La lettera spagnola, di Thomas Wolfe

Mattioli editore, per la traduzione di Silvia Lumaca, porta in libreria questi cinque racconti, ancora inediti in Italia, che vennero pubblicati mentre Thomas Wolfe era ancora in vita; tutti tranne La lettera spagnola, un resoconto autobiografico sulla Germania nazista, apparso per la prima volta negli Stati Uniti nel 1987.

Cattedrale vi propone il racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.


La lettera spagnola

Carissimo amico, che non ho mai visto, mi scrivi in tempi tormentati e fai una domanda che nel mondo, oggi, si fanno tutti. Fai una domanda sulla Spagna. Ebbene, non sono mai stato in Spagna e tuttavia la mia risposta sarà lunga. Ho pensato così spesso alla Spagna, amico caro. Ci ho pensato molto spesso viaggiando con l’anima. E poiché questa Spagna di cui parli è tanto a portata di mano, la mia sarà una risposta lunga. Un poeta ha detto, circa ottant’anni fa, che alla sua morte avrebbero trovato il nome Italia inciso sul suo cuore. Forse, oggi, è lo stesso con la Spagna. Forse ogni uomo che vive ai nostri giorni ha la sua Spagna incisa sul cuore. Comunque, è stato così per me. Così innanzitutto, la mia risposta a te sarà questa: la mia Spagna è qui, nel mondo che ho intorno qui e ora. E avrei dovuto parlarti prima di questa Spagna. Perché ho trentasette anni e anche se vivo in Spagna, non posso più vivere in un castello spagnolo.
La Spagna di cui parli, per quanto lontanissima da tutte le nostre peregrinazioni, è lo stesso facile da capire. E per via di questo voglio rispondere alla tua domanda in modo tanto chiaro e inequivocabile, così che chi legge non avrà mai alcun dubbio su come mi sento e su cosa sto dicendo qui. Quello che sto per dirti è personale, ed è personale perché nessuna opinione che esporrò deriva da qualcosa che ho letto, o da qualcosa che mi è stato suggerito da qualcun altro, o da una qualche influenza intellettuale da parte di amici o colleghi. Deriva, come tutte le convinzioni profonde della mia vita, da quello che ho visto, sentito, pensato, vissuto, sperimentato e scoperto da solo. Mi sembra che sia il modo in cui tutti debbono scoprire le cose e per questo, se quello che un uomo ha scoperto in questo modo può essere di qualche interesse o utilità per te o può sembrarti importante in qualche modo, ecco qui:
Vengo da uno stato del Mid-South, e da quello che credo sia l’elemento più conservatore della vita americana. Tutta la mia famiglia, per quanto sia composta in gran parte da persone di modeste e persino umili origini, era una famiglia che aveva vissuto in questo paese e ne aveva conosciuto il modo di vivere per duecento anni o più, e per quel che so, fino all’ultima generazione, nessuno di loro aveva mai vissuto in una città. Mio padre era un tagliapietre, suo padre un bracciante, la famiglia di mia madre era di gente di montagna: erano tutti, politicamente, socialmente, religiosamente, parte dell’elemento più tradizionale della vita di questo paese; e la mia stessa infanzia, la mia adolescenza, e il primo ingresso nella vita adulta sono trascorsi sotto queste influenze e in queste circostanze.
Quando ho iniziato a scrivere l’ho fatto, come tanti altri giovani, da poeta. Il mio primo libro era un libro sulla vita in una piccola città e sulla gente che vi abitava. Credo che il libro seguisse uno schema piuttosto comune e che il conflitto principale fosse tra un giovane di animo sensibile, e forse qualche talento, e le forze sociali intorno a lui – ossia, la vita in una piccola città e la collisione della sua personalità con questa vita.
La soluzione, o risoluzione, di questo conflitto era anch’essa comune: l’eroe la risolveva scappando, lasciando la comunità e l’ambiente con cui era entrato in conflitto. Come molti altri giovani miei coetanei all’epoca in cui scrissi il libro, che è stato concepito nel 1929, la mia mente, mentre ribollivo di passioni, pensieri, immagini e rapide e penetranti intuizioni, era comunque confusa e tribolata. Ero in conflitto con l’intero inestricabile complesso che univa vita, società e tutto il mondo intorno a me. Stavo cercando di dar forma a uno scopo, di trovare una strada e di capire la mia posizione. Ma come tantissimi altri in quel momento storico, anche se non sconfitto, mi sentivo perduto.
Suppongo che se qualcuno mi avesse interrogato per scoprire cosa pensassi o credessi e, più di tutto, perché volessi scrivere dei libri, avrei detto che scrivevo dei libri perché speravo che un giorno avrei scritto un grande libro, che avrei preferito fare questo più di ogni altra cosa al mondo, che mi sembrava che l’arte fosse la parte più elevata della vita, e che la vita di un artista era la vita migliore, la più elevata che un uomo potesse vivere. In quei giorni avrei potuto persino dire che l’arte era tutto quel che serviva, che bastava la bellezza, nelle parole di William Morris ‘basta l’amore, anche se il mondo intero è in declino’. E penso che sarei stato fortemente in disaccordo con chiunque avesse suggerito che la vita e l’opera di un artista fossero in qualche modo legate ai contesti politici ed economici del suo tempo.
Ora che non mi sento più così, non mi scuserò per essermi sentito in quel modo, né irriderò il mio lavoro di allora, o il lavoro di altri giovani di quel periodo che si sentivano come me e pensavano le cose che pensavo anch’io. Mi sembra naturale e quasi inevitabile che un giovane debba iniziare la sua vita da poeta, che la sua prima rappresentazione della vita, così come viene riflessa nella sua opera, debba essere una rappresentazione personale, e che lui debba vedere la vita e il mondo soprattutto in rapporto all’impatto che questi hanno sulla sua personalità, in rapporto ai suoi conflitti o accordi interiori con la struttura delle cose per come sono. Quanto al modo in cui ci sentivamo o in cui pensavamo di sentirci, riguardo all’arte e all’amore e alla bellezza in quei giorni, e come essi non fossero semplicemente sufficienti, comparati a tutto il resto, ma che tutto il resto delle cose fosse loro alieno e remoto, anche quello, forse, è un modo naturale e forse inevitabile di sentirsi a quell’età. Ed era certamente il risultato dell’educazione, della cultura e delle idee estetiche di quel tempo.
Ma ho scoperto qualcos’altro, almeno per quanto mi riguarda, nei pochi anni appena trascorsi. Ed è questo: non puoi tornare di nuovo a casa – di nuovo alla tua infanzia, di nuovo al padre che hai perso, di nuovo alle consolazioni date dal tempo e dalla memoria – sì, anche di nuovo all’arte e alla bellezza e all’amore. Per me, in ogni modo, adesso è chiaro che essi non sono abbastanza. E non penso che sia un tradimento, ma se lo fosse, ecco…
Ho cominciato a capirlo circa sei o sette anni fa quando vivevo e stavo scrivendo un libro a Brooklyn e da allora l’ho capito sempre di più. Non so quando abbia iniziato esattamente, forse questo tipo di cose non ha un vero e proprio inizio, ma so che un giorno ho ricevuto una lettera da una persona che stava parlando di amore e di arte e di bellezza. Era una buona lettera, ma dopo averla letta, ho guardato fuori dalla finestra e dall’altra parte della strada ho visto un uomo. Stava rovistando a mani nude nella spazzatura in cerca di cibo: ho un’ottima memoria per i posti e le date ed era più o meno a metà dicembre del 1932. E so che da quel momento non ho più provato le stesse cose riguardo all’amore o all’arte o alla bellezza, né ho più pensato che fossero abbastanza.
Questo cambiamento è avvenuto lentamente, perché nonostante il pensare, il sentire, il percepire, persino il lavorare e lo scrivere mi siano sempre arrivati in modo immediato e impetuoso, come sotto l’influsso di una marea furiosa e terribile, la risoluzione delle cose avviene lentissimamente perché, come ho detto, niente mi è di nessuna utilità, come credo a nessun altro, finché non lo capisco personalmente. E io so che non posso tornare di nuovo a casa.
Poi, per quattro anni, ho vissuto e lavorato a Brooklyn, ho lavorato come una locomotiva. Sicuramente non mi facevo vedere granché nei circoli letterari. Ma non penso di essermi perso molto di quello che stava succedendo intorno a me a Brooklyn – che è davvero il mondo o ha dentro il mondo intero – né tra la mia gente giù in North Carolina, nella mia città natale o nel paese preso nel suo complesso. E la ragione per cui credo di non essermi perso granché è perché stavo lavorando tanto duramente. Più di una persona mi ha detto che lavorare a quel modo ti taglia fuori dal mondo. Ma non è vero. Lavorare così è vita e accresce incommensurabilmente il senso e la comprensione della vita. Così, in ogni modo, accadeva a me.
All’inizio del 1935 ho terminato un lavoro molto impegnativo e sono andato all’estero per la prima volta in quattro anni. Sono andato in Germania, perché di tutti i paesi che ho mai visto a esclusione del mio, penso che sia il paese che mi è piaciuto maggiormente e dove mi sono sentito più a casa, e con la sua gente ho provato la simpatia e l’intesa più naturali, immediate e istintive. È anche il paese il cui mistero e la cui magia mi hanno perseguitato di più. Ci avevo ripensato molte volte: dopo la fatica, la furia e la stanchezza di quei quattro anni a Brooklyn, la Germania per me voleva dire pace e relax e felicità e la vecchia magia ancora una volta.
Non ci andavo dall’autunno del 1930. Allora mi ero fermato in una piccola città nella Foresta Nera e c’era una grande eccitazione tra la gente, perché si tenevano le grandi elezioni nazionali. La situazione politica era caotica, c’era un numero sorprendente di partiti politici – più di quaranta milioni di voti, se ricordo bene, vennero espressi nella grande Wahl. Quell’anno i comunisti da soli si erano presi quattro milioni di voti o più.
Stavolta, la cosa era diversa. La Germania era cambiata. Delle persone mi avevano detto che adesso non c’erano più quella confusione e quel caos, perché tutti erano così contenti. E io avrei dovuto esserlo. Perché penso che nessuno sia mai andato in una terra straniera in condizioni più propizie delle mie, nei primi di maggio del 1935.
Si dice che Byron si fosse svegliato una mattina a ventiquattro anni, scoprendosi famoso. Io ho dovuto aspettare dieci anni in più; avevo trentaquattro anni quando ho raggiunto Berlino, ma è stato altrettanto magico. Immagino che non fossi veramente famoso. Ma era altrettanto bello, perché per la prima e ultima volta nella mia vita, mi sentivo come se lo fossi. Mi era arrivata una lettera dall’America che diceva che il mio secondo libro era stato un successo là, e che il mio primo libro era stato tradotto e pubblicato in Germania un anno o due prima. I critici tedeschi avevano detto cose fenomenali al riguardo, il mio nome era noto. Quando sono arrivato a Berlino, mi stavano aspettando.
Era il mese di maggio: lungo le strade, al Tiergarten, nei grandi parchi e lungo la Sprea, gli alberi di ippocastano erano in fiore. Grandi folle passeggiavano per il Kurfürstendamm, le terrazze dei caffè erano piene di gente, e sempre, nello scintillio dorato dei giorni, c’era il suono di una musica nell’aria, lo schiocco liquido degli stivali di pelle sulle strade, quando con la precisione del passo dell’oca, arrivavano gli uomini in uniforme. Ci sono così tante catene di laghi deliziosi intorno a Berlino e io scoprivo per la prima volta il bel bronzo dorato che corona gli alti fusti degli alberi di pino: prima avevo conosciuto soltanto il Sud, l’isola nel Reno e la Baviera. Ora Brooklyn, e i quattro anni di duro lavoro, e l’uomo che frugava nella spazzatura e il ricordo del brutto tempo, erano lontanissimi.
Per una settimana è stato glorioso. Penso che, in un certo modo, legassi l’immagine del mio successo – questo rilassarmi gioioso dopo quattro anni di duro lavoro e disperazione, col mese di maggio, con gli alberi di pino e le grandi folle che riempivano il Kurfürstendamm e tutto quel cantare dorato che c’era nell’aria – con la sensazione che per tutti il brutto tempo fosse finito ed erano tornati i giorni lieti.
Avevo sentito alcune cose spiacevoli, ma al momento non riuscivo a vederle. Non vedevo picchiare nessuno, o imprigionare nessuno o condannare a morte nessuno, non vedevo nessuno di quegli uomini nei campi di concentramento, non vedevo apertamente da nessuna parte le manifestazioni fisiche di una forza brutale e compulsiva. È vero che, dappertutto, c’erano uomini in camicia bruna, c’erano uomini con gli stivali di pelle e le uniformi nere, o in uniformi verde oliva ovunque e attorno a tutti; è vero che ovunque tra la gente, nelle grandi strade, si sentiva lo schiocco liquido dei piedi negli stivali, lo strombettio dell’ottone, il soffiare del fiffaro, e ovunque era impresso il ricordo di giovani volti adombrati dagli elmetti di ferro, con le mani incrociate e i portafucili sulla schiena, seduti composti in grossi camion militari.
Ma tutto questo era mischiato col mese di maggio e gli alberi di ippocastano e i grandi caffè del Kurfürstendamm e il carattere cordiale della gente in vacanza, come avevo visto e conosciuto prima tante altre volte e, sebbene tutto questo adesso non sembrasse molto positivo, non sembrava neppure sinistro o negativo.
Poi era successo qualcosa. Non all’improvviso. È successo come quando in cielo si ammassano le nubi o come quando arriva la nebbia e inizia a piovere.
Qualcuno che avevo conosciuto dava una festa per me e mi chiese se desiderassi invitare alcune delle persone con cui ero in contatto. Ne avevo nominata una. Era rimasto in silenzio per un po’, sembrava in imbarazzo: poi mi aveva detto che la persona che avevo nominato era stata direttore editoriale di una pubblicazione che era stata soppressa, e che una delle persone che avevano favorito questa soppressione era invitata al party, così potevo scusarlo se…?
Ne avevo nominata un’altra e di nuovo la pausa ansiosa, l’imbarazzo, il silenzio penoso. Questa persona era… era… be’, conosceva questa persona e sapeva che non andava alle feste, non sarebbe venuta se l’avessimo invitata, così potevo scusarlo se…? Ne ho nominata un’altra, una donna che avevo conosciuto, che mi era piaciuta. Ancora la pausa ansiosa, il silenzio penoso. Da quanto tempo la conoscevo? Dove l’avevo incontrata, in che circostanze?
Avevo cercato di rassicurare il mio ospite su tutti questi punti. Gli avevo detto di non avere timori riguardo a questa donna. Era stato rapidissimo, immediato, nel porgere le sue scuse… oh, certo, indubbiamente: era sicuro che la donna fosse perfettamente a posto… solo che di questi tempi… in un gruppo così eterogeneo… aveva cercato di scegliere un insieme di persone che io avevo conosciuto e che mi piacevano, e che si conoscessero tra loro… gli estranei alle feste spesso sono intimiditi, si sentono costretti, si comportano in modo formale… così potevo scusarlo se…?
Un amico era venuto a trovarmi: “Fra qualche giorno” aveva detto, “riceverai una telefonata da una certa persona. Proverà a incontrarti, a parlare con te. Non averci niente a che fare. Il suo nome è —.” Quando gli avevo chiesto perché quest’uomo avrebbe voluto incontrarmi, non mi aveva risposto, aveva solo bofonchiato: “È una persona cattiva. Abbiamo un nome per lui: è ‘Principe delle tenebre’.” Dopo pochi giorni, l’uomo in questione mi aveva chiamato e voleva incontrarmi. Vorrei che tutto questo fosse tanto ridicolo e melodrammatico come sembrerebbe essere. Ma la tragedia è che non è così.
Non che fosse una questione politica. Non sto cercando di suggerire che lo fosse. Le sue radici erano ancora più sinistre e profonde e malvagie, e nel complesso delle loro tragiche implicazioni avevano una portata molto più ampia di quanto potranno mai coprire sia la politica che il pregiudizio razziale. Per la prima volta nella mia vita mi trovavo davanti a qualcosa di sconosciuto – qualcosa che faceva sì che tutta la violenza dinamica e le passioni dell’America, le squadre di gangster, gli omicidi a bruciapelo, tutta la confusione, la durezza e la corruzione che infettano tante parti della nostra vita, sembrassero a confronto cosucce innocenti. E questo era il ritratto di un grande popolo che era malato nell’anima e ferito nel corpo: che era stato avvelenato dal morbo di una paura onnipresente, dalla pressione di una compulsione ignobile e continua, che i tedeschi avevano nascosto dietro un riserbo maligno e soffocante, fino a che la loro anima era letteralmente affogata nelle loro stesse secrezioni, e ora morivano sotto il distillìo del loro stesso veleno, per cui non c’era più cura né sollievo.
Può qualcuno essere tanto vile da gioire di questa immensa tragedia – una tragedia che oggi condividiamo tutti – o provare odio per il grande e valoroso popolo che ne è stato la vittima? Culturalmente, mi sembra, che dal Diciottesimo secolo in avanti, i tedeschi siano stati i primi cittadini d’Europa. In Goethe si è mostrata in maniera sublimemente articolata l’espressione di un mondo che non conosceva barriere etniche, o di colore, o di religione, che esultava dell’eredità di tutto il genere umano, e non cercava di dominare o di conquistare questa eredità, eccetto per la coscienza che aveva del proprio contributo personale e della propria partecipazione in essa.
Dal Diciottesimo secolo, in un continuum lineare ininterrotto fino ai nostri giorni, quello spirito è proseguito, nell’arte, nella letteratura, nella musica e nella filosofia, fino a che oggi, al mondo, non esiste uomo né donna che non siano in un modo o nell’altro più ricchi per merito suo. Quando ho visitato per la prima volta la Germania, nel 1926, le manifestazioni di questo spirito erano ovunque, anche nelle maniere più chiare e inequivocabili. Uno non poteva passare, per esempio, davanti alla ricca vetrina di una libreria in una qualunque città tedesca, senza notare all’istante la straripante manifestazione dell’entusiasmo intellettuale e culturale del popolo tedesco. Ora che è montata l’indignazione del mondo, è troppo facile ridicolizzare queste cose come manifestazioni della pesantezza teutonica, del pedagogismo prussiano, l’ennesima prova della gravezza senza immaginazione del loro carattere. Ma la semplice e cruda verità è che era una cosa magnifica e nobile e, senza voler fare un paragone invidioso, un attento esame del contenuto di una libreria tedesca o di una sua vetrina, avrebbe rivelato un’ampiezza di visione, un interesse verso la produzione culturale del mondo intero, che avrebbero fatto scomparire, al confronto, qualsiasi libreria francese con tutte le sue costrizioni linguistiche e geografiche.
In Germania, i migliori scrittori di ogni nazione d’Europa erano tanto conosciuti quanto nella propria. Il nome di certi americani come Theodor Dreiser, Sinclair Lewis, Upton Sinclair, Jack London, non solo erano molto conosciuti, ma i loro libri erano venduti e letti dappertutto, in ogni angolo del paese; e il lavoro dei nostri giovani scrittori era accolto, pubblicato, letto e giudicato con fervente passione, come capitava al lavoro degli scrittori di ogni parte del mondo.
parte del mondo. Anche nel 1935 quando, dopo un’assenza di quasi cinque anni, ho visitato di nuovo la Germania, e per la prima volta sotto il regime di Adolph Hitler, le manifestazioni di questo nobile entusiasmo, ora mutilato e sommerso, erano visibili nella maniera più toccante. È stato detto da alcuni che in Germania non si pubblicano più buoni libri, perché i buoni libri non possono essere più pubblicati né letti. Questo non è vero, come non sono vere tante cose che si leggono oggi sulla Germania. E oggi, sulla Germania, è nostro dovere dire la verità. E il motivo per cui dobbiamo dire la verità è che la cosa contro cui ci battiamo è falsa: non possiamo porgere l’altra guancia a ciò che è errato, ma non possiamo neppure sbagliarci contro chi sbaglia. Non possiamo far incontrare sbaglio con sbaglio: dobbiamo essere esatti in merito. E non possiamo far incontrare bugie e falsità con altre bugie e altre falsità, anche se c’è chi dice che dovremmo. Così non è vero che i buoni libri non possono più essere pubblicati in Germania. E visto che non è vero, la tragedia della Germania – e la sopravvivenza del grande spirito tedesco – anche nei modi subdoli e deviati in cui si manifesta adesso, è ancora più commoventemente evidente di quanto non sarebbe se fosse vero. I buoni libri si pubblicano ancora se la sostanza e la materia del libro non mettono in discussione o non criticano, apertamente o per implicazione, il regime attuale. Sarebbe stupido e insensato affermare che ogni buon libro dovrebbe mettere in discussione o criticare il regime attuale, solo perché è un buon libro.
Per tutte queste ragioni, la fervente passione, la curiosità, e l’entusiasmo dei tedeschi nei confronti dei libri che è ancora possibile leggere, si sono, semmai, commoventemente accresciuti. La passione che hanno di scoprire cosa succede nel mondo, che cosa viene scritto e pubblicato fuori dalla Germania, l’entusiasmo generoso per gli scritti americani che gli è ancora permesso leggere, è tanto straripante quanto patetico. Si potrebbe paragonare la sopravvivenza dello spirito tedesco, in queste condizioni, a quella di un uomo che sta morendo di sete in un arido deserto e inghiotte con avidità il contenuto di una sacca d’acqua, o a quella di un uomo che sta affogando e si aggrappa disperato al pennone galleggiante della sua nave naufragata.
Tutt’intorno a me, mentre trascorrevano quella primavera e quell’estate del 1935, vedevo i segni di questa dissoluzione, di questo naufragio di un grande spirito, di questo veleno miasmatico che affondava come nebbia pestilenziale nell’aria stessa, corrompendo, ammorbando, corrodendo col suo tocco abrasivo, grazie alla paura, alla pressione, alla soppressione, alla diffidenza patologica, al disagio spirituale, le vite di chiunque conoscessi. Era, e lo era dappertutto, invisibile come la peste, inequivocabile come la morte: affondava dentro di me, attraverso tutto il canto dorato di quel maggio, fino a che l’ho sentita, l’ho respirata, l’ho vissuta, e la conoscevo per quel che era. Sono tornato ancora in Germania, forse per l’ultima volta in cui mi sarà permesso visitare quella magica terra, nel 1936.
Questa volta, il benvenuto che ho ricevuto è stato persino maggiore di quello dell’anno prima. Il mio secondo libro era appena stato pubblicato; aveva avuto un’ottima accoglienza: adesso ovunque andassi c’erano persone che conoscevano il mio lavoro. Ma qualcosa per me era sparito dalla vita.
Era la stagione dei grandi Giochi olimpici e ogni giorno andavo allo stadio di Berlino. E proprio come quell’anno di assenza aveva segnato la manifestazione di una crudele e progressiva dissoluzione nella vita di tutte le persone che conoscevo, aveva anche segnato la manifestazione schiacciante di una concentrazione accresciuta, di un’organizzazione strabiliante, di un’incredibile capacità di ordinare e mettere insieme nel vasto potere collettivo dell’intera nazione. E come se questi Giochi fossero stati scelti a simbolo di questo nuovo potere collettivo, come mezzo per mostrare al mondo in termini concreti che cosa fosse diventato questo potere, sembrava che ogni sforzo e ogni energia della nazione fossero stati radunati e disciplinati allo scopo. È probabile che, in tempi moderni, non ci sia mai stata manifestazione più grandiosa: i Giochi non erano più Giochi, non erano più una serie di esercizi competitivi ai quali le nazioni del mondo avevano mandato a partecipare le loro squadre. I Giochi erano una disciplinata e soverchiante dimostrazione di forza, a cui l’intera nazione era stata addestrata e a cui l’intera nazione prendeva parte.
Chi ha assistito a questa dimostrazione non potrà mai dimenticarla. Nella smodata sfarzosità dell’evento, i Giochi stessi sono stati messi in ombra. Ma la grande capacità organizzativa e il genio del popolo tedesco che erano stati impiegati così spesso per fini tanto nobili, non si erano mai dispiegati in modo così dirompente come allora. Non c’era mai stata, nell’intera storia dei Giochi, una preparazione tanto completa e perfetta, e una disciplina tanto calma e ordinata.
Senza alcuna esperienza pregressa, il popolo tedesco ha costruito uno stadio imponente che non è solo il più bello, ma il più perfetto per progetto e funzionalità di quello che, in tempi moderni, abbiano progettato in ogni altra nazione.
E tutti gli elementi annessi a questo grande impianto – le piscine, le grandi sale e gli stadi più piccoli – sono stati tutti pensati e progettati con la stessa fusione di bellezza e funzionalità.
L’organizzazione era superba. Giorno dopo giorno immense folle, che nessun’altra città aveva mai dovuto gestire in tempi moderni, e che avrebbero certamente congestionato e sconvolto il traffico di New York e tutti i suoi mezzi di trasporto, erano coordinate con una calma, un ordine e una rapidità sorprendenti.
Lo spettacolo quotidiano era soverchiante nella sua bellezza e magnificenza. Da un capo all’altro di Berlino, dal Lustgarten alla Brandenburger Tor, lungo l’intero e ampio snodo dell’Unter den Linden, attraverso le larghe strade e i boulevard del verde e fatato Tiergarten, fino al grande Ovest di Berlino e ai veri e propri portali dello stadio, la città era uno sfavillante sfoggio di striscioni reali – non semplicemente delle file infinite di bandierine intrecciate, ma striscioni alti quindici metri, come avrebbe meritato la tenda da campo di un grande imperatore. Era un torneo sfavillante di colori che mi prendeva la gola, e che, nel suo splendore ammassato e nella sua dignità magnificente, faceva sì che tutte le decorazioni gaudenti delle nostre World Fair, le nostre inaugurazioni, le nostre grandi parate, sembrassero, al confronto, il dispiegarsi di un ridicolo carnevale.
E per tutto il giorno, a partire dal mattino, Berlino diventava un possente Orecchio, intonato, attento, focalizzato, sullo stadio. Da un margine all’altro della città, l’aria diventava una sola voce. I verdi alberi del Kurfürstendamm avevano cominciato a parlare: oltre l’aria cieca, nascosta dentro diecimila alberi, una voce parlava dallo stadio per quattro milioni di persone – e per la prima volta nella sua vita, un orecchio yankee viveva la strana avventura di sentire i termini familiari dell’atletica leggera tradotti nella lingua di Goethe. Adesso sapeva che Vorflauf voleva dire corsa – e poi lo Zwischenlauf – infine l’Endlauf – e il vincitore: Owens – Oo - Ess - Ah.
Nel frattempo, lungo tutte quelle strade sfavillanti di striscioni, le folle si accalcavano senza sosta per l’intera giornata. Da cima a fondo, la vasta promenade dell’Unter den Linden era gremita di un’orda innumerevole di mobili e pazienti piedi tedeschi. Padri, madri, figli, giovani, vecchi, tutta la fibra della nazione era lì, da ogni angolo del paese: camminava faticosamente, gli occhi sbarrati, carichi di meraviglia, passava sotto il prodigio di quelle strade ricoperte di infiniti striscioni, dalla mattina alla sera.
E nel frattempo, vedevi brillare le facce straniere: i tratti ombrosi dei francesi e degli italiani, lo sdegno eburneo dei giapponesi, i capelli chiari e gli occhi azzurri degli svedesi, i luminosi accessi di colore delle casacche olimpiche, i grossi americani, eleganti nei loro cappelli di paglia, le casacche blu sormontate dal sigillo olimpico e la flanella bianca, e le squadre delle altre nazioni, coi loro colori gioiosi e ricercati.
E c’era un gran dispiegamento di uomini in marcia, a volte disarmati e sempre a ritmo, enormi reggimenti di camicie brune che ondeggiavano lungo le strade; e ancora, a loro agio, giovanotti che ridevano, parlavano tra loro, le lunghe file dei guardaspalle di Hitler, con le uniformi nere e gli stivali di pelle, gli uomini delle Schutzstaffel, si dispiegavano in file ininterrotte dalla casa del Leader in Wilhelmstrasse fino agli archi della Brandenburg Tor; poi, d’improvviso, arrivava il secco comando, e all’istante, in maniera indimenticabile, lo schiocco liquido di diecimila piedi nei loro stivali di pelle partivano insieme col suono della guerra.
Per mezzogiorno, tutte le maggiori vie di accesso ai Giochi, quelle strade incantate che il Leader stesso avrebbe percorso da Wilhelmstrasse fino all’immenso stadio, erano tappezzate di truppe, dietro le quali aspettavano le pazienti, fitte, incredibili masse, giorno dopo giorno.
E se dentro lo stadio era un miracolo di colori, struttura, progetto e pianificazione, il fuori, con le enormi masse di persone che aspettavano e aspettavano, era qualcosa di incancellabile dalla memoria. Tutto era stato plasmato e pianificato per questo scopo trionfale, forse; ma la gente – non era stata pianificata. Stavano là e aspettavano, giorno dopo giorno – i poveri della terra, gli umili della vita, gli operai con le mogli, le madri e i figli della nazione. Erano là perché non avevano abbastanza soldi per comprarsi il magico cartoncino quadrato che avrebbe dato loro un posto dentro l’anello magico. Erano là con un unico scopo – aspettare dal mattino alla sera i due soli brevi e gloriosi momenti della giornata: l’attimo in cui il Leader arrivava, e l’attimo in cui se ne andava. Alla fine era arrivato: e qualcosa come un vento su un prato d’erba, si agitò tra la folla, e da lontano la marea saliva insieme a lui che custodiva la speranza, la voce, la preghiera della nazione. E Hitler passava, lentamente, in un’automobile scintillante, eretto, immobile, senza sorridere, con la mano alzata, il palmo aperto, non nell’esatto saluto nazista, ma a palmo alzato, con una sacralità e dei gesti come quelli che usano i Buddha e i messia.