L'isola dei conigli, di Elvira Navarro

LiberAria Editrice porta in libreria L’isola dei conigli, di Elvira Navarro, con la traduzione di Sara Papini e la prefazione di Rossella Milone.
Un immaginario netto e potente, dove il passaggio, la metamorfosi, la transizione, non è sempre una liberazione. Come ne La lavoratrice, la scrittura di Navarro trascina il lettore ai confini tra reale e fantastico, ponendosi sul crinale più esterno della razionalità e chiedendo al lettore di guardare a occhi aperti l’oscurità.

Cattedrale vi propone il racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

L’ISOLA DEI CONIGLI

 Elvira Navarro

Costruì una canoa e decise di provarla nel Guadalquivir. Non gli interessava lo sport. Nemmeno aveva fatto la canoa per usarla spesso; sapeva che, non appena esplorati gli isolotti, l’avrebbe lasciata nel ripostiglio o l’avrebbe venduta. Si considerava un inventore, anche se le cose che fabbricava non potevano proprio essere definite invenzioni. Ciò nonostante, aveva iniziato a giudicare come tali tutto quello che progettava, perché non utilizzava il libretto d’istruzioni. Il suo metodo era scoprire da sé il necessario per elaborare quello che era già stato fatto. Il procedimento gli portava via mesi e lo considerava la sua vera vocazione. Inventava ciò che era già stato inventato. In questo modo otteneva un piacere simile a quello degli escursionisti che la domenica vanno in montagna e raggiungono una cima, e si domandava come mai la realizzazione personale fosse qualcosa di così bizzarro. Di mattina, il falso inventore lavorava come professore in una scuola d’arte senza sentirsi realizzato, nonostante le lezioni fossero utili per i suoi studenti.
Fin da bambino aveva desiderato raggiungere le lingue di terra che si addentrano nel mare, o le isole in cui non abita nessuno. Una volta, quando aveva diciott’anni, i suoi genitori l’avevano invitato con loro a Tabarca con la promessa di un’isola deserta. Lui aveva creduto che avrebbero pestato soltanto terra e cespugli, ma si era imbattuto in sette vie di umili case, delle mura, una chiesa, un faro, due hotel e un porticciolo. Probabilmente i suoi avevano esagerato con il fatto che non c’era nulla a Tabarca per convincerlo ad andare in vacanza tutti insieme – a loro non piaceva che rimanesse a casa da solo –; o forse quando parlava di luoghi disabitati non avevano mai capito a cosa si riferisse.

Era difficile contare gli isolotti della riva del Guadalquivir che costeggiava la città. Alcuni potevano essere scambiati per piccole penisole. Una mattina di settembre camminò fino al molo con la sua imbarcazione e si buttò in acqua. Passò diversi giorni a sondare la canoa, e dopo che fu in grado di controllarla, cominciò a esplorare il fiume. Non pioveva da settimane. La portata era scarsa, le acque tranquille, fetide. Percorse il perimetro delle isole con un misto di inquietudine e stupore, senza riuscire ad avvicinare la canoa alla riva. Dubitava della sua abilità di manovra rapida, temeva che la terra ai margini non fosse salda, di scivolare e di perdere la canoa. Inoltre, lo spaventava l’idea di dover tornare a nuoto, a labbra strette per non ingoiare i miasmi, e vedere tanta natura insieme, la vegetazione variopinta e vibrante di insetti, lo strato di escrementi di uccelli, il fango. Ciò che aveva creduto bello erano soltanto alberi storti dal peso dei volatili, o magari da qualche malattia, così come colonie di insetti e arbusti mangiati dall’immondizia.
Al quinto giorno di vagabondaggio con la canoa, decise di percorrere la curva del Guadalquivir. Remare verso sud gli permetteva di non perdere di vista le morbide colline della campagna. Da quelle parti le isole erano minuscole, più aspre, ed erano molto vicine una all’altra, come un’eruzione cutanea. Le aggirò a fatica; nell’ultima si imbatté nel cadavere di un uomo che galleggiava tra i giunchi. Il morto giaceva a faccia in giù, in mutande; la pelle della schiena si sollevava formando bolle grandi quanto una mano. Non sapeva se le bolle si fossero formate per via del sole, che ancora bruciava a settembre, o per il fatto che il corpo era così pieno di liquido da essersi deformato. Il fiume appestava. Chiamò la protezione civile e gli agenti arrivarono in un dinghy con cui era impossibile farsi strada tra i giunchi. Nel dinghy trasportavano una canoa; mentre un poliziotto grasso saliva su di essa, lui si avvicinò alla lancia e chiese il permesso di andarsene. Non voleva assistere al trascinamento del morto stecchito. Lo atterriva l’idea che si potesse voltare, mostrando così le viscere fuori dal corpo, divorate dai pesci.
L’episodio del morto lo tenne lontano dal fiume per diverso tempo. Poi riprese a fare il suo giro vespertino intorno alle isole, e un giorno, dopo aver racimolato il coraggio di mettere piede su quella più vicina al molo, decise di abitarla. Si disse che era stufo di vivere in città, e pure che lo eccitava fare quello che nessun’altro faceva. Si trattava soltanto di due idee peregrine con cui a volte percorreva le vie dell’urbe, troppo ossessiva secondo lui, una spirale che lo attraeva verso il centro.
In realtà non poteva dare nessuna giustificazione per spiegare il perché volesse occupare quel pezzo di terra stretto e nauseabondo, che l’avrebbe fatto sentire ancora peggio che in città.
Nonostante fosse l’isola più vicina alla riva, la boscaglia impediva di vederne l’interno. Ripulì il centro dai cespugli, abbatté alberi il cui tronco era così sottile da sembrare fatto di corda. Come faceva quel legno gracile a sostenere una chioma di un verde pletorico? Decise di montare una tenda da campeggio rossa invece che verde militare. Era ben coibentata, ma l’idea di svegliarsi ricoperto di insetti lo riempiva di terrore. Pensava che, dormendo in alto, si sarebbe difeso dalle larve che pullulavano cieche nel terreno, offuscate nella profanazione della terra, che sembravano intuire i loro predatori. I volatili le acciuffavano facilmente: mettevano il becco sotto la sabbia e frugavano. Costituivano una fonte di cibo inesauribile; tuttavia, gli uccelli non si nutrivano sempre di esse. Forse, siccome erano fatte soltanto di acqua, non erano abbastanza sostanziose, e c’era bisogno di cercare insetti più sofisticati e nutrienti. Un pomeriggio ne esaminò una. La prese in mano, e l’animaletto danzò su sé stesso. Quando la strinse un po’ con l’indice, esplose come un minuscolo palloncino.
Non dormiva nell’isolotto tutte le sere; sarebbe impazzito. Gli bastava svegliarsi lì un paio di volte a settimana. Le notti che si fermava in quella macchia del Guadalquivir, nel buio percepiva un ronzio. Gli uccelli erano silenziosi, tranne quando le civette attaccavano, e si udiva soltanto il frullo d’ali di quelli che venivano cacciati via da qualche pioppo. Stavano molto stretti; e se scuotevano la testa sotto l’ala e gonfiavano l’ingluvie, quelli che occupavano le estremità dei rami cadevano. Il ronzio che lo torturava non era dovuto a questi rantolii del sonno, ma allo strepitio dei volatili al tramonto, quando cercavano un posto negli alberi, così brutale che era impossibile fare un calcolo approssimativo di quanti giungessero a quella misera terra natale. Gli parevano migliaia. Per un’ora, pigolavano in modo tale che il suono gli rimaneva dentro, e nemmeno con le cuffie a massimo volume riusciva ad attenuarlo; a volte usciva dalla tenda gridando per metterli in fuga, ma lo stormo neanche si accorgeva della sua presenza. Era come un pezzo d’alga in mezzo all’oceano; i volatili forse lo scambiavano per un uccello ridicolo. Finiva con la gola dolorante da tanto gridare, e non voleva confessare a sé stesso che mentre urlava e faceva smorfie grottesche qualcosa dentro di lui si liberava. Spesso perdeva la nozione del tempo e continuava a ululare in piena notte, quando gli uccelli erano ormai silenziosi; allora gli scarsi viandanti sulla riva guardavano verso l’isola pensando che le urla appartenessero a qualche animale.
Gli uccelli andavano sull’isolotto a dormire, ad allevare i piccoli, a morire. Era tutto pieno di nidi e di palline di sterco, e quando il falso inventore tornava a casa, non riusciva a liberarsi dalla puzza di escremento, nemmeno facendo la doccia. A quanto pareva, quei volatili bianchi erano una piaga. Glielo aveva detto un vecchio che pescava sull’imbarcadero. Al vecchio aveva anche domandato il nome degli animali, ma questi non aveva saputo dirglielo. Cercò informazioni in Internet e non trovò nulla. Diede un’occhiata a una guida della fauna del Guadalquivir; gli uccelli della sua isola non coincidevano con nessuno degli aironi descritti. Non indagò oltre; alla fin fine, trovare a che specie appartenessero non cambiava la sua decisione di trasformarsi, per un paio di volte a settimana, in un essere che ruggiva contro creature che lo ignoravano, che dormivano nonostante scagliasse contro di loro pietre furiose. Non si degnavano di guardarlo nemmeno quando la collera lo spingeva ad agitare i tronchi gracili degli alberi. Le chiome si muovevano da una parte all’altra, e a volte quel movimento diventava violento; il dondolio dei rami dava l’impressione che alcuni robusti madonnari trasportassero l’isola sulle spalle.
Con il passare delle settimane, il falso inventore si convinse che l’occupazione fosse un atto di giustizia. Perché doveva chiedere il permesso per abitare un posto vuoto? Era per lui incomprensibile che gli altri isolotti fossero ancora vergini, ma questa non era la cosa peggiore; la cosa intollerabile era la mancanza di curiosità degli abitanti di un capoluogo dove vivevano più di trecentomila persone. Tra tanta gente, solo lui si prendeva la briga di visitare ciò che avevano davanti al naso?
Cominciò a lasciare soldi nella tenda per vedere se qualcuno li rubava. Sebbene i canoisti che remavano lungo il Guadalquivir non dovevano per forza essere ladri, di sicuro c’erano malviventi in agguato, qualche vagabondo affamato che senza dubbio avrebbe sgraffignato la sua generosa banconota. Tutti i giorni controllava che i cinquanta euro fossero ancora lì. E così era. Nessuno prendeva mai quei soldi. Nessuno metteva piede nella sua isola.
Quando non inventava ciò che era già stato inventato, il falso inventore faceva installazioni che non chiamava arte. Ad esempio, aveva tolto la pelle a dieci cani di peluche che abbaiavano e sgambettavano accendendo gli occhi. Poi aveva sistemato la pelle sulle zampette e messo i cani in una gabbia per conigli. Aveva creato un meccanismo per azionare i pupazzi con un comando a distanza. Quando gli amici andavano a trovarlo, lui schiacciava il bottone. Dieci cani di peluche scuoiati abbaiavano muovendo le zampette all’indietro sulla loro stessa pelle, accendendo un paio di occhi gialli.
I suoi amici gli consigliavano di vendere quell’installazione a una campagna per la protezione animali e lui si stringeva nelle spalle. Altri non avranno già sfruttato quell’idea? In fondo pensava che, se era venuto in mente a lui, probabilmente l’aveva visto da qualche parte, anche se magari non se lo ricordava. Per questo non voleva che qualcuno considerasse arte quelle installazioni. Lo terrorizzava l’idea di esporre e di sentire i commenti a voce alta definire le sue opere nient’altro che una copia. Non sapeva perché temesse quella critica, visto che tutto sommato non credeva nella novità e poteva argomentare a lungo a riguardo, perfino le volte in cui non era capace di ricordare l’origine delle sue appropriazioni. Oltre alla gabbia piena di cani di peluche, erano suoi un circo di pulci meccaniche all’interno di una dispensa, una piastra per sandwich costruita con due ferri da stiro con cui scioglieva formaggio stagionato sulle mani degli invitati quando festeggiavano qualcosa, una pila di libri sopra la quale si era accumulata la polvere per più di vent’anni – ciò che copriva i libri erano ormai palle di sudiciume –, e la cui importanza risiedeva nel fatto che quella polvere conteneva cellule morte di tutti i suoi famigliari, ormai deceduti.
Fu la gabbia dove teneva i cani peluche a fargli venire in mente l’idea di liberare dei conigli nell’isola per mettere in fuga gli uccelli. Decise che non si sarebbe più fermato la notte a dormire. Aveva ormai gridato abbastanza. Avrebbe lasciato la tenda per andare a osservare i conigli e a schiacciare un pisolino. Era autunno inoltrato, avevano messo indietro l’ora; non era più una follia remare alle quattro del pomeriggio e godersi il venticello frizzante del fiume, la cui portata era ancora fetida come d’estate per via della siccità. Comprò venti conigli, dieci maschi e dieci femmine, che si riproducevano a grande velocità. Nell’isola presto non ci sarebbe stato cibo per loro. Il falso inventore credeva che i nuovi abitatori, quando non avessero avuto altro da mangiare, avrebbero attaccato i nidi sistemati a terra. Se gli uccelli non potevano allevare i loro piccoli nell’isolotto, se ne sarebbe andati in un altro.
I conigli erano bianchissimi e dal pelo lungo. Avevano gli occhi rossi, gli erano costati più cari che se li avesse comprati grigi o marroni, ma aveva ritenuto necessario che avessero lo stesso colore dei volatili. Si disse che popolare l’isola con quegli animali era il suo modo di continuare ad abitarla. Finì per permettere ai conigli di entrare nella tenda, dove preferivano stare, senza dubbio perché così erano al riparo dal sole e perché la terra non era adatta a far le tane. Nella tenda si misero a partorire coniglietti senza pelo simili a ratti.
Non appena i conigli divorarono i cespugli, i nidi cominciarono a vuotarsi di uova, manicaretto che sembravano apprezzare in modo particolare, visto che in più di un’occasione aveva assistito a lotte per rodere il fine guscio azzurrino. Non litigavano, tuttavia, per i pulcini, e per il falso inventore era evidente che mangiavano quella carne appena nata a malincuore, con una certa tristezza, come se le intelligenze ottuse reagissero di fronte a quella situazione crudele. Il loro atteggiamento, pensava, era in sintonia con l’umanità che rappresentavano, che altra non era se non la sua, il loro proprietario. Forse per quello fu sorpreso che, nonostante gli scrupoli iniziali, poi non lasciassero nemmeno le ossa, come avrebbe fatto qualsiasi persona. Con i piccoli incisivi attaccavano le ingluvie delle creature, e un alone di sangue tingeva, dello stesso colore degli occhi, i musetti tremolanti e i peli sottili dei baffi. Quando finivano con la carne, frugale, passavano lunghi minuti a rodere gli scheletri, facendo un rumore peculiare, di rami secchi spezzati. Si mangiavano anche il becco, e una volta concluso, si lucidavano fino a far tornare il manto di un bianco splendente.
Durante il banchetto, gli uccelli volavano intorno gracchiando angosciati. Rimanevano per ore sul luogo del delitto, come se da un momento all’altro la loro prole potesse apparire dietro a una pietra. Il falso inventore trovava curioso che non pensassero di attaccare i conigli. Sarebbe stato semplice per i volatili strappare con i becchi affilati gli occhi di quei predatori, ma forse le manovre di gruppo erano estranee al loro istinto.
Non calcolò che i coniglietti nati lì non avrebbero mai mangiato altro che carne e uova, e che quello snaturamento avrebbe arrecato qualche conseguenza funesta. Per un altro po’, i volatili furono abbastanza scemi, o audaci, da continuare a nidificare nell’isola, ma quando i nidi cominciarono a scomparire, il falso inventore si accorse che lo facevano anche le cucciolate di conigli. Una mattina fu testimone del perché: i loro congeneri se le mangiavano. Lo spettacolo lo inorridì e si sbarazzò dell’idea che quegli animali fossero un’estensione della sua persona. Anzi: gli parvero una piaga, esattamente come gli uccelli, e se continuò a frequentare l’isola, fu perché si sentiva in colpa ad abbandonare quelle bestie che aveva degradato.
Un giorno provò con il mangime. I conigli si limitarono ad annusarlo, poi si dedicarono a incontri sessuali che possedevano un pizzico di morbosità. Avevano imparato a riprodursi per mangiare, e ciò moltiplicava gli accoppiamenti. Il falso inventore pensò che il bisogno accelerasse la gestazione. Ogni volta che una femmina partoriva si alimentavano tutti; quando avveniva il parto silenzioso, i conigli braccavano la partoriente come se ci fosse la possibilità di mangiarsi anche lei. Siccome non mostravano più interesse per i nidi dei volatili, questi tornarono a nidificare.
La tenda da campeggio si vedeva dalla riva. A lui non importava. Ciò che c’era in quel pezzo di terra non era tanto diverso dagli accampamenti che rom e mendicanti montavano sotto i ponti delle circonvallazioni. Finché non davano fastidio, nessuno proibiva loro di dormire lì. La sua isola era lontana dal complesso monumentale che si scorgeva dall’altra sponda del fiume. Aveva di fronte la fine della città, dove, oltre a edifici nuovi e brutti, c’era soltanto un centro commerciale vicino a uno stadio che non era mai stato importante. Anche lui era visibile quando stava sull’isolotto, e alcuni bambini lo salutavano dal molo e gli chiedevano urlando di caricarli sulla canoa. Il falso inventore rispondeva loro scuotendo la testa in maniera enigmatica. L’attenzione dei bambini lo imbaldanziva e lo preoccupava allo stesso tempo. Non voleva che sapessero cosa stava succedendo coi conigli, che si intravedevano dal belvedere; erano come piccole palle bianche che si scontravano l’una con l’altra. Di notte, se c’era abbastanza luna, lo splendore del loro manto si confondeva con quello degli uccelli, e sembrava che i volatili dormissero a terra.
I conigli non mangiavano mai i propri cuccioli fuori dalla tenda. Sembrava che sapessero di trasgredire a una legge. E anche se guardarli mentre si nutrivano dei propri discendenti stringeva il cuore e li rendeva abietti, quando se ne stavano tranquilli diventava evidente che in loro c’era qualcosa di ipnotico, maestoso, che aumentava col passare del tempo, e che magari aveva a che fare con l’agire contro natura. Forse avevano smesso di essere conigli, pensava, o in qualche modo sapevano di essere i protagonisti di qualcosa che non era mai accaduto in quel modo nella loro razza. In certi momenti, il falso inventore sentiva pena per la loro scomparsa, e allora si dimenticava delle circostanze per cui quegli esseri avevano finito per sbafarsi i propri figli. L’evento spiccava come un fatto puro, senza motivo; un fatto chiamato a inaugurare un mondo nuovo. Tutto ciò avveniva in sordina, perché ancora non esisteva un linguaggio per una realtà che iniziava a compiere i primi passi. Il falso inventore si limitava a continuare ad andare sull’isolotto e a rispondere con diffidenza alla richiesta degli infanti di essere portati in canoa. Di notte, nel casone in cui viveva, ereditato dalla nonna, sognava i genitori di quei bambini, udiva le loro voci come se fossero una montagna di gente che lo schiacciava mentre le camere si riempivano d’acqua e del colore azzurro delle piscine. Si diceva che si trattava di una volgare ossessione da cui si sarebbe liberato non appena si fosse deciso ad abbandonare quelle creature, e soltanto per via di alcuni atteggiamenti del corpo, improvvisamente estatico accanto ai conigli, era possibile dedurre che cominciava a sentirsi come uno di loro. Forse i capelli, precocemente incanutiti, avrebbero raggiunto il bianco favoloso di quegli animali ormai sacri, e i suoi occhi, insanguinati da piccole emorragie che l’oculista attribuiva a una congiuntivite persistente, sarebbero finalmente guariti solo una volta diventati completamente rossi.
Un giorno, il falso inventore smontò la tenda da campeggio e smise di andare sull’isola. Gli abitanti degli edifici sulla sponda si domandarono che fine avesse fatto quel pazzo che allevava conigli che erano morti poche settimane dopo la sua scomparsa, e i cui cadaveri avevano formato un grazioso manto bianco.