Il sortilegio, di Charlotte Brontë

Clichy edizioni, ha portato in libreria Il sortilegio con Il trovatello, di Charlotte Bronte, per la traduzione e la curatela di Francesca Rizzi, proponendo ai lettori i racconti inediti del ciclo di Angria, il regno immaginario creato a Charlotte Brontë dieci anni prima di scrivere il suo capolavoro Jane Eyre.
Un’affascinante immersione nel mondo fantastico creato da Charlotte Brontë negli anni della sua giovinezza insieme al fratello Branwell, un viaggio alle radici del talento dell’autrice dell’intramontabile Jane Eyre, di cui si possono intravedere stile, tracce e temi nei due racconti Il sortilegio e Il trovatello, scritti all’età di diciassette e diciotto anni e pubblicati ora per la prima volta in Italia. 

Cattedrale vi propone l’incipit del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Il sortilegio
di Charlotte Brontë

Capitolo 1

Il giovane marchese di Almeida è morto. Tutti lo sanno. Come eredità ha lasciato due troni vacanti. Adesso i regni di Wellingtonsland e di Angria attendono un erede. Morte inesorabile! Tutte le guardie e le precauzioni che il re Zamorna avrebbe potuto prendere per il proprio primogenito - suo diletto, prima speranza del suo regno e seconda del padre - non avrebbero potuto contrastare quella falce dalla lama affilata che recide tanto il fiore appassito quanto quello che germoglia. Vane furono le ossequiose attenzioni di centinaia di servi, l’esercizio scrupoloso delle conoscenze scientifiche, le materne cure dell’infermiera Mina Laury, che con la propria dolcezza riuscì una volta a salvare il padre ma non il figlio dalla morte, il raccolto silenzio del solitario maniero, l’aria balsamica respirata in quei boschi antichi, nelle fragranti valli e presso il rapido, precipite torrente. E infine, vano del tutto fu anche il gran desiderio che di continuo occupava l’anima del re Zamorna, fin quando non si spense nella disperazione: che il figlio - amato con un affetto tale da non poterlo esprimere con le parole, giacché era l’unico nato della madre - potesse vivere e crescere per ricordargli la defunta. Morì, reciso troppo presto, richiamato prima di sapere cosa fosse quel mondo sulla cui distesa così fulgido era sorto il suo giorno.
Il duca allontanò Lord Julius dalla sua presenza, affinché l’ansia dei genitori, tesa e torturata dall’evidente delicatezza della pianta che osservava, non diventasse un ostacolo invece che un incoraggiamento al suo benessere. So che quando la tomba si chiuse su Marian, un timore nervoso gli prese la mente, nel timore che i semi della malattia della madre potessero, con l’esistenza, venir trasmessi al bambino.
Egli odiava osservare le guance colorate e i vivaci occhi del figlio, gli arti meravigliosamente aggraziati e la carnagione chiara sotto la quale si potevano scorgere le vene e le arterie serpeggianti in linee ondulate del più tenue e delicatissimo violetto. L’ho spesso sentito gemere e maledire quella bellezza, che gli recava solo pensieri d’inestricabile pena, quasi che con un sospiro straziato avesse deposto la squisita miniatura della sua stessa grande immagine, dopo averla guardata per alcuni brevi momenti di evanescente e, ben lo sapeva!, infondata esultanza. «Quanto darei» aveva mormorato in alcune occasioni, «perché mio figlio avesse un po’ meno, appena un po’, della delicata bellezza della madre. Oh, aborro adesso con tutta l’anima ogni tocco di bellezza che appare troppo eterea per l’umanità: una qualsiasi sfumatura di colore su una guancia, ogni raggio di luce in un occhio che troppo ha di divino e troppo poco di terreno, persino ogni inflessione di voce la cui dolcezza arriva direttamente al cuore con un brivido improvviso, causano in me agonia e non diletto!».
Quando giunse la prima lettera da Grassmere, lasciando intendere che la tisi si stava ormai aggravando, esclamò (lo so perché ero nella stanza, ovviamente a sua insaputa, quando la lesse attentamente): «Sapevo che sarebbe successo! Sono quasi felice che gli orrori del dubbio sian passati! Non dovrò più avvelenare la speranza, ora che c’è un chiaro cammino di certezza. Resisterà ancora per alcuni mesi, forse settimane. Sì, a Florence diedero solo otto settimane di vita. Dopo troverà un luogo di riposo in quella maledetta tomba. Sì, vorrei che fosse già tutto finito: la malattia, la morte, la sepoltura e tutto il resto! Allora potrei essere soddisfatto, se non felice, ma fino ad allora…». Si lasciò cadere su una sedia vicino alla scrivania, staccò un foglio di carta, e, rapido come il fulmine, scrisse le seguenti righe:

Inestimabile Mina, il vostro lavoro è quasi ultimato. È stata un’impresa difficile salvaguardare ciò che il destino aveva marcato col declino. So quanto avete adempiuto al vostro dovere. D’ora in avanti con le mie stesse labbra dichiarerò la mia approvazione. Vegliate su di lui ancora per qualche giorno e per qualche notte. Aspettate solo l’ultimo battito e l’esalare dell’ultimo respiro. Dopo, mia cara, potrete riposarvi dal lavoro. Non voglio da voi una sola parola, non una sillaba, finché non sarete certa che sia finalmente calato il sipario, fino a quando sembrerà avere le forze per magari non più di una settimana, in altre parole, mia cara, fino a quando il respiro non comincerà a rantolargli in gola, quella brillantezza infernale gli sparirà dalle guance e la carne (quel poco che ne resta) diventerà perfettamente diafana, come dissanguata ma scheletrica. Quando si verificheranno questi eventi, potrete scrivermi e parlarmi. Io, se possibile, ucciderò l’attesa. Addio, mia dolce rosa selvatica! Temo che la vostra bellezza possa sfumare a causa delle veglie di morte prima che possa rivedervi. Ma non preoccupatevi, non m’importa di questo, e se il mio cuore e il mio amore sono vostri, so che a Mina Laury poco interessa la luce - favorevole o meno - nella quale il resto del mondo può ammirarla. Fedele fino alla morte (la tua o la mia intendo, ragazza, non quelle intermedie, che paiono affollarsi), io sono e sono e sarò sempre,

il vostro Zamorna

Tale fu la risposta che inviò alla timida e apprensiva lettera della povera Mina. Che strano! O almeno così pensai. La sigillò e la indirizzò, poi richiese la carrozza e lasciò la città di Verdopolis per dirigersi verso Angria. Nulla poté attenuare l’incessante e l’irritabile violenza che segnarono la sua condotta nelle cinque o sei settimane successive. È sempre stato energico, sempre entusiasta in ogni impresa. Da quando lo conosco ha sempre avuto l’abitudine di mettere anima e corpo nella realizzazione di un disegno sperato, ma ora sembrava addirittura rischiarci la vita.
Persino Warner riuscì a malapena a reggere il suo passo. Si immerse completamente nel folto delle incombenze, cercando ogni volta con estrema attenzione l’occupazione più impegnativa, ma sempre sembrando trovare assai poca soddisfazione in ciò che aveva trovato. Si poteva vederlo passeggiare tutto il giorno per le strade disselciate di Adrianopolis, ora a vigilare e supervisionare con lena le fatiche degli uomini che lavoravano duramente, ora a dirigere la costruzione di un arco, ora il sollevamento di alcuni grandi blocchi di pietra o marmo, in piedi in mezzo al frastuono e al tumulto delle piazze e delle case in costruzione, mentre nel terreno si scavavano le profonde fondamenta di future dimore.
Era possibile vedere ovunque l’imponente figura snella del giovane, nel suo aderente abito nero e col poco ornamentale cappello ben aureolato di riccioli, muoversi con passo e portamento autorevoli per controllare ogni cosa intorno a sé come il sovrano spirito della tempesta. A volte quella figura sembrava stagliarsi alta nel cielo, in piedi su un’impalcatura appesa, con un infinito cielo blu tutto intorno, davanti e dietro allo scheletro di un palazzo incompiuto, circondato da archi e vaste travi sparsi ovunque, fra strapiombi che avrebbero fatto girare la testa a un qualsiasi giovane marinaio. E lì il monarca si muoveva senza paura come un’aquila che incombe sospesa sopra il nido. Gli occhi dei severi sudditi dalla carnagione scura lo osservavano con ammirazione mentre saltava come un giovane alce da una stretta sporgenza a un’altra e camminava a grandi passi sulle malcerte travi con la schiena dritta e un’aria altezzosa come se stesse attraversando un salone di palazzo Wellesley. In altre occasioni era possibile vederlo torreggiare su una folla di sudditi radunata attorno alla fossa di alcune fondamenta mezzo affondate, intento a supervisionare mentre si allestiva un marchingegno per far esplodere le rocce sottostanti e, una volta completata l’operazione, dare l’ordine di trarsi indietro con voce piena ed elettrizzante, aspettando per ultimo ad arretrare fin quando un tuono che squarciava il cielo emergeva dalla tomba di pietra con uno schianto da far tremare la collina e le pianure, lontane e vicine, e allora egli levava il trionfante urrà, con un’intensità crescente man mano che il rumore del sisma si attenuava in echi borbottanti. Ma una volta finito tutto, verso sera, quando gli uomini si ritiravano dalla formicolante scena, quando gli architetti, i mastri muratori e i carpentieri raccoglievano righe, squadre, compassi e tornavano a casa, se uno spettatore si fosse trattenuto sulla scena, avrebbe potuto distinguere quella maestosa figura solitaria seduta sui rozzi gradini di una sala in costruzione. Intorno a lui solo silenzio, solitudine e desolazione. Immobile come Palmira nel deserto, muto come Tadmor in mezzo al mare. Non si udivano né mazze, né martelli, né asce né scalpelli. Il fragore del giorno dimenticato, le grida dei lavoratori sopite, i loro passi echeggianti scomparsi, la quiete del crepuscolo che avanza furtiva su una lieve brezza e il sordo gemito della vecchia città deserta, giù dal cielo, su dalla terra, per tutta l’acquietata regione. A quell’ora si poteva scorgere la figura di Zamorna, unico abitante della sua sorgente città, con le braccia probabilmente conserte sul petto; gli occhi, in un’espressione frammista di pensiero e vigilanza, senza molto dolore, rivolti verso la gialla prateria che gli si stendeva d’innanzi verso est, senza altro confine che l’orizzonte dorato; la fronte giovine e bella, oscurata da una nuvola di severità che vi si adagiava come l’ombra di un cielo minaccioso sul muro in marmo bianco di un palazzo; le fresche labbra rosse strettamente serrate, placidamente immobili come se l’eterno silenzio le avesse chiuse col suo sigillo, e nessun segno apparente di profonda emozione, nessun sentimento, in effetti, tranne la meditazione assorta, tranne il variato sfumare della guancia, che di tanto in tanto, a lunghi intervalli, improvvisamente, dall’abituale caldo rossore luminoso smoriva in un pallore afflitto e incolore.
Allora sarebbe stato possibile accorgersi che un tarlo gli rodeva il cuore, che una fitta di dolore più forte del solito aveva richiamato il sangue alla fonte. Ma ben presto il puro eloquente bagliore vinceva di nuovo sulla carnagione impallidita, e quando il duca cambiava appena posizione e rivolgeva gli occhi più fissi verso il fioco Oriente, o forse li lasciava cadere sulle rive del Calabar, era evidente che il suo spirito aveva sconfitto, almeno per un momento, il suo tormentatore interiore, e che i piani di ambizioni bellicose o politiche erano ancora una volta costretti a prevalere sull’angoscia paterna il cui ritorno così amaramente lo affliggeva.
Stava così seduto una sera quando dei passi riecheggiarono nella piazza silenziosa, ed Eugene Rosier avanzò dalla lunga ombra degli edifici circostanti.
«Ah!» disse il padrone, alzandosi e andandogli incontro. «Salve Eugene! Sono arrivati?»
«Sì, mio signore, ieri sera alle dieci. C’erano solamente tre carrozze: miss Laury e il signor Sydney, la vettura funebre con il cadavere e il carro del becchino».
«Eugene, basta così! Ma dove sono Ernest ed Emily e… tu mi intendi… gli altri». Quella parola venne pronunciata con enfasi.
Eugene si inchinò. «Penso che verranno domani, mio signore» rispose. «Sua grazia è andato a incontrarli fino a Free Town».
«Sua grazia! Cosa? Quindi il duca è stato qui?»
«Sì, mio signore, nelle ultime quattro settimane, ma non a palazzo Wellesley».
«Chissà perché non l’ho visto».
«Aveva paura di eventuali scontri; la strada per Angria è assai scoperta».
A questo punto Zamorna abbassò lo sguardo e posò con fermezza la mano sulla spalla di Rosier.
«Hai detto» mormorò in tono sommesso, «che è stato per quattro settimane nei dintorni di Verdopolis. Finic è stato in guardia?»
«Sì, mio signore, come una belva, e io con lui, ma non è servito a molto. È molto cauto nel suo modo di agire».
«Bene» disse il duca, facendosi indietro. «Sono soddisfatto, perché so di poter contare su di te; se solo pensassi diversamente per un momento…» fece una pausa e rivolse uno sguardo penetrante al paggio, il quale lo sostenne con coraggio.
«Vi ho detto la verità, mio signore» rispose, «poiché so che una bugia, specialmente su questo argomento, mi porterebbe inevitabilmente, prima o poi, al fiume di fuoco e al boccone di piombo. Inoltre, le circostanze rendono testimonianza in mio favore. Egli non osa approfittarne anche volendolo, perché sa come e quanto Vostra Grazia potrebbe vendicarsi» concluse Rosier con una risatina e uno sguardo sornione dei suoi ineffabili occhi maliziosi.
«Silenzio!» disse Zamorna, con un timbro profondo quasi quanto un tuono soffocato. «Come osi prenderti gioco di me? Non desidero affatto vendicarmi. Vendicarmi! No, se mi avesse dato motivo di vendetta, la faccenda sarebbe conclusa. In tal caso la sua vita o la mia sarebbero le uniche carte ammesse alla grande partita che così a lungo abbiamo giocato insieme. Come e quando finirà? Vorrei che la posta in gioco venisse spazzata via, non mi importa da quali mani».
«Dalla mano che per prima l’ha calata» mormorò un’altra voce, forte nelle inflessioni quanto quella di Zamorna.
Il duca non sembrò sorpreso da questa improvvisa interruzione. Rispose con calma, senza giri di parole: «Sì, sarebbe la più adatta per il lavoro. Ma, vecchio mio, esci allo scoperto. Riconosco la tua parlata, fatti vedere. Non ci sono estranei di cui aver paura, a meno che un pipistrello o un uccello notturno non siano considerati tali».
«Alcuni di questi, presumo, rimangono ora fra le canne del Calabar» replicò la stessa voce e una figura oscura emerse da dietro un enorme mucchio di malta e si fermò di fronte a Zamorna.
«Pochissimi» fu la replica.
«Vanghe, zappe e asce del capomastro sono state un ammonimento così forte per i vecchi abitanti di quella pianura e di quelle rive coperte di giunchi che ora è rimasta a malapena un’ala a sventolare tra noi e l’orizzonte». «Vanghe e zappe stanno dando un avvertimento altrove» rispose l’estraneo. «Si è scavato una tomba a Verdopolis, stasera».
«C’è una cripta aperta» disse il duca. «Come fa una lanterna a olio a illuminare quel passaggio sotterraneo buio? E in che maniera la chiave si accorda con le sue arrugginite difese?»
«La lanterna a olio illumina con coraggio» ribatté l’altro, «e tiene d’occhio le coperture di tre bare principesche. Non dovrebbe esserci spazio per una quarta? La chiave gira come se l’umidità sotterranea l’avesse oliata invece di indurirla e la tomba si aprirà domani sera senza rumore alcuno, come se al di là delle sue sbarre si trovassero i malati invece dei morti. Ma Zamorna, dove deve giacere il bambino?»
«Fra le braccia di sua madre» replicò Zamorna, con un accento duramente represso.
«Già, e lì dovete deporlo. Lei si rivolterebbe nella tomba se altre mani dovessero assolvere quell’incarico, duca. Ci saranno altre persone in lutto al funerale?»
«Poche, penso. Su un corpo di soli sei mesi scendono poche lacrime».
«Tanto meglio. Lasciatemi raccontare la storia di coloro che probabilmente saranno presenti».
«Potete chiudere l’argomento?» esclamò Zamorna in un impeto che fino a quel momento aveva trattenuto, o per rispetto o per qualche altra ragione.
«Lo farò quando mi andrà» replicò il suo amico.
«Mio giovane signore, ovviamente vedrete vostra moglie in occasione della visita alla sua dimora; tra voi e lei si interporranno solamente una trave sottile di cedro e un rivestimento di velluto. Sollevandoli, Lady Florence, l’orgoglio dell’Occidente, giace lì in tutto il suo fascino. Anzi, non tutto, è un po’ sfiorita e sciupata, bisogna ammetterlo, ma che importa al suo gentile marito se l’occhio è spento, la guancia s’è fatta di argilla e i lineamenti sono cancellati per sempre? È troppo fedele per amarla di meno per un qualche lieve difetto in quella bellezza che un tempo riteneva ineguagliabile».
Una maledizione mormorata ma terribile uscì dalle labbra del duca in risposta a questo sarcasmo. Le rispose la risata bassa e a bocca chiusa dello sconosciuto, che proseguì: «Davvero, duca, mi meraviglierei se vi rifiutaste di parlare con lei faccia a faccia. Lei non si è tirata indietro quando vi ha messo tra le vostre braccia il vostro primogenito, quindi perché voi dovreste ritrarvi da lei quando ricambierete quel tenero compito? Ah, lei guarderà triste il suo Arthur e soffrirà quando se ne sarà andato, come fece quella notte lasciando la sala del Gladiatore. Voi allora la sentiste, ma non aveste compassione per lei, così ella sedette in silenzio per adempiere al suo destino, per sopportare la propria sorte».