Atlantide edizioni porta in libreria Victoria Park, di Gemma Reeves, tradotto da Marina Sirka Mosur. Un libro, come dice Naomi Ishiguro, dalla forza empatica immensa.
I luoghi uniscono le vite delle persone in modi inaspettati. Le case, i quartieri e le città, più che semplici fondali davanti ai quali si trascorre la vita, possono custodire le molteplici ragioni di un’esistenza felice, di una famiglia che si sfalda, di un amore che nasce dove non lo si aspetterebbe, di una comunità che si riconosce tale. Attraverso i protagonisti di Victoria Park – dodici, uno per ogni mese dell’anno, da ottobre a settembre – Gemma Reeves tratteggia vite e destini, scelte decisive e coincidenze inaspettate in una narrazione corale di grande eleganza e lirismo, fatta di dettagli minimi e insieme universali.
Cattedrale vi propone il primo racconto della raccolta, per gentile concessione dell’editore.
Ottobre
Affumicare il salmone
In fondo al giardino c’è un capanno che Wolfie aveva costruito nell’estate del 1951, lo stesso anno in cui aveva compiuto diciannove anni e aperto il deli kosher a pochi passi da Victoria Park. Aveva recuperato il legno da una casa distrutta durante il Blitz e posato il tetto con le tegole rosse sottratte alle macerie. Da sessantasei anni Wolfie usava quel capanno per affumicare salmoni. Era là quando si era fatto un nome per i migliori bagel di Hackney, quando aveva sposato Mona, quando era morta loro figlia, quando l’anno prima era finalmente andato in pensione e aveva ceduto le redini dell’attività al vicino di casa, Luca.
Quel mattino, Wolfie si svegliò all’alba e andò a controllare il salmone. Attraversò l’erba umida di rugiada fino al capanno e schiuse appena la porta per non disturbare il buio. Prese la piccola torcia appesa a un chiodo arrugginito e illuminò i salmoni. Sembravano sculture di marmo sospese alle travi. Decenni di fumo avevano stagionato le pareti ricoprendole di una patina diventata appiccicosa col tempo. L’odore di terra nel capanno gli ricordava quello dei grandi falò che accendevano nel parco per la notte di Guy Fawkes, quando lui se ne andava in giro per il quartiere a racimolare qualche spicciolo per la festa.
Nessuno tranne Mona conosceva il suo metodo per affumicare il salmone, e quel mistero lo rendeva ancora più affascinante. «Usa il succo di barbabietola?», alcuni clienti gli chiedevano. Lui scuoteva la testa, «No, no. Ma vuole scherzare?». «Miele?», azzardavano. E lui rideva. Dal giorno in cui aveva scoperto la giusta combinazione di melo e quercia in trucioli per l’affumicatura e da quando Abe, il suo pescivendolo, aveva iniziato a ordinare solo per lui il prelibato salmone scozzese Loch Duart, Wolfie non aveva modificato un solo dettaglio della procedura. Ritirava i salmoni quarantotto ore prima di venderli o di mangiarli e li trasportava subito al capanno. Poteva sistemarci sei pesci interi e li portava dentro uno per volta, adagiati per lungo tra le braccia come bebè per non rovinare la carne. Dopo affilava i coltelli, acciaio su acciaio come campane che suonavano a festa. Con due colpi sapienti eliminava testa e coda, poi faceva scorrere la lama lungo il centro. Sollevava i due filetti verso la luce per farne risplendere l’argento della pelle prima di rimuovere anche quella, quindi ne ricopriva i dorsi con un’abbondante crosta di sale grosso e un po’ di melassa e li infilzava uno a uno su un lungo gancio d’acciaio.
Il salmone per la cena dello Shabbas di quella sera era rimasto sotto sale per dieci ore. Wolfie controllò la crosta dei filetti appesi alle travi. Lava via il sale con l’acqua presa dall’innaffiatoio di latta. Accese i trucioli e chiuse con delicatezza la porta, come se non volesse svegliare le sue creature. Nel giro di dodici ore, l’arancione pallido dei filetti sarebbe diventato sempre più intenso, rispecchiando le variazioni di colore del sole all’imbrunire, poco prima di svanire dietro l’anello di faggi del parco. Solo allora avrebbe affettato il salmone dall’alto verso il basso, alla maniera scandinava, tagli di due centimetri di spessore. Trovava quel rituale molto piacevole, i gesti e i movimenti familiari, come posare un braccio intorno ai fianchi di Mona di notte.
Wolfie aprì il cancello del giardino e si diresse verso il lato ovest del parco. La passeggiata giornaliera prescrittagli da Mona subito dopo il pensionamento. «Nervi, lacrime, rabbia… Cammina che ti passa!», era solita ripetergli. E aveva ragione, come il più delle volte. L’aria fresca fresca nei polmoni lo tirava su; sgranchire i muscoli delle gambe gli procurava un bruciore piacevole, segno di vita attiva, di buona salute. Quel parco aveva quasi duecento anni e lui immaginava le radici sotto le sue scarpe da ginnastica bianche, aggrovigliate da decenni, che si spingevano oltre i cancelli, antiche e ambiziose. Pioppi neri, eucalipti, castagni: erano tutti maestosi, certo, ma anche storti e curvi; alcuni persino goffi, e questo lo aiutava ad accettare il proprio corpo. L’artrosi, i calli, le macchie della pelle. Lui invecchiava, gli alberi pure. Era il corso della natura: alla crescita seguiva il declino.
Grove Road divideva il parco in due e lui la percorse in direzione sud, verso il canale, superando il vecchio lago con le barchette. Al centro c’era un isolotto su cui spiccava una pagoda rossa, affiancata da olmi inglesi e faggi. Gli uccelli acquatici, rimpinguati dalle molliche di pane, nuotando trasformavano in macchie astratte le immagini riflesse dei salici e dei maggiociondoli. I runner si allenavano percorrendo il parco da un estremo all’altro, coppie di amici correvano e chiacchieravano, senza mai restare a corto di fiato. Alcuni che passeggiavano con i cani gli augurarono il buongiorno. Una giovane mamma che comprava sempre i bagel al deli lo salutò con la mano. Era bello vedere le stesse persone ogni mattina, come quando lavorava.
A metà percorso si sedette sulla sua panchina preferita e sfiorò la targa con la scritta in oro sbiadito: Shirley-Ann: svanito il canto, rimane la melodia. Un nome così da ragazzina, Shirley-Ann. Immaginò che fosse stata una corista, occhi azzurri e riccioli d’oro, però morta giovane, lasciando dietro di sé un fidanzato, forse. Si massaggiò le ginocchia, i dolori dell’artrite erano più intensi al mattino. Non riusciva ad abituarsi all’acuta consapevolezza che aveva ormai delle sue ossa.
Un uomo di mezza età chiamò a gran voce un bobtail. Un gruppo di donne nei pressi del roseto erano totalmente immerse in una qualche pratica New Age. Un insieme di legging sgargianti e movimenti lenti delle braccia. Giravano su se stesse come i carillon dei bambini. Non sapeva che roba fosse ma lo rilassava. Il cielo passò dal grigio al rosa chiaro.
In cucina fu accolto da una pila di piatti sporchi, la metà degli ortaggi ancora da tagliare e grandi mucchi di erbe aromatiche del giardino. Il tavolo di quercia era ricoperto di fogli d’alluminio e carta da forno. Luca continuava a ripetergli che quel disordine rimpiccioliva la stanza, era un oltraggio ai soffitti alti e alla cascata di luce che veniva giù dal lucernario inclinato. A Wolfie, però, la cucina piaceva così com’era, con la parete di fondo formata da porte scorrevoli in vetro che davano sul giardino e gli permettevano di tenere d’occhio Mona mentre si dava da fare nella sua salopette incrostata di terra, canticchiando le canzoni di Adele.
Un pentolone d’acqua bolliva sul piano cottura tutto ingombro e Wolfie programmò il timer perché suonasse dopo otto minuti. Al suo trillo scolò tre dozzine di uova e le trasferì in una zuppiera di acqua gelata. Dopo aver battuto l’estremità più appuntita di ognuna sul ripiano, le sgusciò con dita abili, facendosi strada con il pollice. Impilò i gusci e li mise da parte per il compost. Un lavoro noioso, ma lui lasciò vagare la mente. Quando gestiva il suo deli, a mezzogiorno era già stanco e irritabile. Sbraitava contro i suoi collaboratori, le fette di carne erano troppo spesse, gli involtini di aringhe non erano ben allineati sul vassoio, oppure malediceva le mensole traballanti sotto il peso delle lattine di albicocche sciroppate, delle scatolette di sardine e dei barattoli di aringhe sott’aceto. Ma all’alba, da solo, quando Mona era ancora immersa nel sonno, percorreva tutta Victoria Road, attraversava la rotatoria e apriva il deli, traendo piacere dalla familiarità di ogni gesto. Sollevava la saracinesca, accendeva le luci, metteva il denaro in cassa, un nodo deciso al suo grembiule bianco, il ricamo Wolfies in azzurro sul torace, e via al nuovo giorno.
Aveva goduto di una certa popolarità. Ai clienti piaceva la sua faccia sveglia e intelligente; per via dei capillari rotti che gli tiranneggiavano il naso, tutto l’anno aveva l’aria di essersi scottato al sole o di avere appena finito di raccontare una barzelletta spinta. Essere il proprietario del deli significava conoscere tutti i pettegolezzi di quartiere. Il marito che per l’ennesima volta era tornato a casa ubriaco fradicio oppure la giovane signorina tal dei tali che era rimasta incinta. Ma Wolfie aveva sempre tenuto per sé quelle voci. All’epoca, lo avevano considerato un uomo baciato dalla fortuna. Grazie a un ricco benefattore, diventato suo amico, era riuscito a mettersi in proprio, certo di ricavarne un guadagno alla fine di ogni mese. Così, a sua volta, cercava di essere generoso con gli altri: persino ai vicini che non gli erano granché simpatici dispensava latkes in omaggio, infilate in un sacchetto di carta. «Mangiate, mangiate!», insisteva. «Non fate complimenti! Su, prendetele con le mani. Non mordono mica!». Sapeva quali cibi potevano risollevare anche l’umore più nero. «Signora Klein, lei muore dalla voglia di un po’ di zuppa di pollo con lo zenzero», diceva con il suo lieve accento tedesco, così lieve che quasi nessuno lo notava. «Me lo sento nelle ossa!». «Oh santo cielo, sì, ne ho proprio bisogno!», si stupiva la signora. «Come ha fatto a capirlo?».
Cucinare lo aiutava a ridurre il confine tra provvedere ai bisogni degli altri e comprendere i propri.
Prese una grande zuppiera da una delle mensole stracariche, sollevandosi appena sulla punta dei piedi per raggiungerla, e con la spatola vi trasferì l’intero contenuto di un barattolo di maionese, preparata il giorno prima con tanta pazienza e un misurino abbondante di olio d’oliva. Con la forchetta sminuzzò le uova sode fino a ridurle a un miscuglio di bianco e arancione acceso. In sinagoga si era sparsa voce che la nuova rabbina avesse una predilezione per i bagel con crema di uova alla maionese. Da quel momento le avevano offerto challah a profusione. Potevano mai essere più buoni dei suoi? Se non riusciva più a fare colpo con le sue uova alla maionese, allora per lui era davvero finita. Però, la rabbina Ellensen era americana e magari loro ci aggiungevano cipolle o altre meshuge del genere? Non gliene importava granché, lui l’avrebbe fatta come sempre, il resto era nelle mani di Dio.
Wolfie amava cucinare per gli ospiti ma niente lo rendeva più felice di nutrire Mona. La sua Mona, magra come un grissino già dal giorno in cui l’aveva vista per la prima volta mentre volteggiava in una sala da ballo di Mile End. Per timidezza non le aveva chiesto subito di uscire insieme, abbagliato dai suoi capelli biondi e dalle sottovesti che svolazzavano sotto l’abito a ogni piroetta; si era limitato a invitarla con tono casuale a fare un salto al deli. «Vediamo se riesco a mettere un po’ di carne su quelle ossa!», aveva aggiunto. Con sua grande sorpresa, il giorno dopo era là, seduta al bancone con i piedini che dondolavano dallo sgabello alto e un braccio attaccato alle costole mentre divorava il piatto di tzimmes alle prugne, aringhe marinate e insalata di patate che lui le aveva messo davanti.
«Mai mangiato nulla di così buono», si era complimentata.
Le aveva portato un altro piatto con dello stufato di pollo e latkes riscaldate nel forno sul retro. «Prova anche questo!».
«Non posso, se mangio un altro boccone esplodo!», aveva protestato lei, ridendo.
«Mangia! Mangia!». I suoi mormorii di apprezzamento gli avevano dato grande soddisfazione e, mentre studiava la sua figura esile, decise che spettava a lui renderla più tornita.
All’epoca non sapeva che anche lei era arrivata con il Kindertransport, che i genitori adottivi le avevano fatto perdere l’accento austriaco a suon di botte, o che per anni l’avevano nutrita solo con gli avanzi dei pasti. Avrebbe scoperto tutto solo dopo averla sposata. Ma ora Mona non faceva altro che giocherellare con il cibo, del tutto indifferente ai piatti caldi e aromatici che lui le serviva. Le aveva preparato deliziosi tortini, fragrante pasta sfoglia ripiena di manzo cotto nella birra, ma tutte le volte lei si era limitata a punzecchiare i pezzetti di stufato o a sbriciolare la pasta. Neanche la sua zuppa di pollo, con i tradizionali tagliolini all’uovo lokshen e pezzetti di tenera carne bianca immersi in un brodo delicato, riusciva più a tentarla. Era come se avesse dimenticato la gioia che le dava mangiare bene. Era arrivata al punto che le si vedevano le costole sotto la stoffa del vestito. Wolfie lo considerava un proprio fallimento.
Esaminò il promemoria scritto a matita, i tempi di preparazione di ogni piatto elencati con precisione. Come al solito, si era fatto prendere la mano e aveva invitato tutti gli amici più cari nonché l’intero vicinato a cena. Non sopportava di stare in una casa silenziosa, odiava non vedere giocattoli disseminati ovunque e lunghe fila di panni stesi ad asciugare. L’appendiabiti dell’ingresso, in particolare, lo riempiva di una profonda malinconia quando aveva i ganci vuoti. Così, ogni occasione era buona per riunire una moltitudine di bocche affamate intorno alla sua tavola. Masticavano, bevevano, parlavano, portavano vita. Stese la pasta della challah e con gesti rapidi la lavorò in due grandi trecce.
Sentì la voce di Luca che lo chiamava dal giardino e subito si aprirono le porte scorrevoli. Luca entrò con una cesta traboccante di cicoria, ravanelli, carote e radici di rafano. Posò il carico sul bancone della cucina. «Ecco, c’è tutto», annunciò. «Come al solito, ci puoi sfamare un esercito». Si chinò a baciargli le guance. Wolfie arruffò i folti riccioli neri di Luca. «Bene, bene», disse palpando gli ortaggi, controllando se erano di qualità. «Quell’alter kocker si sta riscattando. Lentamente».
«Per favore, non ricominciamo con quella storia dei pomodori».
Wolfie si passò una mano sulla testa quasi calva e poi fece scorrere un dito sulle sopracciglia incolte, ancora nere anche se tutto il resto era ormai grigio. «È una questione di principio, ragazzo mio. Di principio». Con entrambe le mani raccolse i pezzettoni di carote dal tagliere e li lasciò cadere in una pentola di acqua bollente insieme al pesce per il gefilte.
Luca scosse la testa e osservò la cucina con espressione divertita. «Il solito caos», commentò. «Elena e i ragazzi volevano sapere il menù di stasera».
Wolfie aprì il forno e vi fece scivolare dentro le due challah. «Ah be’, allora forse dovremo essere un po’… creativi con ciò che diremo. Patè di fegato tritato. Pasticcio di pesce con radici di rafano e barbabietole rosse. Zuppa di pollo. Il mio salmone affumicato, ovviamente, poi petto di manzo arrosto, insalata di indivia e, per finire, lo strudel di Mona».
«Questa volta, mi permetti di darti una mano?».
«No, no. Tutto sotto controllo».
Luca si sedette sullo sgabello marrone da bar e prese il vecchio libro di ricette di Wolfie. Rilegato in pelle verde, aveva la copertina imbrattata da residui di cibo e macchie di unto. Lo spulciò. «C’è qualcosa che non deturpi con questi disegnini?».
Wolfie rise. «Quegli omini stecchino sono una vera forza. Non fanno che tirare o spingere roba. Se proprio devi scarabocchiarli, tanto vale metterli a lavoro», gli rispose. «Questo libro, però, avrei dovuto lasciarlo immacolato. È una prima edizione della Cucina ebraica di Florence Greenberg, oggi vale un bel gruzzolo». «Florence chi?».
«È la mia seconda Bibbia. Queste ricette mi accompagnano da quando ho imparato a bollire l’acqua. È come se fosse la mia famiglia, però non mi delude mai!».
Luca sorrise mentre continuava a rigirare il libro tra le mani.
«Il nuovo ragazzo, lì al deli, come se la cava? Lavora bene?», si informò Wolfie.
«Va alla grande, ci sa fare, i clienti lo adorano. A ora di pranzo ci sarò anch’io». Luca si chinò in avanti e annusò un mazzetto di fiori sul ripiano. «Li ha colti Mona, questi? Freddy si è offerto di venire domani a darle una mano in giardino, se le fa piacere».
«Ma certo, sarà contenta. È un bravo ragazzo, Freddy. A proposito, è ora che Mona faccia colazione. Ti dispiace farla venire giù?».
Le scale vibrarono sotto il passo pesante di Luca. Wolfie trasferì su un tagliere un bel po’ di fegato crudo, tagliò la carne rosso-marroncina a tocchi, poi li trasferì in una padella di ghisa bollente. Riempì il lavello di acqua e sapone e cominciò a lavare i suoi coltelli.
Quando sollevò il capo qualche minuto dopo e vide l’espressione di Luca, sospirò rassegnato e rimosse la padella dal fuoco.
«L’ho cercata dappertutto», disse Luca, posando la sua grande mano sulla spalla di Wolfie.
«Sicuro?».
Luca annuì.
«Oy gevalt! Oh Mona».
«Non può essersi allontanata troppo», lo tranquillizzò Luca. «Vengo con te a cercarla. Scommetto che è andata di nuovo alle giostrine nel parco. La troveremo prima che il pane sia pronto».
Cadde un lungo silenzio mentre Wolfie si voltava, apriva il frigorifero e vi scrutava dentro, come se Mona potesse essere lì. «Grazie», disse poi sottovoce. «Mi saresti di grande aiuto». Chiuse lo sportello del frigo e spense il forno. «Prendo il cappello».
Mona rifiutava di indossare l’orologio. Non le interessava conoscere l’ora esatta degli eventi. Preferiva, invece, guardare il sole e affidarsi al suo istinto. Quando era bambina, in Austria, poco prima che partisse il treno, la madre le aveva infilato furtivamente tra le mani l’orologio d’oro del papà con la raccomandazione di custodirlo con cura. A cinque anni non sapeva ancora leggere l’ora, ma aveva adorato quel cinturino di pelle morbida segnato dall’uso, la lucentezza del quadrante rifinito in oro, il mistero dei numeri romani. Della madre ricordava ormai solo i contorni della sua figura alla stazione, le spalle curve per ripararsi dal vento, il cappotto nero. Erano i suoi unici ricordi dell’Austria, ma erano così ricorrenti che a volte le sembrava d’essere appena partita. Sentiva ancora il ticchettio della lancetta dei minuti mentre ripeteva i suoi giri. Quell’orologio fu la prima cosa che le sottrassero prima di darla in affido. Così, quella mattina, quando Mona uscì di casa, sollevò lo sguardo verso il cielo blu solcato da nuvole basse e ne dedusse che fossero all’incirca le nove, più o meno l’ora in cui Patrice finiva il suo turno di notte.
Il giardino traboccava di nerine. Mona si chinò su un grappolo di quei delicati fiori rosa ragniformi e ne aspirò il profumo. Avrebbe messo insieme un bel bouquet per la sua amica. Staccò gli esili steli dal gambo principale, poi prese del filo di juta dal traliccio di rose e li legò alla base con un bel fiocco. Aprì il cancello del giardino e attraversò la strada. Entrò nel parco da Grove Road. Folate di vento sollevavano in aria le foglie dalle punte color ruggine e poi le sparpagliavano sul marciapiede, come coriandoli. Era piovuto, l’erba aveva un aspetto rigenerato, più elastico e brillante, e c’era un piacevole profumo di terra. Mona si fermò, sorpresa di non trovare le gabbie dei porcellini d’India, dei conigli e dei wallaby. Erano scomparse anche quelle degli uccelli. Forse le avevano portate via per pulirle.
Le giostrine erano era già gremite di bambini urlanti. Era fantastico essere così liberi! Niente calze sfilate e rammendate a oltranza, niente bigodini nei capelli di notte, o unghie laccate! E quant’era bello imbrattarsi le scarpe di fango! Lei stessa aveva un debole per le pozzanghere. Il bello di avere figli, supponeva, era che ti donavano una seconda infanzia. Dio solo sapeva come la prima, per lei, non fosse stata certo una passeggiata. Non vedeva l’ora di avere dei figli tutti suoi. Henry sarebbe stato un padre meraviglioso. Era uno dei motivi per cui lo aveva scelto, ovviamente. E il fatto che avesse un buon lavoro nell’impresa tessile di suo padre a Whitechapel certo non guastava. Un anno di matrimonio per acquisire una certa stabilità e poi avrebbero messo su famiglia.
Superò la pagoda cinese, ma quel giorno le sembrava diversa: troppo rossa, troppo nuova. Dove avevano trovato i soldi per ristrutturarla in questi tempi di razionamento? La brezza le agitò l’orlo del vestito giallo e Mona strinse ancora di più la cintura di stoffa lisa intorno ai fianchi. Non era mai abbastanza stretta. Avrebbe dato qualunque cosa per avere il corpo morbido e sinuoso di Betty Grable, le sue guance rosse come mele e i fianchi prosperosi, così larghi e invitanti. Forse, con qualche chilo e qualche curva in più Henry si sarebbe deciso a chiederla in moglie. Forse l’avrebbe finalmente considerata adatta a dargli dei figli. Che imbarazzo avere i fianchi spigolosi e le costole sporgenti ma, se non altro, era una bionda naturale e non doveva perdere tempo con l’acqua ossigenata ogni due settimane, come la sua amica Patrice. Non c’era nulla di più sciatto di una riga con la ricrescita marrone!
Sul lato est del parco, una donna se ne stava tutta sola, seduta con la schiena dritta e le gambe incrociate sotto l’ampia chioma di un frassino. Aveva gli occhi chiusi. Cosa mai stava facendo? Che stramberia, però quell’albero era davvero bello, aveva qualcosa di maestoso.
Mona imboccò Old Ford Road a passetti veloci e leggeri. Il sole fece capolino tra le nuvole e lei iniziò a canticchiare filastrocche del gioco della campana mentre il calore del sole le inondava il viso. Miele, arancia, zucchero e cannella, chi salta veloce vince una caramella! Patrice era sempre stata più brava di lei a saltare e a continuare a farlo… perfino al buio. Povera Patrice, cresciuta con un patetico ubriacone come padre. Non c’era da meravigliarsi che fosse finita a fare quel tipo di lavoro, sfruttata da tutti quegli uomini disgustosi. E, ma guarda, su quella panchina c’erano altri uomini pervertiti, due di loro avvinghiati l’uno all’altro, in un incastro di braccia e gomiti. Superandoli Mona emise un suono di disapprovazione.
Poi si bloccò. I negozi non erano al posto giusto. O erano sempre stati in quell’ordine? Fece mente locale: chi c’era prima? Abe con la pescheria? Aveva forse lasciato Bethnal Green? Riprese a camminare. La trattoria si stava preparando a servire i suoi pasticci di carne con contorno di purè di patate ai lavoratori. Dall’esterno osservò con desiderio i tavoli di marmo apparecchiati, i grandi specchi con le incisioni di anguille, alghe e stelle marine. Aveva fatto colazione? Aveva lo stomaco contratto che brontolava. Probabilmente l’aveva saltata. Avrebbe fatto il giro lungo con una sosta da Rinkoff’s per qualcosa di caldo con la cannella.
Dentro la pasticceria, uomini e donne si urtavano e si spingevano mentre urlavano il proprio ordine oltre il banco di vetro unto.
Mona non riconobbe il giovane che la servì. Era turco? Avrebbe fatto bene a indossare un cappello per coprire quei capelli. Gli indicò la danese alla cannella.
«Dov’è Clive?», gli chiese mentre prendeva il dolce incartato dalle sue mani grandi e pelose.
«Chi?».
«Clive. Il proprietario».
«Non ho idea di chi stia parlando, signora». «Be’, dovrebbe conoscerlo visto che è il suo…».
«Paga due e venti».
«Come, scusi?».
«Sono due sterline e venti».
Mona rise. «Che fa, mi prende in giro? Non può costare così tanto! Su, quanto le devo?».
Poggiò il mazzolino di fiori sul bancone e si frugò nelle tasche del vestito. «Oh, io… Sono uscita senza soldi».
«Roba da matti!».
L’uomo scosse la testa. «Signora, non ho tempo da perdere. Facciamo così: offro io, va bene?».
«Davvero? La ringr…». L’uomo si era già girato verso un altro cliente.
«Mah!», esclamò lei e affondò i denti nella pasta friabile della ciambella danese. La assaporò lentamente, succhiando la cannella fino a quando la sfoglia al burro le si sciolse in bocca.
«Mona? Tesoro, che ci fa qui?».
La voce aveva un accento che Mona non riusciva a riconoscere. Il tocco d’una mano sulla spalla la fece voltare di scatto. Una donna la stava fissando con espressione preoccupata. Aveva la carnagione olivastra, la pelle liscia e luminosa e gli occhi segnati agli angoli da rughe sottili.
«Chi è lei?», chiese.
«Sono io: Veronica».
Mona la scrutò con intensità. «Non… Non conosco nessuna Veronica».
«Vengo a pulirle casa ogni lunedì, Mona. Oh, mia cara, ma non ha freddo con quel vestitino estivo addosso?».
«Lei mi confonde con qualcun altro», rispose Mona, «e temo mi stia facendo fare tardi». Lanciò un ultimo sguardo alla donna, poi uscì dalla pasticceria.
Fuori, il lamento delle gru e il frastuono dei trapani la irritarono. Tutti quegli uomini con strani cappelli e giganteschi occhiali di plastica. La gente intorno a lei parlava a un volume di voce assordante. Guardò la via in cui si trovava chiedendosi per quale motivo fosse arrivata fin là. «Cos’ha da guardare?», chiese a una giovane passante che sembrò non sentirla.
Continuò a camminare. Dalle bancarelle alimentari del mercato di Whitechapel proveniva una musica strana a tutto volume. Non riusciva neppure a distinguere i singoli suoni, la disturbavano, la facevano trasalire. Lungo la via principale c’era un traffico mai visto; un tripudio di colori. Starnutì a ripetizione, qualcosa di pepato le stava irritando il naso. All’improvviso ricordò perché era là, le tornarono in mente Cable Street e Patrice che finiva il turno. Si avviò in quella direzione, percorrendo lentamente la strada stretta, ma intorno a lei si agitava un turbinio di persone. Una luce lampeggiava. Altra musica strana. Arrivò a un incrocio e restò ipnotizzata a fissare l’altezza degli alberi e delle torri di vetro verde. Tutto saliva su, su, sempre più su.
Wolfie camminava a passi marcati, come se stesse avanzando nella sabbia e non sul marciapiede. Non ignorava certo l’urgenza della situazione ma, forse, se avesse tenuto il passo sotto controllo si sarebbe placata anche l’ansia che lo divorava dentro. Notò che Luca aveva dimezzato il ritmo e la lunghezza della sua falcata, e iniziava a dare segni di imbarazzo misto a panico crescente. Avevano controllato le giostrine al parco e tutta Cambridge Heath. Lo preoccupavano la strada, il traffico, e i giovani ciclisti spericolati che sfrecciavano tra le auto. E se Mona fosse inciampata? Le sarebbe bastata una caduta per… Una sola.
Ora la luce del sole si rifletteva direttamente sul marciapiede. Si arrotolò le maniche della camicia e vide che l’orologio segnava mezzogiorno. Stavano camminando da trenta minuti. Sentì le campane suonare in lontananza e si rese conto che Luca gli stava rivolgendo una domanda.
«La prima volta che se n’è andata in giro così è arrivata fino a Lea Valley», gli rispose. «Da bambina giocava nei pressi delle paludi, poi è stata la volta del museo in Cambridge Heath Road, infine i Meath Gardens in Roman Road che allora, però, si chiamava Green Street. All’epoca girava tutto Hackney in lungo e in largo». «Se Lydia si spingesse oltre il parco mi verrebbe un colpo!».
«Erano altri tempi», rispose Wolfie con un’alzata di spalle. Sollevò il viso al cielo lasciando che il primo vero calore del giorno lo investisse. Chiuse gli occhi, il passato tornò a farsi vivo e con esso un fugace barlume di felicità. «Non esisteva la paura degli sconosciuti. Ci conoscevamo tutti. Gli adulti si arrabbiavano solo quando non ti presentavi in tempo per i pasti. Se la cena si freddava te le suonavano con la cinghia! Anche se, il più delle volte, si trattava solo di un po’ di pane e zuppa». Aprì gli occhi e mise a fuoco la calca nei pressi della stazione metro di Bethnal Green. La strada pullulava di persone, molte più di quando lui e Mona erano stati giovani e Bethnal era considerato un ghetto ebraico. «Avresti dovuto vedere Mona a quei tempi», disse. «Aveva i capelli color oro prima che diventassero argento».
Wolfie sentì un ronzio in tasca che lo fece trasalire, poi ricordò il regalo di Luca per il suo compleanno. Tirò fuori il piccolo cellulare nero. «Non ho gli occhiali», disse porgendo il telefono all’amico. «Che c’è scritto?». «È un messaggio di Veronica. Ha appena incontrato Mona da Rinkoff’s ma lei non l’ha riconosciuta».
«Af tsores! Com’è possibile che non abbia riconosciuto Veronica?», mormorò Wolfie. «Faceva sempre tappa alla pasticceria Rinkoff’s quando andava a prendere Patrice».
«Prendere chi?».
«La sua migliore amica da ragazza. È morta anni fa».
Luca esitò. «Credi sia arrivato il momento?».
«Non ti ci mettere pure tu. Per quanto mi riguarda, è fuori discussione».
«Man mano che passa il tempo fa cose sempre più pericolose».
«Ma quale pericolo! Siamo in pieno giorno. È solo confusa. Argomento chiuso, va bene?».
Luca aggrottò la fronte e tacque. Mentre svoltavano su Whitechapel High Street, il vocìo dei passanti divenne più sonoro, più giovane e più insistente. La strada era tappezzata di polpa di pomodori caduti, peperoncini rossi e foglie di coriandolo. Le urla degli uomini dietro le bancarelle andavano ad aggiungersi al clamore generale. Sembrava musica, un susseguirsi di suoni appartenenti a una lingua sconosciuta. Superarono gli studenti che bivaccavano davanti alla facoltà di medicina in un miscuglio stupefacente di stili, ognuno rappresentativo di un decennio della vita di Wolfie. Lo sciame di bici sfreccianti lo inquietò. «Andate piano», gli borbottò dietro Wolfie.
«Freddy vuole una di quelle bici a scatto fisso ma dovrà passare sul mio cadavere se vuole girare per Londra senza freni». Luca si fece da parte per schivare una giovane famiglia che si stava riversando all’esterno di un nuovo condominio. «Quanto odio quei posti», commentò Wolfie, indicando un Tesco Metro che aveva aperto di recente. «Con quelle corsie tristi, piene di vaschette di verdure già tagliate e di pasti da scaldare nel microonde. Una tale desolazione».
«Eccola, la vedo!», esclamò Luca in tono di sollievo. «Ma con chi sta parlando?».
Wolfie seguì il suo sguardo e colse un lampo giallo. Mona non indossava quel vestito da anni. Ricordava bene il giorno in cui lei lo aveva acquistato. Più o meno dieci, dodici anni prima. Monty li aveva accompagnati a Brighton Lanes nella sua vecchia Astra verde. Mona aveva girato tutte le stradine spulciando intere file di vestiti in esposizione, innamorandosi dei loro colori brillanti. Quando aveva scostato la tenda della cabina di prova per mostrarsi, gli era apparsa come l’immagine residua del sole, una visione impressa sulla retina. Ricordava che quel giorno aveva comprato anche una collana che però aveva perso poco dopo. Il gancio di chiusura era difettoso.
In quel momento, Mona era sull’altro lato della strada che gesticolava con foga contro un negoziante, un’ombra di peluria sotto le sue braccia nude. La guardò per un tempo che gli sembrò lungo, o magari si trattò solo di pochi secondi, quanto bastava per vedere tutta la sua vita scorrergli davanti agli occhi in un baleno, con il nulla davanti a sé.
«Forse crede che sia il magnaccia di Patrice», ipotizzò Wolfie. «Molte sue amiche dell’orfanotrofio sono finite nel giro della prostituzione».
Luca tacque, prese il braccio di Wolfie e attraversarono la strada per raggiungere Mona che urlava contro un uomo di origine bengalese.
«Mona, altz iz gut», cercò di tranquillizzarla Wolfie. «Vieni, mia cara, andiamo a casa. Lì ti sentirai meglio». Con una leggera pressione sotto il gomito appuntito, la fece allontanare.
«Ma dov’è finita Patrice? Parla con quell’uomo, fa’ qualcosa!».
Wolfie voleva fare qualcosa ma non sapeva bene cosa, quindi la abbracciò, affondò il viso nei suoi capelli, aspirò il profumo familiare di sciampo alla camomilla e ascoltò il battito accelerato del suo cuore. Mona si liberò bruscamente e gli urlò contro a pochi centimetri dal viso. Aveva l’alito dolce di cannella.
Il calore dei corpi riempiva la cucina. Erano tutti riuniti intorno al tavolo di quercia allungato con le estensioni a scatto e ricoperto con la tovaglia ricamata dello Shabbas poco prima che arrivassero gli ospiti. Wolfie aveva apparecchiato con i piatti di porcellana buona e con i bicchieri di cristallo con dentro i tovaglioli rossi piegati ad arte, il bordo dorato in evidenza. Aveva acceso le due candele lunghe dello Shabbas prima del tramonto, in obbedienza ai comandamenti della Torah di custodire e ricordare la luce di Dio, una delle poche tradizioni che continuava a osservare, e le fiammelle ondeggianti conferivano ai volti dei commensali una luminosità soffusa che li abbelliva. Nell’aria si mescolavano i profumi del pane appena sfornato, del salmone affumicato e delle spezie del patchouli, l’essenza di colonia prediletta da Monty. Tutti gli ospiti avevano portato un mazzo di fiori, tranne la rabbina Ellensen che aveva onorato l’invito con un barattolo della sua marmellata di more. I vasi non bastavano, Wolfie ne cercò altri ma Mona li aveva sistemati chissà dove.
Si sedette a capotavola, orchestrando il consumo di cibo con i suoi «mangiate, mangiate», fino a quando parlare e mangiare divennero una cosa sola. Fu tutto un masticare, convenire, inghiottire, interrompere, tagliare, stridere di posate. Esclamazioni di soddisfazione. E il clangore delle dentiere di porcellana sulle posate.
«Questa crema di uova alla maionese è strepitosa, Wolfie!», esclamò la rabbina Ellensen, baciandosi le dita della mano per far sparire le ultime briciole. Wolfie le rispose con un sorriso. Da vicino sembrava più giovane di quanto non gli fosse apparsa in piedi sul piccolo pulpito della sinagoga. Prima di lei, non aveva mai conosciuto una rabbina, per di più giovane, al di sotto dei quaranta. Gli aveva raccontato che si era trasferita dalla California per via del lavoro del marito. Erano sposati da quindici anni ed erano ancora innamorati come due ragazzini.
Si udirono mormorii di assenso sulla bontà della maionese. Sarebbe stato tutto perfetto se Mona non fosse stata su in camera, a dormire. I complimenti caddero nel vuoto, la conversazione gli scivolò addosso. Rispondeva, «Certo, sì, infatti», per poi scoprire che non gli era stata posta alcuna domanda. Diede un morso al crostino con il paté di fegato. Forse una lunga dormita sarebbe servita a interrompere quella fase di Mona; forse si sarebbe svegliata con un po’ di appetito. Non voleva disturbarla ma avrebbe tanto desiderato poggiare una mano sul suo ginocchio sotto il tavolo e permettere che la rabbina la conoscesse come si deve. Ospitare un rabbino per o Shabbas era un privilegio molto ambito e la presenza della rabbina Ellensen era stata programmata con largo anticipo. La rabbina aveva recitato un Kiddush molto suggestivo e durante la benedizione del vino aveva reso omaggio ai bellissimi ricami di Mona sui tovaglioli che ricoprivano le challah. Mentre spezzava il pane per distribuirlo tra i commensali, accennò con delicatezza al valore della shalom bayit, la pace della casa, e lui non poté che chinare il capo.
Osservò la folla intorno al suo tavolo, gli amici, i vicini con i loro figli, quella grande famiglia che lui e Mona si erano creati, e si sentì uno spettatore, non un partecipante.
Monty incrociò il suo sguardo. «Raccontaci delle tue lezioni di italiano, Wolfie», lo incitò.
«Be’, sono lo studente più vecchio dell’università, sopravanzo gli altri di almeno quarant’anni, ma a parte questo, sono contento», spiegò Wolfie. «Ho intenzione di portare Mona a Firenze e di ordinare fave e cicoria, riso, patate e cozze con un accento perfetto. Sarà una specie di seconda luna di miele per noi». Luca ed Elena si complimentarono per la buona pronuncia ma a lui non sfuggì il loro sguardo sorpreso. Provò una punta di fastidio.
«Noi non siamo mai andati in luna di miele», rivelò Elena.
«Ora che ci penso, neanche noi», rispose Wolfie. «Era ancora l’epoca del razionamento».
«Immagina che meraviglia, far compere a Firenze», intervenne Monty. «Mona ha la taglia perfetta per lo stile italiano e anche nel tuo caso qualche vestito un po’ più chic non guasterebbe».
«Per quello ci sei tu, amico mio». Wolfie si alzò e batté la forchetta contro l’orlo del suo calice di vino. «Prima di tutto, riempite i vostri calici, perché un giorno senza vino è come un giorno senza sole». Attese che il Beaujolais facesse il giro del tavolo, poi continuò. «Voglio ringraziarvi tutti per esservi uniti a noi in questo Shabbas, un grazie in particolare va alla rabbina Ellensen alla quale diamo il benvenuto nella nostra comunità e che l’anno prossimo ci farà l’onore di benedire me e Mona in occasione del nostro sessantacinquesimo anniversario di nozze».
I rintocchi di cristallo riempirono la stanza.
«Mona e io abbiamo avuto la fortuna di assistere negli anni al via vai di persone in questo quartiere e, anche se alcuni oggi sono passati a miglior vita, la nostra cerchia di amici continua ad allargarsi. È un peccato che Mona oggi non si senta bene perché niente la rende più felice di uno Shabbas in compagnia delle persone a lei care. Perciò», Wolfie alzò di nuovo il calice, «a voi, e ai nuovi inizi!».
«No, a te e Mona», rispose Monty. «Alla nostra coppia preferita di adorabili brontoloni. Vi vogliamo bene!». Wolfie abbozzò un inchino. Bevve un lungo sorso di vino, poi si diresse verso il forno e tornò al tavolo con una teglia di arrosto di petto di manzo. La carne si sgretolò mentre la affettava. Gli ospiti emisero mormorii di apprezzamento mentre l’arrosto faceva il giro della tavola. Osservò Elena mentre raccoglieva un po’ di sughetto con il cucchiaio e lo versava sulla carne nel piatto di Freddy. Il ragazzo stava con il capo chino, quasi nel piatto, e annuì per ringraziarla mentre continuava a ingollare cibo, con tanto di sonoro. Elena si concesse un sorrisetto di soddisfazione mentre lui mangiava, prima di rimboccarsi le maniche del cardigan nero e riempirsi il piatto. Luca era seduto di fronte a lei e badava a Lydia. Wolfie notò che marito e moglie non si erano scambiati una parola per tutta la sera, fatta eccezione per una volta che si erano passati il rafano. «Devi tenere per forza il cellulare sul tavolo, Freddy?», chiese Luca.
«Ma che succede qui? Dov’è Henry?». L’esile figura di Mona comparve sulla soglia della porta. I capelli in disordine dopo la dormita, il pallore del viso in contrasto con il giallo acceso del vestito, ormai tutto stropicciato.
«Chi è Henry, zia Mona?», chiese Lydia lasciando in sospeso il disegnino di un panda che stava prendendo forma sul suo tovagliolo.
«Come, chi è? È il mio fidanzato! Tu invece chi sei?».
Freddy sollevò la testa dal piatto e si voltò a guardare la madre. Monty invece abbassò il capo e il calore dell’arrosto gli appannò le lenti con la montatura in tartaruga.
Wolfie vide il viso della rabbina allungarsi per lo sgomento, una perdita momentanea di compostezza da cui si riprese quasi subito. «Wolfie, forse Mona ha bisogno di riposare ancora un po’», suggerì Luca. «O forse vuole cenare?», buttò là Freddy.
«Sì, entrambe le cose, credo», concordò Wolfie. «Vieni, tesoro, portiamo su questo bell’arrosto». Si alzò scusandosi, prese il proprio piatto e con un gesto esortò gli altri a continuare senza di lui.
Strinse la mano esile della moglie e insieme salirono le scale verso la camera da letto. L’aria nella stanza era pesante, con molta fatica tirò su il vetro della finestra e fece entrare il fresco della sera. Per un attimo restò in piedi a contemplare le sagome dei faggi e il parco.
Quando si girò, Mona era già scivolata sotto le lenzuola blu a fiori scelte l’anno prima nel negozio John Lewis, durante i saldi di Natale, dopo venti estenuanti minuti di minuziosa disamina. La ricordò mentre era indecisa tra verdi e rosa, sollevava le lenzuola controluce e ne ispezionava la stoffa. Quel suo interesse per le trame dei tessuti lo aveva fatto montare su tutte le furie e con tono esasperato l’aveva esortata a sbrigarsi e a sceglierne un paio qualunque, erano lenzuola, dopotutto. Spense l’abat-jour e il viso pallido di Mona svanì tra le ombre, i capelli argentei sparsi sul cuscino, e mentre osservava la sua espressione stanca e confusa venne invaso dal feroce desiderio di tornare a quel momento e di dirle di comprarle tutte.