Nottetempo porta in libreria Tarmacadam, di Vanni Bianconi. Una raccolta di storie in prima, seconda e terza persona che partono da un luogo e da una parola ricchi di esperienza e significato per indagare gli intricati rapporti tra vita e simbolo, casa e viaggio, appartenenza e spaesamento, lingua madre e traduzione. Perché “una voce”, scrive Bianconi, “non è mai univoca ma è plurale, è voce se è abitata da altre voci”.
Pronunciati in forma di racconto, i ventuno incantesimi che prendono vita in Tarmacadam riescono a trasformare l’esperienza quotidiana, la parola e il corpo in occasioni di magia e scoperta.
Cattedrale vi propone uno dei testi contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.
Beirut – scancellare
di Vanni Bianconi
Erased, ___ Ascent of the Invisible (Cancellato, ___ Ascesa dell’invisibile) è un film di Ghassan Halwani. Parte dalla foto, scattata durante la Guerra Civile Libanese, di due uomini che spingono un terzo dentro un’automobile. Il regista conosceva l’uomo sequestrato, che da allora non si è mai più visto in giro, finché un giorno, anni dopo, gli sembra di incrociarlo per strada. L’uomo, che è lo stesso e diverso, non dà segno di riconoscerlo. Nella foto in circolazione attualmente, modificata rispetto all’originale del tempo, non figura né il sequestrato né i sequestratori, solo un vicolo vuoto, ma la fotografia è quella. Il regista ricostruisce la posizione delle tre persone e dell’automobile, dove e come avrebbe potuto essere contraffatta.
I muri di Beirut sono coperti da uno spessore di carta, fogli e manifesti affissi gli uni sugli altri con la colla. Sotto uno spesso strato che si stacca dal muro – una superficie vecchia tre o quattro centimetri – il regista intravede un po’ di sorriso. Si mette a grattare, delicatamente risale il tempo, scopre il volto di una persona scomparsa. Ripete l’operazione da polizia scientifica, lenta e laboriosa, e porta in superficie molte facce, gli annunci di altri scomparsi durante la guerra civile. C’era una gerarchia delle persone scomparse, anche i profughi palestinesi venivano ritrovati, vivi o morti. I combattenti libanesi erano ai piedi della piramide, sono oltre 17.000 quelli di cui non si è trovata traccia. Non potendone dimostrare il decesso, il loro statuto è rimasto ambiguo, e così il dolore dei vivi, l’eventualità di un risarcimento. Il regista ripulisce un viso dagli strati di annunci politici, pubblicitari e religiosi, con taglierino, pinzette e pennello; a volte lo ritraccia per intero a matita.
Una delle fosse comuni più grandi era sul lungomare di Beirut, ora ricoperta dalle tonnellate di cemento su cui poggiano la promenade, i locali turistici, gli appartamenti più cari della città: è questa colata di cemento che il regista chiama il monumento alla memoria degli scomparsi.
Earwitness Theatre (Teatro del testimone auditivo) è una mostra dell’artista libanese Lawrence Abu Hamdan. Oltre all’usuale esposizione di oggetti qualsiasi, consiste in una cabina d’ascolto e nella proiezione di una serie di testi sul muro.
I testi sono trascrizioni o rielaborazioni di testimonianze in cui l’ascolto si fa gesto politico, per esempio quella dell’ex prigioniero di un centro di detenzione segreto della cia a Bucarest, che è riuscito a far localizzare il black site, anche se vi era stato condotto bendato, grazie all’ascolto meticoloso della velocità dei treni e di altri elementi del paesaggio sonoro attorno al capannone.
Diverse testimonianze scritte, di quelle che scorrono sul muro accanto agli oggetti sparsi, sono su Saydnaya, il carcere del governo di Assad dove tra il 2011 e il 2015 si giustiziavano anche cinquanta persone al giorno per un totale che, in quei quattro anni, si stima attorno alle 13.000 esecuzioni. Saydnaya era inaccessibile a osservatori esterni. I prigionieri erano tenuti costantemente al buio, bendati e mai raggiunti dalla luce del sole, le uniche testimonianze possibili si basano su percezioni sonore. Ma a Saydnaya pure il suono è ridotto al minimo. È vietato parlare, tossire e muoversi, il silenzio diventa un’entità fisica. La cella è di qualche metro quadrato, ma si viene costretti in uno spazio più angusto perché non si può fare niente che proietti un suono a più di 26 cm. I secondini portano scarpe da tennis per non farsi sentire, i prigionieri devono accorgersi del loro arrivo e inginocchiarsi per tempo o verranno picchiati o uccisi.
Per interagire con gli ex detenuti, l’artista ha ricreato un lessico sonoro che ha permesso di aumentare la realtà con ricordi e osservazioni: mutare la memoria in materia e l’esperienza in prove. Quello è il senso degli oggetti non qualsiasi sparsi attorno alla parete dove si proiettano i testi.
I suoni percepiti non corrispondono all’idea sonora che abbiamo dell’evento: questa è influenzata principalmente dagli effetti sonori cinematografici, mentre un pugno suona come un accendino che cade in terra, una bomba come una scaffalatura che collassa, uno sparo come pop-corn. A volte le descrizioni dei suoni sembrano distanziarsi tanto dalla loro resa televisiva quanto dall’evento che li ha generati, fino quasi a trasfigurarlo in qualcosa di più innocuo o impossibile: uova o angurie che si rompono, cento pianoforti che urtano il suolo. Tutti gli ex detenuti sussurrano in modo simile tra loro, sanno valutare la distanza da un suono con precisione quasi identica.
Beyrouth 2020. Journal d’un effondrement (Beirut 2020. Diario di un cedimento) è un libro scritto in francese dal libanese Charif Majdalani, il resoconto di un anno di crisi economica e istituzionale, sommosse popolari e pandemia, e il 4 agosto l’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio in un magazzino del porto:
4 agosto Oggi pomeriggio, lo straccivendolo
Questa la pagina del libro. Lo straccivendolo, protagonista di questa pagina sospeso sull’afasia, ne richiama un altro, lo straccivendolo di un film russo, La palma della mano, che all’inizio ha due gambe, poi una gamba sola, poi più nessuna. Nel libro di Majdalani, come con le gambe di questo straccivendolo, il cedimento è graduale e a ogni stadio – l’inflazione, le rivolte, gli scioperi, i rifiuti, il succedersi dei governi, il coronavirus – sembra di sorpassare i limiti del sopportabile, eppure si sopporta, si fa fronte al peggio, e a ciò che segue.
Quel che segue è l’esplosione al porto, che in cinque secondi distrugge duecentomila abitazioni, diecimila negozi, quattro ospedali… Il danno sarebbe stato ancora più grave se non fosse stato per il grande silo del porto la cui mole ha riparato la zona occidentale della città. Un terzo del silo sventrato, in parte bruciato e in parte sprofondato come una torre di Babele, rimane come lo straccivendolo in bilico sul bianco della pagina, monumento al dentro che si fa fuori, al braccio sinistro che diventa braccio destro, alla guancia destra che diventa guancia sinistra, agli occhi al posto degli occhi e alla faccia al posto della faccia, alla presenza e all’assenza che si fanno uno, che si fanno due e nessuna insieme.