesi fa per andare col mio amico Frankie la Belva, e vive in un appartamento su a Brooklyn, proprio di fianco a casa sua, anche se” dice Joe, “capisci, ovviamente, che ti sto dicendo questo solo per rispondere alla tua domanda, non per sparlare di Rosa?”
Poi fa un altro ah-ah, e in effetti Joe il Giullare continua a ridere finché non ho paura che gli venga un trauma interno. Io di mio non ci vedo niente di comico nella benamata moglie di un tizio che se la squaglia per andare con un tipo come Frankie la Belva, così quando Joe il Giullare si calma un po’ gli chiedo cosa c’è di così divertente nella cosa.
“Beh” dice Joe, “mi viene da ridere ogni volta che penso a come si sentirà quella palla di grasso quando scoprirà quanto è costosa Rosa. Non so quanti affari faccia girare Frankie su a Brooklyn” dice Joe, “ma sarà meglio che si dia da fare se vuole mantenere Rosa.”
Poi ride di nuovo, e a me sembra meraviglioso il modo in cui Joe è capace di conservare il suo senso dell’umorismo in una situazione come questa, anche se fino a quel momento ritengo sempre che Joe sia completamente bollito per Rosa, che è una piccola bambolina, e peserà forse quaranta chili col cappello indosso, ed è piuttosto appetitosa.
Ora, ritengo da quel che Joe il Giullare mi dice che Frankie la Belva conoscesse Rosa da prima che Joe la sposasse e le sia sempre stato addosso quando cantava all’Hot Box, e anche dopo che è diventata la benamata moglie di Joe, Frankie di tanto in tanto la chiamava, specialmente quando ha cominciato a essere un cittadino in ascesa di Brooklyn, anche se ovviamente Joe non ha saputo di queste chiamate fino a quando non era già troppo tardi. E per quando Frankie la Belva comincia a essere un cittadino in ascesa di Brooklyn, le cose cominciano a peggiorare per Joe il Giullare, un po’ per la Depressione e il resto, e deve fare economia su Rosa in alcuni frangenti, e se c’è una cosa che Rosa non sopporta è che si faccia economia su di lei.
Più o meno nello stesso periodo, Joe il Giullare fa il piede caldo a Frankie la Belva, e come molti tizi dicono all’epoca, è un errore, perché Frankie comincia a chiamare Rosa più che parecchio, e le dice che posto magnifico per vivere è Brooklyn – che è vero, se è per quello – e tra questi elogi a Brooklyn e le economie di Joe il Giullare, Rosa si prepara e prende il metrò per Borough Hall, lasciando a Joe un biglietto dicendogli che se non gli piace sa cosa può farci.
“Beh, Joe” dico io, dopo che ho ascoltato la sua storia, “odio sempre sentire di queste piccole difficoltà familiari tra i miei amici, ma forse è tutto per il meglio. Mi dispiace per te, se può aiutarti in qualche modo” dico.
“Non dispiacerti per me” dice Joe. “Se vuoi dispiacerti per qualcuno, dispiaciti per Frankie la Belva, e” dice, “se ti avanza un po’ di dispiacere, tienilo per Rosa.”
E Joe il Giullare ride ancora di gusto e comincia a dirmi di un piccolo scantinato che ha su a Harlem, dove tiene una sedia attaccata a dei fili elettrici così a chiunque si siede può dare una simpatica scossa, che mi sembra piuttosto umoristico, se è per quello, specialmente quando Joe mi dice che una sera dà troppo voltaggio e quasi fa fuori il Commodoro Jake.
Alla fine Joe dice che deve tornare a Harlem, ma prima va al telefono all’angolo nel negozio di sigari e chiama dal Mindy’s, e imita la voce di una bambola, e dice a Mindy che è Peggy Joyce, o simili, e ordina cinquanta dozzine di panini da mandare subito a un appartamento sulla West 72nd Street per una festa di compleanno, anche se ovviamente quel numero che dà non esiste, e se quel numero esiste nessuno laggiù vuole cinquanta panini.
Poi Joe sale in macchina e parte, e mentre sta aspettando al semaforo sulla 50th Street, vedo dei tizi sul marciapiede fare dei balzi improvvisi, e si guardano intorno furenti, e io so che Joe il Giullare li carica con delle palline di carta stagnola che spara da un elastico piazzato tra il pollice e l’indice.
Joe il Giullare è molto esperto in questo campo, e vedere i tizi saltare è molto divertente, anche se una volta o due nella vita Joe ha sbagliato mira e ha accecato qualcuno. Ma è tutto molto divertente, e dimostra che meraviglioso senso dell’umorismo abbia Joe.
Beh, qualche giorno dopo, vedo sui giornali dove un paio di tizi di Harlem con cui traffica Joe il Giullare sono trovati dentro a dei sacchi su a Brooklyn, molto stecchiti davvero, e gli sbirri dicono che è perché stavano cercando di entrare in certe imprese d’affari che appartengono a nient’altri che Frankie la Belva. Ma ovviamente gli sbirri non dicono che Frankie la Belva ha messo i tizi dentro i sacchi, perché in primo luogo Frankie la Belva li segnalerebbe alla Direzione di Polizia se gli sbirri dicessero una cosa del genere, e in secondo luogo perché mettere i tizi nei sacchi è rigorosamente un’idea di Saint Louis, e se hai un tizio in un sacco devi chiamare Saint Louis per parlare con degli esperti in materia.
Ora, mettere un tizio in un sacco non è facile come sembra, e in effetti servono parecchia pratica e parecchia esperienza. Per mettere come si deve un tizio in un sacco, prima va addormentato, perché naturalmente nessun tizio si metterà da solo dentro un sacco a meno che non sia un completo cretino. Alcuni sostengono che il miglior modo per addormentare un tizio è sciogliergli un sonnifero di qualche tipo nel drink ma i veri esperti gli danno semplicemente un colpo in testa con uno sfollagente, che evita il costo di pagargli da bere.
A ogni modo, dopo che il tizio dorme, lo ripieghi come un coltello a serramanico e gli leghi una corda o un cavo intorno al collo e sotto le ginocchia. Poi lo metti in un sacco di iuta, e lo lasci da qualche parte, e alla fine quando il tizio si sveglia e si trova chiuso in un sacco, naturalmente vuole uscire e la prima cosa che fa è provare a stendere le gambe. Questo gli stringe così tanto la corda attorno al collo che dopo poco il tizio è del tutto sfiatato. Così quando arriva qualcuno e apre il sacco, trova il tizio stecchito, e nessuno è responsabile per questa sfortunata situazione, perché dopotutto si è suicidato, per esser precisi, perché se non provasse a stirare le gambe potrebbe vivere fino alla vecchiaia, se si riprende dalla botta in testa.
Beh, un paio di giorni dopo vedo dai giornali che tre cittadini di Brooklyn vengono crivellati di pallottole mentre camminano pacificamente lungo Clinton Street, il crivellamento è operato da un qualche tizio su una macchina che sembra montare un mitragliatore, e si dice che i tizi col mitragliatore vengono da Harlem.
Da questo giudico che a Brooklyn c’è qualche problema, specialmente visto che una settimana dopo i tizi crivellati in Clinton Street, un altro tizio di Harlem è trovato chiuso in un sacco come un prosciutto della Virginia, vicino al Prospect Park, e ora chi è, se non il fratello di Joe il Giullare, Freddy? E so che Joe sarà parecchio dispiaciuto per questo.
Ora, una sera incontro Joe il Giullare, e questa volta è tutto solo, e desidero dire che sono intenzionato a lasciarlo da solo perché qualcosa mi dice che scotta più di una stufa. Ma mi afferra mentre gli passo vicino, così naturalmente mi fermo a parlare con lui, e la prima cosa che dico è quanto sono dispiaciuto per suo fratello.
“Beh” dice Joe il Giullare, “Freddy è sempre stato una specie di pesce lesso. Rosa lo ha chiamato e gli ha chiesto di andarla a trovare a Brooklyn. Vuole parlare con Freddy di me che le dò il divorzio” dice Joe, “così può sposare Frankie la Belva, immagino. A ogni modo” dice, “Freddy dice al Commodoro Jake perché la sta andando a trovare. A Freddy è sempre piaciuta Rosa, e pensa che forse può mettere le cose a posto tra noi. Così” dice Joe, “finisce in un sacco. Lo prendono dopo che ha lasciato il suo appartamento. Non dico che Rosa gli avrebbe detto di andarla a trovare se avesse avuto idea che sarebbe stato insaccato” dice Joe, “ma” dice, “è comunque responsabile. È una bambola maledetta.”
Poi comincia a ridere, e all’inizio sono parecchio orripilato perché penso che qualcosa in Freddy che viene insaccato stuzzica il suo senso dell’umorismo, quando mi dice come segue:
“Senti” dice, “sto per fare uno scherzo fantastico a Frankie la Belva.”
“Beh, Joe” dico io, “non mi stai chiedendo un consiglio, ma te lo darò lo stesso, gratis e per niente. Non fare nessuno scherzo a Frankie la Belva, perché sento che non ha più senso dell’umorismo di una capra anziana. Sento che Frankie la Belva non riderebbe con Al Jolson, Eddie Cantor, Ed Wynn e Joe Cook che gli raccontano delle barzellette tutti insieme. In effetti” dico, “sento che è un pubblico difficilissimo.”
“Oh” dice Joe il Giullare, “deve avere del senso dell’umorismo da qualche parte per sopportare Rosa. Ho sentito che si è bollito per lei. In effetti, credo che lei sia l’unica persona al mondo che gli piace, e di cui si fida. Ma devo fargli uno scherzo. Sto per farmi spedire a Frankie la Belva chiuso in un sacco.”
Beh, ovviamente devo ridere anch’io per questa cosa, e Joe il Giullare ride con me. Io di mio sto ridendo all’idea di qualcuno che si fa spedire a Frankie la Belva chiuso in un sacco, e specialmente Joe il Giullare, ma ovviamente non ho idea se Joe sta davvero parlando sul serio.
“Senti” dice Joe, alla fine. “Un tizio di Saint Louis che è un mio amico sta facendo il grosso degli insaccamenti per Frankie la Belva. Si chiama Cappio McGonnigle. In effetti” dice Joe, “è un mio vecchio amico molto amico, che ha un fantastico senso dell’umorismo come me. Cappio McGonnigle non ha niente a che fare con l’insaccamento di Freddy” dice Joe, “ed era parecchio indignato della cosa appena ha scoperto che Freddy è mio fratello, così non vede l’ora di aiutarmi a fare uno scherzo a Frankie. Proprio l’altra notte” dice Joe, “Frankie la Belva fa chiamare Cappio e gli dice che lo riterrà un favore speciale se Cappio gli porta me chiuso in sacco. Immagino” dice Joe, “che Frankie ha sentito da Rosa cosa Freddy deve averle detto sulla mia idea di divorzio. Ho delle concezioni molto rigide sul divorzio” dice Joe, “specialmente se il divorzio riguarda Rosa. Fa in tempo a morire di vecchiaia prima che io faccia a lei e a Frankie la Belva il favore di concederle un divorzio. A ogni modo” dice Joe il Giullare, “Cappio mi dice della proposta di Frankie la Belva, così rimando Cappio da Frankie la Belva a dirgli che sa che domani sera andrò a Brooklyn, e per di più, Cappio dice a Frankie che mi insaccherà in men che non si dica. E così farà” dice Joe.
“Beh” dico, “io di mio non ci vedo nessun vantaggio nel farsi mandare chiuso in un sacco da Frankie la Belva, perché da quel che vedo leggendo il giornale, non c’è futuro per un tizio che va da Frankie la Belva chiuso in un sacco. Quel che non capisco” dice, “è quando comincia lo scherzo a Frankie.”
“Ecco” dice Joe il Giullare, “lo scherzo è che io non sarò addormentato nel sacco, e le mie mani non saranno legate, e in ciascuna delle mani avrò una John Roscoe*, così quando il sacco arriva a Frankie la Belva, io uscirò fuori sparando, ti immagini che sorpresa?”
Beh, posso immaginarmela, ok. In effetti, quando mi metto a pensare all’espressione di sorpresa che dovrà stamparsi sulla faccia di Frankie la Belva quando Joe il Giullare esce dal sacco, mi viene da ridere, e Joe il Giullare ride subito con me.
“Ovviamente” dice Joe, “Cappio McGonnigle sarà lì per cominciare a sparare insieme a me, nel caso che Frankie la Belva sia in compagnia.”
Poi Joe il Giullare risale la strada, lasciandomi che sto ancora ridendo a pensare a quanto sarà sorpreso Frankie la Belva quando Joe salta fuori dal sacco e comincia a lanciare pallottole a destra e a sinistra. Non sento più niente da Joe dopo questo, ma mi raccontano il resto della storia dei tizi molto affidabili.
Sembra che Cappio McGonnigle non porta il sacco di persona, dopotutto, ma lo manda per corriere espresso a casa di Frankie la Belva. Frankie la Belva riceveva parecchi sacchi come questo ai suoi tempi, perché sembra che fosse una sorta di passione per lui vedere di persona il contenuto dei sacchi e controllare che fossero in regola prima che venissero distribuiti per la città, e ovviamente Cappio McGonnigle sa di questa passione per aver fatto così tanti insaccamenti per Frankie.
Quando il corriere porta il sacco in casa di Frankie, Frankie lo porta di persona nel seminterrato, e là tira fuori una grossa John Roscoe e spara sei colpi al sacco, perché sembra che Cappio McGonnigle gli ha spifferato il piano di Joe il Giullare di saltar fuori dal sacco e iniziare a sforacchiare in giro.
Sento che Frankie la Belva ha un’espressione molto strana sulla faccia e sta ridendo l’unica risata che chiunque gli ha mai sentito fare quando entrano i gendarmi e lo arrestano per omicidio, perché sembra che quando Cappio McGonnigle dice a Frankie del piano di Joe il Giullare, Frankie dice a Cappio cosa farà lui prima di aprire il sacco. Naturalmente, Cappio dice a Joe il Giullare l’idea di Frankie di riempire il sacco di pallottole, e il senso dell’umorismo di Joe risbuca fuori.
Così, legata e imbavagliata, ma per il resto perfettamente in salute, nel sacco che è spedito a Frankie la Belva, non c’è per niente Joe il Giullare, ma Rosa.


*Nello slang dei gangster degli anni Dieci/Venti tra i vari nomignoli usati per indicare le armi da fuoco (in particolare le pistole) c’era quello di ‘John Roscoe’. L’origine non è chiara, ma è probabile che derivi da Roscoe Arbuckle, un attore notissimo all’epoca che fece scandalo per il suo coinvolgimento in uno scabroso caso di omicidio


Gli esantemi e i lucumoni di Alessio Mosca

Nottetempo porta in libreria Chiromantica medica, la raccolta di racconti di Alessio Mosca. Se la realtà, a ben guardarla, è spesso allucinatoria, questi racconti rintracciano le sindromi nascoste e le configurazioni anomale che guidano le storie narrate dietro la sintassi apparentemente sconnessa, a tratti psicotica, degli eventi. Gli effetti narrativi sono del tutto singolari, onirici e concreti, comici e spiazzanti, lisergici e carnali. Un nuovo narratore con un immaginario che scarta fuori dai ranghi.

Cattedrale propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.



Gli esantemi e i lucumoni
di Alessio Mosca

Tutto quel che so è memoria delle fondamenta e delle mura, delle case e delle piazze, così che come una città muta io stesso cambio giacché il mio essere ricalca vie e palazzi, i miei desideri vivono nel cemento e nella calce, nel sogno proibito di una città perenne.
So del sottosuolo, di un uomo scomparso nelle viscere della Terra e di una strega affamata di luoghi infetti in grado di seguirne le tracce.
So di un dottore inconsolabile, della prima volta che si incontrarono. Lei scalciava e sputava mentre due guardie giurate la trascinavano fuori dal pronto soccorso.
“Lasciatemi! Maiali luridi che ve la prendete con una signora!” urlava.
“Tutto bene qui?”
“Niente, dottore, è solo la Sfacciata”.
“Andate pure, ci sto io”.
Mentre la donna si rassettava l’uomo notò i segni di una sindrome di Cushing avanzata, le guance gonfie, le ecchimosi e il ventre enorme sorretto da due gambette sottili come spilli. “Sta bene signora?”
La donna gli si avvicinò e gli diede una carezza.
“Lei prima era un esploratore o un archeologo. Come le città, gli uomini sono costruiti sulle rovine di altri uomini, come laggiù,” fece indicando l’ospedale.
“Lì prima c’erano delle tombe”.
Il dottore non fece in tempo a girarsi che la donna già fuggiva via. Non parli con gli infermieri, gli parve di sentire nel vento.
Era stato assunto da poco all’ospedale San Lazzaro di Volterra, a quel tempo tendeva a ignorare i piccoli falli di pietra che trovava negli interstizi dei muri, non prestava molta attenzione alle scritte sulle porte dei bagni in quell’incomprensibile alfabeto simile al fenicio o al greco antico. Li credeva scherzi o la stravaganza di qualche paziente psichiatrico. Non riusciva ad abituarsi a quei cunicoli stretti e a quelle vie che serpeggiavano nel tufo come se la città fosse emersa dalla roccia scavando fino a dissotterrarne i palazzi, sentiva che avrebbe potuto imboccare una stradina e senza rendersene conto ritrovarsi al centro della Terra.
So di quegli infermieri, del timore che incutevano, silenziosi e solenni come statue con quei nomi tutti uguali, Aulo, Aquilino, Attilio, Camilla, Lucrezia, Tarquinio. So dei loro capelli crespi e delle trecce, della barba a punta nerissima come gli occhi, grandi e allungati come se vi fosse l’ombra di un trucco ad accentuarne la forma.
“Non deve parlare con quella donna,” gli disse il caposala poco dopo che la Sfacciata era scappata via.
“Chi è la Sfacciata?” chiedeva il dottore. “Ed è vero che l’ospedale giace su una necropoli?”
Nessuno gli rispose.
Volle saperne di più, ma delle cartelle cliniche della donna non vi era traccia. Cominciò a fare domande ai colleghi.
“Lasci perdere,” gli dicevano.
“Si occupi d’altro. Che c’è? Nostalgia di casa?”
Gli infermieri invece non rispondevano affatto, alzavano le spalle o parlavano di un palazzo in costruzione. Gli sembrava che le loro espressioni lugubri si deformassero e che per attimi impercettibili digrignassero i denti e ruotassero gli occhi come diavoli o malati di tetano.

So dell’ossessione di cui a poco a poco fu preda. Decise di cercare la Sfacciata fuori Volterra a costo di frugare in ogni nosocomio, clinica o sanatorio, a costo di perdere tutto.
So che all’ospedale di Arezzo alcuni manutentori ne riconobbero la descrizione, che era stata vista entrare e uscire dagli ambulatori di Chiusi e che, a detta di un portantino, era stata ricoverata fino a pochi giorni prima al pronto soccorso di Pitigliano. Il dottore riuscì a delimitare una zona entro la quale la donna si muoveva, un’area che dall’Alto Lazio, costeggiando il Tirreno, arrivava fino a Pisa e Pistoia e, riscendendo, si allargava sfiorando la valle del Nestore e il Trasimeno. Era come se circolasse una leggenda per gli ospedali di quel pezzetto di terra dal nome dolce e divinatorio che i locali chiamavano Tuscia, una leggenda che tutti facevano finta di non conoscere ma che viveva nella febbre e nei suoi vaneggiamenti, nelle parole balbettate in punto di morte o sussurrate a mezza bocca dai portantini. La leggenda parlava di una donna impazzita, del marito scomparso anni prima nella necropoli di Veio e di come da allora lei si inducesse di proposito uno stato di immunodepressione iniettandosi del cortisone in vena pur di contrarre in quei luoghi infetti una qualsiasi malattia che le marchiasse la pelle.
A commuovere il dottore era qualcosa che aveva a che fare con l’ostinazione, quel tipo di ostinazione legata indissolubilmente ai pazzi o agli innamorati: per qualche oscuro motivo, lei in questo modo sperava di ritrovare il marito che ancora credeva vivo nelle viscere della Terra.
So che quando finalmente si incrociarono nel pronto soccorso dell’ospedale di Cerveteri, il dottore sorrideva ma le sue ginocchia tremavano, so che la donna era seduta su una barella dove, piegata sulle proprie gambe, ricalcava con carta velina le ecchimosi che le erano venute sulle cosce. Era notevolmente peggiorata, il cortisone l’aveva gonfiata ancora di più, si era ingobbita e le guance rosse sembravano infuocare il resto della pelle color della cenere.
“Chi è lei? E cosa è successo a suo marito?” chiese tenendole una mano.
La donna blaterò, si guardò intorno come una paranoica e sputò. Balbettò di cunicoli e catacombe, di reti fognarie scavate nel tufo che portavano a cripte divenute scantinati, di come ogni sera arrivasse a sfiorare le dita del marito senza mai riuscire a raggiungerlo.
“Ma io ce la farò, capito? Riuscirò a salvarlo”.
Poi ripiegò il foglio e lo mise in un quaderno che porse al dottore, un regalo, come volesse confidargli un segreto per ringraziarlo di tanta gentilezza. Proprio in quel momento entrò di corsa un manipolo di uomini vestiti di bianco, le si fecero attorno e portarono via la barella d’urgenza. Il dottore fece appena in tempo a nascondere il quaderno sotto i vestiti e a urlare: “Fermi! Fermatevi!” prima che le guardie giurate lo pestassero fino a fargli perdere i sensi.
Quando si riprese, era notte e la donna era già morta.
“Un arresto cardiaco,” dissero ridendo con gli occhi.
Il dottore allora corse a casa stringendo il quaderno sotto al cappotto, assicurandosi che nessuno lo seguisse, sprangò porte e finestre e lo sfogliò. C’erano autoscatti, la donna aveva conservato le foto che ritraevano tutti gli sfoghi e le malattie della pelle avuti negli anni e su quelle foto aveva disegnato linee e schemi, preso appunti e sovrapposto planimetrie e carte topografiche, era una sorta di trattato di dermatologia e urbanistica.
Le croste erano come fondi di caffè e i loro contorni seguivano i perimetri della città vecchia di Tuscania, le ecchimosi erano come linee di una mano o tarocchi e rispecchiavano il Mitreo di Sutri, le vescicole di un herpes erano presagi di mappe sulle quali decifrare la rete fognaria di Fiesole, le pustole della psoriasi indicavano la posizione delle grotte di Orvieto, i tunnel e le gallerie, e giuro che unendo con una matita le petecchie di una vecchia vasculite si ricostruiva il labirinto di Porsenna e pure il perimetro delle mura ciclopiche di Vetulonia.
I tumuli della Necropoli di Tarquinia erano i pomfi o le bolle che le erano venuti quando la donna era ricoverata all’ospedale di Vulci, come se quei sepolcri rivelassero l’ustione della Terra.
Le strie rubre si dipanavano come le strade cave di Sovana, le papule purpuriche indicavano la Tomba Ildebranda, quella del Tifone, delle Sirene o la chiesa di San Mamiliano. Era l’aruspicina dei cunicoli e dei mattoni, la divinazione degli esantemi e delle macule, era come se quella donna avesse scoperto un’arcana corrispondenza fra uomo e città e la memoria stessa dell’umanità fosse custodita nelle fondamenta e nei luoghi così come sulla sua pelle. Una strega che si orientava su mappe ottenute interpretando papule ed eczemi, abituata a stare sottoterra a contatto con i vermi e la muffa nella speranza di ritrovare il marito inghiottito da quell’oscurità. Era la sacerdotessa dei tunnel e delle verruche, di una rete sotterranea che collegava tutti i luoghi dei Tirreni dove un uomo scomparso nei cunicoli della necropoli di Veio poteva essere ritrovato nell’Ipogeo di San Manno a Perugia o nelle cantine abbandonate di un vinificio di Cortona.

So che quando il dottore tornò al lavoro i suoi pazienti iniziarono a morire, che non appena usciva dalla stanza quelli collassavano. Siringhe d’aria o emboli, infarti fulminanti o sortilegi. So che vedeva i risolini etruschi degli infermieri che simili ad apolli di Veio ricoprivano i cadaveri con un lenzuolo.
Pur di non allontanarsi dai pazienti iniziò a vegliarli, a dormire accanto a loro, ma bastava che chiudesse le palpebre un istante e veniva risvegliato dal rumore continuo del monitor che segnava l’assenza di battito cardiaco.
So che lo trovarono con un coltello in mano che minacciava di sventrare chiunque si fosse avvicinato alla stanza dei suoi pazienti, so che quel giorno fra loro c’era anche una bambina. Lo presero per pazzo, fu cacciato e radiato dall’albo.
Allora prese le piante e le planimetrie delle città, degli scavi, del sottosuolo. Aveva ancora con sé il quaderno su cui la Sfacciata aveva impresso le sue ecchimosi: cominciò a cercare schemi e punti di riferimento, a sovrapporre tavole e a lanciare dadi. Due lividi a forma di u potevano corrispondere alla Porta dell’Arco etrusco e alla Porta Diana, due macchie potevano combaciare con l’acropoli dietro al Palazzo dei Priori e all’ospedale San Lazzaro.
So che con una matita unì gli altri punti e disegnò corsi e stradine, fece emergere vie e piazze, e che quella mappa improvvisata gli indicò un percorso. Lo seguì finché si ritrovò davanti la chiesa di San Giusto. Entrò. Trovò una lapide incastonata nel pavimento su cui erano incisi gli stessi caratteri indecifrabili che aveva già incontrato nel suo peregrinaggio, la spaccò e si calò dentro. Si ritrovò in uno spazio circolare scavato nel tufo, una tomba ipogea dalla quale si dipanava un’intricatissima rete di grotte e gallerie. Fece qualche passo in avanti, arrivò sulla soglia del labirinto poi tornò indietro e corse via. Corse davvero.

* Appunti scritti dal dottore:
L’aorta è un architrave.
E gli occhi cortili.
Le ossa sono travi
o pilastri, i nervi solai.
Le vene sono archi e le arterie corridoi.
Il cuore è la chiave di volta.

L’erba grassa, di Romana Petri

Giulio Perrone Editore porta in libreria l’ultimo lavoro di Romana Petri: Mostruosa maternità, una raccolta di racconti che è un viaggio nella parte più oscura e indicibile dell’universo femminile. Iniziando e chiudendo con il caso Franzoni, i racconti iniziano nel Medio Evo per poi finire ai nostri giorni. In quel parte della mente può andare a finire il pianto dirotto di un figlio? Quale senso di inadeguatezza estetica durante la gestazione può fare impazzire? E perché si può accettare violenza sul proprio figlio da parte di un uomo che ne sia o non sia il padre? Che tipo di insana gelosia può provare una madre verso una figlia?

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

L’erba grassa

Akifa Šeremeta (Sarajevo), 1993

Spesso mi pento. Ogni volta me ne pento, ma siamo in guerra e non c’è scampo per nessuno.
Che non vedo la mia gente sono ormai due anni. Giorni di guerra e feste comandate, tutto da questa parte, in terra nemica. Dall’altra parte, invece, nella mia terra, c’è l’esercito di questa gente, e immagino ci sarà strazio anche per quei soldati in tanta lontananza. Lontananza nel tempo dell’assenza, perché volendo ognuno di noi potrebbe tornarsene a casa con poche ore di viaggio. Certe volte è così. Lontananza fatta di tempo che passa, non di chilometri.
Parliamo tutti la stessa lingua e questo è un bene, dice il mio comandante, la comprensione rende l’odio molto più autentico. Storie, dico io, col nemico non si parla mai. Quella comprensione che, dice il comandante, sta tutta nel pensiero, ma il pensiero esiste anche tra chi parla lingue straniere e non si comprende, perché chiunque, dal nemico, lo sa di essere odiato, lo sa e basta. Ciò che si impara qui è che il rispetto non c’è mai stato in nessuna guerra, che in fondo non esiste nemmeno in tempo di pace, perché altrimenti quale sarebbe mai il punto di partenza di una guerra? E non è vero nemmeno che si ama di più la propria gente, falso, è solo una condizione dello stare, non lo so spiegare bene, e tante volte mi addormento col pensiero che potrei svegliarmi e fare strage di chi trovo, chiunque sia.
L’unica cosa vera è che qui si pensa a caso: le lenzuola, la roba cucinata, i gesti che abbiamo visto fare fin da bambini, come quello di lucidare le maniglie delle porte che è sempre stato la passione di mia madre e il modo mio di guadagnarmi qualche soldo.
Si cambia molto qui, e per diventare tutti uguali: di una ferocia che poi non so quanto tempo ci vorrà a farla placare.
Il fatto del pentimento è cosa che se ne sta nel fondo, elemento veloce e passeggero che ha un suo peso diverso per ognuno. A volte esplode come una granata, ed è un fastidio, quasi un intralcio alla situazione nuova che dentro a ogni soldato ha preso una forma tutta sua. Il pentimento mio è del genere ubriaco, una caduta da eliminare in fretta. Ma è fatto a strati, e uno sull’altro si depositano come un ingombro di grande peso che poi si sbilancia. Lo sento dentro il corpo che se ne va in cerca di un luogo di maggiore convenienza, ci sono giorni in cui se ne va tutto dentro un piede, che diventa quello che trascino quando devo camminare, altri invece è una gobba deforme sulla schiena che mi spinge in avanti indebolendomi le gambe.
L’importante è disprezzare tutto ciò che appartiene al nemico, un bel ruscello pescoso che scorre tra le rocce, un campo arato, anche un tramonto.
Ho ucciso già molte volte, e mi sono accorto che in questo non c’è grande pentimento perché ho capito che va fatto senza pensare, prendendoci il gusto equilibrato del lavoro che va svolto. Mi dico sono uomini e stanno in guerra, come ci sto io in questo evento scritto dal destino.
Ma del nemico vanno odiate anche le donne, lo dice il comandante con una smorfia tutta obliqua della bocca, e poi sputa lontano. Dice che è colpa delle donne se ce ne sono sempre tanti in giro di nemici, ché li hanno partoriti loro con le nemiche pance. Mi è sembrata strana quella storia lì delle pance, senza una vera colpa, e ci ho pensato a lungo la scorsa primavera, mentre correvo in un campo d’erba grassa col fucile in spalla e il sudore a fiumi tra stoffa e carne. Abbandonavamo un casolare in fiamme che avevamo devastato col disprezzo necessario dopo aver ucciso i contadini senza rispetto per la loro morte. Siamo poi fuggiti tutti dietro al grido di uno dei nostri, aveva detto: «Le donne stanno nel campo oltre la valle!», e si era messo a correre veloce seguito da tutti quanti noi.
Mi avevano detto che le vecchie andavano ammazzate e le giovani prese di violenza per farle gravide del sangue dei nemici, e che al momento andavano sputate in faccia così come si esercitava il comandante quando raccontava. Lo diceva lui che andava seminato l’odio e che quello era un bel modo, lasciandosi alle spalle un po’ di seme sparso nelle schifose pance delle donne loro.
Con una donna io non c’ero stato mai, né con la forza né teneramente. E mentre correvo a precipizio, giù nell’erba grassa, sentivo che a eccitarmi era quel correre insieme agli altri, quell’arrembaggio molto fanciullesco che mi ridiede tutto il senso degli anni tanto lontani nella mia terra. Correvo io di quel momento ma anche un altro me, quello di un’epoca passata. E anche quell’altro così remoto lo sapevo trascinato dai più grandi che lo precedevano veloci. E pure lui correva dell’identico entusiasmo, ma ignaro dello scopo.
Fu questo a darmi una grande rabbia: la mia insignificanza, questo partecipare inutile e senza conoscenza. Stava calando il sole, e le ombre nostre corridore erano lunghe, frastagliate nell’erba che prendeva l’arancione di una bella luce. Lo sentivo tutto il peso del mio corpo, il suo calore, la fiacchezza senza più fiato. E poi mi ci ritrovai in mezzo e vidi ciò che facevano gli altri presi dall’impazzimento. Volevo dire: «Fermatevi che era solo un gioco!». E dentro lo stomaco sentivo che avevo fame veramente, che tutto si scuoteva dal basso verso l’alto in un battito del cuore che mi sembrava quasi esterno.
Vidi una vecchia appena uccisa, rovesciata a terra, col braccio destro mutilato da dove usciva ancora denso un flusso di sangue rosso scuro che allargava il suo disegno sull’erba grassa, in grandi riversamenti sparsi e subito assorbiti dalla terra.
Ad ascoltare e vedere ciò che accadeva tutto intorno, mi sentii preso dal verso giusto della situazione e con tutta la quantità del sangue mio che da freddo tornava caldo, pronto a partecipare a quel massacro solo perché certo di essere tra i vincenti, ché questo in guerra accade molto umanamente: di sentirsi predisposti a essere spietati quando si ha certezza di non correre noi stessi il rischio della morte. Questa è la condizione dello stare: fingimento e un poco di baldanza.
Così detti un grido forte di allegria ammattita, e dopo la breve sosta d’osservazione ripresi quella corsa a fin di male.
L’afferrai per un braccio e la voltai di forza guardandola negli occhi. Da lontano era una figurina acerba che correva, ma da vicino una donna senza attraenza, col fazzoletto scuro legato sulla nuca e scarpe troppo grosse per i suoi piedi. La sbilanciai col peso mio di tutto il corpo e le fui sopra sull’erba morbida con l’urlo nelle orecchie dei suoi lamenti di paura e il significato chiaro di tutte le parole. Mi venne voglia di ascoltare solo le sue domande e così le rispondevo dicendole dei contadini che avevamo ucciso e dell’incendio che aveva distrutto il casolare, mentre mi accorgevo che il calore del suo corpo dato dal respiro mi ripugnava come cosa estranea a me. Sentivo intanto le urla soffocate di quelle che morivano e le altre più straziate di chi subiva il furore greve del disprezzo. Mi disse: «Salva almeno me che aspetto un figlio». E me lo disse col sorriso, con la speranza di chi s’è accorto dell’indugio. Fu in questo suo atteggiamento che trovai la mia determinanza, ché tanto non avrei mai preso lei né nessun’altra. E allora la sputai, e subito la uccisi sparandole in gola, quasi soffocando nell’allagamento di quel sangue rosso che venne a sbruffarmi in piena faccia dandomi così, di tutto il mondo che vedevo intorno, la visione colorata dell’odio bellicoso.
Mi abbandonai poi supino nell’erba grassa, accanto al corpo suo morto che ancora gorgogliava di qualche solitario fiotto già scurito dal tramontare rapido del sole. E mi ritrovai nel giusto, nel gran bello e fatto che si adattava alla mia natura di soldato.
Dopo lo scempio di quel giorno ce ne tornammo tutti al campo nella stanchezza silenziosa del rientro. Di ognuno, nel bosco, sentivo il frusciare suo da animale e il viluppo che gli stava ancora addosso col profumo selvatico della violazione e del massacro.
Quando arrivammo era già notte e feci quello che andava fatto imitando gli altri, raccontai com’era andata la parte mia e dissi che dopo la violenza l’avevo uccisa per via che in quella pancia non c’era odio da lasciarci dentro. Fui giudicato giusto dal borbottio di tutti quanti prima di cominciare il giro delle bevute forti che offriva il comandante.
Mi addormentai con un pensiero esatto: quello dell’azione della guerra ben condotta e dell’anima pulita. Da quella volta ho sempre scelto donne gravide. Dei miei compagni nessuno si è mai accorto che non ne facevo abuso corporale. Con i pensieri giusti ho addomesticato sempre il pentimento momentaneo che indebolisce il cuore dei soldati, e continuo così con metodo sicuro: le sputo in faccia e poi le sparo tutte, le sparo e basta.

Il primo Natale, di Gábor T. Szántó

Anfora edizioni porta in libreria 1945 e altre storie, di Gábor T. Szántó, l’ultimo scrittore ebreo ungherese - come lui stesso si definisce. Prima opera tradotta in italiano, da Richárd Janczer e Mónika Szilágyi, si tratta di otto racconti che riflettono tematiche tra le più importanti del nostro tempo e della nostra storia. Racconti audaci, profondi e taglienti, ma nello stesso tempo toccanti, grazie allo stile asciutto e senza fronzoli dell’autore, spinto da un elementare senso di giustizia e compassione per le prospettive dei sommersi che vivono con noi (immancabile il riferimento a Primo Levi).

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

IL PRIMO NATALE

Il primo Natale Gironzolava tra i venditori di abeti di piazza Lehel. Non aveva mai comprato un albero di Natale ma, in quell’inverno del 1969, non riuscì a resistere oltre, i due bambini si lamentavano così tanto e ripetevano con tono così accusatorio che nella loro classe tutti avrebbero avuto un albero, solo loro no. Anche Anikó, sua moglie, lo guardò talmente disperata, come se cadesse veramente il mondo per il fatto che i bambini dovevano fare a meno di quel fottuto abete.
Robi, il figlio più grande, si mise a piagnucolare quando il padre lo interrogò sul perché non capisse che il Natale non era una loro festa, come non era una loro festa nemmeno la Pasqua, anche se ricevevano un uovo di cioccolato ogni anno.
Non è giusto che gli altri abbiano le loro feste e noi non ne abbiamo! disse tutto imbronciato il più piccolo tra i ragazzi, Peti, che si limitò poi a sbattere le palpebre e rimase in ascolto tutto intimidito. Il maggiore non polemizzò. Sentiva che, con il suo tumulto, avrebbe dato pena ai suoi genitori. Aveva anche paura delle conseguenze, per questo piuttosto sopportò in silenzio, ripiegato, il proprio dolore.
Non festeggiano nemmeno le feste ebraiche perché, spiegò il padre, per loro che ormai sono uomini moderni, illuminati, quelle sono cose antiquate, religiose. Le feste di famiglia, il compleanno, sono altro, come l’anniversario di matrimonio, ma gli onomastici, quelli non li osservano, perché non è usanza. All’apparenza, i bambini accettarono la spiegazione ma gli sguardi afflitti, che lanciavano al ritorno a casa da scuola, ai Babbi Natale comodamente adagiati nelle vetrine natalizie, agli abeti addobbati, mentre lui, tenendoli per mano, faceva per trascinarli via, dall’inizio di dicembre, giorno dopo giorno, non mancavano di ricordargli che i ragazzi soffrivano. Peti una volta gli fece presente, con rassegnazione: Lascia che guardiamo almeno qui, se a casa non ci sarà Natale!
Questo fece sobbalzare anche il suo di stomaco. Non aveva obiezioni. I suoi bambini soffrivano.
Decidi tu! Non voglio che poi te ne penta, che rinunci ai tuoi principi a causa dei bambini o a causa mia, sussurrò Anikó la sera quando, dopo che si erano coricati, tirò fuori l’argomento che lo logorava.
Perché io? Decidi tu! disse teso perché sentiva che la moglie desiderava molto la gioia dei bambini, voleva solo addossargli la responsabilità, perché sola era incapace di trasgredire i divieti radicati in lei dall’educazione dei genitori.

Stava lì, nel viavai del mercato, il caratteristico profumo di abete si era fatto strada nel suo naso e, mentre esaminava con lo sguardo i potenziali alberi (gli appartamenti di moderna costruzione, nel condominio di Újlipótváros, dove abitavano, avevano due metri e ottanta centimetri di altezza interna), riaffiorò in lui il ricordo del Natale del quarantaquattro, vivido anche dopo i venticinque anni trascorsi, quando il loro campo si trovava accanto a un bosco di abeti innevato.
Da allora non aveva più annusato abeti. Da allora niente più scampagnate. Era la vicina, un’anziana signora, a portare i figli in gita a Normafa o sul monte János, e badava spesso a loro anche quando andavano all’asilo; lui ringraziava ma non gradiva prendere parte alle escursioni.
Ho camminato a sufficienza per una vita intera, borbottò ad Anikó, che fece un gran sospiro:
L’aria pulita serve.
E bussò alla vicina, la signora Klári.
Stava in piedi al mercato, in mezzo agli abeti legati con lo spago, e si ricordò che nelle baracche di legno la stufa a malapena tremolava. Non sapevano se esserne contenti o no che non li spingessero a marciare ancora nella neve verso Occidente, o se avrebbero dovuto appunto considerare quella calma inaspettata come un segno di cattivo presagio. In quello stato era pressoché impossibile pretendere che proseguissero, anche se sospettavano che la distensione non fosse di buon auspicio. I viveri scarseggiavano, difficilmente avrebbero potuto contare su rifornimenti nel mezzo della foresta. Il villaggio più vicino era a due giorni di cammino nella neve che arrivava fino alle ginocchia.
Prima di mezzogiorno aveva fatto capolino un’altra unità, anche loro si accamparono lì. Chi era capace di seguire i giorni, sapeva che stavano trascorrendo proprio la sera di Natale assieme al resto dell’altra compagnia dei lavoratori forzati e del loro contingente. Avevano appeso in tutta fretta a un albero qualche decorazione fatta con fogli di giornale ritagliati e vi avevano fissato un paio di candele.
I soldati, per la gioia dell’incontro e della festa, avevano tracannato acquavite già dal primo pomeriggio e gli avevano imposto di uscire dalle baracche. Dovevano mettersi in riga e ascoltare il proclama del loro comandante, l’anziano capitano Ferenczy.
È Natale, giudei! Non so se lo sapete o no ma questa è la festa dell’amore. A quest’ora è nato Nostro Signore Gesù Cristo, che voi avete messo in croce. Ma, per farvi vedere che noi siamo diversi, noi vi lasciamo un’occasione. Allestiamo una gara di corsa e dovrà crepare solo chi rimarrà indietro. Gli altri la faranno franca. Questo è il vostro regalo di Natale. Gareggeranno, l’una contro l’altra, squadre da cinque per ciascuna delle due compagnie. Ognuno potrà sparare solo a chi rimane indietro e ai lavoratori forzati degli altri, è chiaro? si rivolse ai soldati. Senza regole non si può né giocare né vivere!
Da entrambi i lati, i membri del contingente scoppiarono a ridere.
Su, andiamo, si preparino! Se farà troppo buio, finiremo per sparare di qua e di là, manca solo che si facciano male altri, non solo chi è impotente e non ce la farebbe comunque a proseguire.
In silenzio, si tolsero di dosso, strato dopo strato, i cappotti, le giacche e i maglioni. Alcuni si tolsero perfino i pantaloni, rimasero lì a congelarsi in calzoni o vestiti solo di mutande, solo per non farsi ostacolare da nulla nella corsa.
Dovevano correre nella neve, dalla linea di partenza fino alla parete rocciosa della cava di pietra abbandonata distante ben sessanta metri. Al primo sparo, al segnale dato dalla pistola da starter, entrambi i gruppi si lanciarono a correre. Coloro che partirono in ritardo si rattrappirono completamente. Nel silenzio di tomba si udiva solo il crepitare della neve, il loro ansimare e il sibilare degli spari. Mentre muovevano le gambe frettolosamente, con movimenti sregolati, affondavano nella neve vergine fino alle ginocchia. Le pallottole che mancavano il bersaglio schioccavano sui sassi con sibili assordanti.
Il sangue puzza? guaì Váradi, il mercante tessile, appena sbatterono contro la parete rocciosa, uno accanto all’altro.
Non sapeva se il compagno stesse solo boccheggiando o se l’avessero colpito.
Non ne ho idea. Perché? rispose con una domanda, ansimando. Non si era ancora reso conto che era vivo. Perché, se non puzza, allora mi sono solo cagato addosso.
In quel momento eruppero dei suoni di guaiti anche da lui. Non solo l’altro, nemmeno lui stesso sapeva se stesse ridendo o singhiozzando, crollò così nella neve.
Voleva un regalo che rendesse memorabile per i ragazzi il loro primo Natale. Considerato che, nell’azienda di commercio estero in cui lavorava, i colleghi potevano importare articoli da regalo, per giunta esenti da dogana e senza specifici permessi, nelle due settimane restanti a Natale fu in grado di occuparsi del fatto che le sorprese che aveva adocchiato nel catalogo arrivassero ancora in tempo, prima della festa, dalla Cecoslovacchia.
Non fu tuttavia disposto a comprare gli addobbi per l’abete, le minuscole, colorate lampadine da pinzare all’albero, le bacchette scintillanti e i cioccolatini.
Comprale tu queste cianfrusaglie, va bene? disse ad Anikó, la quale annuì in silenzio e pensò: dopo essersi decisi con molta fatica di festeggiare, perché lui doveva rovinare tutto con la sua malavoglia, perché dovevano sentirsi male, quando si sarebbero potuti sentire bene?

Lui avrebbe intagliato il tronco dell’albero e l’avrebbe montato nella stanza grande, davanti alla finestra, Anikó invece l’avrebbe addobbato, così diceva l’accordo. Non era entrato nella stanza finché non si era fatto buio e la moglie, un po’ impacciata, non l’aveva chiamato con entusiasmo infantile, dicendo che avrebbero dovuto cominciare, che tirasse fuori i regali dai nascondigli, perché ormai i ragazzi erano molto impazienti. Accesero le bacchette scintillanti e dissero ai bambini che potevano venire.
I ragazzi rimasero davanti all’albero con il volto ardente, commossi. Il più piccolo guardava a bocca aperta le scintille, le luci colorate brillare e spegnersi. Inspirarono profondamente il profumo di abete e fosforo che aleggiava per tutta la stanza, Robi invece sbatteva le palpebre, ora verso l’albero, ora verso il padre e la madre, come se aspettasse da loro il segnale di cosa avrebbero dovuto fare.
La moglie gli prese la mano dietro la schiena. Lasciò che la moglie lo toccasse ma non mostrò alcuna reazione. Quando le bacchette scintillanti si spensero e rimasero solo le luci colorate, fissate ai rami dell’abete a illuminare, Anikó accese un abat-jour accanto al divano, ma egli, caparbiamente, accese il lampadario.
Cos’è? chiese Robi, prendendo in mano emozionato il regalo in comune. Peti stava già strappando anche la carta dorata dall’oggetto di forma allungata. Quando lo scartarono dalla confezione decorativa, ancora non fece capolino: la sorpresa era avvolta da un involucro in tessuto marrone.
È forse una canna da pesca? Robi volse lo sguardo al padre, pieno di meraviglia.
Ma noi non andiamo mai a pescare! Peti, perdendosi d’animo, lasciò cadere la carta regalo.
Il volto disciplinato, il sorriso enigmatico del padre non rivelavano se fossero vicini o no alla soluzione. I ragazzi allargarono l’apertura stretta del sacco ma dovette aiutarli anche lui a far sgusciare fuori dall’involucro il congegno d’acciaio, splendente di una luce nera, oleosa, discretamente pesante, ricoperto da una pellicola di nylon, un fucile ad aria compressa Slavia, modello 620.
Uh! Mitico! la riconoscenza eruppe unanimemente dai bambini. Tastarono l’arma, si misero la tracolla al collo, la portarono in giro per la stanza così, poi se la strinsero sulle spalle e provarono a puntarla, per provare quanto fosse pesante.

La madre li guardava preoccupata. I ragazzi, fino ad allora, non avevano ricevuto neanche una pistola giocattolo.
Basta che non ve la puntiate addosso e su nessun altro! Sussurrò all’orecchio del marito: Non creerà problemi?
L’uomo l’abbracciò e la strinse a sé.
La preoccupazione sul volto di Anikó non si placò. I ragazzi intanto ormai avevano piegato più e più volte la canna unendo le forze, riempivano il serbatoio d’aria e, vedendo l’assenso del padre che annuiva, avevano premuto il grilletto dell’arma scarica.
Su, ragazzi! Volete provarlo?
Sì, sì! Strillarono Robi e Peti.
Prestate attenzione! Vi mostro come si carica, glielo prese dalle mani.
Ma come potremmo provarlo qui? chiese Robi. Non abbiamo mica un bersaglio.
Un po’ di pazienza! disse il padre, che continuava a sorridere, come chi avesse premeditato il tutto.
L’abete si trovava di fronte alla finestra. Scostò le tende retrostanti e spalancò la finestra. Di fronte alla casa a cinque piani si spalancava uno spazio vuoto, terreni non edificati in attesa del proprio destino al posto dei depositi di legname di un tempo. Ritornò al centro della stanza, accanto al ragazzo.
Sui cioccolatini non si spara, solo agli addobbi! Inserì i minuscoli proiettili di piombo nel fucile e lo porse al figlio maggiore.
Robi indietreggiò stupito. Cercò con lo sguardo la madre che, con le lacrime agli occhi, strinse a sé il figlio minore.

Arrivederci, di Marzia Grillo

Giulio Perrone Editore porta in libreria Il punto di vista del sole, di Marzia Grillo. Una raccolta che dimostra una scrittura di forte impatto, solida e di grande acume letterario. Il reale e il fantastico si fondono in questi tredici racconti, in cui Marzia Grillo osserva con sguardo chirurgico il mondo da prospettive tanto umane quanto meccaniche e celesti, giocando e mischiando tutte le forme narrative.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Arrivederci

Fino a un mese fa gli aerei in partenza facevano un rumore sottile, metallico; alzavano il muso, acceleravano un poco, e via. Adesso le piste d’atterraggio sono impolverate, con mucchietti di anime rimasti incastrati alle torrette, in attesa dei corpi. Di’ loro di svolazzare piano. Di’ che tra due giorni comincia a fare caldo, siamo in un mese con la R: suggerisci di fare attenzione.
Il tuo era stato l’ultimo volo in partenza. Avevi il singhiozzo quando mi hai detto ciao. Quando hai guardato in alto e sussurrato: «Le rondini», e io voltandomi ho risposto: «Ho l’acquolina in bocca».
Il motto dell’aeroporto è: ogni rondine fa primavera. Nei periodi giusti, all’ingresso le vendevano a mazzetti, a chili nel parcheggio. I barbecue facevano un fumo del diavolo, erano ovunque. Chi non desidera una rondine arrosto per souvenir?
«I biscotti della fortuna non hanno grandi traduttori, dovresti mandare il tuo curriculum», avevi detto prima di partire. Eravamo seduti sugli sgabelli di Wok, al Terminal 2 di Fiumicino. Tenevi il biglietto davanti agli occhi. In inglese c’era scritto: “Se gli aerei stringono i denti, tagliagli le ali”. In italiano: “Chi non parte si rivede”.
Mi avevi strattonata come fossi di cartone. «Riuscirò ad andarmene, hai capito?». Avevi suonato con le bacchette sul tavolino. «Sono raggiante», avevi insistito, lo sguardo fisso sul tabellone sopra la mia testa. Negli ultimi giorni le stazioni avevano interrotto il servizio, le auto avevano iniziato a sbocciare lungo i marciapiedi, impollinate dai droni. Non volevo tornare a casa, continuava a sembrarmi una trappola. Mi avresti ritrovata al gate a tempo debito, con lo stesso sorriso spacciato.
A un tratto però è sembrato che il mondo si stesse fermando per sempre, e gli aeroporti non avessero più alcun senso. È stato allora, poco prima che tutti se ne andassero lasciandomi sola, che un impiegato con la mascherina ha provato a tracciare una tacca sul muro, laddove arrivavo. Io non riuscivo a stare ferma, lui non riusciva a fare una linea retta. Con un sorriso mesto si è complimentato, ha detto: «La tua anima sta decollando».
Ma tu non torni, e i negozi qui sono chiusi da settimane.
I banchi dell’accettazione non accettano, i nastri trasportatori non trasportano. Io ho fatto mille volte il giro di tutte le cartoline di Roma, attraverso le grate: piazza Navona gremita, la basilica di San Pietro affollata, il Colosseo animato da leoni in 3D.
Ieri, vicino ai computer a gettone, ho trovato una di quelle macchinette che stampano biglietti da visita. Ho digitato “Aspetta e…”, selezionato l’opzione fronte/retro, completato la frase. Ne ho preparati cento, li ho piegati ad arte e li ho lasciati davanti alla serranda di Wok, senza curriculum.
Sto per finire le sigarette, ma ho ancora dieci fiammiferi. La fiducia si guadagna, ma la pazienza a un certo punto si perde. Chi tra i due ha studiato Economia?
Questa mattina le rondini non mi hanno dato tregua, così ho firmato un patto con loro, lo abbiamo siglato e poi abbiamo ballato forte, sulla pista da cui sei partito. Abbiamo apparecchiato con le tovaglie a quadri, ci siamo legate i fazzoletti dell’arrivederci al collo. I barbecue stanno già fumando. Io sto fumando l’ultima delle mie sigarette. Presto o tardi tornerai, e saremo pronte a divorarti.

La panchina vuota, di Francisco Tario

Safarà Editore porta in libreria Fra le tue dita gelate. Racconti fantastici, di Francisco Tario, per la traduzione di Raul Schenardi.
Dedicato all’amata moglie Carmen Farell, il “mágico fantasma” che attraversa impalpabile il respiro di ogni pagina, questo libro è considerato all’unanimità il capolavoro di Francisco Tario, enigmatico protagonista della letteratura messicana del Novecento. Scritti con una prosa di inquietante bellezza, i racconti surreali, grotteschi e sensuali qui riuniti illuminano i varchi di accesso verso una dimensione altra che scorre parallela alla comune percezione, disseminando il testo di anticipazioni che solo i lettori più scaltri sapranno individuare e svelando, solo in parte, l’enigma della narrazione.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del testo, per gentile concessione dell’editore.

La panchina vuota, di Francisco Tario
Traduzione di Raul Schenardi

Ogni giorno, a partire da quello in cui venne assassinata, aveva l’abitudine di tornare a casa sua, dove trascorreva le ore morte.
L’intimità della sua casa, gli odori del giardino, il pallido splendore degli specchi, tutte quelle cose care e familiari, ora avvolte in un emozionante mistero, le offrivano le ore migliori della sua morte, come in altri tempi le avevano riservato i momenti più indimenticabili della sua vita.
In altri tempi, tuttavia, persisteva nella casa, anche durante i pomeriggi più silenziosi, un rumore fastidioso, come se la casa intera si riempisse di foglie, ed era, oggi lo capiva, il respiro vivo della sua casa, perché allora la sua casa viveva, era lei, e la vita non è mai silenziosa.
C’era sempre qualche presenza maligna, che fosse quella del postino, o quella dell’orologio che segnava l’ora, o quella del campanello del cancello che annunciava qualche visita ina- spettata; o anche quella di lei stessa che scendeva le scale, la sua voce o quella del marito, o il proprio riflesso nello specchio.
Non era mai assoluta la quiete, come se un mare addormentato smuovesse le proprie acque sotto le piante del giardino.
E lei si lamentava spesso – ma come opporvisi? – del fatto che la sua vita, che era così breve e così bella, venisse turbata a qualsiasi ora da tante presenze tanto insistenti. Vivere sembrava inutile, era come una lotta forsennata fra qualcosa che nascondeva il suo pensiero e qualcosa che restava occulto tra i fiori.
Se n’era accorta da tempo, ma soltanto oggi riusciva a spiegarselo. Soltanto oggi, dalla sua silenziosa morte, da quell’immobile silenzio e da quella perpetua immobilità, dove non c’era niente da sperare, perché tutto quello che si sarebbe potuto sperare si era già realizzato, lei godeva di una serenità propizia per fermare il suo pensiero dove le conveniva, e per tutto il tempo necessario, sapendo che nessuna emergenza si sarebbe frapposta fra lei e il suo pensiero.
La casa era chiusa, sbarrata da anni, e sulla porta c’era un sigillo.
Quel sigillo lasciava intendere ai passanti che a nessuno di loro sarebbe stato permesso di abitare in quella casa, che era una casa proibita, forse maledetta, chiusa a qualsiasi destino di gioia. Che era, insomma, la casa stessa della morte.
Gli alberi, i cui rami secchi cadevano pesantemente sulla casa, erano fioriti e guardando attentamente quel sigillo, la donna trasaliva. Quel sigillo si riferiva a lei, parlava a tutti della sua intimità e del suo nome, era come il breve diario della sua vita. Ed erano tutte le sue memorie, i suoi dispiaceri, i suoi affetti, i suoi vestiti. Avrebbe potuto ripercorrere la maggior parte della sua vita soltanto guardando quel sigillo.
Ora toccava con timore quel sigillo, che cominciava a ingiallire sulla porta, e stava attenta che non venisse rotto, per- ché aveva l’impressione che, una volta rotto quel sigillo, si sarebbe spezzato in lei qualcosa di insolito e di caro, e che la tenue nebbia che ora l’avvolgeva, come c’era da aspettarsi, avrebbe formato un’oscura nube e l’avrebbe allontanata definitivamente dalla sua casa.
Dal balcone ora guardava i suoi pensieri; guardava le rose del suo giardino, che erano diventate selvatiche. Ricorda- va di aver avuto un cappellino giallo, con un gran mazzo di pensieri. E questi pensieri del suo giardino, quelli di cui pure era solita lamentarsi perché non ci trovava alcun aro- ma, pur essendo, come erano stati, i suoi fiori preferiti, oggi emanavano un profumo sconosciuto, che arrivava a farle gi- rare un po’ la testa. L’aroma saliva dal giardino e si diffondeva per la casa. Aspirando quell’aroma provava un vago e incomprensibile disagio. Tutto si conservava uguale; era strano. L’orologio si era fermato in una lontana e misteriosa ora, che lei non ricordava. E un giorno che le venne l’idea di mettere in moto l’orologio, questo ubbidì fedelmente, con una graziosa esattezza, e continuò per vari giorni a lasciarle sentire la sua musica. Sembrava addirittura che le rivelasse l’ora, dal suo cantuccio, in cui necessariamente qualcosa doveva succedere nella casa. E lei sorrideva nel sentirlo suonare e muoversi all’interno della sua teca di vetro. Sorrideva della sua serietà e della sua fretta, dato che non c’era più niente da segnalare e niente da fare, una volta che tutto, persino le cose più intime, era fatto. E durante interi pomeriggi la donna assassinata si sedeva sul suo grande divano rosa, con un libro fra le mani, non lontana dal balcone.
Quei libri non le offrivano alcuna novità; li aveva letti tutti. Ma restava importante far scorrere lo sguardo su un oggetto familiare, quando le cose erano tanto cambiate.
Nulla di nuovo le dicevano i libri. La riportavano a vecchi tormenti di amori e gelosie e, quando si imbatteva nelle orme della sua vita perduta, nella semplice impronta delle sue dita, in un fiore o un segnale che le ricordavano qualche vecchio fremito della sua anima, si commuoveva e sospirava, provando un tenero amore per uomini che non conosceva e per coloro che avevano scritto quei libri.
Tutto si conservava uguale e lei faceva in modo che continuasse a essere così. Non voleva disturbare l’ordine di una casa che le apparteneva in modo così completo, che era ancora sua, mentre tutti supponevano che fosse disabitata e solitaria. All’interno di quella casa c’era una vita costante, invisibile e attiva; un’esistenza occulta che spiegava di per sé perché la casa non invecchiava, perché ogni mattina sembrava più radiosa e soleggiata, e com’era possibile che gareggiasse sotto ogni aspetto con le altre case. L’edera copriva i suoi muri; ed era un’edera giovane e tenera sopra la pietra grigia del muro.
E in quelle memorabili notti fredde, quando lei e il marito tornavano da teatro e la porta dell’ingresso si apriva, lasciando intravedere l’interno completamente illuminato, e la casa intera tremava di luce, lei pensava a quanto fosse misterioso vivere, entrare piano piano nella propria casa e sentirsi avvolta nella luce e nel calore, trasformarsi in una sorta di immagine dorata o in un piccolo vuoto che si riempiva di quella luce e di quel colore così speciali.
A questa sensazione di benessere notturno e di vaga gratitudine, però, faceva subito seguito un’altra impressione più grave e precisa, conseguenza della precedente, e quasi il suo fine, quando il benessere fisico le annunciava un malessere improvviso che la spossessava di quel calore e di quella luce così speciali. E così lei pensava, notando come si chiudeva la porta alle sue spalle, che sarebbe stato orribile morire, non entrare più nella propria casa, restare abbagliati in un simile modo e non sentire più, di notte, quando la porta si chiudeva.
Allora lei e il marito cominciavano a salire le scale, lui con il cappello in mano, si sfilava piano piano i guanti e le do- mandava se non avrebbe gradito bere un caffè prima di andare a letto. Di solito preferiva un liquore, perché le piaceva guardare il liquore in controluce; e suo marito si avvicinava al camino e si fregava le mani, impaziente. Lui diceva che tempo faceva, oppure che la prima non gli era piaciuta e contemplava per un momento il giardino sollevando un lembo delle tendine. Era una dimora dorata. Dorata per il fuoco che ardeva, per la brevità e la dolcezza della vita e per i fiori dorati che decoravano il soffitto. E lei, ancora avvolta nel soprabito, continuava a chiedersi come sarebbero potute es- sere le notti, quelle notti che l’aspettavano e di cui nessuno aveva saputo dirle qualcosa. E se non sarebbe stato possibile che quelle notti, considerando quanto era giovane e bella, fossero diverse.
Si rifiutava di pensare che quel mondo complicato e vivo, così dorato, scomparisse di colpo. Che le cose più appassionate della sua vita non avessero senso. Che tutto rimanesse nell’oscurità, come quando cala la notte.
Voleva sapere se, perlomeno, sarebbe riuscita a ricordare quell’istante. Se avrebbe potuto conservare un po’ di vita. E non sapeva decidersi, se le avessero permesso di scegliere, se morire senza riserve e dimenticare tutto, oppure accumulare certi ricordi, ordinarli e classificarli, al fine di riviverli nuovamente e formare con quelli una seconda vita fatta interamente di ricordi.
Questo oblio delle cose la scoraggiava. Non si decideva a scegliere quella dolorosa dimenticanza; ma la intuiva. Sospettava che ad attenderla ci fosse un oblio di quella natura.
Allora si versava un altro calice, faceva risuonare ritmica- mente i suoi gioielli, oppure tratteneva il calice sulle labbra, per convincersi del suo sapore, del dolce miele che le lasciava sulle labbra, e non poteva accettare che tutte quelle luci che illuminavano la casa, tutte le cose che conosceva e desiderava, e tante altre che aveva riunito e conservato, così minuscole e meravigliose, la sensazione del liquore nel suo corpo, presto si sarebbero oscurate, si sarebbero interrotte contro la sua volontà, facendo pensare agli altri che lei non fosse mai esistita.
Rievocando tutte queste cose, ora la donna gettava indietro la testa contro la spalliera del divano e sorrideva. Trascorreva notte e giorno sorridendo. I ricordi la intenerivano. Il ricordo dei suoi pensieri la commuoveva.
Commossa, guardava sé stessa su un divano, all’altra estremità della sala. Si vedeva in un pomeriggio come tanti altri e sentiva il cocchiere bussare alla porta. Nel pomeriggio usciva sempre a fare un giro. Si sentiva pensierosa e sola; ma molto bella. Teneva in mano dei guanti. E adesso questa sua vecchia immagine la inteneriva, bella e giovane com’era, con quei guanti, e si sentiva perdutamente attratta verso di lei, verso quell’oscura tristezza che intuiva nella sua espressione e in quella precoce stanchezza con cui aspettava l’auto.
Commossa, le andava incontro, e si parlava, si interrogava instancabilmente su quali pensieri e quale stanchezza potesse aver avuto a quell’ora; che cosa desiderava, che cosa sperava, chi amava e, soprattutto, se l’inviolabile segreto che nascondeva nella sua anima, solo per sé, alla fine le sarebbe stato rivelato con maggiore chiarezza. Ma siccome quell’immagine del divano insisteva nel rimanere assente, dato che era un’immagine viva e innamorata, di solito si limitava semplicemente a chinarsi su di lei, a prenderle il viso fra le mani, a contemplarlo e baciarlo e stringerlo a sé, ripetendogli che l’unica cosa che riusciva a risollevarla un po’ era lo stupore che le provocavano ora la sua antica gioventù e bellezza.
Si svegliava più tardi, da sola. Quando era già giorno.
Dal giardino salivano delle esalazioni, e queste esalazioni e la sua solitudine le restituivano lo strano benessere precedente, perché quell’immagine sognata, e persino la propria voce – «A che cosa pensi?» – le avevano provocato un dolore effimero, come se esistesse di nuovo un’altra volta e di fronte a sé contemplasse non la propria immagine viva, bensì morta, come le succedeva di solito in altri tempi.
La turbava sapere che soffriva, scoprire che qualche volta aveva sofferto nella vita.
Allora si alzava, ormai tutta avvolta nel sole del mattino, invisibile come un raggio di sole, e vagava da una parte all’al- tra della casa. Sedeva al sole in giardino o si aggirava come un’immagine viva fra gli alberi. Erano dorati gli alberi e a poco a poco si stava dorando il giardino, perché era la stagione dei sempreverdi. E in questa atmosfera dorata, che da fuori sembrava di poter toccare, vagava senza sosta, speranzosa, lasciava sfuggire il tempo, si dimenticava del tempo e si sentiva piacevolmente impercettibile, curiosamente insignificante, e si chinava sui fiori, lasciandosi trafiggere dal sole, sognando di morire di nuovo, desiderando morire ancora di più, di svanire e acquisire così un’altra forma di vita, ancora più lieve, per godere meglio del giardino e della casa.
Chi l’avrebbe ricordata, ormai, pensava.
E in effetti svaniva, ma senza rendersene conto. Anche quella vita misteriosa era giunta alla fine. Anche l’invisibile aveva una fine, moriva.
Era come se, un giorno dopo l’altro, ogni nuova corrente d’aria le portasse via, a sua insaputa, una di quelle ineffabili foglie di cui era costituita. Come se un soffio di vento, che non si percepiva nemmeno, le rubasse ogni giorno una foglia.
E lei immaginava che tutto quel malessere che la invadeva, quella sensazione di cadere e perdere le foglie, come se il cielo si rannuvolasse, o qualcuno muovesse dolcemente un ventaglio alle sue spalle, costituisse una gioventù e un amore sconosciuti, in cui entrava adesso; e in effetti smetteva costantemente di esistere, ormai non era più nemmeno la propria ombra, bensì il vuoto di sé stessa, dato che il sole la feriva e la penetrava, la rendeva trasparente, e di notte veniva inondata dentro dall’oscurità; in effetti scompariva e di quello che era stata non rimaneva ormai che il nero vento notturno.
Chi l’avrebbe ricordata, si ripeteva.
Quasi nessuno la ricordava; era vero. E perciò moriva. Sol- tanto un ultimo ricordo, disperato e preciso, la teneva in vita da lontano. Di chi poteva essere quel ricordo? Chi la ricordava, desiderando ora che non morisse? Viveva i suoi ultimi giorni alla mercé di quell’unico pensiero. E non appena questo pensiero si fosse estinto, non appena quel ricordo avesse smesso di esistere, anche lei avrebbe smesso di esistere – lo capiva –, ma non aveva nemmeno la forza di pensarlo. Tutto era sempre più lieve di sera. Avrebbe voluto non dimenticare quei crepuscoli. E sentiva che anche l’ultima foglia le sfuggiva. «Mi hanno dimenticata» sospirò. E guardò la sua casa. Il sole batteva sui balconi e se lo immaginò sul tappeto. Scorse uno sprazzo di sole nel suo specchio. Si sentì lontana e confusa, infinitamente dimenticata, ma felice. Le sarebbe piaciuto fermarsi, in realtà. Ricordava ora, gettando indietro la testa e continuando a ridere mentre succedeva, una lettera che non aveva scritto.
Poi pensò che si sarebbe dovuta sedere sulla panchina. E così fece. Ma la panchina rimase vuota.

O la biblioteca o la vita!, di Alejandro Zambra

Il cambiamento può essere una forza dirompente  ̶ un’intuizione scientifica che genera una scoperta, un avvenimento che stravolge le nostre vite  ̶ o una lenta trasformazione che modifica il nostro paesaggio, mentale o naturale. Qualunque forma assuma, è proprio il cambiamento a circoscrivere i parametri della nostra esistenza, di cui è il motore fondamentale.
Provano a raccontarcelo, in questo numero di Freeman’s - la rivista curata da John Freeman che Black Coffee pubblica ogni anno a Marzo - autori celebrati come Lauren Groff, Aleksandar Hemon e Ocean Vuong accanto ad altri a noi meno noti, provenienti dai quattro angoli di questo mondo sconvolto dai recenti mutamenti. Perché è la narrazione che facciamo del cambiamento a farci capire chi siamo.

Gli autori di questo numero:

Joshua Bennett, Christy Namee Eriksen, Lauren Groff, Sulaiman Addonia, Jakuta Alikavazovic, Kyle Dillon Hertz, Rick Bass, Lina Mounzer, Ocean Vuong, Sayaka Murata, Aleksandar Hemon, Adania Shibli, Sandra Cisneros, Zahia Rahmani, Yoko Ogawa, Alejandro Zambra, Elizabeth Ayre, Mark Strand, Kamel Daoud, Yasmine El Rashidi, Valzhyna Mort, Siarhiej Prylucki, Dmitry Rubin, Julia Cimafiejeva, Uladzimir Liankievič, Lina Meruane, Julia Alvarez, Lana Bastašić, Rickey Laurentiis e Cristina Rivera Garza.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti in questo numero della rivista, per gentile concessione dell’editore.

O la biblioteca o la vita!
di Alejandro Zambra

1

«La mia patria è mio figlio e la mia biblioteca» disse una volta Roberto Bolaño, e anch’io vorrei dire esattamente la stessa cosa ma la biblioteca non ce l’ho più, l’ho regalata: tre anni fa, poco prima di venire in Messico, decisi di donare tutti i miei libri all’università dove lavoravo. Se la biblioteca è la patria, penso a volte con fare melodrammatico, io ho rinunciato a entrambe.
Il desiderio di possedere sembra una forza inarrestabile, ma è altrettanto vero che ci sono ragioni in abbondanza per disfarsi della propria biblioteca: ad esempio la mancanza di spazio, i traslochi, uno slancio filantropico, la vicinanza con la morte, oltre a ragioni meno precise e forse ignote al proprietario, come l’esaurimento, la depressione e la stupidità.
Nel mio caso tutti questi motivi si combinarono e confusero tra loro: la biblioteca che mi ero tirato dietro e avevo protetto fin dall’adolescenza era diventata di colpo una sorta di cimitero, e nessuno dei soliti alibi che usavo per giustificare l’accumulo di libri – necessità professionali o emotive, collezionismo, sindrome di Diogene, eccetera – era abbastanza forte da liberarmi da quella sensazione.
In realtà, la mancanza di spazio non è mai stata un argomento che abbia pesato più di tanto. All’inizio l’assenza di mobili adatti portò a un paesaggio di torri pendenti a un passo dal crollo; poi però lo spazio aumentò, forse pure troppo: la mia casa non era grande per una famiglia, ma quando quella famiglia smise di esistere divenne immensa per me, la mia cagna Sardina e la mia gatta Oscuridad, e perfino per gli amici, anche loro appena separati, che si disputavano la stanza degli ospiti. La biblioteca continuò a crescere al ritmo di un’edera ai tropici, ma c’era ancora spazio per appendere alla parete principale, ad esempio, la bella foto del poeta Jorge Teillier regalatami dal fotografo Miguel Sayago.
L’unica volta che ho contato i miei libri ne avevo novantadue, tutti letti e in buona parte riletti. Vent’anni dopo, nell’imminenza dell’addio, non mi è nemmeno venuto in mente di contarli; poi però ricevetti un file Excel con l’inventario, composto pazientemente dai bibliotecari dell’università: tremilaseicentotrentaquattro libri. Quindi, tra i ventuno e i quarantuno anni di età, avevo accumulato tremilacinquecentoquarantadue libri o, per metterla in cifre più intelligibili, in vent’anni la mia biblioteca si era moltiplicata di 39,5 volte. Secondo un altro modo di processare i dati, e forse quello che più mi impressiona: in quei due decenni, sulle mensole è arrivato un libro nuovo ogni 2,03 giorni.
È di pessimo gusto vantarsi dei beni materiali, perfino se si parla di libri, ma immagino che farlo col senno di poi, dal mio presente quasi francescano, possa mitigare la mia mancanza. A volte mi sorprendo a guardare come uno stupido il file Excel, come un impresario in rovina che controlla, con malinconia, vecchi estratti conto della banca. Il mio grado di pentimento varia: ci sono giorni in cui, nel ricordare i libri perduti, provo orgoglio e penso addirittura, con indulgenza, alla mia presunta generosità, o visualizzo alcuni cari ex alunni aggirarsi felici tra gli scaffali; ma mi capita anche semplicemente di non conoscere più la persona che ha preso quella decisione tanto splendida quanto idiota. Mi mancano alcuni libri in particolare, ma mi mancano anche tutti in generale, compresi i non pochi esemplari che non ce l’ho mai fatta a leggere o che so non avrei riletto mai.
A proposito, mentre mi gingillavo con l’idea di – forse è questo il verbo esatto – sgravarmi della mia biblioteca, continuai ad accumulare libri, il che non è poi tanto strano, come sappiamo bene noi fumatori, gente a cui di solito viene più voglia di fumare quando parla del proposito improrogabile di smettere.

2

Molto prima di disfarmi della biblioteca, un mattino all’inizio del 2016, a metà del periodo che trascorsi a New York, la mia amica Blanca mi chiamò da Santiago per dirmi che era incinta, e dopo le domande e i complimenti di rito finimmo per parlare di passeggini, un argomento di cui non sapevo nulla ma di cui lei e Daniel – il futuro padre – sapevano o sembravano sapere tutto: avevano studiato scrupolosamente ogni opzione fino a trovare il passeggino ideale, ma esitavano a comprarlo, perché in Cile costava quasi il doppio che negli Stati Uniti.
In un raptus di generosità di cui poi mi sarei pentito amaramente, mi offrii di portargli io stesso il passeggino, qualche mese dopo, quando fossi tornato a Santiago. Blanca rifiutò categoricamente, ma notai la speranza nella sua voce (adesso penso che forse l’aveva impostata, perché di mestiere fa l’attrice). Non feci fatica a convincerla (o lei a farmi credere di averla convinta), tanto che comprarono il fantastico stroller quella stessa sera, e io non mi capacitai del casino in cui mi ero infilato se non la settimana dopo, quando due afflitti signori di Amazon mi depositarono in salotto due enormi scatoloni.
Ovviamente non potevo presentarmi in aeroporto con quegli scatoloni: dovevo montare il passeggino e registrarlo come un bagaglio qualsiasi. Feci passare qualche giorno finché dal Cile non arrivò il mio amico Rodrigo che, con quell’incomprensibile gioia che alcune persone provano nel disimballare e assemblare aggeggi, dedicò il suo primo pomeriggio a New York a montare il passeggino che, da quel momento in poi, era rimasto in un angolo, in paziente attesa del viaggio.
«¿Y el bebé?» mi chiese, mesi dopo, un’impiegata colombiana della Latam Airlines. Aveva un tono di pura curiosità, ma mi innervosii lo stesso. «Il bebè viaggia con sua madre» le risposi, solenne. «¿Y es juicioso?» «Sì» le dissi, senza sapere che cosa mi stesse chiedendo, perché allora non conoscevo quel modo curioso dei colombiani di chiedere se un bambino si comporta bene.
«E perché non viaggiate insieme?»
«Perché non vogliamo che Jacinto» il primo nome che mi venne in mente «perda entrambi i genitori nello stesso momento. Sono partiti con il volo di ieri».
Mi avviai al gate pensando ai genitori che volano per rincontrare i loro figli, e mi dispiacqui per una lunga serie di terribili incidenti immaginari. Sull’aereo cercai di dormire, ma il mio umore cupo mi portò a pensare alla mia cagnolina, morta da poco, a dieci anni d’età: il mio amico Puppo, che badava a lei, aveva trascorso settimane atroci tra la casa e la clinica veterinaria. Era una bastardina grossa e bonaria, che ringraziava per ogni passeggiata serale con bizzarri ansiti di felice stanchezza.
«¿Y la guagua?» mi chiese il tassista qualche ora dopo, a Santiago. «Il bebè non c’è» risposi, brusco.
L’uomo mi guardò con uno sguardo di scuse, anche se la domanda era pertinente: avevamo appena sistemato nel portabagagli tre valigie pesantissime e il passeggino ancora nuovo di pacca che, grazie a un allenamento intensivo alla vigilia del viaggio, maneggiavo ormai con destrezza, come se fossi un padre abituato a montarlo e smontarlo di continuo.
Arrivato a casa, per prima cosa abbracciai Oscuridad. Dopo un anno di lontananza mi aspettavo che avrebbe opposto resistenza, che mi castigasse per qualche giorno, invece mi accolse con naturalezza, come se non me ne fossi mai andato. Poi constatai l’assenza di Sardina – il cortile era troppo silenzioso e le ciotole stavano impilate vicino a un sacco quasi pieno di mangime Eukanuba – e trangugiai un caffè orribile in piedi in salotto, guardando le mensole. Mi ero quasi deciso a disfarmi della libreria, e se ancora mi restavano dei dubbi, in quel momento si dissiparono: sentii che quei libri non mi appartenevano più, che le uniche cose mie in quella casa erano la gatta, le valigie e quel passeggino che non era neanche mio davvero.
La settimana dopo andammo dal veterinario. Mi sembrava che Oscuridad scoppiasse di salute ma non era così, anzi, tutto il contrario: morì di lì a qualche giorno. Subito dopo averla seppellita in giardino e aver pianto in modo imbarazzante per un paio d’ore, cominciai a imballare i libri, come se fossero stati suoi, cosa peraltro sensata visto che per dieci anni – gli stessi della mia cagnolina: le due non sono mai state amiche ma a volte si sdraiavano a prendere il sole insieme – Oscuridad aveva dormito in quasi tutti gli angoli della libreria e a volte l’aveva perfino difesa da un altro gatto che, come il più attaccabrighe dei critici letterari, era solito intrufolarsi in casa con l’unico proposito di pisciare su qualche libro.

3

Vivevamo a Città del Messico da qualche settimana quando scoprimmo della gravidanza. Convinto che un padre debba almeno dare l’illusione di sapere tutto, nei primi mesi mi lanciavo in frenetiche passeggiate nel quartiere per memorizzare i nomi delle strade, e studiavo anche, con una calma tremendamente falsa, i nomi degli alberi, delle piante e degli uccelli.
La sera mi dedicavo alla ricerca della carriola perfetta (uso la parola messicana per passeggino, perché per me la paternità si è svolta quasi esclusivamente nello spagnolo del Messico). A volte passavo anche due ore davanti allo schermo setacciando il mercato: paragonavo modelli, leggevo recensioni, guardavo testimonianze entusiaste e probabilmente false su YouTube. La carriola di David e Blanca, naturalmente, era tra le finaliste, ma immaginavo anche modelli più portatili e, quindi, compatibili con gli eventuali viaggi in Cile, che nella mia mente sarebbero stati numerosissimi.
Tanto girare per vetrine, purtroppo, risultò inconcludente, perché un pomeriggio una zia di mia moglie ci portò una carriola in regalo. Nella mia classifica quel modello non c’era neanche. La ringraziai a denti stretti.

4

Avevo già alle spalle due terremoti cileni, ma non ero assolutamente pronto per affrontarne uno in quella città che nemmeno i chilangos di nascita conoscono bene. Cercavo la stabilità dei nomi e la sicurezza delle carte geografiche, invece trovai un inventario di edifici distrutti che non dovetti nemmeno studiare, perché si impose da solo, con l’abituale eloquenza della catastrofe. Il terremoto, però, sortì lo strano effetto di farmi sentire al tempo stesso più messicano e più cileno di prima. Il giorno in cui nacque mio figlio (non riesco a evitare di formulare questa frase implicita: il giorno più bello della mia vita) provai la netta sensazione di vivere da anni in quella casa, sentii che in qualche modo avevo sempre vissuto lì, e che quella città schiva, caotica, inaccessibile e zeppa di contraddizioni mi apparteneva.
Durante le prime passeggiate alla guida del caval donato, volli convincermi che la carriola non fosse poi così male, ma la verità è che era pessima: pesava più di un’incudine, faticavi a curvare e, in salita, era impossibile non pensare al castigo di Sisifo. Per quanto mi prenda gioco del mio arrivismo, ogni volta che incrocio un modello particolarmente desiderabile mi sorprendo a ricacciare indietro l’invidia. Non so niente di macchine, sono cieco alla loro presunta bellezza, ma immagino che la mia invidia fosse simile a quella provata da chi guida un veicolo scalcinato quando si trova davanti una di quelle automobili luccicanti guidate dai calciatori di successo o dagli imprenditori succhiasangue. Alla fine, una sera, mia moglie si lamentò amaramente della carriola, e io pilotai abilmente il discorso per darle la sensazione che l’idea di prenderne un’altra fosse sua.
Nel bosco di Chapultepec vedevamo sempre un venditore di bolle di sapone che trasportava la sua merce su un passeggino sgangherato, così gli regalammo il nostro, che lui accettò con estrema gratitudine, anche se mi diede l’impressione che nemmeno a lui sembrasse granché.

5

Quando mi chiedono se mi piace vivere a Città del Messico mi esce un sì sonoro ed euforico, ma in realtà sto rispondendo a un’altra domanda: mi piace moltissimo la nostra vita qui, adoro la sfida minuziosa della felicità e amo condividere la gioia di mio figlio quando impara parole che sono nuove anche per me (ahuehuete, chimeco, chirundo), lancia frasi come adiós amigo quesadilla o imita il modo in cui camminano le oche. Non sono venuto in questo Paese alla ricerca di Pedro Páramo, ma qui sono diventato padre e non posso più separare le due esperienze. Adesso prendere le distanze dalla città è quasi impossibile: sarebbe come prendere le distanze da mio figlio.
Quando mi chiedono se il Cile mi manca mi esce un monosillabo e poi un flusso incontrollato di frasi confuse. A volte rispondo di no, ed è una bugia: quello che voglio dire è che a Città del Messico ho trovato un subitaneo radicamento e il premio immeritato di un nuovo inizio, e mi risulta difficile immaginarci trapiantati in Cile. Ma la maggior parte delle volte rispondo di sì, che il Cile mi manca; che quasi tutto il giorno dialogo con il mio Paese e non vorrei mai concepirlo come un luogo distante, perduto o immaginario. Perché sono consapevole del pericolo. Penso alla mia lingua cilena bloccata nel tempo, mescolata, accantonata, penso al vertiginoso ed esplosivo problema di trovare parole mie. Penso agli esiliati e ai migranti come se potessi comprendere meglio le loro vite.
È un sentimento fasullo, perché io non sono affatto un esiliato e, anche se tecnicamente sono un migrante con tutte le carte in regola, non sono venuto in Messico in cerca di una vita migliore ma perché mi sono innamorato di una messicana e abbiamo deciso di stabilirci e avere un figlio qui.
Per buona parte dell’anno la differenza di fuso orario tra Cile e Messico è di tre ore, il che mi provoca una sensazione quotidiana di ritardo: mi alzo molto presto, ma in Cile sono già le otto e mezza o le nove. L’app della radio ti permette di riascoltare i programmi, sincronizzando il tempo tra i due Paesi. È un miracolo modesto – il vero miracolo sarebbe che l’app permettesse di muoversi in avanti nel tempo – che mi procura una certa serenità, come se fosse normale ascoltare notizie importanti con tre ore di ritardo.
Per il resto, ascoltare il notiziario cileno fa parte della routine quotidiana di mio figlio fin dai primi giorni di vita. Mentre sua madre, a letto, cerca di ricostruire la sensazione di aver dormito bene, noi, in salotto, salutiamo il sole, il ritratto di Jorge Teillier (questo sì me lo sono portato dal Cile) e una sfilza traballante di peluche, e leggiamo cinque o sei volte il libro del momento (adesso è fan sfegatato di Paco y el rock di Magali Le Huche: in effetti, la prima parola che ha detto questa mattina è stata rock!!!). E mentre facciamo tutto questo, in sottofondo si sente il notiziario cileno dell’immediato passato. Poi arriva qualche minuto di indipendenza: il bambino si avvicina agli scaffali e maneggia i libri, che nelle sue mani si trasformano in Lego giganti, e me ne porge qualcuno sorridendo, come se me li consigliasse. Gli scaffali che riesce a raggiungere corrispondono alle lettere r e s dei libri in lingua inglese: molti Salman Rushdie, David Sedaris, Rebecca Solnit e Susan Sontag.
Come vedete abito di nuovo in una biblioteca, quella di mia moglie, che per certi versi assomiglia a quella che avevo io. Lei però, invece di crescere con le traduzioni, fin da bambina ha letto le edizioni originali in lingua inglese, per cui a volte, quando guardo le mensole, ho l’impressione di vedere la versione originale della mia vecchia biblioteca sottotitolata. Mi piace guardare gli scaffali, immaginarla mentre legge quei libri, trovare sottolineature e foto, e scoprire che non è mai stata preda, come invece è successo a me, di tsundoku: non ha mai accumulato più libri di quanti riuscisse a leggerne. Per il resto, la sua è una biblioteca eccellente, salvo per la mancanza, per me assordante, della letteratura cilena.
Ho sempre letto molta letteratura del mio Paese, ma adesso che i libri cileni scarseggiano faccio di tutto per procurarmeli, soprattutto quelli dei miei amici, dei miei «quasi-amici» e dei vari conoscenti, la mia famiglia letteraria con i suoi cugini di secondo grado e le nonne, gli zii e i patrigni, e perfino qualche nemico occasionale con cui ho qualcosa in comune, non so che cosa: un piano, un desiderio, un modo di ballare. 109 o la biblioteca o la vita!
Accumulo alcuni libri, sono davvero pochi e mi trattengo dal contarli, ma di sicuro posseggo la migliore biblioteca di poesia cilena del quartiere San Miguel Chapultepec.

6

Temevo che mio figlio crescesse convinto che chile non fosse altro che la parola messicana per «peperone», ma non è stato così. Andammo a Santiago quando aveva appena sette mesi, e una volta di ritorno a casa, quando gli facevamo domande sul viaggio, imitava alcune galline cilene di cui conservava un ricordo vivido. Dopodiché arrivò una variante inaspettata della cilenità, un caso perfetto per il fantastico dottor Winnicott: invece di chiedere la tetta con la parola chichi, come fanno i bambini messicani, mio figlio coniò il neologismo chichile.
Adesso ha un anno e mezzo e parla di continuo, e quando gli chiedo qual è il suo Paese risponde il Cile, riempiendomi di inebetita soddisfazione; ma forse ho esagerato con l’indottrinamento, perché quando gli chiedo dove viviamo risponde sempre che viviamo in Cile. E quando lo carico sulla carriola e gli chiedo dove andiamo, lui risponde, con il volto che trabocca di risate, che andiamo in Cile.
L’idea mi piace: viviamo in un Paese che si chiama Cile e andiamo con la carriola in un Paese che si chiama sempre Cile per incontrare le galline. La nuova carriola, a proposito, è davvero buona: è leggera, comoda e versatile, e ha anche una tasca enorme dove, oltre alla borsa con i pannolini, entra un buon numero di libri. Forse la mia misera collezione di testi cileni starebbe tutta nella carriola e potrei montare una biblioteca ambulante, ma non voglio più prestarli né venderli, né tantomeno regalarli.
Oggi pomeriggio, dopo pranzo, siamo andati nel bosco, e quando il bambino si è addormentato ho parcheggiato la carriola davanti a un ahuehuete e mi sono seduto sull’erba a leggere i poeti cileni che ammiro e mi mancano tanto. Voglio farlo tutti i giorni.

Città del Messico, giugno 2019

Commedie del vespero e della notte, di Livio Santoro

Edicola Edizioni pubblica i nuovi racconti di Livio Santoro Commedie del vespero e della notte, dopo aver portato in libreria la raccolta Piccole apocalissi. Testi brevi e brevissimi, nei quali il talento visionario dell’autore prende forma in una prosa densa e musicale che sfiora la poesia. Tra atmosfere cupe e scenari estremi, in ognuna di queste “commedie” si avverte in sottofondo il ghigno inquietante della tenebra.

Cattedrale vi propone il racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Commedie del vespero e della notte

Alle attese commedie notturne e vespertine dell’itinerante e molteplice Yuri Masharawi, di cui si cominciava sempre a parlare già molti giorni prima, ogni famiglia dei paraggi partecipava secondo le proprie possibilità, in favore del bisogno di tutte. C’era per esempio chi ripuliva e levigava minuziosamente il palco, chi allestiva sedute supplementari nella cavea, assemblando rottami tratti dalla fossa degli scarti, e chi, caricandosi l’onere primario di portare la luce, predisponeva all’uopo le lampade ad olio attorno all’assito, attingendo copiosamente dalla propria riserva di combustibile. Noi, avendo casa a pochi passi dal teatro, alle spalle del palco, di solito offrivamoa Yuri Masharawi l’intimità della nostra latrina, perché adempisse in tutta calma alle sue necessità corporali, e le nostre mura discrete, perché si imbellettasse il viso e provasse gli abiti di scena senza prima svelarli al pubblico impaziente. E questo è sempre stato, per me, il più grande privilegio, tanto da farmi sentire già in principio parte attiva dell’evento e molto più degli altri. Fin dalla prima infanzia, quando dalle fenditure della porta chiusa cominciai furtivamente a spiare Yuri, che era ben consapevole della mia irrispettosa indiscrezione, godendo ogni volta alla vista dell’emersione graduale dei suoi caratteri dal mondo del racconto a cui avrebbero di lì a poco dato vita. Amavo soprattutto quando, di spalle rispetto al mio sguardo clandestino, Yuri apriva il suo consunto baule, traendone maschere atroci o scialli sottili, corna di cervo o pellicce di licheni, turbanti gemmati o palandrane di fuoco scarlatto. Ma amavo anche quando quelle vesti miracolose le indossava con grazia e lentamente, una dopo l’altra, offrendomi dunque l’impagabile agio di assistere ogni volta a una nuova genesi, a un prologo che nessun altro avrebbe visto, un prologo che andava in scena soltanto per me. E solo quando Yuri iniziò a invecchiare, diradando la sua presenza dalle nostre parti, facendosi annunciare più raramente sul palco, cominciai a capire che era tutto parte di una commedia più grande, quella che Yuri Masharawi, e noi di seguito, e l’assito, e la bonaccia e gli assioli, i grilli e il fumo delle pipe di chi assisteva alle rappresentazioni, le lampade ad olio e le sedute fatte di scarti, recitavamo giorno per giorno tra uno spettacolo e l’altro, nell’attesa febbrile del successivo. Yuri era molteplice perché noi lo eravamo, Yuri calcava il palco perché noi tutti ne calcavamo uno più grande. Quando lo compresi definitivamente, una sera che ormai in età adulta stavo ancora una volta spiando le sue vestizioni, ancora una volta credendomi invisibile al di qua della porta, Yuri si girò ed incrociò il mio sguardo nascosto, invitandomi ad entrare nel suo miracoloso camerino. Fu proprio in quel momento che scomparve, lasciando alla mia cura le vesti ed il baule, eredità che accolsi fin da subito senza amarezza, perché sapevo che Yuri, tra quelle vesti, in quel consunto baule, ancora viveva sotto forma di corona di spine o di mantello, di maglia a squame o di copricapo di arenaria. Indossai allora gli abiti di scena, accennai le espressioni, mi dipinsi il viso, e infine uscii nel tepore della sera, e presi posto per la prima volta tra le lampade, al centro del palco, mentre tutti occupavano composti le sedute, chi fumando la pipa, chi fregandosi le mani. Così, sotto il cortese incitamento dei grilli e degli assioli, che per qualche istante interruppero il verso, cominciai a recitare la mia prima commedia. E dopo aver concluso l’ultima battuta, mentre portavo il braccio dietro la schiena per l’inchino, vidi il pubblico alzarsi entusiasta ed applaudire, e gridare a gran voce il mio nome, gridare Yuri, YuriMasharaw.

Ottobre. Affumicare il salmone, di Gemma Reeves

Atlantide edizioni porta in libreria Victoria Park, di Gemma Reeves, tradotto da Marina Sirka Mosur. Un libro, come dice Naomi Ishiguro, dalla forza empatica immensa.

I luoghi uniscono le vite delle persone in modi inaspettati. Le case, i quartieri e le città, più che semplici fondali davanti ai quali si trascorre la vita, possono custodire le molteplici ragioni di un’esistenza felice, di una famiglia che si sfalda, di un amore che nasce dove non lo si aspetterebbe, di una comunità che si riconosce tale. Attraverso i protagonisti di Victoria Park – dodici, uno per ogni mese dell’anno, da ottobre a settembre – Gemma Reeves tratteggia vite e destini, scelte decisive e coincidenze inaspettate in una narrazione corale di grande eleganza e lirismo, fatta di dettagli minimi e insieme universali.

Cattedrale vi propone il primo racconto della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Ottobre
Affumicare il salmone

In fondo al giardino c’è un capanno che Wolfie aveva costruito nell’estate del 1951, lo stesso anno in cui aveva compiuto diciannove anni e aperto il deli kosher a pochi passi da Victoria Park. Aveva recuperato il legno da una casa distrutta durante il Blitz e posato il tetto con le tegole rosse sottratte alle macerie. Da sessantasei anni Wolfie usava quel capanno per affumicare salmoni. Era là quando si era fatto un nome per i migliori bagel di Hackney, quando aveva sposato Mona, quando era morta loro figlia, quando l’anno prima era finalmente andato in pensione e aveva ceduto le redini dell’attività al vicino di casa, Luca.
Quel mattino, Wolfie si svegliò all’alba e andò a controllare il salmone. Attraversò l’erba umida di rugiada fino al capanno e schiuse appena la porta per non disturbare il buio. Prese la piccola torcia appesa a un chiodo arrugginito e illuminò i salmoni. Sembravano sculture di marmo sospese alle travi. Decenni di fumo avevano stagionato le pareti ricoprendole di una patina diventata appiccicosa col tempo. L’odore di terra nel capanno gli ricordava quello dei grandi falò che accendevano nel parco per la notte di Guy Fawkes, quando lui se ne andava in giro per il quartiere a racimolare qualche spicciolo per la festa.
Nessuno tranne Mona conosceva il suo metodo per affumicare il salmone, e quel mistero lo rendeva ancora più affascinante. «Usa il succo di barbabietola?», alcuni clienti gli chiedevano. Lui scuoteva la testa, «No, no. Ma vuole scherzare?». «Miele?», azzardavano. E lui rideva. Dal giorno in cui aveva scoperto la giusta combinazione di melo e quercia in trucioli per l’affumicatura e da quando Abe, il suo pescivendolo, aveva iniziato a ordinare solo per lui il prelibato salmone scozzese Loch Duart, Wolfie non aveva modificato un solo dettaglio della procedura. Ritirava i salmoni quarantotto ore prima di venderli o di mangiarli e li trasportava subito al capanno. Poteva sistemarci sei pesci interi e li portava dentro uno per volta, adagiati per lungo tra le braccia come bebè per non rovinare la carne. Dopo affilava i coltelli, acciaio su acciaio come campane che suonavano a festa. Con due colpi sapienti eliminava testa e coda, poi faceva scorrere la lama lungo il centro. Sollevava i due filetti verso la luce per farne risplendere l’argento della pelle prima di rimuovere anche quella, quindi ne ricopriva i dorsi con un’abbondante crosta di sale grosso e un po’ di melassa e li infilzava uno a uno su un lungo gancio d’acciaio.
Il salmone per la cena dello Shabbas di quella sera era rimasto sotto sale per dieci ore. Wolfie controllò la crosta dei filetti appesi alle travi. Lava via il sale con l’acqua presa dall’innaffiatoio di latta. Accese i trucioli e chiuse con delicatezza la porta, come se non volesse svegliare le sue creature. Nel giro di dodici ore, l’arancione pallido dei filetti sarebbe diventato sempre più intenso, rispecchiando le variazioni di colore del sole all’imbrunire, poco prima di svanire dietro l’anello di faggi del parco. Solo allora avrebbe affettato il salmone dall’alto verso il basso, alla maniera scandinava, tagli di due centimetri di spessore. Trovava quel rituale molto piacevole, i gesti e i movimenti familiari, come posare un braccio intorno ai fianchi di Mona di notte.
Wolfie aprì il cancello del giardino e si diresse verso il lato ovest del parco. La passeggiata giornaliera prescrittagli da Mona subito dopo il pensionamento. «Nervi, lacrime, rabbia… Cammina che ti passa!», era solita ripetergli. E aveva ragione, come il più delle volte. L’aria fresca fresca nei polmoni lo tirava su; sgranchire i muscoli delle gambe gli procurava un bruciore piacevole, segno di vita attiva, di buona salute. Quel parco aveva quasi duecento anni e lui immaginava le radici sotto le sue scarpe da ginnastica bianche, aggrovigliate da decenni, che si spingevano oltre i cancelli, antiche e ambiziose. Pioppi neri, eucalipti, castagni: erano tutti maestosi, certo, ma anche storti e curvi; alcuni persino goffi, e questo lo aiutava ad accettare il proprio corpo. L’artrosi, i calli, le macchie della pelle. Lui invecchiava, gli alberi pure. Era il corso della natura: alla crescita seguiva il declino.
Grove Road divideva il parco in due e lui la percorse in direzione sud, verso il canale, superando il vecchio lago con le barchette. Al centro c’era un isolotto su cui spiccava una pagoda rossa, affiancata da olmi inglesi e faggi. Gli uccelli acquatici, rimpinguati dalle molliche di pane, nuotando trasformavano in macchie astratte le immagini riflesse dei salici e dei maggiociondoli. I runner si allenavano percorrendo il parco da un estremo all’altro, coppie di amici correvano e chiacchieravano, senza mai restare a corto di fiato. Alcuni che passeggiavano con i cani gli augurarono il buongiorno. Una giovane mamma che comprava sempre i bagel al deli lo salutò con la mano. Era bello vedere le stesse persone ogni mattina, come quando lavorava.
A metà percorso si sedette sulla sua panchina preferita e sfiorò la targa con la scritta in oro sbiadito: Shirley-Ann: svanito il canto, rimane la melodia. Un nome così da ragazzina, Shirley-Ann. Immaginò che fosse stata una corista, occhi azzurri e riccioli d’oro, però morta giovane, lasciando dietro di sé un fidanzato, forse. Si massaggiò le ginocchia, i dolori dell’artrite erano più intensi al mattino. Non riusciva ad abituarsi all’acuta consapevolezza che aveva ormai delle sue ossa.
Un uomo di mezza età chiamò a gran voce un bobtail. Un gruppo di donne nei pressi del roseto erano totalmente immerse in una qualche pratica New Age. Un insieme di legging sgargianti e movimenti lenti delle braccia. Giravano su se stesse come i carillon dei bambini. Non sapeva che roba fosse ma lo rilassava. Il cielo passò dal grigio al rosa chiaro.

In cucina fu accolto da una pila di piatti sporchi, la metà degli ortaggi ancora da tagliare e grandi mucchi di erbe aromatiche del giardino. Il tavolo di quercia era ricoperto di fogli d’alluminio e carta da forno. Luca continuava a ripetergli che quel disordine rimpiccioliva la stanza, era un oltraggio ai soffitti alti e alla cascata di luce che veniva giù dal lucernario inclinato. A Wolfie, però, la cucina piaceva così com’era, con la parete di fondo formata da porte scorrevoli in vetro che davano sul giardino e gli permettevano di tenere d’occhio Mona mentre si dava da fare nella sua salopette incrostata di terra, canticchiando le canzoni di Adele.
Un pentolone d’acqua bolliva sul piano cottura tutto ingombro e Wolfie programmò il timer perché suonasse dopo otto minuti. Al suo trillo scolò tre dozzine di uova e le trasferì in una zuppiera di acqua gelata. Dopo aver battuto l’estremità più appuntita di ognuna sul ripiano, le sgusciò con dita abili, facendosi strada con il pollice. Impilò i gusci e li mise da parte per il compost. Un lavoro noioso, ma lui lasciò vagare la mente. Quando gestiva il suo deli, a mezzogiorno era già stanco e irritabile. Sbraitava contro i suoi collaboratori, le fette di carne erano troppo spesse, gli involtini di aringhe non erano ben allineati sul vassoio, oppure malediceva le mensole traballanti sotto il peso delle lattine di albicocche sciroppate, delle scatolette di sardine e dei barattoli di aringhe sott’aceto. Ma all’alba, da solo, quando Mona era ancora immersa nel sonno, percorreva tutta Victoria Road, attraversava la rotatoria e apriva il deli, traendo piacere dalla familiarità di ogni gesto. Sollevava la saracinesca, accendeva le luci, metteva il denaro in cassa, un nodo deciso al suo grembiule bianco, il ricamo Wolfies in azzurro sul torace, e via al nuovo giorno.
Aveva goduto di una certa popolarità. Ai clienti piaceva la sua faccia sveglia e intelligente; per via dei capillari rotti che gli tiranneggiavano il naso, tutto l’anno aveva l’aria di essersi scottato al sole o di avere appena finito di raccontare una barzelletta spinta. Essere il proprietario del deli significava conoscere tutti i pettegolezzi di quartiere. Il marito che per l’ennesima volta era tornato a casa ubriaco fradicio oppure la giovane signorina tal dei tali che era rimasta incinta. Ma Wolfie aveva sempre tenuto per sé quelle voci. All’epoca, lo avevano considerato un uomo baciato dalla fortuna. Grazie a un ricco benefattore, diventato suo amico, era riuscito a mettersi in proprio, certo di ricavarne un guadagno alla fine di ogni mese. Così, a sua volta, cercava di essere generoso con gli altri: persino ai vicini che non gli erano granché simpatici dispensava latkes in omaggio, infilate in un sacchetto di carta. «Mangiate, mangiate!», insisteva. «Non fate complimenti! Su, prendetele con le mani. Non mordono mica!». Sapeva quali cibi potevano risollevare anche l’umore più nero. «Signora Klein, lei muore dalla voglia di un po’ di zuppa di pollo con lo zenzero», diceva con il suo lieve accento tedesco, così lieve che quasi nessuno lo notava. «Me lo sento nelle ossa!». «Oh santo cielo, sì, ne ho proprio bisogno!», si stupiva la signora. «Come ha fatto a capirlo?».
Cucinare lo aiutava a ridurre il confine tra provvedere ai bisogni degli altri e comprendere i propri.

Prese una grande zuppiera da una delle mensole stracariche, sollevandosi appena sulla punta dei piedi per raggiungerla, e con la spatola vi trasferì l’intero contenuto di un barattolo di maionese, preparata il giorno prima con tanta pazienza e un misurino abbondante di olio d’oliva. Con la forchetta sminuzzò le uova sode fino a ridurle a un miscuglio di bianco e arancione acceso. In sinagoga si era sparsa voce che la nuova rabbina avesse una predilezione per i bagel con crema di uova alla maionese. Da quel momento le avevano offerto challah a profusione. Potevano mai essere più buoni dei suoi? Se non riusciva più a fare colpo con le sue uova alla maionese, allora per lui era davvero finita. Però, la rabbina Ellensen era americana e magari loro ci aggiungevano cipolle o altre meshuge del genere? Non gliene importava granché, lui l’avrebbe fatta come sempre, il resto era nelle mani di Dio.
Wolfie amava cucinare per gli ospiti ma niente lo rendeva più felice di nutrire Mona. La sua Mona, magra come un grissino già dal giorno in cui l’aveva vista per la prima volta mentre volteggiava in una sala da ballo di Mile End. Per timidezza non le aveva chiesto subito di uscire insieme, abbagliato dai suoi capelli biondi e dalle sottovesti che svolazzavano sotto l’abito a ogni piroetta; si era limitato a invitarla con tono casuale a fare un salto al deli. «Vediamo se riesco a mettere un po’ di carne su quelle ossa!», aveva aggiunto. Con sua grande sorpresa, il giorno dopo era là, seduta al bancone con i piedini che dondolavano dallo sgabello alto e un braccio attaccato alle costole mentre divorava il piatto di tzimmes alle prugne, aringhe marinate e insalata di patate che lui le aveva messo davanti.
«Mai mangiato nulla di così buono», si era complimentata.
Le aveva portato un altro piatto con dello stufato di pollo e latkes riscaldate nel forno sul retro. «Prova anche questo!».
«Non posso, se mangio un altro boccone esplodo!», aveva protestato lei, ridendo.
«Mangia! Mangia!». I suoi mormorii di apprezzamento gli avevano dato grande soddisfazione e, mentre studiava la sua figura esile, decise che spettava a lui renderla più tornita.
All’epoca non sapeva che anche lei era arrivata con il Kindertransport, che i genitori adottivi le avevano fatto perdere l’accento austriaco a suon di botte, o che per anni l’avevano nutrita solo con gli avanzi dei pasti. Avrebbe scoperto tutto solo dopo averla sposata. Ma ora Mona non faceva altro che giocherellare con il cibo, del tutto indifferente ai piatti caldi e aromatici che lui le serviva. Le aveva preparato deliziosi tortini, fragrante pasta sfoglia ripiena di manzo cotto nella birra, ma tutte le volte lei si era limitata a punzecchiare i pezzetti di stufato o a sbriciolare la pasta. Neanche la sua zuppa di pollo, con i tradizionali tagliolini all’uovo lokshen e pezzetti di tenera carne bianca immersi in un brodo delicato, riusciva più a tentarla. Era come se avesse dimenticato la gioia che le dava mangiare bene. Era arrivata al punto che le si vedevano le costole sotto la stoffa del vestito. Wolfie lo considerava un proprio fallimento.
Esaminò il promemoria scritto a matita, i tempi di preparazione di ogni piatto elencati con precisione. Come al solito, si era fatto prendere la mano e aveva invitato tutti gli amici più cari nonché l’intero vicinato a cena. Non sopportava di stare in una casa silenziosa, odiava non vedere giocattoli disseminati ovunque e lunghe fila di panni stesi ad asciugare. L’appendiabiti dell’ingresso, in particolare, lo riempiva di una profonda malinconia quando aveva i ganci vuoti. Così, ogni occasione era buona per riunire una moltitudine di bocche affamate intorno alla sua tavola. Masticavano, bevevano, parlavano, portavano vita. Stese la pasta della challah e con gesti rapidi la lavorò in due grandi trecce.
Sentì la voce di Luca che lo chiamava dal giardino e subito si aprirono le porte scorrevoli. Luca entrò con una cesta traboccante di cicoria, ravanelli, carote e radici di rafano. Posò il carico sul bancone della cucina. «Ecco, c’è tutto», annunciò. «Come al solito, ci puoi sfamare un esercito». Si chinò a baciargli le guance. Wolfie arruffò i folti riccioli neri di Luca. «Bene, bene», disse palpando gli ortaggi, controllando se erano di qualità. «Quell’alter kocker si sta riscattando. Lentamente».
«Per favore, non ricominciamo con quella storia dei pomodori».
Wolfie si passò una mano sulla testa quasi calva e poi fece scorrere un dito sulle sopracciglia incolte, ancora nere anche se tutto il resto era ormai grigio. «È una questione di principio, ragazzo mio. Di principio». Con entrambe le mani raccolse i pezzettoni di carote dal tagliere e li lasciò cadere in una pentola di acqua bollente insieme al pesce per il gefilte.
Luca scosse la testa e osservò la cucina con espressione divertita. «Il solito caos», commentò. «Elena e i ragazzi volevano sapere il menù di stasera».
Wolfie aprì il forno e vi fece scivolare dentro le due challah. «Ah be’, allora forse dovremo essere un po’… creativi con ciò che diremo. Patè di fegato tritato. Pasticcio di pesce con radici di rafano e barbabietole rosse. Zuppa di pollo. Il mio salmone affumicato, ovviamente, poi petto di manzo arrosto, insalata di indivia e, per finire, lo strudel di Mona».
«Questa volta, mi permetti di darti una mano?».
«No, no. Tutto sotto controllo».
Luca si sedette sullo sgabello marrone da bar e prese il vecchio libro di ricette di Wolfie. Rilegato in pelle verde, aveva la copertina imbrattata da residui di cibo e macchie di unto. Lo spulciò. «C’è qualcosa che non deturpi con questi disegnini?».
Wolfie rise. «Quegli omini stecchino sono una vera forza. Non fanno che tirare o spingere roba. Se proprio devi scarabocchiarli, tanto vale metterli a lavoro», gli rispose. «Questo libro, però, avrei dovuto lasciarlo immacolato. È una prima edizione della Cucina ebraica di Florence Greenberg, oggi vale un bel gruzzolo». «Florence chi?».
«È la mia seconda Bibbia. Queste ricette mi accompagnano da quando ho imparato a bollire l’acqua. È come se fosse la mia famiglia, però non mi delude mai!».
Luca sorrise mentre continuava a rigirare il libro tra le mani.
«Il nuovo ragazzo, lì al deli, come se la cava? Lavora bene?», si informò Wolfie.
«Va alla grande, ci sa fare, i clienti lo adorano. A ora di pranzo ci sarò anch’io». Luca si chinò in avanti e annusò un mazzetto di fiori sul ripiano. «Li ha colti Mona, questi? Freddy si è offerto di venire domani a darle una mano in giardino, se le fa piacere».
«Ma certo, sarà contenta. È un bravo ragazzo, Freddy. A proposito, è ora che Mona faccia colazione. Ti dispiace farla venire giù?».
Le scale vibrarono sotto il passo pesante di Luca. Wolfie trasferì su un tagliere un bel po’ di fegato crudo, tagliò la carne rosso-marroncina a tocchi, poi li trasferì in una padella di ghisa bollente. Riempì il lavello di acqua e sapone e cominciò a lavare i suoi coltelli.
Quando sollevò il capo qualche minuto dopo e vide l’espressione di Luca, sospirò rassegnato e rimosse la padella dal fuoco.
«L’ho cercata dappertutto», disse Luca, posando la sua grande mano sulla spalla di Wolfie.
«Sicuro?».
Luca annuì.
«Oy gevalt! Oh Mona».
«Non può essersi allontanata troppo», lo tranquillizzò Luca. «Vengo con te a cercarla. Scommetto che è andata di nuovo alle giostrine nel parco. La troveremo prima che il pane sia pronto».
Cadde un lungo silenzio mentre Wolfie si voltava, apriva il frigorifero e vi scrutava dentro, come se Mona potesse essere lì. «Grazie», disse poi sottovoce. «Mi saresti di grande aiuto». Chiuse lo sportello del frigo e spense il forno. «Prendo il cappello».

Mona rifiutava di indossare l’orologio. Non le interessava conoscere l’ora esatta degli eventi. Preferiva, invece, guardare il sole e affidarsi al suo istinto. Quando era bambina, in Austria, poco prima che partisse il treno, la madre le aveva infilato furtivamente tra le mani l’orologio d’oro del papà con la raccomandazione di custodirlo con cura. A cinque anni non sapeva ancora leggere l’ora, ma aveva adorato quel cinturino di pelle morbida segnato dall’uso, la lucentezza del quadrante rifinito in oro, il mistero dei numeri romani. Della madre ricordava ormai solo i contorni della sua figura alla stazione, le spalle curve per ripararsi dal vento, il cappotto nero. Erano i suoi unici ricordi dell’Austria, ma erano così ricorrenti che a volte le sembrava d’essere appena partita. Sentiva ancora il ticchettio della lancetta dei minuti mentre ripeteva i suoi giri. Quell’orologio fu la prima cosa che le sottrassero prima di darla in affido. Così, quella mattina, quando Mona uscì di casa, sollevò lo sguardo verso il cielo blu solcato da nuvole basse e ne dedusse che fossero all’incirca le nove, più o meno l’ora in cui Patrice finiva il suo turno di notte.
Il giardino traboccava di nerine. Mona si chinò su un grappolo di quei delicati fiori rosa ragniformi e ne aspirò il profumo. Avrebbe messo insieme un bel bouquet per la sua amica. Staccò gli esili steli dal gambo principale, poi prese del filo di juta dal traliccio di rose e li legò alla base con un bel fiocco. Aprì il cancello del giardino e attraversò la strada. Entrò nel parco da Grove Road. Folate di vento sollevavano in aria le foglie dalle punte color ruggine e poi le sparpagliavano sul marciapiede, come coriandoli. Era piovuto, l’erba aveva un aspetto rigenerato, più elastico e brillante, e c’era un piacevole profumo di terra. Mona si fermò, sorpresa di non trovare le gabbie dei porcellini d’India, dei conigli e dei wallaby. Erano scomparse anche quelle degli uccelli. Forse le avevano portate via per pulirle.
Le giostrine erano era già gremite di bambini urlanti. Era fantastico essere così liberi! Niente calze sfilate e rammendate a oltranza, niente bigodini nei capelli di notte, o unghie laccate! E quant’era bello imbrattarsi le scarpe di fango! Lei stessa aveva un debole per le pozzanghere. Il bello di avere figli, supponeva, era che ti donavano una seconda infanzia. Dio solo sapeva come la prima, per lei, non fosse stata certo una passeggiata. Non vedeva l’ora di avere dei figli tutti suoi. Henry sarebbe stato un padre meraviglioso. Era uno dei motivi per cui lo aveva scelto, ovviamente. E il fatto che avesse un buon lavoro nell’impresa tessile di suo padre a Whitechapel certo non guastava. Un anno di matrimonio per acquisire una certa stabilità e poi avrebbero messo su famiglia.
Superò la pagoda cinese, ma quel giorno le sembrava diversa: troppo rossa, troppo nuova. Dove avevano trovato i soldi per ristrutturarla in questi tempi di razionamento? La brezza le agitò l’orlo del vestito giallo e Mona strinse ancora di più la cintura di stoffa lisa intorno ai fianchi. Non era mai abbastanza stretta. Avrebbe dato qualunque cosa per avere il corpo morbido e sinuoso di Betty Grable, le sue guance rosse come mele e i fianchi prosperosi, così larghi e invitanti. Forse, con qualche chilo e qualche curva in più Henry si sarebbe deciso a chiederla in moglie. Forse l’avrebbe finalmente considerata adatta a dargli dei figli. Che imbarazzo avere i fianchi spigolosi e le costole sporgenti ma, se non altro, era una bionda naturale e non doveva perdere tempo con l’acqua ossigenata ogni due settimane, come la sua amica Patrice. Non c’era nulla di più sciatto di una riga con la ricrescita marrone!
Sul lato est del parco, una donna se ne stava tutta sola, seduta con la schiena dritta e le gambe incrociate sotto l’ampia chioma di un frassino. Aveva gli occhi chiusi. Cosa mai stava facendo? Che stramberia, però quell’albero era davvero bello, aveva qualcosa di maestoso.
Mona imboccò Old Ford Road a passetti veloci e leggeri. Il sole fece capolino tra le nuvole e lei iniziò a canticchiare filastrocche del gioco della campana mentre il calore del sole le inondava il viso. Miele, arancia, zucchero e cannella, chi salta veloce vince una caramella! Patrice era sempre stata più brava di lei a saltare e a continuare a farlo… perfino al buio. Povera Patrice, cresciuta con un patetico ubriacone come padre. Non c’era da meravigliarsi che fosse finita a fare quel tipo di lavoro, sfruttata da tutti quegli uomini disgustosi. E, ma guarda, su quella panchina c’erano altri uomini pervertiti, due di loro avvinghiati l’uno all’altro, in un incastro di braccia e gomiti. Superandoli Mona emise un suono di disapprovazione.
Poi si bloccò. I negozi non erano al posto giusto. O erano sempre stati in quell’ordine? Fece mente locale: chi c’era prima? Abe con la pescheria? Aveva forse lasciato Bethnal Green? Riprese a camminare. La trattoria si stava preparando a servire i suoi pasticci di carne con contorno di purè di patate ai lavoratori. Dall’esterno osservò con desiderio i tavoli di marmo apparecchiati, i grandi specchi con le incisioni di anguille, alghe e stelle marine. Aveva fatto colazione? Aveva lo stomaco contratto che brontolava. Probabilmente l’aveva saltata. Avrebbe fatto il giro lungo con una sosta da Rinkoff’s per qualcosa di caldo con la cannella.

Dentro la pasticceria, uomini e donne si urtavano e si spingevano mentre urlavano il proprio ordine oltre il banco di vetro unto.
Mona non riconobbe il giovane che la servì. Era turco? Avrebbe fatto bene a indossare un cappello per coprire quei capelli. Gli indicò la danese alla cannella.
«Dov’è Clive?», gli chiese mentre prendeva il dolce incartato dalle sue mani grandi e pelose.
«Chi?».
«Clive. Il proprietario».
«Non ho idea di chi stia parlando, signora». «Be’, dovrebbe conoscerlo visto che è il suo…».
«Paga due e venti».
«Come, scusi?».
«Sono due sterline e venti».
Mona rise. «Che fa, mi prende in giro? Non può costare così tanto! Su, quanto le devo?».
Poggiò il mazzolino di fiori sul bancone e si frugò nelle tasche del vestito. «Oh, io… Sono uscita senza soldi».
«Roba da matti!».
L’uomo scosse la testa. «Signora, non ho tempo da perdere. Facciamo così: offro io, va bene?».
«Davvero? La ringr…». L’uomo si era già girato verso un altro cliente.
«Mah!», esclamò lei e affondò i denti nella pasta friabile della ciambella danese. La assaporò lentamente, succhiando la cannella fino a quando la sfoglia al burro le si sciolse in bocca.
«Mona? Tesoro, che ci fa qui?».
La voce aveva un accento che Mona non riusciva a riconoscere. Il tocco d’una mano sulla spalla la fece voltare di scatto. Una donna la stava fissando con espressione preoccupata. Aveva la carnagione olivastra, la pelle liscia e luminosa e gli occhi segnati agli angoli da rughe sottili.
«Chi è lei?», chiese.
«Sono io: Veronica».
Mona la scrutò con intensità. «Non… Non conosco nessuna Veronica».
«Vengo a pulirle casa ogni lunedì, Mona. Oh, mia cara, ma non ha freddo con quel vestitino estivo addosso?».
«Lei mi confonde con qualcun altro», rispose Mona, «e temo mi stia facendo fare tardi». Lanciò un ultimo sguardo alla donna, poi uscì dalla pasticceria.
Fuori, il lamento delle gru e il frastuono dei trapani la irritarono. Tutti quegli uomini con strani cappelli e giganteschi occhiali di plastica. La gente intorno a lei parlava a un volume di voce assordante. Guardò la via in cui si trovava chiedendosi per quale motivo fosse arrivata fin là. «Cos’ha da guardare?», chiese a una giovane passante che sembrò non sentirla.
Continuò a camminare. Dalle bancarelle alimentari del mercato di Whitechapel proveniva una musica strana a tutto volume. Non riusciva neppure a distinguere i singoli suoni, la disturbavano, la facevano trasalire. Lungo la via principale c’era un traffico mai visto; un tripudio di colori. Starnutì a ripetizione, qualcosa di pepato le stava irritando il naso. All’improvviso ricordò perché era là, le tornarono in mente Cable Street e Patrice che finiva il turno. Si avviò in quella direzione, percorrendo lentamente la strada stretta, ma intorno a lei si agitava un turbinio di persone. Una luce lampeggiava. Altra musica strana. Arrivò a un incrocio e restò ipnotizzata a fissare l’altezza degli alberi e delle torri di vetro verde. Tutto saliva su, su, sempre più su.

Wolfie camminava a passi marcati, come se stesse avanzando nella sabbia e non sul marciapiede. Non ignorava certo l’urgenza della situazione ma, forse, se avesse tenuto il passo sotto controllo si sarebbe placata anche l’ansia che lo divorava dentro. Notò che Luca aveva dimezzato il ritmo e la lunghezza della sua falcata, e iniziava a dare segni di imbarazzo misto a panico crescente. Avevano controllato le giostrine al parco e tutta Cambridge Heath. Lo preoccupavano la strada, il traffico, e i giovani ciclisti spericolati che sfrecciavano tra le auto. E se Mona fosse inciampata? Le sarebbe bastata una caduta per… Una sola.
Ora la luce del sole si rifletteva direttamente sul marciapiede. Si arrotolò le maniche della camicia e vide che l’orologio segnava mezzogiorno. Stavano camminando da trenta minuti. Sentì le campane suonare in lontananza e si rese conto che Luca gli stava rivolgendo una domanda.
«La prima volta che se n’è andata in giro così è arrivata fino a Lea Valley», gli rispose. «Da bambina giocava nei pressi delle paludi, poi è stata la volta del museo in Cambridge Heath Road, infine i Meath Gardens in Roman Road che allora, però, si chiamava Green Street. All’epoca girava tutto Hackney in lungo e in largo». «Se Lydia si spingesse oltre il parco mi verrebbe un colpo!».
«Erano altri tempi», rispose Wolfie con un’alzata di spalle. Sollevò il viso al cielo lasciando che il primo vero calore del giorno lo investisse. Chiuse gli occhi, il passato tornò a farsi vivo e con esso un fugace barlume di felicità. «Non esisteva la paura degli sconosciuti. Ci conoscevamo tutti. Gli adulti si arrabbiavano solo quando non ti presentavi in tempo per i pasti. Se la cena si freddava te le suonavano con la cinghia! Anche se, il più delle volte, si trattava solo di un po’ di pane e zuppa». Aprì gli occhi e mise a fuoco la calca nei pressi della stazione metro di Bethnal Green. La strada pullulava di persone, molte più di quando lui e Mona erano stati giovani e Bethnal era considerato un ghetto ebraico. «Avresti dovuto vedere Mona a quei tempi», disse. «Aveva i capelli color oro prima che diventassero argento».
Wolfie sentì un ronzio in tasca che lo fece trasalire, poi ricordò il regalo di Luca per il suo compleanno. Tirò fuori il piccolo cellulare nero. «Non ho gli occhiali», disse porgendo il telefono all’amico. «Che c’è scritto?». «È un messaggio di Veronica. Ha appena incontrato Mona da Rinkoff’s ma lei non l’ha riconosciuta».
«Af tsores! Com’è possibile che non abbia riconosciuto Veronica?», mormorò Wolfie. «Faceva sempre tappa alla pasticceria Rinkoff’s quando andava a prendere Patrice».
«Prendere chi?».
«La sua migliore amica da ragazza. È morta anni fa».
Luca esitò. «Credi sia arrivato il momento?».
«Non ti ci mettere pure tu. Per quanto mi riguarda, è fuori discussione».
«Man mano che passa il tempo fa cose sempre più pericolose».
«Ma quale pericolo! Siamo in pieno giorno. È solo confusa. Argomento chiuso, va bene?».
Luca aggrottò la fronte e tacque. Mentre svoltavano su Whitechapel High Street, il vocìo dei passanti divenne più sonoro, più giovane e più insistente. La strada era tappezzata di polpa di pomodori caduti, peperoncini rossi e foglie di coriandolo. Le urla degli uomini dietro le bancarelle andavano ad aggiungersi al clamore generale. Sembrava musica, un susseguirsi di suoni appartenenti a una lingua sconosciuta. Superarono gli studenti che bivaccavano davanti alla facoltà di medicina in un miscuglio stupefacente di stili, ognuno rappresentativo di un decennio della vita di Wolfie. Lo sciame di bici sfreccianti lo inquietò. «Andate piano», gli borbottò dietro Wolfie.
«Freddy vuole una di quelle bici a scatto fisso ma dovrà passare sul mio cadavere se vuole girare per Londra senza freni». Luca si fece da parte per schivare una giovane famiglia che si stava riversando all’esterno di un nuovo condominio. «Quanto odio quei posti», commentò Wolfie, indicando un Tesco Metro che aveva aperto di recente. «Con quelle corsie tristi, piene di vaschette di verdure già tagliate e di pasti da scaldare nel microonde. Una tale desolazione».
«Eccola, la vedo!», esclamò Luca in tono di sollievo. «Ma con chi sta parlando?».
Wolfie seguì il suo sguardo e colse un lampo giallo. Mona non indossava quel vestito da anni. Ricordava bene il giorno in cui lei lo aveva acquistato. Più o meno dieci, dodici anni prima. Monty li aveva accompagnati a Brighton Lanes nella sua vecchia Astra verde. Mona aveva girato tutte le stradine spulciando intere file di vestiti in esposizione, innamorandosi dei loro colori brillanti. Quando aveva scostato la tenda della cabina di prova per mostrarsi, gli era apparsa come l’immagine residua del sole, una visione impressa sulla retina. Ricordava che quel giorno aveva comprato anche una collana che però aveva perso poco dopo. Il gancio di chiusura era difettoso.
In quel momento, Mona era sull’altro lato della strada che gesticolava con foga contro un negoziante, un’ombra di peluria sotto le sue braccia nude. La guardò per un tempo che gli sembrò lungo, o magari si trattò solo di pochi secondi, quanto bastava per vedere tutta la sua vita scorrergli davanti agli occhi in un baleno, con il nulla davanti a sé.
«Forse crede che sia il magnaccia di Patrice», ipotizzò Wolfie. «Molte sue amiche dell’orfanotrofio sono finite nel giro della prostituzione».
Luca tacque, prese il braccio di Wolfie e attraversarono la strada per raggiungere Mona che urlava contro un uomo di origine bengalese.
«Mona, altz iz gut», cercò di tranquillizzarla Wolfie. «Vieni, mia cara, andiamo a casa. Lì ti sentirai meglio». Con una leggera pressione sotto il gomito appuntito, la fece allontanare.
«Ma dov’è finita Patrice? Parla con quell’uomo, fa’ qualcosa!».
Wolfie voleva fare qualcosa ma non sapeva bene cosa, quindi la abbracciò, affondò il viso nei suoi capelli, aspirò il profumo familiare di sciampo alla camomilla e ascoltò il battito accelerato del suo cuore. Mona si liberò bruscamente e gli urlò contro a pochi centimetri dal viso. Aveva l’alito dolce di cannella.

Il calore dei corpi riempiva la cucina. Erano tutti riuniti intorno al tavolo di quercia allungato con le estensioni a scatto e ricoperto con la tovaglia ricamata dello Shabbas poco prima che arrivassero gli ospiti. Wolfie aveva apparecchiato con i piatti di porcellana buona e con i bicchieri di cristallo con dentro i tovaglioli rossi piegati ad arte, il bordo dorato in evidenza. Aveva acceso le due candele lunghe dello Shabbas prima del tramonto, in obbedienza ai comandamenti della Torah di custodire e ricordare la luce di Dio, una delle poche tradizioni che continuava a osservare, e le fiammelle ondeggianti conferivano ai volti dei commensali una luminosità soffusa che li abbelliva. Nell’aria si mescolavano i profumi del pane appena sfornato, del salmone affumicato e delle spezie del patchouli, l’essenza di colonia prediletta da Monty. Tutti gli ospiti avevano portato un mazzo di fiori, tranne la rabbina Ellensen che aveva onorato l’invito con un barattolo della sua marmellata di more. I vasi non bastavano, Wolfie ne cercò altri ma Mona li aveva sistemati chissà dove.
Si sedette a capotavola, orchestrando il consumo di cibo con i suoi «mangiate, mangiate», fino a quando parlare e mangiare divennero una cosa sola. Fu tutto un masticare, convenire, inghiottire, interrompere, tagliare, stridere di posate. Esclamazioni di soddisfazione. E il clangore delle dentiere di porcellana sulle posate.
«Questa crema di uova alla maionese è strepitosa, Wolfie!», esclamò la rabbina Ellensen, baciandosi le dita della mano per far sparire le ultime briciole. Wolfie le rispose con un sorriso. Da vicino sembrava più giovane di quanto non gli fosse apparsa in piedi sul piccolo pulpito della sinagoga. Prima di lei, non aveva mai conosciuto una rabbina, per di più giovane, al di sotto dei quaranta. Gli aveva raccontato che si era trasferita dalla California per via del lavoro del marito. Erano sposati da quindici anni ed erano ancora innamorati come due ragazzini.
Si udirono mormorii di assenso sulla bontà della maionese. Sarebbe stato tutto perfetto se Mona non fosse stata su in camera, a dormire. I complimenti caddero nel vuoto, la conversazione gli scivolò addosso. Rispondeva, «Certo, sì, infatti», per poi scoprire che non gli era stata posta alcuna domanda. Diede un morso al crostino con il paté di fegato. Forse una lunga dormita sarebbe servita a interrompere quella fase di Mona; forse si sarebbe svegliata con un po’ di appetito. Non voleva disturbarla ma avrebbe tanto desiderato poggiare una mano sul suo ginocchio sotto il tavolo e permettere che la rabbina la conoscesse come si deve. Ospitare un rabbino per o Shabbas era un privilegio molto ambito e la presenza della rabbina Ellensen era stata programmata con largo anticipo. La rabbina aveva recitato un Kiddush molto suggestivo e durante la benedizione del vino aveva reso omaggio ai bellissimi ricami di Mona sui tovaglioli che ricoprivano le challah. Mentre spezzava il pane per distribuirlo tra i commensali, accennò con delicatezza al valore della shalom bayit, la pace della casa, e lui non poté che chinare il capo.
Osservò la folla intorno al suo tavolo, gli amici, i vicini con i loro figli, quella grande famiglia che lui e Mona si erano creati, e si sentì uno spettatore, non un partecipante.
Monty incrociò il suo sguardo. «Raccontaci delle tue lezioni di italiano, Wolfie», lo incitò.
«Be’, sono lo studente più vecchio dell’università, sopravanzo gli altri di almeno quarant’anni, ma a parte questo, sono contento», spiegò Wolfie. «Ho intenzione di portare Mona a Firenze e di ordinare fave e cicoria, riso, patate e cozze con un accento perfetto. Sarà una specie di seconda luna di miele per noi». Luca ed Elena si complimentarono per la buona pronuncia ma a lui non sfuggì il loro sguardo sorpreso. Provò una punta di fastidio.
«Noi non siamo mai andati in luna di miele», rivelò Elena.
«Ora che ci penso, neanche noi», rispose Wolfie. «Era ancora l’epoca del razionamento».
«Immagina che meraviglia, far compere a Firenze», intervenne Monty. «Mona ha la taglia perfetta per lo stile italiano e anche nel tuo caso qualche vestito un po’ più chic non guasterebbe».
«Per quello ci sei tu, amico mio». Wolfie si alzò e batté la forchetta contro l’orlo del suo calice di vino. «Prima di tutto, riempite i vostri calici, perché un giorno senza vino è come un giorno senza sole». Attese che il Beaujolais facesse il giro del tavolo, poi continuò. «Voglio ringraziarvi tutti per esservi uniti a noi in questo Shabbas, un grazie in particolare va alla rabbina Ellensen alla quale diamo il benvenuto nella nostra comunità e che l’anno prossimo ci farà l’onore di benedire me e Mona in occasione del nostro sessantacinquesimo anniversario di nozze».
I rintocchi di cristallo riempirono la stanza.
«Mona e io abbiamo avuto la fortuna di assistere negli anni al via vai di persone in questo quartiere e, anche se alcuni oggi sono passati a miglior vita, la nostra cerchia di amici continua ad allargarsi. È un peccato che Mona oggi non si senta bene perché niente la rende più felice di uno Shabbas in compagnia delle persone a lei care. Perciò», Wolfie alzò di nuovo il calice, «a voi, e ai nuovi inizi!».
«No, a te e Mona», rispose Monty. «Alla nostra coppia preferita di adorabili brontoloni. Vi vogliamo bene!». Wolfie abbozzò un inchino. Bevve un lungo sorso di vino, poi si diresse verso il forno e tornò al tavolo con una teglia di arrosto di petto di manzo. La carne si sgretolò mentre la affettava. Gli ospiti emisero mormorii di apprezzamento mentre l’arrosto faceva il giro della tavola. Osservò Elena mentre raccoglieva un po’ di sughetto con il cucchiaio e lo versava sulla carne nel piatto di Freddy. Il ragazzo stava con il capo chino, quasi nel piatto, e annuì per ringraziarla mentre continuava a ingollare cibo, con tanto di sonoro. Elena si concesse un sorrisetto di soddisfazione mentre lui mangiava, prima di rimboccarsi le maniche del cardigan nero e riempirsi il piatto. Luca era seduto di fronte a lei e badava a Lydia. Wolfie notò che marito e moglie non si erano scambiati una parola per tutta la sera, fatta eccezione per una volta che si erano passati il rafano. «Devi tenere per forza il cellulare sul tavolo, Freddy?», chiese Luca.
«Ma che succede qui? Dov’è Henry?». L’esile figura di Mona comparve sulla soglia della porta. I capelli in disordine dopo la dormita, il pallore del viso in contrasto con il giallo acceso del vestito, ormai tutto stropicciato.
«Chi è Henry, zia Mona?», chiese Lydia lasciando in sospeso il disegnino di un panda che stava prendendo forma sul suo tovagliolo.
«Come, chi è? È il mio fidanzato! Tu invece chi sei?».
Freddy sollevò la testa dal piatto e si voltò a guardare la madre. Monty invece abbassò il capo e il calore dell’arrosto gli appannò le lenti con la montatura in tartaruga.
Wolfie vide il viso della rabbina allungarsi per lo sgomento, una perdita momentanea di compostezza da cui si riprese quasi subito. «Wolfie, forse Mona ha bisogno di riposare ancora un po’», suggerì Luca. «O forse vuole cenare?», buttò là Freddy.
«Sì, entrambe le cose, credo», concordò Wolfie. «Vieni, tesoro, portiamo su questo bell’arrosto». Si alzò scusandosi, prese il proprio piatto e con un gesto esortò gli altri a continuare senza di lui.
Strinse la mano esile della moglie e insieme salirono le scale verso la camera da letto. L’aria nella stanza era pesante, con molta fatica tirò su il vetro della finestra e fece entrare il fresco della sera. Per un attimo restò in piedi a contemplare le sagome dei faggi e il parco.
Quando si girò, Mona era già scivolata sotto le lenzuola blu a fiori scelte l’anno prima nel negozio John Lewis, durante i saldi di Natale, dopo venti estenuanti minuti di minuziosa disamina. La ricordò mentre era indecisa tra verdi e rosa, sollevava le lenzuola controluce e ne ispezionava la stoffa. Quel suo interesse per le trame dei tessuti lo aveva fatto montare su tutte le furie e con tono esasperato l’aveva esortata a sbrigarsi e a sceglierne un paio qualunque, erano lenzuola, dopotutto. Spense l’abat-jour e il viso pallido di Mona svanì tra le ombre, i capelli argentei sparsi sul cuscino, e mentre osservava la sua espressione stanca e confusa venne invaso dal feroce desiderio di tornare a quel momento e di dirle di comprarle tutte.

La fine del mondo, di Robert Walser

In libreria trovate questa antologia di racconti apocalittici, pubblicati da Il Saggiatore e affidati alla curatela di Andrea Esposito che ha scavato fra le più selvagge e folli di queste fantasie e selezionato una partitura di pagine sulla fine del mondo: dall’orrore visionario di H.P. Lovecraft alla fantascienza steampunk di Jules Verne, da un oscuro dramma di Aleksandr Puškin all’ultimo uomo sopravvissuto di Mary Shelley. Prende forma una sinfonia percussiva che include la poesia di Sara Teasdale e di Lord Byron, la prosa di Leopardi e di Hawthorne, e che accoglie negli intermezzi rare gemme nascoste: miti norreni, vangeli apocrifi e le terribili visioni che anticiparono l’arrivo dei conquistadores spagnoli in Messico. I racconti dell’apocalisse compongono l’antologia definitiva del nostro terrore più viscerale; ci aiutano a esorcizzarlo, nel contempo facendocene assaporare il fascino primitivo e risvegliando il cupio dissolvi nascosto dentro ognuno di noi.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.


La fine del mondo
di Robert Walser

Una fanciulla, che non aveva né padre né madre, né fratello né sorella, che non apparteneva a nessuno e non aveva casa in nessun luogo, ebbe l’idea di mettersi a correre fino a quando non fosse arrivata alla fine del mondo. Non aveva bisogno di portare con sé molta roba, né di caricarsi troppo di bagagli. Infatti non possedeva nulla. Se ne andò così come si trovava. Il sole splendeva, ma la povera fanciulla non prestava alcuna attenzione al suo splendore. E correva, correva, passando accanto a molte cose meravigliose, ma anche a queste non prestava alcuna attenzione. E correva, correva, passando accanto a molte persone, ma nemmeno a queste prestava attenzione. E correva, correva… Venne la notte, ma la fanciulla non fece caso alla notte. Non faceva caso né al giorno né alla notte, né alle cose né agli uomini, né al sole né alla luna e nemmeno alle stelle. E correva, correva, e non sentiva né angoscia né fame. Aveva in testa una sola cosa, una sola idea: cercare la fine del mondo e correre fino a quando non l’avesse trovata. Sarebbe ben riuscita a trovarla, pensava. «È oltre» pensava «è oltre ogni altra cosa. È proprio alla fine». Aveva ragione la fanciulla? Aspettate solo un istante. Oppure aveva sbagliato i propri calcoli? Ma insomma! Aspettate un attimo! Adesso vedremo. La fanciulla correva, correva… Si immaginò la fine del mondo prima come un’alta muraglia, poi come un profondo abisso, come un bel prato verde, come un lago, poi come una stoffa con puntini, come una grossa e densa poltiglia, come aria e nient’altro, poi come una bianca e levigata superficie, come un mare di gioie nel quale si sarebbe potuta dondolare in eterno, come un bruno sentiero, e poi come il nulla assoluto o come ciò di cui purtroppo non riusciva a farsi una precisa idea.
E correva, correva… La fine del mondo pareva irraggiungibile. La fanciulla errò per sedici anni attraverso mari, pianure e montagne. Nel frattempo era diventata grande e robusta, ma rimaneva sempre fedele all’idea di correre fino a quando non avesse raggiunto la fine del mondo. Però non l’aveva ancora raggiunta, anzi, sembrava esserne ancora molto lontana. «Questo comunque non si può sapere!» pensava. Allora chiese a un contadino, che si trovava sulla strada, se sapesse dov’era la fine del mondo.
«Fine del mondo» era il nome di una casa colonica delle vicinanze. Perciò il contadino disse: «Si trova a mezz’ora di distanza da qui». Udite queste parole, la fanciulla ringraziò il contadino per la cortese informazione e proseguì. Ma quella mezz’ora sembrava quasi un’eternità, e allora chiese a un ragazzo che veniva dalla direzione opposta quanto tempo ci volesse ancora prima di arrivare alla fine del mondo. «Ancora dieci minuti» disse il ragazzo. La fanciulla lo ringraziò per la cortese informazione e proseguì. Era ormai allo stremo delle forze. Solo a fatica riusciva ancora a camminare.
Alla fine scorse in mezzo a un prato accogliente e rigoglioso una casa colonica. Era grande, bella, una vera meraviglia di casa. Ed era così calda, semplice, invitante, così fiera, così graziosa e insieme così nobile. Era circondata da splendidi alberi da frutta, tutt’attorno vi zampettavano i polli, in mezzo al grano soffiava un vento leggero, l’orto era colmo di verdure, sul pendio spiccava un alveare il quale, come si conviene, emanava profumo di miele, e c’era anche una stalla piena di mucche, e tutti gli alberi erano carichi di ciliege, di pere e di mele. Tutto aveva un aspetto così ricco, libero e raffinato che la fanciulla pensò immediatamente che dovesse trattarsi della fine del mondo. Grande fu la sua gioia. Evidentemente, proprio in quel momento in cucina si stava preparando da mangiare. Infatti dal camino usciva un tenero, sorridente e grazioso filo di fumo che subito scappava via volatilizzandosi come un piccolo birbante. La fanciulla, pallida e trepidante a causa della spossatezza, chiese: «Mi trovo alla fine del mondo?». «Sì, cara fanciulla» rispose la contadina «ti trovi proprio alla fine del mondo.» «Vi ringrazio per la cortese informazione…» ebbe appena il tempo di dire la fanciulla, poi cadde a terra sfinita. Caspita! Subito però fu sollevata da mani premurose e sistemata in un letto. Quando tornò in sé si accorse infatti di trovarsi in un graziosissimo lettuccio, presso quelle care e buone persone. «Posso restare qui?» chiese. «Voglio servirvi nella migliore maniera possibile.» «Perché no?» le risposero «noi ti vogliamo bene. Resta qui da noi, e aiutaci con tutte le tue capacità. Abbiamo proprio bisogno di una ragazza laboriosa, e se sarai brava ti considereremo come una nostra figlia.»
La fanciulla non se lo fece dire due volte. Cominciò a darsi da fare con solerzia e a servire con grande bravura. Tutti le vollero subito bene, e la fanciulla non corse più in cerca della fine del mondo. La sua casa ora era quella.

© il Saggiatore S.r.l., Milano 2022

Storie di fame, di Daniel Orozco

Racconti Edizioni porta in libreria Orientamento, di Daniel Orozco. A 150 anni da Bartleby, Orientamento , tradotto da Emanuele Giammarco, ritraduce la tradizione realista americana ossigenandone da capo le ferite. Scrivanie, sale relax, macchinette del caffè, ma anche spogliatoi, mense, supermercati: è la realtà che conosciamo e che ci circonda, che fa da scenario alle nostre routine, offrendo respiro e battito alle nostre vite.
Con uno stile inimitabile che sembra piegare l’asciuttezza carveriana alle esigenze kafkiane di Barthelme, che non ha paura di abbracciare e rivoltare i gerghi tecnici, che strizza l’occhio a Fantozzi per carica ironica senza mai perdere il desiderio di serpeggiare in aria come un fuoco d’artificio, Daniel Orozco ci offre uno dei mondi più verosimili che potrete mai leggere.

Cattedrale vi propone l’estratto dal brano Storie di fame, per gentile concessione dell’editore.

Storie di fame

 

Così essi mangiarono, furono saziati e Dio
mandò loro quel che avevano desiderato

Salmi, 78, 29

 

I

 

A fare la spesa ci andava tre volte a settimana, dopo il corso di aerobica, facendo tappa a un minimarket che rimaneva di strada dal centro benessere verso casa. Era un posticino a conduzione familiare con un parquet disastrato e due sole casse per pagare, male illuminato e angusto e molto in voga fra i professionisti. Sui suoi scaffali c’erano birre artigianali e barrette energetiche e rucola, a parte tutti i generi di prima necessità. Così quando aveva bisogno di pane, banane, carote, latte, ricotta – le solite cose – si fermava in zona.
Quando però sentiva di meritarsi una qualche leccornia, allora una sortita speciale – una capatina da biscotti – era d’obbligo. Per quelle preferiva andare nei supermercati più grandi che riusciva a scovare, posti che assumevano tanti commessi, che si alternavano tanto di frequente, che nessuno l’avrebbe mai riconosciuta come cliente fissa. Andava sempre la sera tardi, quando c’era meno ressa. E le piaceva gironzolare, visualizzare la corsia dei biscotti senza smettere di svoltare su e giù per tutte le altre corsie, da una parte all’altra del negozio. Ai banconi non si attardava mai. Pane, Gastronomia, Frutta e Verdura, Banco del pesce, Macelleria: quei reparti non solleticavano minimamente il suo interesse. Piuttosto erano le corsie ad attirarla, e in special modo l’effetto particolare che le faceva sfilarci dentro: a ogni svolta che prendeva, davanti agli occhi le si schiudeva una galleria di prodotti, una congestione visiva che le saturava la vista, facendole accapponare la pelle e contorcere e arricciare le budella, in una specie di tremito pre-biscotto che non smetteva mai di eccitarla in modo destabilizzante ed erotico. I biscotti stessi si sarebbero volatilizzati quindici minuti dopo l’arrivo a casa – anche prima, se apriva il pacco in auto e cominciava a sgranocchiarli alla guida. Dopodiché si spaparanzava intontita sul divano davanti alla tv, il livello di zuccheri in caduta libera, l’euforia che scemava, sentendosi sola e gonfia e in colpa, finché non si assopiva e arrendeva al sonno.
Una notte si avventurò fino al posto che preferiva in assoluto, un megastore aperto ventiquattro ore che avevano inaugurato da poco dentro un centro commerciale vicino l’aeroporto. Era il negozio di punta di una catena regionale: aveva ventisei corsie, una caffetteria e una farmacia aperta tutta la notte, il videonoleggio, e pure un salottino con i divani e l’abat-jour e un caminetto acceso con i ciocchi finti. Arraffò un cestino appena varcato l’ingresso a porte scorrevoli, bordeggiò il salottino, e si diresse verso la corsia 1a. Per i suoi standard queste serate potevano durare parecchio. Poteva bighellonare per ore, gongolando non soltanto per la quantità di prodotti, ma per la loro varietà in continua espansione: c’erano gelati con sopra pretzel ricoperti di cioccolato o tocchetti di brownie caramellato o granelli di vere bacche di vaniglia, e quelli fatti con le fragole biologiche o la crema kosher o le noccioline non coltivate nella foresta pluviale; c’erano i triangolini di tortillas bianchi, gialli, blu e rossi, e le pennette colorate integrali, asparagi, seppia e pomodoro; c’erano i cereali per la colazione a forma di arachidi, lamponi, ciambelline e girelle, a forma di waffle, di piccoli toast; c’erano quindici tipi diversi di condimento per la pasta, dieci gusti di gallette di riso, e una dozzina di acque toniche aromatizzate; c’erano otto varietà diverse per una cosa banale come la mostarda. Si sentiva immersa nell’abbondanza, e librava come un’innamorata ubriaca d’aspettative, lasciando cadere distrattamente ogni cosa nel cestino della spesa: zucchero di canna dalla corsia 2a, un barattolo di pesche sciroppate dalla 7b, una busta d’uvetta dalla 9b. A fine corsa riponeva sui rispettivi scaffali la maggior parte dei prodotti scelti, conservandone uno o due particolarmente sani per controbilanciare i biscotti. Da soli i biscotti non li comprava mai. Nessuno, sentiva in cuor suo, aveva bisogno di sapere così tanto su di lei.
Quella notte però, qualcosa non quadrava. Nonostante fosse mezzanotte passata, il supermercato era strapieno. Per passare bisognava incunearsi fra i carrelli in doppia fila, aggirare assembramenti di clienti troppo loquaci che impedivano il passaggio. Altri girovaghi notturni avevano cominciato a ciondolare ai margini del suo stesso girovagare notturno. Le si affiancavano, compulsando gli stessi scaffali che compulsava lei, le mani che si allungavano sul vasetto di marmellata accanto al vasetto di marmellata su cui aveva appena posato le mani. Un tizio le si era accodato per tutta la corsia dei cereali – inavvertitamente, ne era sicura – ma con sufficiente caparbietà da costringerla a procedere oltre. E peggio ancora, c’erano commessi dappertutto. Sgattaiolavano in ogni direzione con quei papillon già annodati con la clip e i loro grembiuli blu inamidati e appuntati di cartellino, rifornendo svelti gli scaffali, dislocando pallet ad altezza uomo con sopra prodotti nuovi ancora impacchettati e portandosi appresso i loro taglierini con un contegno da intagliatori di sushi. Non la smettevano di chiederle se aveva bisogno di rintracciare qualcosa, e lei continuava a ripetere «No, grazie». Le mettevano una fretta tale, e lei si sentiva talmente stizzita, frustrata, per aver perso il ritmo della serata, che abbreviò il suo solito giro. Saltò le corsie dalla 12 alla 21 e si avviò direttamente alla 22b, il centro del bersaglio verso cui puntava il girandolio del proprio desiderio – Biscotti e Crackers. Una volta lì, non si discostava mai dalle proprie abitudini – erano sempre o gli Sgranocchioni Olé della Nabisco o gli Ultra Cioccolatosi Deluxe della Keebler. Eppure le piaceva rimuginarci sopra, per gustarsi la finzione di dover decidere fra un biscotto o l’altro nella panoplia che aveva davanti agli occhi: Chi di voialtri mi porterò a casa stasera?
Anche qui però trovò degli ostacoli. C’erano altre persone in corsia – una coppia, un uomo e una donna, che non soltanto sostavano davanti agli scaffali dei biscotti, ma si erano piantati proprio di fronte alla sezione dei Nabisco e dei Keebler. Lei si fermò qualche metro prima e fece finta di dare una scorsa agli scaffali dei crackers, in attesa che se ne andassero. Entrambi portavano i capelli alle spalle e indossavano trench neri, che li rendevano più slanciati e snelli. Erano giovani – sui venticinque, a occhio – e molto attraenti. Se ne stavano lì, le mani incassate nelle tasche del cappotto, a parlare con trasporto senza scollarsi dal posto. Decise di tornare ai Formaggi e scambiò i suoi fiocchi di latte al due per cento con una confezione all’uno per cento, poi alla corsia 6a per rimettere a posto le pesche pre-sbucciate. Tornò indietro alla 22b. I due erano ancora lì, esattamente nello stesso punto, orgogliosamente sciancati e pigolanti in quella posa sfrontata e seducente che tengono le coppie in pubblico, solleticando la nostra esclusione dalla loro intimità. Guardate quanto ci ascoltiamo, noi, sembravano far trasparire. Guardate quanto le cose che noi condividiamo rimangono fuori dalla vostra portata.
Li sorpassò impettita e si diresse alla corsia adiacente, Pasta e Cereali. Si piazzò davanti agli scaffali, scorrendo le mani alla cieca sulle confezioni. Sentì la voce di lui che si alzava di tono, e la risata di lei. Ma che diavolo c’era da ridere a quel modo? Si mise ad ascoltarne il tono basso e ovattato, il mormorio di quelle voci languide e melodiche. Ci furono altre risate, e poi finalmente – finalmente! – li sentì allontanarsi. Li tallonò di pari passo, in parallelo al loro lento avanzare fuori dalla corsia, quando all’improvviso uno dei commessi in grembiule blu le apparve di fronte, alto, fanciullesco, scavato e con un sorriso enorme e una stempiatura incipiente e un cartellino che recitava: BRAD sarà felice di servirti! Le chiese se poteva esserle d’aiuto a rintracciare qualcosa. «No!» sbottò lei, scansandolo in fretta ma solo per incappare nella coppia della corsia dei biscotti. Bofonchiò delle scuse aprendosi un varco fra loro, e svoltò nella corsia 22b.
Era libera, finalmente. «Eccoci» si disse, una volta raggiunto lo scaffale dei biscotti. E si era messa lì di fronte da giusto due secondi – a malapena era riuscita a vederli tutti, a sistemarsi col corpo di modo che riempissero al massimo la sua visione periferica –, era appena arrivata allo scaffale dei biscotti, quando una donna che passava all’altro capo della corsia si voltò per guardarla. Anche lei indossava scarpe da corsa e leggings e una felpona morbida. I capelli li aveva scuri e tirati all’indietro in una coda di cavallo che le metteva in risalto un viso incontaminato. Lo sguardo della ragazza si rivolse pigramente su di lei, poi ai biscotti su cui aveva già posato lo sguardo, e su di lei una volta ancora. E appena prima di slittare fuori scena oltre il bordo della corsia, il volto impassibile della ragazza registrò un movimento delle labbra a malapena discernibile. Un accenno di intimo sorrisetto, la più minuscola delle spunte, ma nella cui minuzia era carica una conoscenza così ampia – una comprensione così acuta delle sue serate solitarie in quei supermercati, del suo incanto di fronte a quei biscotti, e di tutto ciò che ne conseguiva – che scappò. Si mise a correre. Via difilata fuori dalla corsia nella direzione opposta e poi lungo tutto il retro del supermercato, a grandi falcate oltre i Frutti di Mare e la Macelleria, fino all’altro capo del negozio, per trovare riparo fra la Verdura. Si aggirava in mezzo ai bidoni, fra i cari vecchi cumuli di frutta lavata, col fiatone, gli occhi arrossati, perfettamente consci della propria ridicolezza. Non sapeva se ridere o piangere. «Stupida!» sibilò. «Stupida! Stupida!» Eppure continuava, avanti e indietro, assediata dalla sua brama afflitta, sbattendo gli occhi e camminando fra i bagliori e le scintille degli specchi e l’abbondanza riflessa delle verdure appena rinfrescate dai soffioni d’acqua.

L'isola dei conigli, di Elvira Navarro

LiberAria Editrice porta in libreria L’isola dei conigli, di Elvira Navarro, con la traduzione di Sara Papini e la prefazione di Rossella Milone.
Un immaginario netto e potente, dove il passaggio, la metamorfosi, la transizione, non è sempre una liberazione. Come ne La lavoratrice, la scrittura di Navarro trascina il lettore ai confini tra reale e fantastico, ponendosi sul crinale più esterno della razionalità e chiedendo al lettore di guardare a occhi aperti l’oscurità.

Cattedrale vi propone il racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

L’ISOLA DEI CONIGLI

 Elvira Navarro

Costruì una canoa e decise di provarla nel Guadalquivir. Non gli interessava lo sport. Nemmeno aveva fatto la canoa per usarla spesso; sapeva che, non appena esplorati gli isolotti, l’avrebbe lasciata nel ripostiglio o l’avrebbe venduta. Si considerava un inventore, anche se le cose che fabbricava non potevano proprio essere definite invenzioni. Ciò nonostante, aveva iniziato a giudicare come tali tutto quello che progettava, perché non utilizzava il libretto d’istruzioni. Il suo metodo era scoprire da sé il necessario per elaborare quello che era già stato fatto. Il procedimento gli portava via mesi e lo considerava la sua vera vocazione. Inventava ciò che era già stato inventato. In questo modo otteneva un piacere simile a quello degli escursionisti che la domenica vanno in montagna e raggiungono una cima, e si domandava come mai la realizzazione personale fosse qualcosa di così bizzarro. Di mattina, il falso inventore lavorava come professore in una scuola d’arte senza sentirsi realizzato, nonostante le lezioni fossero utili per i suoi studenti.
Fin da bambino aveva desiderato raggiungere le lingue di terra che si addentrano nel mare, o le isole in cui non abita nessuno. Una volta, quando aveva diciott’anni, i suoi genitori l’avevano invitato con loro a Tabarca con la promessa di un’isola deserta. Lui aveva creduto che avrebbero pestato soltanto terra e cespugli, ma si era imbattuto in sette vie di umili case, delle mura, una chiesa, un faro, due hotel e un porticciolo. Probabilmente i suoi avevano esagerato con il fatto che non c’era nulla a Tabarca per convincerlo ad andare in vacanza tutti insieme – a loro non piaceva che rimanesse a casa da solo –; o forse quando parlava di luoghi disabitati non avevano mai capito a cosa si riferisse.

Era difficile contare gli isolotti della riva del Guadalquivir che costeggiava la città. Alcuni potevano essere scambiati per piccole penisole. Una mattina di settembre camminò fino al molo con la sua imbarcazione e si buttò in acqua. Passò diversi giorni a sondare la canoa, e dopo che fu in grado di controllarla, cominciò a esplorare il fiume. Non pioveva da settimane. La portata era scarsa, le acque tranquille, fetide. Percorse il perimetro delle isole con un misto di inquietudine e stupore, senza riuscire ad avvicinare la canoa alla riva. Dubitava della sua abilità di manovra rapida, temeva che la terra ai margini non fosse salda, di scivolare e di perdere la canoa. Inoltre, lo spaventava l’idea di dover tornare a nuoto, a labbra strette per non ingoiare i miasmi, e vedere tanta natura insieme, la vegetazione variopinta e vibrante di insetti, lo strato di escrementi di uccelli, il fango. Ciò che aveva creduto bello erano soltanto alberi storti dal peso dei volatili, o magari da qualche malattia, così come colonie di insetti e arbusti mangiati dall’immondizia.
Al quinto giorno di vagabondaggio con la canoa, decise di percorrere la curva del Guadalquivir. Remare verso sud gli permetteva di non perdere di vista le morbide colline della campagna. Da quelle parti le isole erano minuscole, più aspre, ed erano molto vicine una all’altra, come un’eruzione cutanea. Le aggirò a fatica; nell’ultima si imbatté nel cadavere di un uomo che galleggiava tra i giunchi. Il morto giaceva a faccia in giù, in mutande; la pelle della schiena si sollevava formando bolle grandi quanto una mano. Non sapeva se le bolle si fossero formate per via del sole, che ancora bruciava a settembre, o per il fatto che il corpo era così pieno di liquido da essersi deformato. Il fiume appestava. Chiamò la protezione civile e gli agenti arrivarono in un dinghy con cui era impossibile farsi strada tra i giunchi. Nel dinghy trasportavano una canoa; mentre un poliziotto grasso saliva su di essa, lui si avvicinò alla lancia e chiese il permesso di andarsene. Non voleva assistere al trascinamento del morto stecchito. Lo atterriva l’idea che si potesse voltare, mostrando così le viscere fuori dal corpo, divorate dai pesci.
L’episodio del morto lo tenne lontano dal fiume per diverso tempo. Poi riprese a fare il suo giro vespertino intorno alle isole, e un giorno, dopo aver racimolato il coraggio di mettere piede su quella più vicina al molo, decise di abitarla. Si disse che era stufo di vivere in città, e pure che lo eccitava fare quello che nessun’altro faceva. Si trattava soltanto di due idee peregrine con cui a volte percorreva le vie dell’urbe, troppo ossessiva secondo lui, una spirale che lo attraeva verso il centro.
In realtà non poteva dare nessuna giustificazione per spiegare il perché volesse occupare quel pezzo di terra stretto e nauseabondo, che l’avrebbe fatto sentire ancora peggio che in città.
Nonostante fosse l’isola più vicina alla riva, la boscaglia impediva di vederne l’interno. Ripulì il centro dai cespugli, abbatté alberi il cui tronco era così sottile da sembrare fatto di corda. Come faceva quel legno gracile a sostenere una chioma di un verde pletorico? Decise di montare una tenda da campeggio rossa invece che verde militare. Era ben coibentata, ma l’idea di svegliarsi ricoperto di insetti lo riempiva di terrore. Pensava che, dormendo in alto, si sarebbe difeso dalle larve che pullulavano cieche nel terreno, offuscate nella profanazione della terra, che sembravano intuire i loro predatori. I volatili le acciuffavano facilmente: mettevano il becco sotto la sabbia e frugavano. Costituivano una fonte di cibo inesauribile; tuttavia, gli uccelli non si nutrivano sempre di esse. Forse, siccome erano fatte soltanto di acqua, non erano abbastanza sostanziose, e c’era bisogno di cercare insetti più sofisticati e nutrienti. Un pomeriggio ne esaminò una. La prese in mano, e l’animaletto danzò su sé stesso. Quando la strinse un po’ con l’indice, esplose come un minuscolo palloncino.
Non dormiva nell’isolotto tutte le sere; sarebbe impazzito. Gli bastava svegliarsi lì un paio di volte a settimana. Le notti che si fermava in quella macchia del Guadalquivir, nel buio percepiva un ronzio. Gli uccelli erano silenziosi, tranne quando le civette attaccavano, e si udiva soltanto il frullo d’ali di quelli che venivano cacciati via da qualche pioppo. Stavano molto stretti; e se scuotevano la testa sotto l’ala e gonfiavano l’ingluvie, quelli che occupavano le estremità dei rami cadevano. Il ronzio che lo torturava non era dovuto a questi rantolii del sonno, ma allo strepitio dei volatili al tramonto, quando cercavano un posto negli alberi, così brutale che era impossibile fare un calcolo approssimativo di quanti giungessero a quella misera terra natale. Gli parevano migliaia. Per un’ora, pigolavano in modo tale che il suono gli rimaneva dentro, e nemmeno con le cuffie a massimo volume riusciva ad attenuarlo; a volte usciva dalla tenda gridando per metterli in fuga, ma lo stormo neanche si accorgeva della sua presenza. Era come un pezzo d’alga in mezzo all’oceano; i volatili forse lo scambiavano per un uccello ridicolo. Finiva con la gola dolorante da tanto gridare, e non voleva confessare a sé stesso che mentre urlava e faceva smorfie grottesche qualcosa dentro di lui si liberava. Spesso perdeva la nozione del tempo e continuava a ululare in piena notte, quando gli uccelli erano ormai silenziosi; allora gli scarsi viandanti sulla riva guardavano verso l’isola pensando che le urla appartenessero a qualche animale.
Gli uccelli andavano sull’isolotto a dormire, ad allevare i piccoli, a morire. Era tutto pieno di nidi e di palline di sterco, e quando il falso inventore tornava a casa, non riusciva a liberarsi dalla puzza di escremento, nemmeno facendo la doccia. A quanto pareva, quei volatili bianchi erano una piaga. Glielo aveva detto un vecchio che pescava sull’imbarcadero. Al vecchio aveva anche domandato il nome degli animali, ma questi non aveva saputo dirglielo. Cercò informazioni in Internet e non trovò nulla. Diede un’occhiata a una guida della fauna del Guadalquivir; gli uccelli della sua isola non coincidevano con nessuno degli aironi descritti. Non indagò oltre; alla fin fine, trovare a che specie appartenessero non cambiava la sua decisione di trasformarsi, per un paio di volte a settimana, in un essere che ruggiva contro creature che lo ignoravano, che dormivano nonostante scagliasse contro di loro pietre furiose. Non si degnavano di guardarlo nemmeno quando la collera lo spingeva ad agitare i tronchi gracili degli alberi. Le chiome si muovevano da una parte all’altra, e a volte quel movimento diventava violento; il dondolio dei rami dava l’impressione che alcuni robusti madonnari trasportassero l’isola sulle spalle.
Con il passare delle settimane, il falso inventore si convinse che l’occupazione fosse un atto di giustizia. Perché doveva chiedere il permesso per abitare un posto vuoto? Era per lui incomprensibile che gli altri isolotti fossero ancora vergini, ma questa non era la cosa peggiore; la cosa intollerabile era la mancanza di curiosità degli abitanti di un capoluogo dove vivevano più di trecentomila persone. Tra tanta gente, solo lui si prendeva la briga di visitare ciò che avevano davanti al naso?
Cominciò a lasciare soldi nella tenda per vedere se qualcuno li rubava. Sebbene i canoisti che remavano lungo il Guadalquivir non dovevano per forza essere ladri, di sicuro c’erano malviventi in agguato, qualche vagabondo affamato che senza dubbio avrebbe sgraffignato la sua generosa banconota. Tutti i giorni controllava che i cinquanta euro fossero ancora lì. E così era. Nessuno prendeva mai quei soldi. Nessuno metteva piede nella sua isola.
Quando non inventava ciò che era già stato inventato, il falso inventore faceva installazioni che non chiamava arte. Ad esempio, aveva tolto la pelle a dieci cani di peluche che abbaiavano e sgambettavano accendendo gli occhi. Poi aveva sistemato la pelle sulle zampette e messo i cani in una gabbia per conigli. Aveva creato un meccanismo per azionare i pupazzi con un comando a distanza. Quando gli amici andavano a trovarlo, lui schiacciava il bottone. Dieci cani di peluche scuoiati abbaiavano muovendo le zampette all’indietro sulla loro stessa pelle, accendendo un paio di occhi gialli.
I suoi amici gli consigliavano di vendere quell’installazione a una campagna per la protezione animali e lui si stringeva nelle spalle. Altri non avranno già sfruttato quell’idea? In fondo pensava che, se era venuto in mente a lui, probabilmente l’aveva visto da qualche parte, anche se magari non se lo ricordava. Per questo non voleva che qualcuno considerasse arte quelle installazioni. Lo terrorizzava l’idea di esporre e di sentire i commenti a voce alta definire le sue opere nient’altro che una copia. Non sapeva perché temesse quella critica, visto che tutto sommato non credeva nella novità e poteva argomentare a lungo a riguardo, perfino le volte in cui non era capace di ricordare l’origine delle sue appropriazioni. Oltre alla gabbia piena di cani di peluche, erano suoi un circo di pulci meccaniche all’interno di una dispensa, una piastra per sandwich costruita con due ferri da stiro con cui scioglieva formaggio stagionato sulle mani degli invitati quando festeggiavano qualcosa, una pila di libri sopra la quale si era accumulata la polvere per più di vent’anni – ciò che copriva i libri erano ormai palle di sudiciume –, e la cui importanza risiedeva nel fatto che quella polvere conteneva cellule morte di tutti i suoi famigliari, ormai deceduti.
Fu la gabbia dove teneva i cani peluche a fargli venire in mente l’idea di liberare dei conigli nell’isola per mettere in fuga gli uccelli. Decise che non si sarebbe più fermato la notte a dormire. Aveva ormai gridato abbastanza. Avrebbe lasciato la tenda per andare a osservare i conigli e a schiacciare un pisolino. Era autunno inoltrato, avevano messo indietro l’ora; non era più una follia remare alle quattro del pomeriggio e godersi il venticello frizzante del fiume, la cui portata era ancora fetida come d’estate per via della siccità. Comprò venti conigli, dieci maschi e dieci femmine, che si riproducevano a grande velocità. Nell’isola presto non ci sarebbe stato cibo per loro. Il falso inventore credeva che i nuovi abitatori, quando non avessero avuto altro da mangiare, avrebbero attaccato i nidi sistemati a terra. Se gli uccelli non potevano allevare i loro piccoli nell’isolotto, se ne sarebbe andati in un altro.
I conigli erano bianchissimi e dal pelo lungo. Avevano gli occhi rossi, gli erano costati più cari che se li avesse comprati grigi o marroni, ma aveva ritenuto necessario che avessero lo stesso colore dei volatili. Si disse che popolare l’isola con quegli animali era il suo modo di continuare ad abitarla. Finì per permettere ai conigli di entrare nella tenda, dove preferivano stare, senza dubbio perché così erano al riparo dal sole e perché la terra non era adatta a far le tane. Nella tenda si misero a partorire coniglietti senza pelo simili a ratti.
Non appena i conigli divorarono i cespugli, i nidi cominciarono a vuotarsi di uova, manicaretto che sembravano apprezzare in modo particolare, visto che in più di un’occasione aveva assistito a lotte per rodere il fine guscio azzurrino. Non litigavano, tuttavia, per i pulcini, e per il falso inventore era evidente che mangiavano quella carne appena nata a malincuore, con una certa tristezza, come se le intelligenze ottuse reagissero di fronte a quella situazione crudele. Il loro atteggiamento, pensava, era in sintonia con l’umanità che rappresentavano, che altra non era se non la sua, il loro proprietario. Forse per quello fu sorpreso che, nonostante gli scrupoli iniziali, poi non lasciassero nemmeno le ossa, come avrebbe fatto qualsiasi persona. Con i piccoli incisivi attaccavano le ingluvie delle creature, e un alone di sangue tingeva, dello stesso colore degli occhi, i musetti tremolanti e i peli sottili dei baffi. Quando finivano con la carne, frugale, passavano lunghi minuti a rodere gli scheletri, facendo un rumore peculiare, di rami secchi spezzati. Si mangiavano anche il becco, e una volta concluso, si lucidavano fino a far tornare il manto di un bianco splendente.
Durante il banchetto, gli uccelli volavano intorno gracchiando angosciati. Rimanevano per ore sul luogo del delitto, come se da un momento all’altro la loro prole potesse apparire dietro a una pietra. Il falso inventore trovava curioso che non pensassero di attaccare i conigli. Sarebbe stato semplice per i volatili strappare con i becchi affilati gli occhi di quei predatori, ma forse le manovre di gruppo erano estranee al loro istinto.
Non calcolò che i coniglietti nati lì non avrebbero mai mangiato altro che carne e uova, e che quello snaturamento avrebbe arrecato qualche conseguenza funesta. Per un altro po’, i volatili furono abbastanza scemi, o audaci, da continuare a nidificare nell’isola, ma quando i nidi cominciarono a scomparire, il falso inventore si accorse che lo facevano anche le cucciolate di conigli. Una mattina fu testimone del perché: i loro congeneri se le mangiavano. Lo spettacolo lo inorridì e si sbarazzò dell’idea che quegli animali fossero un’estensione della sua persona. Anzi: gli parvero una piaga, esattamente come gli uccelli, e se continuò a frequentare l’isola, fu perché si sentiva in colpa ad abbandonare quelle bestie che aveva degradato.
Un giorno provò con il mangime. I conigli si limitarono ad annusarlo, poi si dedicarono a incontri sessuali che possedevano un pizzico di morbosità. Avevano imparato a riprodursi per mangiare, e ciò moltiplicava gli accoppiamenti. Il falso inventore pensò che il bisogno accelerasse la gestazione. Ogni volta che una femmina partoriva si alimentavano tutti; quando avveniva il parto silenzioso, i conigli braccavano la partoriente come se ci fosse la possibilità di mangiarsi anche lei. Siccome non mostravano più interesse per i nidi dei volatili, questi tornarono a nidificare.
La tenda da campeggio si vedeva dalla riva. A lui non importava. Ciò che c’era in quel pezzo di terra non era tanto diverso dagli accampamenti che rom e mendicanti montavano sotto i ponti delle circonvallazioni. Finché non davano fastidio, nessuno proibiva loro di dormire lì. La sua isola era lontana dal complesso monumentale che si scorgeva dall’altra sponda del fiume. Aveva di fronte la fine della città, dove, oltre a edifici nuovi e brutti, c’era soltanto un centro commerciale vicino a uno stadio che non era mai stato importante. Anche lui era visibile quando stava sull’isolotto, e alcuni bambini lo salutavano dal molo e gli chiedevano urlando di caricarli sulla canoa. Il falso inventore rispondeva loro scuotendo la testa in maniera enigmatica. L’attenzione dei bambini lo imbaldanziva e lo preoccupava allo stesso tempo. Non voleva che sapessero cosa stava succedendo coi conigli, che si intravedevano dal belvedere; erano come piccole palle bianche che si scontravano l’una con l’altra. Di notte, se c’era abbastanza luna, lo splendore del loro manto si confondeva con quello degli uccelli, e sembrava che i volatili dormissero a terra.
I conigli non mangiavano mai i propri cuccioli fuori dalla tenda. Sembrava che sapessero di trasgredire a una legge. E anche se guardarli mentre si nutrivano dei propri discendenti stringeva il cuore e li rendeva abietti, quando se ne stavano tranquilli diventava evidente che in loro c’era qualcosa di ipnotico, maestoso, che aumentava col passare del tempo, e che magari aveva a che fare con l’agire contro natura. Forse avevano smesso di essere conigli, pensava, o in qualche modo sapevano di essere i protagonisti di qualcosa che non era mai accaduto in quel modo nella loro razza. In certi momenti, il falso inventore sentiva pena per la loro scomparsa, e allora si dimenticava delle circostanze per cui quegli esseri avevano finito per sbafarsi i propri figli. L’evento spiccava come un fatto puro, senza motivo; un fatto chiamato a inaugurare un mondo nuovo. Tutto ciò avveniva in sordina, perché ancora non esisteva un linguaggio per una realtà che iniziava a compiere i primi passi. Il falso inventore si limitava a continuare ad andare sull’isolotto e a rispondere con diffidenza alla richiesta degli infanti di essere portati in canoa. Di notte, nel casone in cui viveva, ereditato dalla nonna, sognava i genitori di quei bambini, udiva le loro voci come se fossero una montagna di gente che lo schiacciava mentre le camere si riempivano d’acqua e del colore azzurro delle piscine. Si diceva che si trattava di una volgare ossessione da cui si sarebbe liberato non appena si fosse deciso ad abbandonare quelle creature, e soltanto per via di alcuni atteggiamenti del corpo, improvvisamente estatico accanto ai conigli, era possibile dedurre che cominciava a sentirsi come uno di loro. Forse i capelli, precocemente incanutiti, avrebbero raggiunto il bianco favoloso di quegli animali ormai sacri, e i suoi occhi, insanguinati da piccole emorragie che l’oculista attribuiva a una congiuntivite persistente, sarebbero finalmente guariti solo una volta diventati completamente rossi.
Un giorno, il falso inventore smontò la tenda da campeggio e smise di andare sull’isola. Gli abitanti degli edifici sulla sponda si domandarono che fine avesse fatto quel pazzo che allevava conigli che erano morti poche settimane dopo la sua scomparsa, e i cui cadaveri avevano formato un grazioso manto bianco.

Il sortilegio, di Charlotte Brontë

Clichy edizioni, ha portato in libreria Il sortilegio con Il trovatello, di Charlotte Bronte, per la traduzione e la curatela di Francesca Rizzi, proponendo ai lettori i racconti inediti del ciclo di Angria, il regno immaginario creato a Charlotte Brontë dieci anni prima di scrivere il suo capolavoro Jane Eyre.
Un’affascinante immersione nel mondo fantastico creato da Charlotte Brontë negli anni della sua giovinezza insieme al fratello Branwell, un viaggio alle radici del talento dell’autrice dell’intramontabile Jane Eyre, di cui si possono intravedere stile, tracce e temi nei due racconti Il sortilegio e Il trovatello, scritti all’età di diciassette e diciotto anni e pubblicati ora per la prima volta in Italia. 

Cattedrale vi propone l’incipit del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Il sortilegio
di Charlotte Brontë

Capitolo 1

Il giovane marchese di Almeida è morto. Tutti lo sanno. Come eredità ha lasciato due troni vacanti. Adesso i regni di Wellingtonsland e di Angria attendono un erede. Morte inesorabile! Tutte le guardie e le precauzioni che il re Zamorna avrebbe potuto prendere per il proprio primogenito - suo diletto, prima speranza del suo regno e seconda del padre - non avrebbero potuto contrastare quella falce dalla lama affilata che recide tanto il fiore appassito quanto quello che germoglia. Vane furono le ossequiose attenzioni di centinaia di servi, l’esercizio scrupoloso delle conoscenze scientifiche, le materne cure dell’infermiera Mina Laury, che con la propria dolcezza riuscì una volta a salvare il padre ma non il figlio dalla morte, il raccolto silenzio del solitario maniero, l’aria balsamica respirata in quei boschi antichi, nelle fragranti valli e presso il rapido, precipite torrente. E infine, vano del tutto fu anche il gran desiderio che di continuo occupava l’anima del re Zamorna, fin quando non si spense nella disperazione: che il figlio - amato con un affetto tale da non poterlo esprimere con le parole, giacché era l’unico nato della madre - potesse vivere e crescere per ricordargli la defunta. Morì, reciso troppo presto, richiamato prima di sapere cosa fosse quel mondo sulla cui distesa così fulgido era sorto il suo giorno.
Il duca allontanò Lord Julius dalla sua presenza, affinché l’ansia dei genitori, tesa e torturata dall’evidente delicatezza della pianta che osservava, non diventasse un ostacolo invece che un incoraggiamento al suo benessere. So che quando la tomba si chiuse su Marian, un timore nervoso gli prese la mente, nel timore che i semi della malattia della madre potessero, con l’esistenza, venir trasmessi al bambino.
Egli odiava osservare le guance colorate e i vivaci occhi del figlio, gli arti meravigliosamente aggraziati e la carnagione chiara sotto la quale si potevano scorgere le vene e le arterie serpeggianti in linee ondulate del più tenue e delicatissimo violetto. L’ho spesso sentito gemere e maledire quella bellezza, che gli recava solo pensieri d’inestricabile pena, quasi che con un sospiro straziato avesse deposto la squisita miniatura della sua stessa grande immagine, dopo averla guardata per alcuni brevi momenti di evanescente e, ben lo sapeva!, infondata esultanza. «Quanto darei» aveva mormorato in alcune occasioni, «perché mio figlio avesse un po’ meno, appena un po’, della delicata bellezza della madre. Oh, aborro adesso con tutta l’anima ogni tocco di bellezza che appare troppo eterea per l’umanità: una qualsiasi sfumatura di colore su una guancia, ogni raggio di luce in un occhio che troppo ha di divino e troppo poco di terreno, persino ogni inflessione di voce la cui dolcezza arriva direttamente al cuore con un brivido improvviso, causano in me agonia e non diletto!».
Quando giunse la prima lettera da Grassmere, lasciando intendere che la tisi si stava ormai aggravando, esclamò (lo so perché ero nella stanza, ovviamente a sua insaputa, quando la lesse attentamente): «Sapevo che sarebbe successo! Sono quasi felice che gli orrori del dubbio sian passati! Non dovrò più avvelenare la speranza, ora che c’è un chiaro cammino di certezza. Resisterà ancora per alcuni mesi, forse settimane. Sì, a Florence diedero solo otto settimane di vita. Dopo troverà un luogo di riposo in quella maledetta tomba. Sì, vorrei che fosse già tutto finito: la malattia, la morte, la sepoltura e tutto il resto! Allora potrei essere soddisfatto, se non felice, ma fino ad allora…». Si lasciò cadere su una sedia vicino alla scrivania, staccò un foglio di carta, e, rapido come il fulmine, scrisse le seguenti righe:

Inestimabile Mina, il vostro lavoro è quasi ultimato. È stata un’impresa difficile salvaguardare ciò che il destino aveva marcato col declino. So quanto avete adempiuto al vostro dovere. D’ora in avanti con le mie stesse labbra dichiarerò la mia approvazione. Vegliate su di lui ancora per qualche giorno e per qualche notte. Aspettate solo l’ultimo battito e l’esalare dell’ultimo respiro. Dopo, mia cara, potrete riposarvi dal lavoro. Non voglio da voi una sola parola, non una sillaba, finché non sarete certa che sia finalmente calato il sipario, fino a quando sembrerà avere le forze per magari non più di una settimana, in altre parole, mia cara, fino a quando il respiro non comincerà a rantolargli in gola, quella brillantezza infernale gli sparirà dalle guance e la carne (quel poco che ne resta) diventerà perfettamente diafana, come dissanguata ma scheletrica. Quando si verificheranno questi eventi, potrete scrivermi e parlarmi. Io, se possibile, ucciderò l’attesa. Addio, mia dolce rosa selvatica! Temo che la vostra bellezza possa sfumare a causa delle veglie di morte prima che possa rivedervi. Ma non preoccupatevi, non m’importa di questo, e se il mio cuore e il mio amore sono vostri, so che a Mina Laury poco interessa la luce - favorevole o meno - nella quale il resto del mondo può ammirarla. Fedele fino alla morte (la tua o la mia intendo, ragazza, non quelle intermedie, che paiono affollarsi), io sono e sono e sarò sempre,

il vostro Zamorna

Tale fu la risposta che inviò alla timida e apprensiva lettera della povera Mina. Che strano! O almeno così pensai. La sigillò e la indirizzò, poi richiese la carrozza e lasciò la città di Verdopolis per dirigersi verso Angria. Nulla poté attenuare l’incessante e l’irritabile violenza che segnarono la sua condotta nelle cinque o sei settimane successive. È sempre stato energico, sempre entusiasta in ogni impresa. Da quando lo conosco ha sempre avuto l’abitudine di mettere anima e corpo nella realizzazione di un disegno sperato, ma ora sembrava addirittura rischiarci la vita.
Persino Warner riuscì a malapena a reggere il suo passo. Si immerse completamente nel folto delle incombenze, cercando ogni volta con estrema attenzione l’occupazione più impegnativa, ma sempre sembrando trovare assai poca soddisfazione in ciò che aveva trovato. Si poteva vederlo passeggiare tutto il giorno per le strade disselciate di Adrianopolis, ora a vigilare e supervisionare con lena le fatiche degli uomini che lavoravano duramente, ora a dirigere la costruzione di un arco, ora il sollevamento di alcuni grandi blocchi di pietra o marmo, in piedi in mezzo al frastuono e al tumulto delle piazze e delle case in costruzione, mentre nel terreno si scavavano le profonde fondamenta di future dimore.
Era possibile vedere ovunque l’imponente figura snella del giovane, nel suo aderente abito nero e col poco ornamentale cappello ben aureolato di riccioli, muoversi con passo e portamento autorevoli per controllare ogni cosa intorno a sé come il sovrano spirito della tempesta. A volte quella figura sembrava stagliarsi alta nel cielo, in piedi su un’impalcatura appesa, con un infinito cielo blu tutto intorno, davanti e dietro allo scheletro di un palazzo incompiuto, circondato da archi e vaste travi sparsi ovunque, fra strapiombi che avrebbero fatto girare la testa a un qualsiasi giovane marinaio. E lì il monarca si muoveva senza paura come un’aquila che incombe sospesa sopra il nido. Gli occhi dei severi sudditi dalla carnagione scura lo osservavano con ammirazione mentre saltava come un giovane alce da una stretta sporgenza a un’altra e camminava a grandi passi sulle malcerte travi con la schiena dritta e un’aria altezzosa come se stesse attraversando un salone di palazzo Wellesley. In altre occasioni era possibile vederlo torreggiare su una folla di sudditi radunata attorno alla fossa di alcune fondamenta mezzo affondate, intento a supervisionare mentre si allestiva un marchingegno per far esplodere le rocce sottostanti e, una volta completata l’operazione, dare l’ordine di trarsi indietro con voce piena ed elettrizzante, aspettando per ultimo ad arretrare fin quando un tuono che squarciava il cielo emergeva dalla tomba di pietra con uno schianto da far tremare la collina e le pianure, lontane e vicine, e allora egli levava il trionfante urrà, con un’intensità crescente man mano che il rumore del sisma si attenuava in echi borbottanti. Ma una volta finito tutto, verso sera, quando gli uomini si ritiravano dalla formicolante scena, quando gli architetti, i mastri muratori e i carpentieri raccoglievano righe, squadre, compassi e tornavano a casa, se uno spettatore si fosse trattenuto sulla scena, avrebbe potuto distinguere quella maestosa figura solitaria seduta sui rozzi gradini di una sala in costruzione. Intorno a lui solo silenzio, solitudine e desolazione. Immobile come Palmira nel deserto, muto come Tadmor in mezzo al mare. Non si udivano né mazze, né martelli, né asce né scalpelli. Il fragore del giorno dimenticato, le grida dei lavoratori sopite, i loro passi echeggianti scomparsi, la quiete del crepuscolo che avanza furtiva su una lieve brezza e il sordo gemito della vecchia città deserta, giù dal cielo, su dalla terra, per tutta l’acquietata regione. A quell’ora si poteva scorgere la figura di Zamorna, unico abitante della sua sorgente città, con le braccia probabilmente conserte sul petto; gli occhi, in un’espressione frammista di pensiero e vigilanza, senza molto dolore, rivolti verso la gialla prateria che gli si stendeva d’innanzi verso est, senza altro confine che l’orizzonte dorato; la fronte giovine e bella, oscurata da una nuvola di severità che vi si adagiava come l’ombra di un cielo minaccioso sul muro in marmo bianco di un palazzo; le fresche labbra rosse strettamente serrate, placidamente immobili come se l’eterno silenzio le avesse chiuse col suo sigillo, e nessun segno apparente di profonda emozione, nessun sentimento, in effetti, tranne la meditazione assorta, tranne il variato sfumare della guancia, che di tanto in tanto, a lunghi intervalli, improvvisamente, dall’abituale caldo rossore luminoso smoriva in un pallore afflitto e incolore.
Allora sarebbe stato possibile accorgersi che un tarlo gli rodeva il cuore, che una fitta di dolore più forte del solito aveva richiamato il sangue alla fonte. Ma ben presto il puro eloquente bagliore vinceva di nuovo sulla carnagione impallidita, e quando il duca cambiava appena posizione e rivolgeva gli occhi più fissi verso il fioco Oriente, o forse li lasciava cadere sulle rive del Calabar, era evidente che il suo spirito aveva sconfitto, almeno per un momento, il suo tormentatore interiore, e che i piani di ambizioni bellicose o politiche erano ancora una volta costretti a prevalere sull’angoscia paterna il cui ritorno così amaramente lo affliggeva.
Stava così seduto una sera quando dei passi riecheggiarono nella piazza silenziosa, ed Eugene Rosier avanzò dalla lunga ombra degli edifici circostanti.
«Ah!» disse il padrone, alzandosi e andandogli incontro. «Salve Eugene! Sono arrivati?»
«Sì, mio signore, ieri sera alle dieci. C’erano solamente tre carrozze: miss Laury e il signor Sydney, la vettura funebre con il cadavere e il carro del becchino».
«Eugene, basta così! Ma dove sono Ernest ed Emily e… tu mi intendi… gli altri». Quella parola venne pronunciata con enfasi.
Eugene si inchinò. «Penso che verranno domani, mio signore» rispose. «Sua grazia è andato a incontrarli fino a Free Town».
«Sua grazia! Cosa? Quindi il duca è stato qui?»
«Sì, mio signore, nelle ultime quattro settimane, ma non a palazzo Wellesley».
«Chissà perché non l’ho visto».
«Aveva paura di eventuali scontri; la strada per Angria è assai scoperta».
A questo punto Zamorna abbassò lo sguardo e posò con fermezza la mano sulla spalla di Rosier.
«Hai detto» mormorò in tono sommesso, «che è stato per quattro settimane nei dintorni di Verdopolis. Finic è stato in guardia?»
«Sì, mio signore, come una belva, e io con lui, ma non è servito a molto. È molto cauto nel suo modo di agire».
«Bene» disse il duca, facendosi indietro. «Sono soddisfatto, perché so di poter contare su di te; se solo pensassi diversamente per un momento…» fece una pausa e rivolse uno sguardo penetrante al paggio, il quale lo sostenne con coraggio.
«Vi ho detto la verità, mio signore» rispose, «poiché so che una bugia, specialmente su questo argomento, mi porterebbe inevitabilmente, prima o poi, al fiume di fuoco e al boccone di piombo. Inoltre, le circostanze rendono testimonianza in mio favore. Egli non osa approfittarne anche volendolo, perché sa come e quanto Vostra Grazia potrebbe vendicarsi» concluse Rosier con una risatina e uno sguardo sornione dei suoi ineffabili occhi maliziosi.
«Silenzio!» disse Zamorna, con un timbro profondo quasi quanto un tuono soffocato. «Come osi prenderti gioco di me? Non desidero affatto vendicarmi. Vendicarmi! No, se mi avesse dato motivo di vendetta, la faccenda sarebbe conclusa. In tal caso la sua vita o la mia sarebbero le uniche carte ammesse alla grande partita che così a lungo abbiamo giocato insieme. Come e quando finirà? Vorrei che la posta in gioco venisse spazzata via, non mi importa da quali mani».
«Dalla mano che per prima l’ha calata» mormorò un’altra voce, forte nelle inflessioni quanto quella di Zamorna.
Il duca non sembrò sorpreso da questa improvvisa interruzione. Rispose con calma, senza giri di parole: «Sì, sarebbe la più adatta per il lavoro. Ma, vecchio mio, esci allo scoperto. Riconosco la tua parlata, fatti vedere. Non ci sono estranei di cui aver paura, a meno che un pipistrello o un uccello notturno non siano considerati tali».
«Alcuni di questi, presumo, rimangono ora fra le canne del Calabar» replicò la stessa voce e una figura oscura emerse da dietro un enorme mucchio di malta e si fermò di fronte a Zamorna.
«Pochissimi» fu la replica.
«Vanghe, zappe e asce del capomastro sono state un ammonimento così forte per i vecchi abitanti di quella pianura e di quelle rive coperte di giunchi che ora è rimasta a malapena un’ala a sventolare tra noi e l’orizzonte». «Vanghe e zappe stanno dando un avvertimento altrove» rispose l’estraneo. «Si è scavato una tomba a Verdopolis, stasera».
«C’è una cripta aperta» disse il duca. «Come fa una lanterna a olio a illuminare quel passaggio sotterraneo buio? E in che maniera la chiave si accorda con le sue arrugginite difese?»
«La lanterna a olio illumina con coraggio» ribatté l’altro, «e tiene d’occhio le coperture di tre bare principesche. Non dovrebbe esserci spazio per una quarta? La chiave gira come se l’umidità sotterranea l’avesse oliata invece di indurirla e la tomba si aprirà domani sera senza rumore alcuno, come se al di là delle sue sbarre si trovassero i malati invece dei morti. Ma Zamorna, dove deve giacere il bambino?»
«Fra le braccia di sua madre» replicò Zamorna, con un accento duramente represso.
«Già, e lì dovete deporlo. Lei si rivolterebbe nella tomba se altre mani dovessero assolvere quell’incarico, duca. Ci saranno altre persone in lutto al funerale?»
«Poche, penso. Su un corpo di soli sei mesi scendono poche lacrime».
«Tanto meglio. Lasciatemi raccontare la storia di coloro che probabilmente saranno presenti».
«Potete chiudere l’argomento?» esclamò Zamorna in un impeto che fino a quel momento aveva trattenuto, o per rispetto o per qualche altra ragione.
«Lo farò quando mi andrà» replicò il suo amico.
«Mio giovane signore, ovviamente vedrete vostra moglie in occasione della visita alla sua dimora; tra voi e lei si interporranno solamente una trave sottile di cedro e un rivestimento di velluto. Sollevandoli, Lady Florence, l’orgoglio dell’Occidente, giace lì in tutto il suo fascino. Anzi, non tutto, è un po’ sfiorita e sciupata, bisogna ammetterlo, ma che importa al suo gentile marito se l’occhio è spento, la guancia s’è fatta di argilla e i lineamenti sono cancellati per sempre? È troppo fedele per amarla di meno per un qualche lieve difetto in quella bellezza che un tempo riteneva ineguagliabile».
Una maledizione mormorata ma terribile uscì dalle labbra del duca in risposta a questo sarcasmo. Le rispose la risata bassa e a bocca chiusa dello sconosciuto, che proseguì: «Davvero, duca, mi meraviglierei se vi rifiutaste di parlare con lei faccia a faccia. Lei non si è tirata indietro quando vi ha messo tra le vostre braccia il vostro primogenito, quindi perché voi dovreste ritrarvi da lei quando ricambierete quel tenero compito? Ah, lei guarderà triste il suo Arthur e soffrirà quando se ne sarà andato, come fece quella notte lasciando la sala del Gladiatore. Voi allora la sentiste, ma non aveste compassione per lei, così ella sedette in silenzio per adempiere al suo destino, per sopportare la propria sorte».

Beirut – scancellare, di Vanni Bianconi

Nottetempo porta in libreria Tarmacadam, di Vanni Bianconi. Una raccolta di storie in prima, seconda e terza persona che partono da un luogo e da una parola ricchi di esperienza e significato per indagare gli intricati rapporti tra vita e simbolo, casa e viaggio, appartenenza e spaesamento, lingua madre e traduzione. Perché “una voce”, scrive Bianconi, “non è mai univoca ma è plurale, è voce se è abitata da altre voci”. 
Pronunciati in forma di racconto, i ventuno incantesimi che prendono vita in Tarmacadam riescono a trasformare l’esperienza quotidiana, la parola e il corpo in occasioni di magia e scoperta.

Cattedrale vi propone uno dei testi contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Beirut – scancellare
di Vanni Bianconi


Erased, ___ Ascent of the Invisible (Cancellato, ___ Ascesa dell’invisibile) è un film di Ghassan Halwani. Parte dalla foto, scattata durante la Guerra Civile Libanese, di due uomini che spingono un terzo dentro un’automobile. Il regista conosceva l’uomo sequestrato, che da allora non si è mai più visto in giro, finché un giorno, anni dopo, gli sembra di incrociarlo per strada. L’uomo, che è lo stesso e diverso, non dà segno di riconoscerlo. Nella foto in circolazione attualmente, modificata rispetto all’originale del tempo, non figura né il sequestrato né i sequestratori, solo un vicolo vuoto, ma la fotografia è quella. Il regista ricostruisce la posizione delle tre persone e dell’automobile, dove e come avrebbe potuto essere contraffatta.
I muri di Beirut sono coperti da uno spessore di carta, fogli e manifesti affissi gli uni sugli altri con la colla. Sotto uno spesso strato che si stacca dal muro – una superficie vecchia tre o quattro centimetri – il regista intravede un po’ di sorriso. Si mette a grattare, delicatamente risale il tempo, scopre il volto di una persona scomparsa. Ripete l’operazione da polizia scientifica, lenta e laboriosa, e porta in superficie molte facce, gli annunci di altri scomparsi durante la guerra civile. C’era una gerarchia delle persone scomparse, anche i profughi palestinesi venivano ritrovati, vivi o morti. I combattenti libanesi erano ai piedi della piramide, sono oltre 17.000 quelli di cui non si è trovata traccia. Non potendone dimostrare il decesso, il loro statuto è rimasto ambiguo, e così il dolore dei vivi, l’eventualità di un risarcimento. Il regista ripulisce un viso dagli strati di annunci politici, pubblicitari e religiosi, con taglierino, pinzette e pennello; a volte lo ritraccia per intero a matita.
Una delle fosse comuni più grandi era sul lungomare di Beirut, ora ricoperta dalle tonnellate di cemento su cui poggiano la promenade, i locali turistici, gli appartamenti più cari della città: è questa colata di cemento che il regista chiama il monumento alla memoria degli scomparsi.

Earwitness Theatre (Teatro del testimone auditivo) è una mostra dell’artista libanese Lawrence Abu Hamdan. Oltre all’usuale esposizione di oggetti qualsiasi, consiste in una cabina d’ascolto e nella proiezione di una serie di testi sul muro.
I testi sono trascrizioni o rielaborazioni di testimonianze in cui l’ascolto si fa gesto politico, per esempio quella dell’ex prigioniero di un centro di detenzione segreto della cia a Bucarest, che è riuscito a far localizzare il black site, anche se vi era stato condotto bendato, grazie all’ascolto meticoloso della velocità dei treni e di altri elementi del paesaggio sonoro attorno al capannone.
Diverse testimonianze scritte, di quelle che scorrono sul muro accanto agli oggetti sparsi, sono su Saydnaya, il carcere del governo di Assad dove tra il 2011 e il 2015 si giustiziavano anche cinquanta persone al giorno per un totale che, in quei quattro anni, si stima attorno alle 13.000 esecuzioni. Saydnaya era inaccessibile a osservatori esterni. I prigionieri erano tenuti costantemente al buio, bendati e mai raggiunti dalla luce del sole, le uniche testimonianze possibili si basano su percezioni sonore. Ma a Saydnaya pure il suono è ridotto al minimo. È vietato parlare, tossire e muoversi, il silenzio diventa un’entità fisica. La cella è di qualche metro quadrato, ma si viene costretti in uno spazio più angusto perché non si può fare niente che proietti un suono a più di 26 cm. I secondini portano scarpe da tennis per non farsi sentire, i prigionieri devono accorgersi del loro arrivo e inginocchiarsi per tempo o verranno picchiati o uccisi.
Per interagire con gli ex detenuti, l’artista ha ricreato un lessico sonoro che ha permesso di aumentare la realtà con ricordi e osservazioni: mutare la memoria in materia e l’esperienza in prove. Quello è il senso degli oggetti non qualsiasi sparsi attorno alla parete dove si proiettano i testi.
I suoni percepiti non corrispondono all’idea sonora che abbiamo dell’evento: questa è influenzata principalmente dagli effetti sonori cinematografici, mentre un pugno suona come un accendino che cade in terra, una bomba come una scaffalatura che collassa, uno sparo come pop-corn. A volte le descrizioni dei suoni sembrano distanziarsi tanto dalla loro resa televisiva quanto dall’evento che li ha generati, fino quasi a trasfigurarlo in qualcosa di più innocuo o impossibile: uova o angurie che si rompono, cento pianoforti che urtano il suolo. Tutti gli ex detenuti sussurrano in modo simile tra loro, sanno valutare la distanza da un suono con precisione quasi identica.

Beyrouth 2020. Journal d’un effondrement (Beirut 2020. Diario di un cedimento) è un libro scritto in francese dal libanese Charif Majdalani, il resoconto di un anno di crisi economica e istituzionale, sommosse popolari e pandemia, e il 4 agosto l’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio in un magazzino del porto:

4 agosto Oggi pomeriggio, lo straccivendolo

Questa la pagina del libro. Lo straccivendolo, protagonista di questa pagina sospeso sull’afasia, ne richiama un altro, lo straccivendolo di un film russo, La palma della mano, che all’inizio ha due gambe, poi una gamba sola, poi più nessuna. Nel libro di Majdalani, come con le gambe di questo straccivendolo, il cedimento è graduale e a ogni stadio – l’inflazione, le rivolte, gli scioperi, i rifiuti, il succedersi dei governi, il coronavirus – sembra di sorpassare i limiti del sopportabile, eppure si sopporta, si fa fronte al peggio, e a ciò che segue.
Quel che segue è l’esplosione al porto, che in cinque secondi distrugge duecentomila abitazioni, diecimila negozi, quattro ospedali… Il danno sarebbe stato ancora più grave se non fosse stato per il grande silo del porto la cui mole ha riparato la zona occidentale della città. Un terzo del silo sventrato, in parte bruciato e in parte sprofondato come una torre di Babele, rimane come lo straccivendolo in bilico sul bianco della pagina, monumento al dentro che si fa fuori, al braccio sinistro che diventa braccio destro, alla guancia destra che diventa guancia sinistra, agli occhi al posto degli occhi e alla faccia al posto della faccia, alla presenza e all’assenza che si fanno uno, che si fanno due e nessuna insieme.

La lettera spagnola, di Thomas Wolfe

Mattioli editore, per la traduzione di Silvia Lumaca, porta in libreria questi cinque racconti, ancora inediti in Italia, che vennero pubblicati mentre Thomas Wolfe era ancora in vita; tutti tranne La lettera spagnola, un resoconto autobiografico sulla Germania nazista, apparso per la prima volta negli Stati Uniti nel 1987.

Cattedrale vi propone il racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.


La lettera spagnola

Carissimo amico, che non ho mai visto, mi scrivi in tempi tormentati e fai una domanda che nel mondo, oggi, si fanno tutti. Fai una domanda sulla Spagna. Ebbene, non sono mai stato in Spagna e tuttavia la mia risposta sarà lunga. Ho pensato così spesso alla Spagna, amico caro. Ci ho pensato molto spesso viaggiando con l’anima. E poiché questa Spagna di cui parli è tanto a portata di mano, la mia sarà una risposta lunga. Un poeta ha detto, circa ottant’anni fa, che alla sua morte avrebbero trovato il nome Italia inciso sul suo cuore. Forse, oggi, è lo stesso con la Spagna. Forse ogni uomo che vive ai nostri giorni ha la sua Spagna incisa sul cuore. Comunque, è stato così per me. Così innanzitutto, la mia risposta a te sarà questa: la mia Spagna è qui, nel mondo che ho intorno qui e ora. E avrei dovuto parlarti prima di questa Spagna. Perché ho trentasette anni e anche se vivo in Spagna, non posso più vivere in un castello spagnolo.
La Spagna di cui parli, per quanto lontanissima da tutte le nostre peregrinazioni, è lo stesso facile da capire. E per via di questo voglio rispondere alla tua domanda in modo tanto chiaro e inequivocabile, così che chi legge non avrà mai alcun dubbio su come mi sento e su cosa sto dicendo qui. Quello che sto per dirti è personale, ed è personale perché nessuna opinione che esporrò deriva da qualcosa che ho letto, o da qualcosa che mi è stato suggerito da qualcun altro, o da una qualche influenza intellettuale da parte di amici o colleghi. Deriva, come tutte le convinzioni profonde della mia vita, da quello che ho visto, sentito, pensato, vissuto, sperimentato e scoperto da solo. Mi sembra che sia il modo in cui tutti debbono scoprire le cose e per questo, se quello che un uomo ha scoperto in questo modo può essere di qualche interesse o utilità per te o può sembrarti importante in qualche modo, ecco qui:
Vengo da uno stato del Mid-South, e da quello che credo sia l’elemento più conservatore della vita americana. Tutta la mia famiglia, per quanto sia composta in gran parte da persone di modeste e persino umili origini, era una famiglia che aveva vissuto in questo paese e ne aveva conosciuto il modo di vivere per duecento anni o più, e per quel che so, fino all’ultima generazione, nessuno di loro aveva mai vissuto in una città. Mio padre era un tagliapietre, suo padre un bracciante, la famiglia di mia madre era di gente di montagna: erano tutti, politicamente, socialmente, religiosamente, parte dell’elemento più tradizionale della vita di questo paese; e la mia stessa infanzia, la mia adolescenza, e il primo ingresso nella vita adulta sono trascorsi sotto queste influenze e in queste circostanze.
Quando ho iniziato a scrivere l’ho fatto, come tanti altri giovani, da poeta. Il mio primo libro era un libro sulla vita in una piccola città e sulla gente che vi abitava. Credo che il libro seguisse uno schema piuttosto comune e che il conflitto principale fosse tra un giovane di animo sensibile, e forse qualche talento, e le forze sociali intorno a lui – ossia, la vita in una piccola città e la collisione della sua personalità con questa vita.
La soluzione, o risoluzione, di questo conflitto era anch’essa comune: l’eroe la risolveva scappando, lasciando la comunità e l’ambiente con cui era entrato in conflitto. Come molti altri giovani miei coetanei all’epoca in cui scrissi il libro, che è stato concepito nel 1929, la mia mente, mentre ribollivo di passioni, pensieri, immagini e rapide e penetranti intuizioni, era comunque confusa e tribolata. Ero in conflitto con l’intero inestricabile complesso che univa vita, società e tutto il mondo intorno a me. Stavo cercando di dar forma a uno scopo, di trovare una strada e di capire la mia posizione. Ma come tantissimi altri in quel momento storico, anche se non sconfitto, mi sentivo perduto.
Suppongo che se qualcuno mi avesse interrogato per scoprire cosa pensassi o credessi e, più di tutto, perché volessi scrivere dei libri, avrei detto che scrivevo dei libri perché speravo che un giorno avrei scritto un grande libro, che avrei preferito fare questo più di ogni altra cosa al mondo, che mi sembrava che l’arte fosse la parte più elevata della vita, e che la vita di un artista era la vita migliore, la più elevata che un uomo potesse vivere. In quei giorni avrei potuto persino dire che l’arte era tutto quel che serviva, che bastava la bellezza, nelle parole di William Morris ‘basta l’amore, anche se il mondo intero è in declino’. E penso che sarei stato fortemente in disaccordo con chiunque avesse suggerito che la vita e l’opera di un artista fossero in qualche modo legate ai contesti politici ed economici del suo tempo.
Ora che non mi sento più così, non mi scuserò per essermi sentito in quel modo, né irriderò il mio lavoro di allora, o il lavoro di altri giovani di quel periodo che si sentivano come me e pensavano le cose che pensavo anch’io. Mi sembra naturale e quasi inevitabile che un giovane debba iniziare la sua vita da poeta, che la sua prima rappresentazione della vita, così come viene riflessa nella sua opera, debba essere una rappresentazione personale, e che lui debba vedere la vita e il mondo soprattutto in rapporto all’impatto che questi hanno sulla sua personalità, in rapporto ai suoi conflitti o accordi interiori con la struttura delle cose per come sono. Quanto al modo in cui ci sentivamo o in cui pensavamo di sentirci, riguardo all’arte e all’amore e alla bellezza in quei giorni, e come essi non fossero semplicemente sufficienti, comparati a tutto il resto, ma che tutto il resto delle cose fosse loro alieno e remoto, anche quello, forse, è un modo naturale e forse inevitabile di sentirsi a quell’età. Ed era certamente il risultato dell’educazione, della cultura e delle idee estetiche di quel tempo.
Ma ho scoperto qualcos’altro, almeno per quanto mi riguarda, nei pochi anni appena trascorsi. Ed è questo: non puoi tornare di nuovo a casa – di nuovo alla tua infanzia, di nuovo al padre che hai perso, di nuovo alle consolazioni date dal tempo e dalla memoria – sì, anche di nuovo all’arte e alla bellezza e all’amore. Per me, in ogni modo, adesso è chiaro che essi non sono abbastanza. E non penso che sia un tradimento, ma se lo fosse, ecco…
Ho cominciato a capirlo circa sei o sette anni fa quando vivevo e stavo scrivendo un libro a Brooklyn e da allora l’ho capito sempre di più. Non so quando abbia iniziato esattamente, forse questo tipo di cose non ha un vero e proprio inizio, ma so che un giorno ho ricevuto una lettera da una persona che stava parlando di amore e di arte e di bellezza. Era una buona lettera, ma dopo averla letta, ho guardato fuori dalla finestra e dall’altra parte della strada ho visto un uomo. Stava rovistando a mani nude nella spazzatura in cerca di cibo: ho un’ottima memoria per i posti e le date ed era più o meno a metà dicembre del 1932. E so che da quel momento non ho più provato le stesse cose riguardo all’amore o all’arte o alla bellezza, né ho più pensato che fossero abbastanza.
Questo cambiamento è avvenuto lentamente, perché nonostante il pensare, il sentire, il percepire, persino il lavorare e lo scrivere mi siano sempre arrivati in modo immediato e impetuoso, come sotto l’influsso di una marea furiosa e terribile, la risoluzione delle cose avviene lentissimamente perché, come ho detto, niente mi è di nessuna utilità, come credo a nessun altro, finché non lo capisco personalmente. E io so che non posso tornare di nuovo a casa.
Poi, per quattro anni, ho vissuto e lavorato a Brooklyn, ho lavorato come una locomotiva. Sicuramente non mi facevo vedere granché nei circoli letterari. Ma non penso di essermi perso molto di quello che stava succedendo intorno a me a Brooklyn – che è davvero il mondo o ha dentro il mondo intero – né tra la mia gente giù in North Carolina, nella mia città natale o nel paese preso nel suo complesso. E la ragione per cui credo di non essermi perso granché è perché stavo lavorando tanto duramente. Più di una persona mi ha detto che lavorare a quel modo ti taglia fuori dal mondo. Ma non è vero. Lavorare così è vita e accresce incommensurabilmente il senso e la comprensione della vita. Così, in ogni modo, accadeva a me.
All’inizio del 1935 ho terminato un lavoro molto impegnativo e sono andato all’estero per la prima volta in quattro anni. Sono andato in Germania, perché di tutti i paesi che ho mai visto a esclusione del mio, penso che sia il paese che mi è piaciuto maggiormente e dove mi sono sentito più a casa, e con la sua gente ho provato la simpatia e l’intesa più naturali, immediate e istintive. È anche il paese il cui mistero e la cui magia mi hanno perseguitato di più. Ci avevo ripensato molte volte: dopo la fatica, la furia e la stanchezza di quei quattro anni a Brooklyn, la Germania per me voleva dire pace e relax e felicità e la vecchia magia ancora una volta.
Non ci andavo dall’autunno del 1930. Allora mi ero fermato in una piccola città nella Foresta Nera e c’era una grande eccitazione tra la gente, perché si tenevano le grandi elezioni nazionali. La situazione politica era caotica, c’era un numero sorprendente di partiti politici – più di quaranta milioni di voti, se ricordo bene, vennero espressi nella grande Wahl. Quell’anno i comunisti da soli si erano presi quattro milioni di voti o più.
Stavolta, la cosa era diversa. La Germania era cambiata. Delle persone mi avevano detto che adesso non c’erano più quella confusione e quel caos, perché tutti erano così contenti. E io avrei dovuto esserlo. Perché penso che nessuno sia mai andato in una terra straniera in condizioni più propizie delle mie, nei primi di maggio del 1935.
Si dice che Byron si fosse svegliato una mattina a ventiquattro anni, scoprendosi famoso. Io ho dovuto aspettare dieci anni in più; avevo trentaquattro anni quando ho raggiunto Berlino, ma è stato altrettanto magico. Immagino che non fossi veramente famoso. Ma era altrettanto bello, perché per la prima e ultima volta nella mia vita, mi sentivo come se lo fossi. Mi era arrivata una lettera dall’America che diceva che il mio secondo libro era stato un successo là, e che il mio primo libro era stato tradotto e pubblicato in Germania un anno o due prima. I critici tedeschi avevano detto cose fenomenali al riguardo, il mio nome era noto. Quando sono arrivato a Berlino, mi stavano aspettando.
Era il mese di maggio: lungo le strade, al Tiergarten, nei grandi parchi e lungo la Sprea, gli alberi di ippocastano erano in fiore. Grandi folle passeggiavano per il Kurfürstendamm, le terrazze dei caffè erano piene di gente, e sempre, nello scintillio dorato dei giorni, c’era il suono di una musica nell’aria, lo schiocco liquido degli stivali di pelle sulle strade, quando con la precisione del passo dell’oca, arrivavano gli uomini in uniforme. Ci sono così tante catene di laghi deliziosi intorno a Berlino e io scoprivo per la prima volta il bel bronzo dorato che corona gli alti fusti degli alberi di pino: prima avevo conosciuto soltanto il Sud, l’isola nel Reno e la Baviera. Ora Brooklyn, e i quattro anni di duro lavoro, e l’uomo che frugava nella spazzatura e il ricordo del brutto tempo, erano lontanissimi.
Per una settimana è stato glorioso. Penso che, in un certo modo, legassi l’immagine del mio successo – questo rilassarmi gioioso dopo quattro anni di duro lavoro e disperazione, col mese di maggio, con gli alberi di pino e le grandi folle che riempivano il Kurfürstendamm e tutto quel cantare dorato che c’era nell’aria – con la sensazione che per tutti il brutto tempo fosse finito ed erano tornati i giorni lieti.
Avevo sentito alcune cose spiacevoli, ma al momento non riuscivo a vederle. Non vedevo picchiare nessuno, o imprigionare nessuno o condannare a morte nessuno, non vedevo nessuno di quegli uomini nei campi di concentramento, non vedevo apertamente da nessuna parte le manifestazioni fisiche di una forza brutale e compulsiva. È vero che, dappertutto, c’erano uomini in camicia bruna, c’erano uomini con gli stivali di pelle e le uniformi nere, o in uniformi verde oliva ovunque e attorno a tutti; è vero che ovunque tra la gente, nelle grandi strade, si sentiva lo schiocco liquido dei piedi negli stivali, lo strombettio dell’ottone, il soffiare del fiffaro, e ovunque era impresso il ricordo di giovani volti adombrati dagli elmetti di ferro, con le mani incrociate e i portafucili sulla schiena, seduti composti in grossi camion militari.
Ma tutto questo era mischiato col mese di maggio e gli alberi di ippocastano e i grandi caffè del Kurfürstendamm e il carattere cordiale della gente in vacanza, come avevo visto e conosciuto prima tante altre volte e, sebbene tutto questo adesso non sembrasse molto positivo, non sembrava neppure sinistro o negativo.
Poi era successo qualcosa. Non all’improvviso. È successo come quando in cielo si ammassano le nubi o come quando arriva la nebbia e inizia a piovere.
Qualcuno che avevo conosciuto dava una festa per me e mi chiese se desiderassi invitare alcune delle persone con cui ero in contatto. Ne avevo nominata una. Era rimasto in silenzio per un po’, sembrava in imbarazzo: poi mi aveva detto che la persona che avevo nominato era stata direttore editoriale di una pubblicazione che era stata soppressa, e che una delle persone che avevano favorito questa soppressione era invitata al party, così potevo scusarlo se…?
Ne avevo nominata un’altra e di nuovo la pausa ansiosa, l’imbarazzo, il silenzio penoso. Questa persona era… era… be’, conosceva questa persona e sapeva che non andava alle feste, non sarebbe venuta se l’avessimo invitata, così potevo scusarlo se…? Ne ho nominata un’altra, una donna che avevo conosciuto, che mi era piaciuta. Ancora la pausa ansiosa, il silenzio penoso. Da quanto tempo la conoscevo? Dove l’avevo incontrata, in che circostanze?
Avevo cercato di rassicurare il mio ospite su tutti questi punti. Gli avevo detto di non avere timori riguardo a questa donna. Era stato rapidissimo, immediato, nel porgere le sue scuse… oh, certo, indubbiamente: era sicuro che la donna fosse perfettamente a posto… solo che di questi tempi… in un gruppo così eterogeneo… aveva cercato di scegliere un insieme di persone che io avevo conosciuto e che mi piacevano, e che si conoscessero tra loro… gli estranei alle feste spesso sono intimiditi, si sentono costretti, si comportano in modo formale… così potevo scusarlo se…?
Un amico era venuto a trovarmi: “Fra qualche giorno” aveva detto, “riceverai una telefonata da una certa persona. Proverà a incontrarti, a parlare con te. Non averci niente a che fare. Il suo nome è —.” Quando gli avevo chiesto perché quest’uomo avrebbe voluto incontrarmi, non mi aveva risposto, aveva solo bofonchiato: “È una persona cattiva. Abbiamo un nome per lui: è ‘Principe delle tenebre’.” Dopo pochi giorni, l’uomo in questione mi aveva chiamato e voleva incontrarmi. Vorrei che tutto questo fosse tanto ridicolo e melodrammatico come sembrerebbe essere. Ma la tragedia è che non è così.
Non che fosse una questione politica. Non sto cercando di suggerire che lo fosse. Le sue radici erano ancora più sinistre e profonde e malvagie, e nel complesso delle loro tragiche implicazioni avevano una portata molto più ampia di quanto potranno mai coprire sia la politica che il pregiudizio razziale. Per la prima volta nella mia vita mi trovavo davanti a qualcosa di sconosciuto – qualcosa che faceva sì che tutta la violenza dinamica e le passioni dell’America, le squadre di gangster, gli omicidi a bruciapelo, tutta la confusione, la durezza e la corruzione che infettano tante parti della nostra vita, sembrassero a confronto cosucce innocenti. E questo era il ritratto di un grande popolo che era malato nell’anima e ferito nel corpo: che era stato avvelenato dal morbo di una paura onnipresente, dalla pressione di una compulsione ignobile e continua, che i tedeschi avevano nascosto dietro un riserbo maligno e soffocante, fino a che la loro anima era letteralmente affogata nelle loro stesse secrezioni, e ora morivano sotto il distillìo del loro stesso veleno, per cui non c’era più cura né sollievo.
Può qualcuno essere tanto vile da gioire di questa immensa tragedia – una tragedia che oggi condividiamo tutti – o provare odio per il grande e valoroso popolo che ne è stato la vittima? Culturalmente, mi sembra, che dal Diciottesimo secolo in avanti, i tedeschi siano stati i primi cittadini d’Europa. In Goethe si è mostrata in maniera sublimemente articolata l’espressione di un mondo che non conosceva barriere etniche, o di colore, o di religione, che esultava dell’eredità di tutto il genere umano, e non cercava di dominare o di conquistare questa eredità, eccetto per la coscienza che aveva del proprio contributo personale e della propria partecipazione in essa.
Dal Diciottesimo secolo, in un continuum lineare ininterrotto fino ai nostri giorni, quello spirito è proseguito, nell’arte, nella letteratura, nella musica e nella filosofia, fino a che oggi, al mondo, non esiste uomo né donna che non siano in un modo o nell’altro più ricchi per merito suo. Quando ho visitato per la prima volta la Germania, nel 1926, le manifestazioni di questo spirito erano ovunque, anche nelle maniere più chiare e inequivocabili. Uno non poteva passare, per esempio, davanti alla ricca vetrina di una libreria in una qualunque città tedesca, senza notare all’istante la straripante manifestazione dell’entusiasmo intellettuale e culturale del popolo tedesco. Ora che è montata l’indignazione del mondo, è troppo facile ridicolizzare queste cose come manifestazioni della pesantezza teutonica, del pedagogismo prussiano, l’ennesima prova della gravezza senza immaginazione del loro carattere. Ma la semplice e cruda verità è che era una cosa magnifica e nobile e, senza voler fare un paragone invidioso, un attento esame del contenuto di una libreria tedesca o di una sua vetrina, avrebbe rivelato un’ampiezza di visione, un interesse verso la produzione culturale del mondo intero, che avrebbero fatto scomparire, al confronto, qualsiasi libreria francese con tutte le sue costrizioni linguistiche e geografiche.
In Germania, i migliori scrittori di ogni nazione d’Europa erano tanto conosciuti quanto nella propria. Il nome di certi americani come Theodor Dreiser, Sinclair Lewis, Upton Sinclair, Jack London, non solo erano molto conosciuti, ma i loro libri erano venduti e letti dappertutto, in ogni angolo del paese; e il lavoro dei nostri giovani scrittori era accolto, pubblicato, letto e giudicato con fervente passione, come capitava al lavoro degli scrittori di ogni parte del mondo.
parte del mondo. Anche nel 1935 quando, dopo un’assenza di quasi cinque anni, ho visitato di nuovo la Germania, e per la prima volta sotto il regime di Adolph Hitler, le manifestazioni di questo nobile entusiasmo, ora mutilato e sommerso, erano visibili nella maniera più toccante. È stato detto da alcuni che in Germania non si pubblicano più buoni libri, perché i buoni libri non possono essere più pubblicati né letti. Questo non è vero, come non sono vere tante cose che si leggono oggi sulla Germania. E oggi, sulla Germania, è nostro dovere dire la verità. E il motivo per cui dobbiamo dire la verità è che la cosa contro cui ci battiamo è falsa: non possiamo porgere l’altra guancia a ciò che è errato, ma non possiamo neppure sbagliarci contro chi sbaglia. Non possiamo far incontrare sbaglio con sbaglio: dobbiamo essere esatti in merito. E non possiamo far incontrare bugie e falsità con altre bugie e altre falsità, anche se c’è chi dice che dovremmo. Così non è vero che i buoni libri non possono più essere pubblicati in Germania. E visto che non è vero, la tragedia della Germania – e la sopravvivenza del grande spirito tedesco – anche nei modi subdoli e deviati in cui si manifesta adesso, è ancora più commoventemente evidente di quanto non sarebbe se fosse vero. I buoni libri si pubblicano ancora se la sostanza e la materia del libro non mettono in discussione o non criticano, apertamente o per implicazione, il regime attuale. Sarebbe stupido e insensato affermare che ogni buon libro dovrebbe mettere in discussione o criticare il regime attuale, solo perché è un buon libro.
Per tutte queste ragioni, la fervente passione, la curiosità, e l’entusiasmo dei tedeschi nei confronti dei libri che è ancora possibile leggere, si sono, semmai, commoventemente accresciuti. La passione che hanno di scoprire cosa succede nel mondo, che cosa viene scritto e pubblicato fuori dalla Germania, l’entusiasmo generoso per gli scritti americani che gli è ancora permesso leggere, è tanto straripante quanto patetico. Si potrebbe paragonare la sopravvivenza dello spirito tedesco, in queste condizioni, a quella di un uomo che sta morendo di sete in un arido deserto e inghiotte con avidità il contenuto di una sacca d’acqua, o a quella di un uomo che sta affogando e si aggrappa disperato al pennone galleggiante della sua nave naufragata.
Tutt’intorno a me, mentre trascorrevano quella primavera e quell’estate del 1935, vedevo i segni di questa dissoluzione, di questo naufragio di un grande spirito, di questo veleno miasmatico che affondava come nebbia pestilenziale nell’aria stessa, corrompendo, ammorbando, corrodendo col suo tocco abrasivo, grazie alla paura, alla pressione, alla soppressione, alla diffidenza patologica, al disagio spirituale, le vite di chiunque conoscessi. Era, e lo era dappertutto, invisibile come la peste, inequivocabile come la morte: affondava dentro di me, attraverso tutto il canto dorato di quel maggio, fino a che l’ho sentita, l’ho respirata, l’ho vissuta, e la conoscevo per quel che era. Sono tornato ancora in Germania, forse per l’ultima volta in cui mi sarà permesso visitare quella magica terra, nel 1936.
Questa volta, il benvenuto che ho ricevuto è stato persino maggiore di quello dell’anno prima. Il mio secondo libro era appena stato pubblicato; aveva avuto un’ottima accoglienza: adesso ovunque andassi c’erano persone che conoscevano il mio lavoro. Ma qualcosa per me era sparito dalla vita.
Era la stagione dei grandi Giochi olimpici e ogni giorno andavo allo stadio di Berlino. E proprio come quell’anno di assenza aveva segnato la manifestazione di una crudele e progressiva dissoluzione nella vita di tutte le persone che conoscevo, aveva anche segnato la manifestazione schiacciante di una concentrazione accresciuta, di un’organizzazione strabiliante, di un’incredibile capacità di ordinare e mettere insieme nel vasto potere collettivo dell’intera nazione. E come se questi Giochi fossero stati scelti a simbolo di questo nuovo potere collettivo, come mezzo per mostrare al mondo in termini concreti che cosa fosse diventato questo potere, sembrava che ogni sforzo e ogni energia della nazione fossero stati radunati e disciplinati allo scopo. È probabile che, in tempi moderni, non ci sia mai stata manifestazione più grandiosa: i Giochi non erano più Giochi, non erano più una serie di esercizi competitivi ai quali le nazioni del mondo avevano mandato a partecipare le loro squadre. I Giochi erano una disciplinata e soverchiante dimostrazione di forza, a cui l’intera nazione era stata addestrata e a cui l’intera nazione prendeva parte.
Chi ha assistito a questa dimostrazione non potrà mai dimenticarla. Nella smodata sfarzosità dell’evento, i Giochi stessi sono stati messi in ombra. Ma la grande capacità organizzativa e il genio del popolo tedesco che erano stati impiegati così spesso per fini tanto nobili, non si erano mai dispiegati in modo così dirompente come allora. Non c’era mai stata, nell’intera storia dei Giochi, una preparazione tanto completa e perfetta, e una disciplina tanto calma e ordinata.
Senza alcuna esperienza pregressa, il popolo tedesco ha costruito uno stadio imponente che non è solo il più bello, ma il più perfetto per progetto e funzionalità di quello che, in tempi moderni, abbiano progettato in ogni altra nazione.
E tutti gli elementi annessi a questo grande impianto – le piscine, le grandi sale e gli stadi più piccoli – sono stati tutti pensati e progettati con la stessa fusione di bellezza e funzionalità.
L’organizzazione era superba. Giorno dopo giorno immense folle, che nessun’altra città aveva mai dovuto gestire in tempi moderni, e che avrebbero certamente congestionato e sconvolto il traffico di New York e tutti i suoi mezzi di trasporto, erano coordinate con una calma, un ordine e una rapidità sorprendenti.
Lo spettacolo quotidiano era soverchiante nella sua bellezza e magnificenza. Da un capo all’altro di Berlino, dal Lustgarten alla Brandenburger Tor, lungo l’intero e ampio snodo dell’Unter den Linden, attraverso le larghe strade e i boulevard del verde e fatato Tiergarten, fino al grande Ovest di Berlino e ai veri e propri portali dello stadio, la città era uno sfavillante sfoggio di striscioni reali – non semplicemente delle file infinite di bandierine intrecciate, ma striscioni alti quindici metri, come avrebbe meritato la tenda da campo di un grande imperatore. Era un torneo sfavillante di colori che mi prendeva la gola, e che, nel suo splendore ammassato e nella sua dignità magnificente, faceva sì che tutte le decorazioni gaudenti delle nostre World Fair, le nostre inaugurazioni, le nostre grandi parate, sembrassero, al confronto, il dispiegarsi di un ridicolo carnevale.
E per tutto il giorno, a partire dal mattino, Berlino diventava un possente Orecchio, intonato, attento, focalizzato, sullo stadio. Da un margine all’altro della città, l’aria diventava una sola voce. I verdi alberi del Kurfürstendamm avevano cominciato a parlare: oltre l’aria cieca, nascosta dentro diecimila alberi, una voce parlava dallo stadio per quattro milioni di persone – e per la prima volta nella sua vita, un orecchio yankee viveva la strana avventura di sentire i termini familiari dell’atletica leggera tradotti nella lingua di Goethe. Adesso sapeva che Vorflauf voleva dire corsa – e poi lo Zwischenlauf – infine l’Endlauf – e il vincitore: Owens – Oo - Ess - Ah.
Nel frattempo, lungo tutte quelle strade sfavillanti di striscioni, le folle si accalcavano senza sosta per l’intera giornata. Da cima a fondo, la vasta promenade dell’Unter den Linden era gremita di un’orda innumerevole di mobili e pazienti piedi tedeschi. Padri, madri, figli, giovani, vecchi, tutta la fibra della nazione era lì, da ogni angolo del paese: camminava faticosamente, gli occhi sbarrati, carichi di meraviglia, passava sotto il prodigio di quelle strade ricoperte di infiniti striscioni, dalla mattina alla sera.
E nel frattempo, vedevi brillare le facce straniere: i tratti ombrosi dei francesi e degli italiani, lo sdegno eburneo dei giapponesi, i capelli chiari e gli occhi azzurri degli svedesi, i luminosi accessi di colore delle casacche olimpiche, i grossi americani, eleganti nei loro cappelli di paglia, le casacche blu sormontate dal sigillo olimpico e la flanella bianca, e le squadre delle altre nazioni, coi loro colori gioiosi e ricercati.
E c’era un gran dispiegamento di uomini in marcia, a volte disarmati e sempre a ritmo, enormi reggimenti di camicie brune che ondeggiavano lungo le strade; e ancora, a loro agio, giovanotti che ridevano, parlavano tra loro, le lunghe file dei guardaspalle di Hitler, con le uniformi nere e gli stivali di pelle, gli uomini delle Schutzstaffel, si dispiegavano in file ininterrotte dalla casa del Leader in Wilhelmstrasse fino agli archi della Brandenburg Tor; poi, d’improvviso, arrivava il secco comando, e all’istante, in maniera indimenticabile, lo schiocco liquido di diecimila piedi nei loro stivali di pelle partivano insieme col suono della guerra.
Per mezzogiorno, tutte le maggiori vie di accesso ai Giochi, quelle strade incantate che il Leader stesso avrebbe percorso da Wilhelmstrasse fino all’immenso stadio, erano tappezzate di truppe, dietro le quali aspettavano le pazienti, fitte, incredibili masse, giorno dopo giorno.
E se dentro lo stadio era un miracolo di colori, struttura, progetto e pianificazione, il fuori, con le enormi masse di persone che aspettavano e aspettavano, era qualcosa di incancellabile dalla memoria. Tutto era stato plasmato e pianificato per questo scopo trionfale, forse; ma la gente – non era stata pianificata. Stavano là e aspettavano, giorno dopo giorno – i poveri della terra, gli umili della vita, gli operai con le mogli, le madri e i figli della nazione. Erano là perché non avevano abbastanza soldi per comprarsi il magico cartoncino quadrato che avrebbe dato loro un posto dentro l’anello magico. Erano là con un unico scopo – aspettare dal mattino alla sera i due soli brevi e gloriosi momenti della giornata: l’attimo in cui il Leader arrivava, e l’attimo in cui se ne andava. Alla fine era arrivato: e qualcosa come un vento su un prato d’erba, si agitò tra la folla, e da lontano la marea saliva insieme a lui che custodiva la speranza, la voce, la preghiera della nazione. E Hitler passava, lentamente, in un’automobile scintillante, eretto, immobile, senza sorridere, con la mano alzata, il palmo aperto, non nell’esatto saluto nazista, ma a palmo alzato, con una sacralità e dei gesti come quelli che usano i Buddha e i messia.

Santi numi, due racconti di Jacopo Masini

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Exorma editore porta in libreria Santi numi è una raccolta di vite di santi ma immaginari: santi che vengono prelevati in qualche modo dalla tradizione apologetica dei profeti e riportati alla nostra epoca.
Dodici racconti lunghi e altri brevi fanno diventare santi e beati gente di paese, uomini e donne vissuti nella valle del Po non si sa se per davvero o per finta. Ma qualcuno possiede un sistema infallibile per separare il vero dal falso?

Cattedrale vi propone due estratti del libro, per gentile concessione dell’editore.


di Jacopo Masini


Fatti e miracoli della pianura
 

Non è forse un caso se nessuno ha mai raccontato prima le vite raccolte di seguito.
Si tratta, infatti, delle vite di donne e uomini che, secondo le cronache e i testimoni dell’epoca, giunsero a una loro speciale forma di beatitudine e persino di santità, quasi completamente misconosciuta e, in alcuni casi, del tutto priva di senso.
Ma, a parte tutte queste faccende preliminari, che nelle raccolte di vite ci sono sempre, qui si tratta appunto di isolare un certo numero di vite, un certo pezzo di terra che chiamiamo Pianura Padana, certi fatti notevoli che ciascuno interpreterà a modo proprio, e una speciale intenzione in cui non è facile discernere e separare il vero dal falso.
D’altra parte, qualcuno possiede un sistema infallibile per separare il vero dal falso? Non è forse, sempre, alla fine, una questione di fede? Credere o non credere a un racconto dipende dalla fede che prestiamo alla voce e all’autorevolezza di colui o di coloro che ce lo raccontano.
Dal momento che non avrete modo di sapere con certezza se colui o coloro che hanno raccontato le storie, i fatti e i miracoli raccolti di seguito fossero o meno attendibili, non vi rimane che fare una cosa: fidarvi.
Oppure, non fidarvi. Non importa. Fidarsi o non fidarsi sono la stessa cosa, di fronte al mistero insondabile di un certo numero di vite, di un certo pezzo di terra che chiamiamo Pianura Padana e di un certo numero di fatti notevoli che diventano veri nel momento in cui vengono letti. Veri in un particolare significato che possiamo attribuire alla parola verità: si realizzano nella nostra immaginazione, una volta che li abbiamo ascoltati o letti.
Non è andata sempre così, in fondo?
E dunque, non è forse un caso se nessuno ha mai raccontato prima le vite raccolte di seguito. Nessuno lo aveva fatto, perché prima che fossero raccontate non esistevano. Così come accade sempre, da migliaia di anni, con qualunque vita, reale o immaginaria.
Queste sono vite particolari, di un luogo particolare e non c’è altro da aggiungere. Se non che sono tutte vere e quindi tutte inventate.

 

 

San Wagner Lusuardi da Fabbrico

Una mattina di giugno del 1981, Iames Cavazzoni sentì un lamento provenire da un fosso, mentre era in bicicletta nella campagna di Fabbrico. Si fermò, posò la bicicletta accanto al fosso, si chinò, porse l’orecchio e il lamento si trasformò nel pianto di un bambino, così Iames Cavazzoni si avvicinò ancora di più per scoprire il punto preciso, ma in quell’istante dall’acqua del fosso scattò un enorme rospo che, con una sola boccata, gli inghiottì la testa.
Dopo un paio di minuti per la strada passarono Wagner Lusuardi col figlio Marcello a bordo di un trattore Landini e videro per prima cosa il culo per aria di Iames Cavazzoni che si dimenava, poi la schiena, poi l’enorme rospo che aveva inghiottito la testa di Iames.
Marcello Lusuardi gridò – Un drago – ma suo padre Wagner disse – Ma che drago, semo. Vedi mica che è un rospo? – poi scese dal trattore, staccò dalla fiancata una pala e andò verso l’anfibio, che lo fissava con gli occhi a palla molto intimorito, e gli piantò una palata sulla schiena che lo uccise sul colpo, per poi liberare la testa di Iames Cavazzoni, che era privo di sensi e pieno di bava nei capelli e in tutta la faccia.
Arrivò l’ambulanza, i Lusuardi tornarono in paese e al bar della Bice di piazza Roma, che in realtà era una via, ma a Fabbrico tutti la chiamavano piazza, si diffuse la voce che Wagner Lusuardi aveva ucciso un drago e salvato la vita di un certo Iames Cavazzoni, per via che Marcello aveva iniziato a dire:
– Mio padre ha ucciso un drago – anche se Wagner Lusuardi rispondeva – Era un rospo, semo.
– No, un drago!
– Ma che drago, semo. Hai mai visto un drago nei fossi?
Fatto sta che da allora il 3 giugno si festeggia la festa del secondo patrono di Fabbrico, che viene associato nell’iconografia a san Giorgio che uccide il drago a cavallo, ma in questo caso è san Wagner che uccide un drago molto simile a un rospo, brandendo una pala a bordo del suo trattore Landini.
Una immagine molto suggestiva, che il pittore Ioris Sberveglieri ha immortalato in un dipinto appeso nel bar della Bice.

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Bruco, di Giacomo Sartori

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Exorma pubblica Animali non addomesticalbili, un libro in cui tre scrittori provano a restituire la voce a quei viventi che spesso certa tradizione letteraria rappresenta riduttivamente a nostra immagine e somiglianza attribuendogli solo i nostri sentimenti elementari. Nei racconti di Giacomo Sartori, Paolo Morelli, Marino Magliani e Paolo Albani, gli animali parlano; hanno tutti una grande propensione alla parola. Tanti sono gli animali che hanno già parlato nei miti, nelle stanze dei bestiari di tutti i tempi, nelle tradizionali messe in scena della letteratura, nelle favole, riallestiti in forme ibride, corpi di bestia e sentimenti domestici e scarni, del tutto umani. Questa volta ci chiedono di riconvertire il nostro immaginario: può capitare, ascoltandoli, che non siano loro a umanizzarsi, ma piuttosto sia l’uomo-che-legge a caninizzarsi, dromedarizzarsi, corvinizzarsi, vedovanerizzarsi, rinnovando un patto di alleanza con una parte selvatica, ineludibile e salvifica della propria umanità e un patto di sangue con la vita diversa dalla nostra.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

Bruco

di Giacomo Sartori


Tanti sforzi, per poi ritrovarsi sfiniti qualche tronco più in là: davanti un mare sconfinato di foglie, dietro idem. Ogni tanto ti verrebbe da dirti io mi fermo qui, succeda quello che succeda. Almeno le giornate fossero più corte, invece hai sempre l’impressione che l’ora di smettere di scarpinare non arriverà mai. Cosa daresti in quei frangenti per essere uno di quei pennuti che fanno le giravolte nell’aria con un fruscio di foglie prima di un temporale, sempre pronti a scendere in picchiata a divorare noi poveri diavoli. O uno di quei mastodontici bestioni con quattro zampe lunghe come pertiche, con sulla capoccia due antennacce che paiono rami, e che se ne vanno in giro impettiti, pieni fino all’orlo di se stessi. Noi invece siamo fatti così: piccolini, grigi, con delle zampette da nulla, poco più che delle ventose. Sempre meglio dei vermetti che non hanno nemmeno quelle, intendiamoci. Voglio vederti a ogni passo inarcare il dorso a U, e poi a raddrizzarlo come un ramettino. Si immagini il dispendio di energie, gli effetti sulla digestione, il mal di schiena alla fine della giornata.
Un mio amico sostiene che il nostro stato è transitorio, poi ci trasformeremo in qualcos’altro.
«Ma sei cretino?» gli ho domandato la prima volta che mi ha esposto questa sua bislacca teoria. Eravamo ancora molto piccoli, saranno stati quattro o cinque giorni fa. «Io me lo sento, non ho alcun dubbio» mi ha risposto lui, guardando ispirato nel vuoto.
«Smetti di prendermi in giro» ho tagliato corto io. Sta di fatto che – forse proprio a causa del tono vibrante, quasi profetico – ancora adesso le sue parole mi risuonano nelle antenne, come se le avesse appena pronunciate.
È un tipo un po’ strano, però è anche molto intelligente, lo riconoscono tutti. Il suo sogno sarebbe inventare un sistema che consentisse anche a noi di volare. Prima però andrebbe escogitato un metodo per fissare bene le idee, dice sempre. A memoria si rimane troppo sul vago, e c’è sempre il rischio di dimenticare tutto durante la notte, di dover ricominciare ogni mattino da capo. Senza contare che spieghi a qualcuno una cosa e quello capisce tutt’altro, non c’è mai il verso di intendersi davvero. Ci vorrebbe invece una trovata per cristallizzare i concetti e ogni infimo dettaglio, per rendere le idee chiare, definitive, alla portata di tutti. Qualcosa come le tracce che restano nella polvere: uno vede le impronte, e dal loro andamento capisce senza possibilità di sbagliarsi l’umore di chi le ha lasciate: cosa voleva dire, in fondo. Ne abbiamo riparlato spesso di quella sua fissa della reincarnazione, mano a mano che crescevamo. Io continuo a fare lo scettico, ma in realtà ha finito quasi per convincermi.
«Ecco così diventeremo» ha sentenziato una volta, indicando col mento un animale con due ali finissime e colorate. Lì per lì davvero mi è sembrato che avesse in comune qualcosa con noi, quell’elegantona. E che ci guardasse anzi con occhi condiscendenti, manco la sapesse lunga sul nostro conto. Suggestione, verosimilmente. Eppure da quel momento mi sento un prurito sul dorso come di ali che spuntano. E qualche volta addirittura una smania di buttarmi nel vuoto: di volare, mi verrebbe quasi da dire. A lui non dico niente, perché vanitoso com’è camminerebbe a venti millimetri dalle foglie.
Certo però che è bello cullarsi nell’idea che un domani saremo anche noi delle bellezze colorate, libere di volteggiare dove più ci pare e piace, di fare lo slalom tra i fiori, di giocare col vento, di posarci con nonchalance su una spiga, su una foglia galleggiante. Con le ali perfettamente appaiate, inappuntabilmente verticali, coloratissime, splendide. Senza il pericolo di essere guardati con sdegno da uno di quegli antipatici animali che scricchiolano tutta la notte, e men che meno di ritrovarci da un momento all’altro nella pancia di qualche scaltro pennuto. La tua vita rimane uguale identica, intendiamoci: cammini, mangi, ti guardi attorno, chiacchieri, mediti su questo o su quello, cammini ancora, aspettando che arrivi finalmente la notte. Però fai le cose più volentieri, ti senti meno inquieto, più in pace con te stesso. Forse perché noi a differenza di altri esseri viventi non abbiamo genitori, nasciamo da uova capitate lì chissà come. E allora per tutta la vita ci sentiamo un po’ orfani: ci sembra sempre che la nostra esistenza sia inutile, che manchi uno scopo. Per questo qualche volta siamo malinconici, per questo interroghiamo sempre il blu del cielo.

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Le cose, di Christian Raimo

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Da Luglio, trovate in libreria La vita che verrà, di Christian Raimo, pubblicato da minimum fax. Un’antologia nella quale l’autore ha raccolto il meglio della sua produzione breve, partendo da Latte, la prima raccolta uscita nel 2001, per arrivare a «Bifida» del 2018. Storie di tradimenti, passioni, errori che possono costare caro; storie di persone fragili, instabili, sempre sul punto di cadere. Ma anche pronte a riconoscersi l’una con l’altra come amanti, fratelli, simili, alle prese con la loro occupazione più importante: la vita, sempre la vita.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nell’antologia, per gentile concessione dell’editore.


Le cose

Christian Raimo

Da quando mi sono sposato, nel 1992, mi è successo di dormire con altre donne, di starci, di tradire mia moglie insomma, soltanto un paio di volte: la prima risale a una decina di anni fa, durante un periodo oscuro che nella mia testa e forse anche nei fatti coincide con la presunta, o anche reale, malattia di nostro figlio Edoardo, che per un anno intero – prima che gli fosse accertata una forma rara ma piuttosto innocua di artrite reumatoide – fece dentro e fuori dagli ospedali tra esami invasivi, diagnosi allarmistiche e cure sbagliate. Al tempo dimagrii di una ventina di chili, per la tensione, la fatica o semplicemente per l’osmosi del morbo immaginario, e – in nome di qualche tipo di compensazione, credo – alla fine di tutto, come per respirare dopo essere stato troppo tempo sott’acqua, non feci molto per evitare una storia abbastanza dimenticabile con una donna che già allora non consideravo neanche bella, una nostra amica delle vacanze estive, capace però di rimanere in silenzio, in mia presenza, quasi incantata, per ore.

La seconda volta, la seconda volta che mi sono ritrovato a svegliarmi accanto a una persona diversa da mia moglie, con un odore diverso, un diverso modo di tenere la bocca semiaperta nel sonno, e questa volta senza provare l’ottuso disagio del post-tradimento, è cominciata lo scorso febbraio, una sera che ritornavo verso casa in scooter e fui sorpreso da uno di quei nubifragi che da un momento all’altro sembrano poter distruggere per intero, e ricreare dal giorno alla notte, Roma, rovine imperiali e palazzi umbertini compresi, spazzando via in un colpo gli alberi secolari e gli insetti effimeri. Mi riparai in un baretto squallido vicino alla stazione dismessa di via della Serenissima, dove – mentre guardavo fuori aspettando che spiovesse e non spioveva – entrò una ragazza, alta, allampanata, androgina senza volerlo, con una somiglianza che lì per lì mi venne immediata con l’attrice canadese Marie-Josée Croze, o meglio con il suo personaggio nelle Invasioni barbariche di Denys Arcand – la nipote sfaccendata, tossica, che fa le iniezioni di eroina al protagonista, il professore malato di tumore. Era talmente fradicia, lei, questa ragazza, colante acqua, che la proprietaria del bar le offrì subito un asciugamano e quindi un phon. Ma appena lei lo attaccò alla presa, come per un incantesimo al contrario, il sovraccarico elettrico fece saltare la corrente, e lei cacciò un urlo, si lasciò prendere da un panico inatteso per il buio, cominciò a strillare e ad agitarsi come in preda alle convulsioni, cercando a tentoni qualcuno che le stesse vicino, aggrappandosi con le unghie alla mia giacca, finché le iniziò a uscire il sangue dal naso, e mi parve sul punto di svenire. Ma andò avanti così per un bel pezzo; mentre io, con i piedi piantati nell’areola di luce intermittente che si formava sul pavimento attraverso i riflessi dei fari delle macchine, tentavo di sorreggerla in modo che non sbattesse la testa, e nel frattempo le sbirciavo da vicino gli occhi e la bocca in questa serie di tenui flash improvvisati.
Quando poi si calmò, quando anche la burrasca si placò, quando la proprietaria riuscì a ripristinare la corrente, mi convinsi, e convinsi lei, ad accompagnarla al pronto soccorso del Nuovo Regina Margherita, non lontano da lì, dove la trattennero una notte per sottoporla a una tac e da dove il giorno dopo mi chiamò per ringraziarmi e offrirmi un biglietto per lo spettacolo teatrale di un suo amico. Io non dissi no, e cominciammo a vederci.
Dovrei dire di avere passato lo scorso inverno, e la primavera, metà dell’estate, e l’autunno, vivendo una doppia vita, mistificando la realtà, ma non sarei esatto se descrivessi la cosa in questi termini. Perché dovrei parlare piuttosto di sovrapposizioni, di coincidenze che non credo vadano interpretate, come per esempio il fatto che questa ragazza si chiami Daniela, ossia come mia moglie; e dovrei – finendo coll’essere sincero – confessare che quello appena passato è stato un anno piuttosto felice: con mia moglie abbiamo deciso (o meglio: lei si è messa in testa, e io l’ho assecondata) di avere un altro figlio, di sfidare, a quarantasette anni, i consigli di amici e parenti, e di occuparci della buona salute dei miei spermicini e dei suoi ormoni follicolo-stimolanti, di quelli luteinizzanti e degli estradioli.
E questo è avvenuto contemporaneamente, contestualmente direi, a quello che mi pare essere stato un mio personale cammino di formazione che avevo rimandato per chissà quanto tempo e che invece soltanto con Daniela, la ragazza Daniela, con lei, attraverso di lei, ho cominciato a compiere. Non potendoci vedere mai di sera, gli appuntamenti che ci davamo si dovevano, per forza di cose, reggere sempre su una dose auto-alimentata di invenzione, di improvvisazione, di incitamento reciproco. Si trattava quindi di vagare per mostre, di imbucarsi alle matinée cinematografiche per la stampa con gli inviti che lei riusciva a rimediare da una sua amica che lavora in una produzione, di frequentare addirittura alcune lezioni di filosofia o di letteratura all’università, e – con una fascinazione tacitamente condivisa da subito da entrambi – di scovare motel desolati vicino il Raccordo o quelli, ancora più pulciosi, a ore che si trovano nelle stradine incrociate tutt’intorno alla stazione Termini.
Proprio mentre eravamo in una delle stanze di questi motel, qualche mese fa, è accaduto – ed è il fulcro del racconto che vi sto facendo – l’episodio che ha rimesso in gioco la mia percezione della realtà. Steso sul letto, annullato dal caldo, dalla narcosi post-coito e dall’aria satura di tutta l’anidride che avevamo buttato fuori nei nostri abbracci, avevo acceso distrattamente la televisione, dopo che Daniela si era addormentata, stanca e cancellata più di me per aver finito di dichiararmi quello che per mesi avevo temuto sarebbe arrivata a dirmi: non soltanto si era innamorata di me, ma era incinta – e le due cose, secondo il suo punto di vista, erano in inscindibile relazione. Nella camera anossica che era diventata adesso la stanza, il televisore a quindici pollici piazzato in alto illuminava il pulviscolo atmosferico con una radiazione celestina; ed era possibile seguire, mantenendo uno sguardo incantato o ebete, questi minuscoli pollini che precipitavano verso il basso senza mai effettivamente sparire, in un vortice rallentato, come un cuore che – senza aver dato nessun preavviso – decelera sempre più. Dentro il televisore, un conduttore dall’aria femminea al telegiornale parlava del delitto avvenuto il giorno prima, due giorni prima, a Tor Marancia, già definendolo ad uso degli spettatori «il delitto di Tor Marancia»: una ragazza, una ragazza di ventott’anni era accusata di aver ucciso la sua coinquilina per la quale – stando a varie dichiarazioni concordanti – pare avesse un’infatuazione da tempo, solo parzialmente ricambiata. Mostravano in tv, in una specie di show-reel con un commento musicale lugubre sotto, le immagini della presunta, quasi certa, assassina, raccolte da foto di famiglia... di amici... da blog... da Facebook... dal dovunque che ognuno sparge di sé nel mondo; ed erano immagini di una bellezza abbacinante. Io guardavo, stregato, svuotato, il volto ricorsivo di questa ragazza, e mi venivano in mente in successione: certi volti di modelle antiche, del secolo scorso, degli anni Sessanta o del dopoguerra persino, e poi alcuni ricordi vaghi patinati di donne della mia infanzia, e poi certe impressioni fuggevoli di ragazze che avevo incontrato soltanto una volta in vita mia e da cui però ero rimasto abbagliato. Mi sentii, non so come dirlo per risultare credibile, innamorato, così, come una porta che si apre all’improvviso al centro di un muro, con una nettezza inesorabile che non mi capitava da anni. Innamorato, senza remore né aggettivi né dubbi, di una ragazza che vedevo solo sullo schermo, un’assassina e lesbica, di nome – e il caso ancora una volta si rivelava un grande stronzo – Daniela: Daniela Carta.
Quello che è successo dopo è la dimostrazione della capacità narrativa della vita. Il modo in cui reagii alle dichiarazioni di Daniela, della ragazza Daniela, fu quello di fare finta che lei non mi avesse detto niente di cruciale: seguitavo a proporle di andare al cinema il pomeriggio, di accompagnarla per piazze e chiese, e a mia moglie continuavo a non fare cenno, né a mostrare in alcun modo i pensieri che mi assediavano, la massa gommosa di tutti i pensieri. Nel frattempo («nel frattempo» che in realtà era un tempo che passavo per la gran parte immobilizzato, almeno mentalmente) presi a scrivere delle lettere barocche, esaltate, dichiarazioni d’amore di una sincerità al limite dell’autodenuncia a Daniela Carta, presso Casa Circondariale di Rebibbia, via Bartolo Longo, a cui non ricevetti risposta a parte due scarni – anche se per me fondamentali – biglietti di ringraziamento per la solidarietà manifestata.

Due giorni fa mia moglie ha ritirato le analisi che confermano quello che le aveva detto il test la settimana scorsa: è incinta, anche lei è incinta – il feto è una goccia di vita di quasi due mesi e fino a questo punto è sano. Sarei dovuto diventare dunque due volte padre entro la fine dell’anno, se a Daniela, alla ragazza Daniela, al quinto mese, un fibroma uterino non avesse causato un aborto spontaneo. Daniela Carta è stata rinviata a giudizio e – a quanto dicono i giornali – si è fidanzata, non ho idea in che senso, forse platonicamente, forse nella finzione del gossip dei media, con un giornalista che da subito si era interessato al suo caso, ed è riuscito a incontrarla una volta in carcere. Le cose – pensavo proprio oggi – alla fine, vanno come vanno.

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