Pane nell'acqua, di Rudyard Kipling

Edizioni Clichy propone Il diavolo e l’abisso e altri racconti, raccolta che prende il nome dal primo racconto, pubblicato per la prima volta nel 1895 sul numero natalizio del settimanale «The Graphic». Il testo contiene quattro racconti – introvabili da tempo in Italia e mai raccolti insieme – caratterizzati da un preciso senso dell’avventura e da un graffiante umorismo venato di aspetti satirici. Uno dei lati meno noti e tuttavia originalissimi dell’autore di Kim, Il libro della giungla, Capitani coraggiosi e L’uomo che volle farsi Re.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Pane nell’acqua
di Rudyard Kipling

Se ricordate il mio poco raccomandabile amico Brugglesmith, vi ricorderete anche del suo amico McPhee, capo macchinista del Breslau, al quale Brugglesmith tentò di rubare il dingey. Le sue giustificazioni circa le prodezze di Brugglesmith potranno un giorno essere raccontate in un luogo adatto: questo racconto riguarda McPhee. Costui non era mai stato un macchinista da corsa, ed era molto orgoglioso di dirlo davanti agli uomini di Liverpool; ma aveva alle spalle trentadue anni di conoscenza dei macchinari e degli umori delle navi. La sua faccia era stata deturpata da un lato dall’esplosione di un manometro nei giorni in cui la gente ne sapeva meno di ora, e il suo naso si ergeva maestoso da quella rovina, come un randello in una rivolta pubblica. Aveva tagli e bernoccoli sulla testa, e gli piaceva guidare l’indice attraverso i corti capelli grigio ferro e raccontare come si era procurato quei marchi di fabbrica. Possedeva ogni sorta di certificati di idoneità avanzata e, in fondo al suo cassettone in cabina, dove conservava la fotografia della moglie, c’erano due o tre medaglie della Royal Humane Society per il salvataggio di vite in mare. Dal punto di vista professionale (era un’altra cosa quando passeggeri impazziti di terza classe saltavano in mare) McPhee non approvava i salvataggi in mare, e mi ha detto spesso che un nuovo inferno attende i fuochisti e gli stivatori che firmano per la paga di un uomo robusto e si ammalano il secondo giorno in mare.
Credeva nell’efficacia di lanciare scarpe al quarto e al quinto macchinista quando lo svegliavano di notte dicendo che un cuscinetto si era arroventato, solo perché il bagliore di una lampada rifletteva una luce rossa sul metallo rotante. Credeva che esistessero solo due poeti al mondo: uno era Robert Burns, ovviamente, mentre l’altro Gerald Massey. Quando aveva tempo per i romanzi, leggeva Wilkie Collins e Charles Reade, soprattutto quest’ultimo, e conosceva a memoria intere pagine di Very Hard Cash. In sala il suo tavolo era il più vicino a quello del capitano e beveva solo acqua quando le macchine erano in moto. Fu gentile con me la prima volta che ci incontrammo, perché io non facevo domande, e perché consideravo Charles Reade uno scrittore vergognosamente sottovalutato. In seguito, gli piacquero i miei scritti, consistenti in un pamphlet di ventiquattro pagine che scrissi per Holdock, Steiner & Chase, armatori della linea, quando acquistarono un certo sistema brevettato di ventilazione e lo montarono nelle cabine del Breslau, dello Spandau e del Koltzau.
Il commissario di bordo del Breslau mi raccomandò per il lavoro al segretario di Holdock e quest’ultimo, che è un metodista wesleyano, mi invitò a casa sua, mi fece cenare con la governante dopo che gli altri ebbero finito, mi affidò i piani e le indicazioni, e io scrissi il pamphlet quella stessa sera. Si intitolava Comodità in cabina e mi fece guadagnare sette sterline e dieci scellini in contanti, un’importante somma di denaro a quei tempi; la governante, che stava insegnando le scale al piccolo John Holdock, mi raccontò che la signora Holdock le aveva detto di tenermi d’occhio, nel caso in cui me ne fossi andato dopo aver preso un cappotto dall’attaccapanni. A McPhee piacque moltissimo quel pamphlet, perché era stato scritto nello stile bizantino Bouverie, con decorazioni barocche e rococò; e in seguito mi presentò alla signora McPhee, che sostituì Dinah nel mio cuore; perché Dinah abitava dall’altra parte del mondo ed è salutare e antisettico amare una donna come Janet McPhee. Vivevano in una piccola casa da dodici sterline, vicina al porto. Quando il signor McPhee non c’era, la signora McPhee leggeva le colonne del «Lloyd’s Weekly Newspaper» e invitava a casa le mogli dei macchinisti anziani di pari livello sociale. Anche la signora Holdock andò a trovare una o due volte la signora McPhee in una carrozza con accessori in celluloide, e ho ragione di credere che, dopo che ebbe giocato abbastanza il ruolo di moglie dell’armatore, spettegolarono insieme. Gli Holdock vivevano in una casa antica con un grande giardino mattonato a circa un chilometro e mezzo dai McPhee, perché si tenevano vicini al denaro come il denaro si teneva vicino a loro, e in estate potevi vedere la loro carrozza mentre andavano solennemente in gita a Theydon Bois o a Loughton. Ma io ero amico della signora McPhee, perché a volte mi permetteva di accompagnarla verso ovest, nei teatri dove si commuoveva o rideva o rabbrividiva con animo semplice; e mi introdusse a tutto un nuovo mondo di mogli di dottori, mogli di capitani e mogli di macchinisti, i cui discorsi e pensieri erano totalmente incentrati su navi e linee di navigazione di cui voi non avete mai sentito parlare.
C’erano velieri, con camerieri e salotti di mogano e acero, in viaggio verso l’Australia, che caricavano ubriaconi tisici e senza speranza ai quali era stato raccomandato un viaggio in mare; c’erano piccole e trasandate navi dell’Africa Occidentale, piene di topi e scarafaggi, nelle quali gli uomini morivano in qualunque posto tranne che nella loro cuccetta; c’erano navi brasiliane di cui si potevano affittare le cabine per riempirle di merce, che salpavano stracariche; c’erano piroscafi di Zanzibar e delle isole Mauritius e navi ricostruite meravigliosamente che commerciavano con l’altro lato del Borneo. Queste navi erano amate e conosciute, perché ci facevano guadagnare il pane e un po’ di burro, mentre disprezzavamo le grandi navi atlantiche e ci prendevamo gioco delle navi di linea orientali, e giuravamo per i nostri rispettivi armatori (wesleyani, battisti e presbiteriani) secondo i casi. Ero appena rientrato in Inghilterra quando la signora McPhee mi invitò a cena alle tre del pomeriggio, e la carta da lettere era quasi nuziale tanto era profumata e morbida. Quando arrivai mi accorsi che c’erano delle nuove tende alle finestre che dovevano essere costate quarantacinque scellini il paio; e quando la signora McPhee mi guidò nella sala rivestita di marmo, mi lanciò uno sguardo intenso e mi chiese: «Non l’avete ancora saputo? Cosa ne pensate dell’attaccapanni?».
Ora, quell’attaccapanni era di rovere… minimo trenta scellini. McPhee scese le scale con cautela - camminava leggero come un gatto, nonostante tutto il suo peso, quando era in mare - e mi strinse la mano in una nuova e terribile maniera, parodia dello stile del vecchio Holdock quando salutava i suoi capitani alla partenza delle navi. Capii subito che gli era arrivata un’eredità, ma non dissi nulla, benché la signora McPhee mi pregasse ogni trenta secondi di mangiare tanto e di non protestare.
Fu una cena piuttosto bizzarra, perché McPhee e sua moglie si tenevano per mano come due bambini (lo facevano sempre dopo i viaggi) e annuivano, ammiccavano, tossicchiavano, gorgogliavano, mangiando a malapena un boccone. Una domestica venne a servirci, nonostante la signora McPhee mi avesse ripetuto più volte che, finché fosse stata in salute, non avrebbe ringraziato nessuno per averle fatto le faccende. Ma questa era una domestica con una cuffietta e io vidi la signora McPhee gonfiarsi di orgoglio nel suo vestito rosso. La signora Janet McPhee non mancava d’imponenza e il rosso non è un colore tenue; inoltre con tutto quell’inspiegabile orgoglio e gloria nell’aria mi sembrava di guardare dei fuochi d’artificio senza sapere di che festa si trattasse. La domestica, dopo aver tolto la tovaglia, servì un ananas che doveva essere costato mezza ghinea in quella stagione (solo McPhee aveva l’abilità di procurarsi cose del genere), una ciotola di porcellana di Canton piena di litchi essiccati, un piatto di vetro colmo di zenzero conservato e una piccola giara di chow chow sacra e imperiale che profumò la stanza. McPhee era riuscito a procurarsela grazie a un olandese di Java e io penso che lo avesse manipolato con i liquori. Ma il re della festa fu un Madera di quelli che ci si possono procurare solo se si conoscono il vino e l’uomo adatto. Un piccolo pacchetto di sigari di Madera essiccati avvolti in foglie di fico e mais accompagnava il vino e per il resto ci furono silenzio e un pallido fumo azzurro; Janet, nel suo splendore, sorrideva a entrambi e accarezzava la mano di McPhee. «Brindiamo» disse McPhee lentamente, strofinandosi il mento, «all’eterna dannazione di Holdock, Steiner & Chase». Chiaramente io risposi «Amen», sebbene con quella ditta avessi guadagnato sette sterline e dieci scellini. I nemici di McPhee erano i miei nemici e io stavo bevendo il suo Madera. «Non avete saputo nulla?» chiese Janet. «Neanche una parola, un mormorio?» «Né una parola, né un mormorio. Avete la mia parola, non ho sentito niente». «Diglielo, Mac» disse lei; e questa fu un’altra dimostrazione della bontà di Janet e del suo amore coniugale. Una donna più piccola avrebbe chiacchierato per prima, ma Janet era alta quasi un metro e ottanta, senza tacchi.
«Siamo ricchi» disse McPhee. Io distribuii le debite strette di mano.
«Siamo dannatamente ricchi» aggiunse. Io distribuii le debite strette di mano una seconda volta.
«Non metterò più piede in mare… a meno che… non si può mai dire… su un piroscafo privato magari… con un piccolo ma maneggevole motore ausiliario». «Per quello il denaro non basta» disse Janet. «Siamo discretamente ricchi… benestanti, ma niente di più. Un vestito nuovo per andare in chiesa e uno per andare a teatro. Li faremo fare in un quartiere occidentale».
«Quant’è?» domandai.
«Venticinquemila sterline». Feci un lungo respiro. «E guadagnavo venticinque sterline e venti al mese!».
Le ultime parole gli uscirono con una grossa risata, come se il mondo intero avesse cospirato per schiacciarlo.
«Sto ancora aspettando» dissi. «Non so niente da settembre. È stato un lascito?». Risero entrambi a gran voce.
«È stato un lascito» rispose McPhee, quasi soffocando dal ridere.
«Oh, sì, è stato proprio un lascito. Questa sì che è buona. Sicuro che è stato un lascito. Janet, hai sentito? Un lascito! Se questa l’aveste messa nel vostro pamphlet sarebbe stato molto divertente. È stato un lascito». Si diede una pacca sulla coscia e rise a tal punto che il vino tremò nella caraffa. Gli scozzesi sono un grande popolo, ma tendono a rimanere troppo a lungo su una stessa battuta, soprattutto se, salvo loro, nessuno la capisce.
«Quando riscriverò il mio pamphlet la inserirò all’interno, McPhee. Solo che prima devo saperne di più».
McPhee rifletté per la durata di mezzo sigaro, mentre Janet catturava il mio sguardo e lo faceva passare da un oggetto nuovo all’altro nella stanza: il nuovo tappeto con il disegno di una pianta rampicante, il nuovo orologio rustico tra i modellini delle caravelle di Colombo, la nuova credenza intarsiata con un portafiori di cristallo color porpora, il parafuoco dorato di ottone, e per ultimo, il nuovo pianoforte oro e nero. «Nell’ottobre dell’anno scorso il consiglio di amministrazione mi ha licenziato» cominciò McPhee. «Nell’ottobre dell’anno scorso il Breslau è arrivato al porto per il controllo invernale. Era stato in mare otto mesi… duecentoquaranta giorni… ed erano tre giorni che preparavo la distinta, quando entrò nel bacino di carenaggio. Tutto insieme, notate bene, facevano trecento sterline… per essere precisi duecentottantasei sterline e quattro scellini. Nessun altro avrebbe potuto riparare il Breslau dopo otto mesi per una cifra così. Mai… mai! Per quanto mi riguarda, quelli possono mandare a fondo le loro navi». «Non ce n’è bisogno» disse Janet, con dolcezza. «Abbiamo chiuso con Holdock, Steiner & Chase». «È una cosa irritante, Janet, semplicemente irritante. Ho avuto ragione dall’inizio alla fine, lo sanno tutti, ma… ma non posso perdonarli. Sì, l’intelligenza è dimostrata dai suoi frutti; e chiunque altro avrebbe fatto una distinta da ottocento sterline. Il nostro capitano era Hay… sicuramente lo avrai conosciuto. Lo trasferirono al Tongau e mi ordinarono di aspettare il Breslau capitanato dal giovane Bannister. Dovete tener presente che nel Consiglio c’erano state le elezioni di recente. Ho sentito dire che le azioni si vendevano di qua e di là e la maggior parte del Consiglio mi era sconosciuto. Il vecchio Consiglio non lo avrebbe mai fatto. Si fidavano di me. Ma il nuovo Consiglio era tutto per la riorganizzazione. Dietro a tutto c’era il giovane Steiner… il figlio di Steiner, l’ebreo, e ritennero uno spreco di tempo avvisarmi. Io lo seppi (ed ero il capo macchinista) dall’avviso delle linee di navigazione invernali, e per il Breslau avevano pianificato sedici giorni di viaggio da un porto all’altro! Sedici giorni, amico! È una buona nave, ma considera che ci mette diciotto giorni d’estate. Sedici giorni erano una vera assurdità e lo feci presente al giovane Bannister. “Dobbiamo farcela” rispose. “Non avreste dovuto mandare una distinta di trecento sterline”. “Ma cosa vogliono? Che le loro navi navighino in aria?” dissi. “Il Consiglio è pazzo”. “E diteglielo” mi rispose. “Io sono un uomo sposato, e ho il quarto figlio in arrivo, secondo mia moglie”». «Un ragazzo, con i capelli rossi…» intervenne Janet. Anche i suoi capelli erano dello splendido rosso dorato che si addice alla carnagione chiara. «Parola mia, ero così arrabbiato quel giorno! Non solo ero affezionato al vecchio Breslau, ma pretendevo anche un po’ di considerazione dal Consiglio dopo vent’anni di servizio. C’era una riunione del Consiglio quel mercoledì, e io passai la notte in sala macchine, a raccogliere dati a sostegno della mia tesi. Bene, glieli misi davanti con onestà. “Signori” dissi, “ho navigato con il Breslau per otto stagioni e credo che non ci sia niente da ridire sul mio lavoro. Ma se volete fare questo”, agitai l’avviso davanti ai loro occhi, “di cui non sapevo nulla finché non l’ho letto a colazione, vi assicuro sulla mia reputazione professionale che la nave non può farlo. O meglio, lo può fare per un po’, ma a un rischio al quale nessuno con un po’ di cervello si esporrebbe”. “Per cosa diavolo credete che noi vi passiamo le vostre distinte?” affermò il vecchio Holdock. “Amico, qui stiamo sprecando il denaro come acqua”. “Lascio nelle mani del Consiglio” dissi, “decidere se duecentottantasette sterline per otto mesi sono una cifra irragionevole”. Avrei anche potuto risparmiarmi il fiato, perché il Consiglio si era rinnovato dopo l’ultima elezione, e lì seduti c’erano i dannati fornitori navali cacciatori di dividendi, sordi come i mercanti delle Sacre Scritture. “Dobbiamo conservare la fiducia del pubblico” disse il giovane Steiner. “E allora conservate la fiducia del Breslau” ribattei. “Vi ha servito bene, e ha servito vostro padre prima di voi. Ha bisogno di rinforzo alla carena, di un nuovo basamento, bisogna finire di sistemare le caldaie prodiere, tutti e tre i cilindri, ripassare le guide, per cominciare. È un lavoro di tre mesi”. “Solo perché un dipendente ha paura?” rispose il giovane Steiner. “Forse un pianoforte nella cabina del capo macchinista sarebbe meglio”. Io mi schiacciavo il cappello fra le mani e ringraziavo Dio che non abbiamo figli e abbiamo messo da parte qualche cosa. “Sentite, signori” dissi. “Se il Breslau deve fare il viaggio in sedici giorni, dovrete trovare un altro macchinista”. “Bannister non si oppone” disse Holdock. “Parlo per me” risposi. “Bannister ha figli”. Poi persi la calma. “Potete mandare la nave all’inferno e ritorno se pagate il pilotaggio” affermai, “ma la nave ci andrà senza di me”. “Che insolenza” disse il giovane Steiner. “A vostra disposizione” risposi, girandomi per andarmene. “Consideratevi licenziato. Dobbiamo mantenere la disciplina tra i nostri dipendenti” affermò il vecchio Holdock, guardandosi intorno per assicurarsi che il Consiglio fosse dalla sua parte. Non capivano niente… che Dio li perdoni… e mi buttarono fuori dopo vent’anni… vent’anni. Uscii da lì e mi sedetti vicino all’usciere nell’atrio per ritrovare la calma. Credo di aver imprecato contro il Consiglio. Allora il vecchio McRimmon, della McNaughten & McRimmon, venne fuori dal suo ufficio, che si trova su quello stesso piano e mi guardò, sollevandosi una palpebra con l’indice. Sai che lo chiamano il Diavolo Cieco, anche se è tutto tranne che cieco, ed è stato tutt’altro che un diavolo nel suo modo di trattarmi… McRimmon della Black Bird Line. “Cosa c’è, signor McPhee?” mi chiese. Avevo appena finito di pregare. “Un capo macchinista licenziato dopo vent’anni di servizio perché non vuole mettere a rischio il Breslau con le nuove tempistiche, al diavolo anche voi, McRimmon” dissi. Il vecchio si morse le labbra e fischiò. “Ah” disse, “le nuove tempistiche. Capisco!”. Si diresse zoppicando nella sala del Consiglio dalla quale ero appena uscito, mentre il suo cane guida per ciechi Dandie rimase fuori con me. Fu provvidenziale. Dopo un minuto era già tornato. “Avete buttato il vostro pane nell’acqua, McPhee, e andateci voi al diavolo” disse. “Dov’è il mio cane? Parola mia, è sulle vostre ginocchia? C’è più perspicacia in un cane che in un ebreo. Come vi è venuto in mente di maledire il Consiglio, McPhee? Sono cose che si pagano a caro prezzo”. “Spenderanno di più per il Breslau” risposi. “Scendimi dalle ginocchia, bestia soffocante”. “I cuscinetti si surriscaldano, eh?” chiese McRimmon. “Sono passati trent’anni dall’ultima volta che mi hanno mandato al diavolo guardandomi in faccia. A quei tempi per una cosa del genere vi avrei spinto giù dalle scale”. “Scusatemi!” risposi. Aveva quasi ottant’anni per quanto ne sapevo. “Ho sbagliato, McRimmon; ma un uomo messo alla porta solo per aver fatto il proprio dovere può non essere sempre cortese”. “Ho saputo” disse McRimmon. “Avreste qualcosa in contrario a una trampfreighter? Sono solo quindici sterline al mese, ma dicono che il Diavolo Cieco riesca a mantenere un uomo meglio di chiunque altro. È la mia nave, il Kite. Entrate. Potete ringraziare Dandie. Io non sono abituato ai ringraziamenti. E ora” disse, “cosa vi ha spinto ad abbandonare il lavoro da Holdock?” “Le nuove tempistiche” risposi. “Il Breslau non resisterà”. “Oh, oh” fece lui. “Bastava forzarlo un po’… il tempo sufficiente a far vedere che lo stavate muovendo… per poi farlo arrivare con due giorni di ritardo. Cosa ci vuole a dire che avete rallentato a causa dei cuscinetti surriscaldati, eh? Tutti i miei uomini lo fanno, e io ci credo”. “McRimmon” dissi, “che cos’è la verginità per una ragazza?”. Lui corrugò la faccia secca e si contorse sulla sedia. “Il mondo intero” rispose. “Mio Dio, il mondo intero! Ma cosa c’entriamo io e voi con la verginità di una ragazza?” “Ecco” risposi. “C’è una cosa che ognuno di noi, del nostro settore o mestiere non fa, per nessun motivo. Se io vado a orario, vado a orario, escludendo sempre il rischio dell’alto mare. Più di questo, in nome di Dio, non lo farò mai! Non c’è trucco del mestiere che io non conosca…”
“Sì, l’ho sentito” disse McRimmon, secco come un biscotto. “Ma navigare in modo onesto per me è come lo Spirito Santo. Non mi permetterei mai di interferirci. Prendersi cura dei macchinari deboli fa parte del lavoro; ma quello che il Consiglio chiede è una frode, con in più il rischio di omicidio colposo. Ricordatevi che conosco il mio mestiere”. Parlammo ancora un po’ e la settimana seguente ero a bordo del Kite, una nave da carico di duemilacinquecento tonnellate, appartenente alla Black Bird. Più andava al largo, più il vapore aumentava. Ero riuscito a farla arrivare a undici nodi, anche se il suo solito era otto e tre. Cibo buono a prua e migliore a poppa, tutte le distinte approvate senza il minimo commento, il miglior carbone, caldaie nuove e un buon equipaggio. Non c’era niente che il vecchio rifiutasse di fare, eccetto verniciare. Quello era il suo punto debole. Convincerlo a verniciare era impossibile tanto quanto strappargli l’ultimo dente. Scendeva sul molo e le sue navi erano un vero scandalo per tutto il porto, ma lui si lamentava, gridava e diceva che non avrebbe potuto desiderare di meglio. Ho imparato che ogni armatore ha il suo non plus ultra. Quello di McRimmon era la verniciatura. Però ci si poteva spostare tra i suoi macchinari senza rischiare la pelle e, in barba alla sua cecità, lo vidi respingere cinque intermediari, uno dopo l’altro, con un solo cenno del capo da parte mia; inoltre le sue strutture per il trasporto del bestiame erano a prova del clima invernale dell’Atlantico settentrionale. Sapete quanto significhi? McRimmon e la Black Bird Line, Dio lo benedica! Oh, ho dimenticato di dire che il Kite sbandava e aveva il ponte di prua pieno di acqua verde, e ronfava in una burrasca da venti nodi, facendo i suoi quarantacinque giri al minuto, a tre nodi e mezzo; inoltre le sue macchine funzionavano con la dolcezza e la regolarità del respiro di un bambino addormentato. Il capitano era Bell, e anche se in generale non corre buon sangue tra ciurma e armatore, noi ci eravamo affezionati al vecchio Diavolo Cieco e al suo cane e penso che anche noi gli piacessimo. Egli valeva la parte ventosa di due milioni di sterline e i suoi parenti non erano al suo livello. Il denaro è terribile, quando è troppo, per un uomo solo. Avevo fatto fare due viaggi al Kite, uno di andata e uno di ritorno, quando ci giunse la notizia del disastro del Breslau, proprio come avevo predetto. Il capo macchinista era Calder (incapace di riscendere il Solent con un rimorchiatore) e, in base a quanto seppi, aveva fatto decollare un bel po’ le macchine sui basamenti, facendole andare in pezzi. Così la nave si riempì dal pressatrecce6 a poppa fino alla paratia, e rimase a guardare le stelle con settantanove passeggeri che strillavano nel salone, finché il Camaralzaman della Ramsey & Gold’s Cartagena Line la prese al rimorchio per la bellezza di 5.740 sterline, comprese le spese nella Corte dell’Ammiragliato. Capirete che era senza speranza, e in nessun caso avrebbe potuto affrontare condizioni climatiche avverse. 5.740 sterline, comprese le spese, escluse le macchine nuove! Avrebbero fatto meglio a tenere me… con le tempistiche vecchie. Ma anche così il nuovo Consiglio era a favore della riduzione delle spese. Il giovane Steiner, l’ebreo, era ancora dietro a tutto. Licenziarono a destra e a manca tutti coloro che non accettavano le schifezze del Consiglio. Ridussero le spese per le riparazioni; facevano mangiare all’equipaggio gli avanzi e, al contrario di McRimmon, nascondevano le loro carenze con vernice e dorature a buon mercato. Quem Deus vult perdere prius dementat, ricordatelo. A gennaio entrammo in bacino di carenaggio e in quello accanto c’era il Grotkau, il loro più grande vascello da carico, ex Dolabella della Piegan, Piegan & Walsh’s Line nell’84: una nave da carico di ferro di cinquemila tonnellate, costruita nei cantieri del Clyde, con la carena piatta, rigonfia a prua, con macchine insufficienti, che non virava, non produceva vapore, non si fermava quando glielo si chiedeva. A volte seguiva il timone, a volte prendeva il controllo, a volte si fermava a grattarsi, e a volte finiva addosso a un molo. Ma Holdock e Steiner l’avevano acquistata a buon mercato e l’avevano ridipinta di rosso come la meretrice di Babilonia e noi, per fare prima, la chiamavamo “la Meretrice”» (tra parentesi, McPhee continuò a utilizzare questo nome per il resto del racconto, e così voi dovete leggerlo). «Andai a trovare il giovane Bannister (aveva dovuto prendere quel che il Consiglio gli aveva dato e sia lui che Calder erano stati trasferiti dal Breslau a quell’orrore) e parlando con lui entrai nel bacino sotto la nave. Le piastre erano talmente bucherellate che gli uomini che la verniciavano, verniciavano e riverniciavano ne ridevano. Ma il peggio doveva ancora venire. Aveva una grande e rozza elica di ferro Thresher di circa quattro metri (quella del Kite era stata disegnata da Aitcheson) e proprio sull’albero dell’elica, dietro al mozzo, c’era una crepa talmente piena di ruggine da poterci infilare un temperino. Amico, era una crepa spaventosa! “Quando imbarcherete un nuovo albero dell’elica?” chiesi a Bannister. Sapeva quello che intendevo. “Oh, è soltanto una pecca superficiale” rispose, senza guardarmi in faccia. “Una pecca superficiale!” dissi. “Non avrete mica intenzione di portarla fuori con una soluzione di continuità come quella?” “Stasera ci metteranno il mastice” rispose. “Sono sposato e… conoscete il Consiglio”. Gli dissi proprio quello che mi passava per la testa in quel momento. Sai come rimbomba un bacino di carenaggio. Vidi il giovane Steiner che mi ascoltava dall’alto e, ti assicuro, utilizzò un linguaggio davvero provocatorio sulla violazione della pace. Disse che ero una spia e un dipendente caduto in disgrazia, corruttore della morale del giovane Bannister, e che mi avrebbe fatto causa per diffamazione. Scappò via quando io corsi su per i gradini (se l’avessi preso l’avrei gettato nel bacino) e lì incontrai McRimmon con Dandie che tirava il guinzaglio, guidando il vecchio sui binari. “McPhee” mi disse, “non siete pagato per litigare con Holdock, Steiner, Chase & Company quando vi incontrate. Che cos’è successo?” “Nient’altro che un albero dell’elica da buttare. Per curiosità, andate a vedere, McRimmon. È da ridere”. “Quell’ebreo chiacchierone mi fa paura” disse.
“Dov’è questo danno, e che aspetto ha?”
“Una crepa di circa diciotto centimetri proprio dietro il mozzo. Non c’è un potere sulla terra che possa impedire all’albero di cedere per le vibrazioni”.
“Quando?”
“Questo non posso saperlo” risposi.
“È così dunque… è così” disse McRimmon.
“Abbiamo tutti dei limiti. Siete certi che sia una crepa?” “Signore, è un crepaccio” dissi, perché non c’erano parole per descriverne l’ampiezza. “E il giovane Bannister ha detto che era solo una pecca superficiale!” “Bene, io credo che sia meglio che noi pensiamo agli affari nostri. Se avete qualche amico a bordo, McPhee, perché non lo invitate a cena da Radley’s?” “Stavo pensando a un tè in cabina” risposi.
“I macchinisti delle navi da carico non possono permettersi i prezzi dei grandi hotel”.
“No, no!” disse il vecchio, lamentandosi. “Non in cabina. Riderebbero del mio Kite, visto che non è stato verniciato come la Meretrice. Invitateli al Radley’s, McPhee, e mandatemi il conto. Ringraziate Dandie, qui, amico. Non sono abituato ai ringraziamenti”.
Quindi si girò (io stavo pensando proprio la stessa cosa). “Signor McPhee” disse, “questa non è demenza senile”.
“Che Dio ci protegga!” dissi io, colto alla sprovvista. “Stavo proprio pensando che siete pazzo, McRimmon”.
Il Vecchio Diavolo si mise a ridere rischiando quasi di sedersi su Dandie. “Inviatemi il conto” disse. “È da un po’ che lo champagne non fa più per me, ma domani fatemi sapere che sapore ha”.
Bell e io invitammo il giovane Bannister e Calder a cena al Radley’s. Lì non si può né ridere né cantare, ma noi prendemmo una sala privata… come i proprietari degli Yacht che vengono da Cowes». McPhee fece un largo sorriso e si distese per pensare. «E poi?» chiesi io.
«Non eravamo ubriachi nel vero senso della parola, ma il Radley’s mi mostrò i caduti. C’erano sei bottiglie di champagne secco e forse una bottiglia di whisky».
«Intendete dirmi che voi quattro vi siete fatti fuori una bottiglia e mezzo a testa di champagne, oltre al whisky?» chiesi.
McPhee mi guardò dall’alto in basso con pazienza. «Non ci eravamo seduti lì per bere» rispose.
«Quelle bottiglie non hanno fatto altro che renderci spiritosi. È vero che il giovane Bannister aveva appoggiato la testa sul tavolo e rideva come un bambino, e che Calder voleva andare a ogni costo da Steiner alle due del mattino a dipingerlo di verde; ma loro avevano bevuto anche nel pomeriggio. Oh Signore, come maledicevano il Consiglio quei due, il Grotkau, l’albero dell’elica, le macchine e tutto il resto! Non parlarono che di pecche superficiali per tutta la notte. Ricordo che il giovane Bannister e Calder si strinsero la mano in un accordo, quello di vendicarsi del Consiglio a ogni costo, senza rimetterci il loro brevetto di navigazione. Ora state a sentire come una falsa economia rovina gli affari. Il Consiglio li faceva mangiare come bestie (ho ragione di saperlo) e ho notato, nella mia gente, che a toccargli lo stomaco si sveglia il diavolo in uno scozzese. I marinai trasporteranno una draga attraverso l’Atlantico se hanno mangiato bene, e la ormeggeranno da qualche parte sulla costa americana: ma cibo pessimo equivale a pessimo servizio in tutto il mondo. Il conto andò a McRimmon e lui non mi disse niente fino al fine settimana, quando andai da lui a chiedergli altra vernice, visto che avevamo sentito che il Kite aveva avuto un contratto dalle parti di Liverpool. “State al vostro posto” disse il Diavolo Cieco. “Vi siete fatti il bagno con lo champagne? Il Kite non salperà da qui finché non lo dico io e… come posso mettermi a sprecare vernice per la nave, con il Lammergeyer ormeggiato per chissà quanto tempo e tutto il resto?”. Era la nostra grande nave da carico, il capo macchinista era McIntyre e io sapevo che aveva passato la revisione tre mesi prima. Quella mattina incontrai il capo contabile di McRimmon (non lo conoscete) che si mangiava le unghie per l’umiliazione. “Il vecchio è impazzito” disse. “Ha ritirato il Lammergeyer”. “Avrà avuto le sue ragioni” risposi. “Ragioni! È un pazzo!” “Non sarà pazzo finché non inizierà a verniciare” ribattei. “È proprio quello che sta facendo… con i carichi per il Sudamerica alti come non li vedremo mai più in vita nostra, l’ha ritirato per verniciarlo… per verniciarlo… per verniciarlo!” disse il piccolo contabile, agitandosi come una gallina su una piastra rovente. “Cinquemila tonnellate potenziali di carico in malora in un bacino di carenaggio, e lui tira fuori la vernice da barattoli da un quarto di libbra per quanto è pazzo, perché la cosa gli spezza il cuore. E il Grotkau… tra tutte le stive disponibili, proprio il Grotkau si gode a Liverpool fino all’ultima sterlina che spetterebbe a noi!”. Ero sbalordito da questa follia, immaginando che ci fosse una connessione tra questa e la cena al Radley’s. “Aprite bene gli occhi, McPhee” disse il capo contabile. “Ci sono macchinari, materiale rotabile, ponti di ferro, sapete come sono i carichi, no? E pianoforti, accessori da donna, e carico vario dal Brasile all’interno del Grotkau… il Grotkau della ‘Compagnia di Gerusalemme’ e intanto il Lammergeyer è a verniciare!”. Dio santo, pensavo che da un momento all’altro gli sarebbe venuto un accidente per la rabbia. Riuscii solo a dire: “Obbedite agli ordini, anche a costo di far crollare l’armatore”, ma sul Kite pensavamo tutti che McRimmon fosse impazzito; e McIntyre sul Lammergeyer era dell’idea che andasse rinchiuso sulla base di un procedimento legale che aveva trovato in un libro di diritto marittimo. Inoltre, per tutta la settimana i carichi per il Sudamerica non fecero che salire. Era un vero peccato!
Poi Bell ricevette l’ordine di portare il Kite fino a Liverpool con l’acqua di zavorra e McRimmon venne a salutarlo, lamentandosi e gemendo per gli ettari di vernice sprecati per il Lammergeyer. “Conto su di voi per recuperare” disse. “Conto su di voi per essere rimborsato! Perdio, perché non mollate ancora gli ormeggi? Per quale motivo state oziando in porto?”
“Che male c’è, McRimmon?” disse Bell.
“Saremo a Liverpool a festa finita. Il Grotkau ha avuto tutto il carico che avrebbe dovuto essere nostro e del Lammergeyer”. McRimmon rise e sogghignò… l’immagine perfetta della demenza senile. Sapete, le sopracciglia gli vanno su e giù come ai gorilla.
“Ecco le istruzioni in busta sigillata” disse, frugandosi addosso. “Eccole… da aprire nell’ordine stabilito”. Quando il vecchio se ne andò, Bell mescolando le buste disse: “Dobbiamo navigare lungo la costa sud, aspettando gli ordini… con questo tempo. La sua pazzia è fuori discussione ormai”.
Dunque, portammo il vecchio Kite (nonostante il bruttissimo tempo) nel luogo indicato, navigando sotto costa e aspettando gli ordini telegrafici, che sono la vera maledizione dei capitani. Facemmo rotta per Holyhead e Bell aprì la busta con le ultime istruzioni. Ero con lui in cabina e me la lanciò addosso, gridando: “Hai mai visto qualcosa di simile, Mac?”. Non dirò cosa abbia scritto McRimmon, ma era tutto fuorché pazzo. C’era aria di tempesta da sudovest quando raggiungemmo l’imboccatura del Mersey, una mattina di freddo pungente con il mare e il cielo grigio-verdi… un tempo da Liverpool, come si suol dire; rimanemmo lì a incrociare mentre la ciurma bestemmiava. Non esistono segreti a bordo di una nave. Anche loro credevano che McRimmon fosse pazzo. Alla fine, vedemmo il Grotkau rollare al largo con l’alta marea, carico oltre il limite, con il suo fumaiolo dipinto di fresco e le sue lance di salvataggio anch’esse dipinte di fresco, come tutto il resto. L’aspetto era degno della sua fama e anche la tosse. Calder al Radley’s mi aveva raccontato cosa affliggeva le sue macchine, ma le mie orecchie me lo avrebbero detto da sole a due miglia di distanza, dal rumore che facevano. Invertimmo la rotta, immergendoci e nascondendoci nella sua scia, e c’era un vento tagliente che ne prometteva altro. Alle sei soffiava ancora forte e prima della guardia di mezzanotte era un vero vento di sudovest. “Di questo passo andrà a finire in Irlanda” disse Bell. Io ero con lui sul ponte di comando, a tenere d’occhio i fanali del Grotkau. Il verde non si vede da lontano come il rosso, altrimenti avremmo dovuto tenerci sottovento. Non c’erano passeggeri di cui preoccuparsi e, con tutti gli occhi puntati sul Grotkau, tagliammo la strada a un piroscafo che rientrava a Liverpool. O per essere precisi, Bell riuscì a far girare il Kite davanti alla prua dell’altro e fra i due ponti di comando ci fu un piccolo scambio di maledizioni. Se ci fosse stato un passeggero» McPhee mi guardò con occhio benigno, «lo avrebbe raccontato ai giornali appena arrivato in dogana. Ci tenemmo nella scia del Grotkau quella notte e per i due giorni successivi (secondo i miei calcoli rallentò fino a cinque nodi) e ci dirigemmo con fatica sulla rotta Fastnet. “Ma non si passa dalla Fastnet per raggiungere un porto sudamericano, o sbaglio?” chiesi. “Noi no. Preferiamo la rotta più diretta possibile”. Ma stavamo seguendo il Grotkau, che non avrebbe mai preso il largo con quella tempesta. Sapendo ciò che sapevo sulle condizioni della nave, non potevo biasimare il giovane Bannister. Stava per arrivare una tempesta invernale dall’Atlantico settentrionale, una tempesta di neve, grandine e vento gelido. Eh, sembrava che il Diavolo stesse facendo una lunga passeggiata sulla superficie del mare, frustando la cresta delle onde in attesa di decidere cosa fare. Fino a quel momento se l’erano presa comoda, ma appena fuori dalle Skellig, la nave si rimboccò le maniche e si diresse verso Dunmore Head. Accidenti, se rollava! “Vorrà raggiungere Smerwick” disse Bell. “Se avesse avuto quell’intenzione avrebbe fatto rotta su Ventry” risposi io.
“Di questo passo le si staccherà il fumaiolo” disse Bell.
“Perché Bannister non riesce a tenere la prua al vento?”
“È l’albero dell’elica. Rollare è comunque meglio che beccheggiare con una crepa superficiale nell’albero dell’elica. Calder lo sa bene” risposi.
“È un’impresa recuperare un piroscafo con questo tempo” disse Bell.
Gli si erano congelate la barba e le basette ed era bianco per il sale sul lato esposto al vento. Un perfetto tempo invernale da Atlantico settentrionale! Il mare spazzò via le nostre tre lance, una dopo l’altra, e le gru della nave si piegarono come le corna di un ariete. “Non va bene” disse Bell. “Non si può gettare una gomena senza una lancia”.
Bell era un uomo molto giudizioso, per essere di Aberdeen. Io non sono uno che si interessa delle cose che capitano fuori dalla sala macchine, così scesi sgattaiolando fra le onde per vedere come se la cavava il Kite. Amico, nella sua categoria è la nave meglio attrezzata che abbia lasciato il Clyde! Kinloch, il mio secondo, la conosceva meglio di me.
Lo trovai intento a far asciugare i calzini sulla caldaia e a pettinarsi la barba con il pettine che Janet mi aveva regalato l’anno precedente, come se fossimo in porto. Controllai l’alimentazione, attizzai il fuoco, tastai tutti i cuscinetti, sputai per scaramanzia sull’asse reggispinta, diedi a tutti la mia benedizione e presi i calzini di Kinloch prima di risalire sul ponte. Allora Bell mi consegnò il timone e andò di sotto per scaldarsi. Quando tornò i miei guanti erano congelati e attaccati al timone e il ghiaccio mi scricchiolava sulle ciglia. Un perfetto tempo invernale da Atlantico settentrionale, come dicevo prima. La tempesta si esaurì nel corso della notte, ma il mare restò terribilmente agitato e faceva ondeggiare il Kite da prua a poppa. Rallentai a trentaquattro, credo… no trentasette. Al mattino c’era il mare mosso e il Grotkau si dirigeva verso ovest. “Ha deciso di far rotta su Rio, albero dell’elica o no” disse Bell. “La notte scorsa ha tremato” risposi. “Lo perderà con le vibrazioni, credetemi”. Ci trovavamo all’incirca a centocinquanta miglia ovest-sud-ovest di Slyne Head.
Il giorno seguente a centotrenta (vi sarete accorti che non eravamo navi veloci) e il giorno dopo a centosessantuno, e questo ci portò, diciamo, a diciotto latitudine ovest e forse cinquantuno longitudine nord, tagliando la rotta di tutte le navi di linea dell’Atlantico settentrionale, sempre in vista del Grotkau, avvicinandoci di notte e rimanendo a distanza di giorno. Dopo la tempesta si susseguirono tempo freddo e notti buie. Un venerdì sera ero in sala macchine, poco prima della guardia di mezzanotte, quando Bell mi fece un fischio: “È successo”. Così salii.
Il Grotkau era a breve distanza da noi verso sud e issò tre fanali rossi in verticale, uno dopo l’altro… il segnale di una nave che ha perso il controllo.
“Ecco un rimorchio per noi” disse Bell, leccandosi i baffi.
“Varrà molto di più del Breslau. Raggiungiamolo , McPhee!”
“Aspettiamo un po’” dissi. “Il mare è pieno di navi da queste parti”. “Proprio per questo” fece Bell.
“È una fortuna per chi arriva prima. Che ne dite?”
“Diamole tempo fino all’alba. Sa che siamo qui. Se Bannister dovesse aver bisogno d’aiuto lancerà un razzo”. “E che ne sapete dei bisogni di Bannister? Ce la vedremo portare via da sotto il naso da qualche altro vagabondo di mare” disse, e mise la barra al timone. Andavamo lentamente.
“Bannister preferirebbe tornare a casa su un transatlantico e mangiare in una sala da pranzo. Vi ricordate cosa disse del cibo di Holdock & Steiner’s quella sera al Radley’s? Tenetevi alla larga, alla larga vi dico. Un rimorchio è un rimorchio, ma un relitto è un grande salvataggio”.
“Ehi!” fece Bell. “Che pensiero profondo, Mac. Vi amo come un fratello. Resteremo dove siamo fino all’alba”. E tenne lontano il Kite.
Poi un razzo venne lanciato dalla prua, due dal ponte di comando e una luce blu da poppa. Poi di nuovo un fuoco da prua. “Sta affondando” fece Bell.
“È tutto perduto e io non otterrò che un binocolo notturno per aver salvato il giovane Bannister… che cretino!” “Ancora calma e sangue freddo” dissi. “Sta mandando dei segnali più a sud di noi. Bannister sa bene quanto me che basterebbe un razzo per far accostare il Kite. Non sprecherebbe razzi per niente. Ascoltate come chiama!”
Il Grotkau fischiò per cinque minuti e dopo ci furono altri razzi… una vera e propria esibizione.
“Questo non è per i marinai del traffico regolare” disse Bell.
“Hai ragione, Mac. Questo è per una cabina piena di passeggeri”.
Guardò con il binocolo notturno strizzando gli occhi verso sud, dove c’era un po’ di foschia. “Cosa riuscite a vedere?” domandai.
“Un transatlantico” rispose.
“Ecco i razzi. Oh, sì, hanno svegliato il capitano gallonato… e ora hanno svegliato i passeggeri. Accendono le luci, cabina dopo cabina. Ecco un altro razzo! Stanno andando al salvataggio di naufraghi in alto mare”. “Datemi il binocolo!” dissi.
Ma Bell ballava sul ponte di comando come impazzito. “La posta… la posta… la posta!” diceva.
“È sotto contratto con il governo per il debito recapito della posta; e per questo motivo, Mac, come saprete, può effettuare salvataggi in mare, ma non può rimorchiare! Non può rimorchiare! Ecco il segnale luminoso. Arriverà fra mezz’ora!”
“Dio mio!” affermai. “E noi qui risplendiamo con tutti questi fanali. Oh Bell, che cretino siete!”.
Lui si precipitò sul ponte di prua, io di poppa, e i fanali vennero spenti subito, il boccaporto della sala macchine venne chiuso, e noi restammo completamente al buio a osservare le luci del transatlantico a cui il Grotkau aveva inviato i segnali che si avvicinava. Arrivò a venti nodi, ogni cabina illuminata e le lance che scendevano. Il salvataggio fu portato magnificamente a termine, e nel giro di un’ora. La nave si fermò come la carrozza della signora Holdock; scese la passerella, scesero le lance e in dieci minuti udimmo i passeggeri esultare e vedemmo la nave andarsene. “Ne parleranno per tutta la vita” disse Bell.
“Un salvataggio in mare di notte, bello come una commedia. Il giovane Bannister e Calder staranno bevendo nel salone e fra sei mesi la Camera di Commercio regalerà al capitano un bel binocolo. È davvero una cosa tutta filantropica”. Rimanemmo nei paraggi fino all’alba (potete immaginare come ci stancammo gli occhi ad aspettare) e il Grotkau rimase lì, con il naso un po’ in aria, a fissarci. Aveva un’aria ridicola.
“Si starà riempiendo di acqua a poppa” disse Bell, “altrimenti perché la poppa è mezza sommersa? L’albero dell’elica gli ha fatto un buco, e noi non abbiamo lance. Ci saranno trecentomila sterline, in una stima al ribasso, che affondano davanti ai nostri occhi. Che cosa facciamo?” e in un attimo gli si scaldarono nuovamente i cuscinetti: era un uomo senza moderazione.
“Avviciniamoci il più possibile” dissi. “Datemi un salvagente e una cima, e raggiungerò la nave a nuoto”. C’era un pezzetto di mare e con il vento faceva freddo… molto freddo; ma il giovane Bannister e Calder e gli altri erano sbarcati come passeggeri, lasciando la passerella dal lato sottovento.
Rifiutare quell’invito sarebbe stato come dare uno schiaffo in faccia alla Provvidenza. Eravamo a meno di cinquanta metri da lei e Kinloch mi spalmava di olio da capo a piedi nella cucina; e quando gli passammo accanto me ne andai fuori bordo al salvataggio di trecentomila sterline. Credetemi, faceva freddo da morire, ma feci il mio lavoro magistralmente e arrivai raschiando l’intera murata fino all’estremità della passerella. Nessuno era più stupito di me, ve lo assicuro. Senza neanche riprendere fiato mi sbucciavo le ginocchia sulla passerella e mi arrampicavo a bordo prima della nuova rollata.
Attaccai velocemente la mia cima alla battagliola e mi diressi a poppa verso la cabina del giovane Bannister, dove mi asciugai con tutto quello che trovai al suo interno e mi misi addosso le cose più impensabili per rimettere in circolo il sangue. Ricordo che trovai tre paia di mutande tanto per cominciare, e mi servivano tutte. Non ho mai provato così tanto freddo in vita mia. Poi mi diressi a poppa, in sala macchine. Il Grotkau “era seduto sulla sua coda” come si suol dire.
Aveva l’albero cortissimo e i macchinari tutti a poppa. Nella sala macchine c’era un metro e mezzo circa di acqua nera e oleosa che scivolava da una parte all’altra; forse addirittura un metro e ottanta. Le porte delle caldaie erano avvitate fino in fondo e le caldaie erano abbastanza isolate, ma per un attimo lo stato della sala macchine mi trasse in inganno. Solo per un attimo però, perché non ero, per così dire, calmo come al solito. Diedi un’altra occhiata per essere sicuro. Era solo acqua nera di sentina: acqua stagnante, che doveva essere entrata fortuitamente, sapete com’è».
«McPhee, io sono solo un passeggero» lo interruppi, «ma non riuscirete a farmi credere che un metro e ottanta di acqua fosse entrato nella sala macchine fortuitamente».
«E chi sta cercando di farvi credere una cosa o l’altra?» ribatté McPhee. «Io sto riferendo i fatti del caso, i puri e semplici fatti. Un metro e ottanta o due metri di acqua stagnante nella sala macchine sono uno spettacolo davvero deprimente se pensate che ce ne sia dell’altra in arrivo; ma io non lo ritenni possibile, perciò, come noterete, non ero depresso».
«È tutto molto interessante, ma voglio sapere di più riguardo all’acqua» dissi.
«Ve l’ho già detto. C’erano un metro e ottanta, o forse di più, di acqua lì, con il cappello di Calder che galleggiava».
«Da dove arrivava?»
«Beh, nella confusione generale, dopo il cedimento dell’albero dell’elica e con le macchine in piena attività, è possibile che sia caduto dalla testa di Calder e che lui non si sia preoccupato di recuperarlo. Ricordo di avergli visto quel cappello in testa a Southampton».
«Non mi interessa del cappello. Voglio sapere da dove era arrivata l’acqua e cosa ci faceva lì, e perché eravate così sicuro che non fosse una falla, McPhee».
«Per una buona ragione… una ragione buona e sufficiente».
«Ditemela, allora».
«Beh, è una ragione che non riguarda soltanto me. Per essere precisi, io sono dell’idea che l’acqua fosse dovuta in parte a un errore di valutazione di un’altra persona. Tutti possiamo sbagliare».
«Vi chiedo scusa! Continuate». «Tornai sulla battagliola e Bell mi gridò: “Qualcosa non va?” “Ce la farà” risposi. “Mandatemi un cavo di ormeggio e un uomo per aiutarmi a governarla. Lo tirerò su con la cima”. Vidi scuotere delle teste, e con il vento mi arrivarono un paio di parolacce. Poi Bell disse: “Nessuno di loro se la sente in quest’acqua, eccetto Kinloch, ma io non posso fare a meno di lui”. “Un compenso maggiore per me, quindi” affermai. “La rimorchierò da solo”.
A questo punto uno di loro mi chiese: “Pensate che sia sicura?”
“Non vi garantisco nulla” risposi.
“Eccetto forse una martellata per avermi fatto aspettare così tanto”.
Allora lui gridò: “C’è solo un salvagente e non riescono a trovarlo, altrimenti verrei”.
“Buttatelo giù, quel codardo” gridai, poiché ormai avevo perso la pazienza; così quelli presero il volontario prima che potesse rendersi conto di quello che stava succedendo e lo gettarono vicino alla mia cima.
Io lo tirai su e dopo che gli ebbi fatto sputare l’acqua salata fu una recluta benvenuta: bisogna dire che non sapeva nuotare. Quindi legarono un cavo di ormeggio di cinque centimetri alla cima e quest’ultima a un gherlino e io passai il cavo intorno al tamburo di un arganello a mano a prua, tirammo con molta fatica il gherlino a bordo e lo attaccammo velocemente alle bitte del Grotkau.
Bell portò il Kite talmente vicino che temetti che urtasse e danneggiasse il fasciame del Grotkau. Mi lanciò un’altra cima e si diresse a poppa, poi noi dovemmo ripetere quel lavoro faticoso con l’arganello e un secondo gherlino. Però Bell aveva ragione: avevamo un lungo lavoro di rimorchio da fare, e nonostante la Provvidenza ci avesse aiutato fino a quel momento, non aveva senso lasciar fare troppo a lei.
Quando il secondo gherlino fu in posizione, ero bagnato di sudore e gridai a Bell di recuperare l’imbando e di tornare a casa.
L’altro uomo aiutava nel lavoro chiedendo qualcosa da bere, ma io gli dissi che doveva bere con una mano e governare con l’altra, cominciando con il governare perché io smontavo. Lui governò… beh, governò per modo di dire. Per lo meno afferrò le maniglie del timone e lo girò, dandosi un’aria da esperto, ma dubito che la Meretrice se ne fosse accorta. Io rientrai nella cabina del giovane Bannister e feci una lunga dormita. Mi svegliai rabbioso dalla fame, con il mare piuttosto mosso, e con il Kite che si muoveva a quattro nodi; e il Grotkau che si immergeva di prua, straorzava, si poggiava ovunque. Fu un rimorchio vergognoso. Ma la cosa peggiore di tutte fu il cibo. Misi insieme un pasto frugando fra gli scaffali della cucina, nella dispensa, nell’infermeria e nelle cabine, un pasto che non avrei dato nemmeno al secondo di una carboniera di Cardiff; e come sapete, noi diciamo che il secondo di una carboniera si mangerebbe anche le scorie pur di evitare gli sprechi.
Era semplicemente disgustoso! La ciurma aveva scritto cosa ne pensava sulla vernice fresca del castello di prua, ma io non avevo vicino un’anima con cui lamentarmi. Non avevo niente da fare tranne guardare il gherlino e la poppa del Kite che si adagiava nell’acqua bianca quando si sollevava su un’onda. Perciò diedi vapore alla pompa ausiliaria di poppa e tirai via l’acqua dalla sala macchine. Non aveva senso lasciare dell’acqua libera in una nave.
Quando il compartimento si fu asciugato, entrai nel buco dell’albero dell’elica e vidi che la nave faceva un po’ d’acqua dal pressatrecce, ma niente di grave. L’elica era saltata via proprio come mi aspettavo e Calder era rimasto ad aspettare che si staccasse con la mano sulla leva.
Me lo raccontò dopo, quando lo ritrovai sulla terraferma. Non c’era niente di rotto o di deformato. L’elica era solo scivolata sul fondo dell’Atlantico con la stessa facilità con cui un uomo muore senza preavviso… un affare provvidenziale per tutti noi. Poi feci il punto sulle attrezzature del Grotkau. Le scialuppe si erano sfasciate sulle loro gru, qui e lì mancava un pezzo di battagliola, una o due maniche a vento erano sparite, la battagliola del ponte di comando si era curvata a causa delle onde; i boccaporti, però, erano stagni e la nave non sembrava aver subito danni. Arrivai al punto di odiarla come fosse un essere umano, perché ci rimasi per otto estenuanti giorni, a morire di fame a una lunghezza di cavo dall’abbondanza. Trascorsi le giornate in cabina a leggere Il nemico delle donne, il più grande libro che Charles Reade abbia mai scritto, e a mangiare qualcosa di tanto in tanto.
Fu un lavoro noiosissimo. Otto giorni a bordo del Grotkau e nessun pasto completo. Non c’è da biasimare la ciurma perché non c’era voluta rimanere. L’altro uomo? Oh, lo feci lavorare con la scusa di tenerlo in forma. Si alzò il vento quando entrammo in acque basse, e ciò mi costrinse a stare vicino ai gherlini, incollato all’arganello e a barcamenarmi tra i marosi verdi. Quasi morii per il freddo e la fame, perché il Grotkau teneva il rimorchio come una chiatta e Bell lo sbatteva da tutte le parti. Inoltre, nella Manica c’era una nebbia molto fitta.
Rimanemmo in piedi per fare un po’ di luce e quasi investimmo due o tre pescherecci che ci gridarono che eravamo vicini a Falmouth. Poi fummo quasi uccisi da una bananiera straniera che brancolava tra noi e la costa, perché la nebbia diventava sempre più fitta quella notte e potevo sentire dal rimorchio che Bell non sapeva dov’era.
Santiddio, lo scoprimmo la mattina, poiché il vento soffiò via la nebbia come se spegnesse una candela, e spuntò il sole; e com’è vero che McRimmon mi ha consegnato il mio assegno, l’ombra di Eddystone si stendeva sul gherlino da rimorchio! Eravamo così vicini… sì, così vicini! Bell virò il Kite così bruscamente che quasi strappò le bitte del Grotkau, e ricordo che ringraziai il Creatore nella cabina del giovane Bannister, quando fummo all’interno del frangiflutti di Plymouth. Il primo a salire a bordo fu McRimmon con Dandie. Vi ho detto che i nostri ordini erano di portare a Plymouth tutto ciò che avremmo trovato? Il vecchio diavolo era arrivato la notte prima, avendo fatto due più due in base a ciò che gli aveva raccontato Calder quando il transatlantico aveva sbarcato la ciurma del Grotkau. Aveva indovinato con precisione il nostro orario di arrivo.
Avevo chiesto a Bell qualcosa da mangiare e lui me lo mandò sulla stessa nave con cui arrivò McRimmon, quando il vecchio venne a trovarmi. Sorrideva, si dava delle botte sulle gambe e sollevava le sopracciglia mentre io mangiavo.
“Cosa danno da mangiare ai loro uomini Holdock, Steiner & Chase?” mi chiese.
“Potete immaginarlo” risposi, facendo saltare il tappo di un’altra bottiglia di birra.
“Non ho firmato per morire di fame, McRimmon”.
“E nemmeno per nuotare” disse lui, perché Bell gli aveva raccontato di come avevo portato a bordo la cima di ormeggio.
“Beh, credo che non ci abbiate rimesso. Quale carico che avremmo potuto imbarcare nel Lammergeyer avrebbe potuto eguagliare il salvataggio di quattrocentomila sterline, tra scafo e merce? Eh, McPhee? Quelli della ditta Holdock, Steiner & Chase si mangeranno il fegato. Vero, McPhee? Sto soffrendo di demenza senile ora? Eh, McPhee? E non sono pazzo finché non inizio a verniciare il Lammergeyer? Eh, McPhee? Puoi proprio alzare la zampa, Dandie! Mi fanno tutti ridere. Avete trovato dell’acqua nella sala macchine?” “A dire la verità” risposi, “c’era dell’acqua”.
“Hanno pensato che stesse affondando dopo che l’elica è scivolata via. Imbarcava acqua con straordinaria rapidità. Calder ha detto che a lui e a Bannister è dispiaciuto abbandonarla”.
Pensai alla cena al Radley’s e a che razza di cibo avevo mangiato per otto giorni. “Gli sarà dispiaciuto da morire” dissi. “Ma l’equipaggio non ne ha voluto sapere di restare e correre il rischio. Vanno a dire in giro che avrebbero preferito morire di fame”.
“Sarebbero morti di fame se fossero rimasti a bordo” dissi io.
“A quanto dice Calder è stato un mezzo ammutinamento”.
“Lo sapete meglio di me, McRimmon” dissi.
“Parlando francamente, visto che siamo tutti sulla stessa barca, chi ha aperto la presa d’acqua della sentina?”
“Eh? Cosa?” disse il vecchio e io mi accorsi che era sorpreso.
“La presa d’acqua della sentina, avete detto?”
“Almeno credo che fosse una presa d’acqua della sentina. Quando sono salito a bordo erano tutte chiuse, ma qualcuno aveva allagato la sala macchine fino a due metri e mezzo e l’aveva chiusa con le viti e gli ingranaggi dal secondo carabottino”.
“Oh, Signore!” disse McRimmon.
“L’iniquità umana va oltre ogni immaginazione. Ma sarebbe una vergogna per Holdock, Steiner & Chase se questo dovesse venire fuori in tribunale”.
“È solo una mia curiosità” dissi.
“Bene, Dandie è afflitto dalla medesima malattia.
Dandie lotta contro la curiosità, poiché la curiosità porta i cagnolini in trappola. Dov’era il Kite quando quel transatlantico verniciato ha preso a bordo l’equipaggio del Grotkau?”
“Proprio lì, o nei paraggi” risposi.
“E chi di voi due ha avuto l’idea di coprire i fanali?” chiese ammiccando.
“Dandie” mi rivolsi al cane, “dobbiamo entrambi lottare contro la curiosità. È un affare che non dà profitti. Qual è la nostra possibilità di salvezza, Dandie?”. Rise fino a soffocare.
“Prendete quello che vi do, McPhee, e accontentatevi” disse.
“Oh, Signore, quanto tempo si perde quando si diventa vecchi. Salite a bordo del Kite, il prima possibile. Mi sono completamente dimenticato di dirvi che c’è un carico per il Baltico che vi aspetta a Londra. Quello sarà il vostro ultimo viaggio, credo, salvo quelli che farete per piacere”.
La ciurma di Steiner stava salendo a bordo per prendere il controllo della nave e rimorchiarla e io, dirigendomi verso il Kite, incrociai Steiner figlio su una barca. Ci guardava dall’alto in basso, ma McRimmon iniziò a gridare: “Ecco l’uomo al quale dovete il Grotkau, a caro prezzo Steiner, a caro prezzo! Lasciate che vi presenti il signor McPhee. Forse lo conoscete già, ma avete davvero poca fortuna nel tenervi i vostri uomini, a terra e in mare!”
Il giovane Steiner sembrava abbastanza infuriato da poterlo mangiare vivo mentre quello ridacchiava e tossiva nella sua vecchia gola secca.
“Non avete ancora avuto il vostro compenso” disse Steiner.
“Già, già” disse il vecchio, strillando a tal punto che l’avrebbero potuto sentire al The Hoe, “ma io ho due milioni di sterline e nessun figlio, caro ebreo Apella, se avete intenzione di andare in causa; e vi farò sborsare una sterlina dopo l’altra, fino all’ultima. Mi conoscete, Steiner! Sono McRimmon della ditta McNaughten & McRimmon!”
“Accidenti” disse a denti serrati, rimettendosi a sedere nella barca, “ho aspettato quattordici anni per rovinare quella ditta di ebrei e ringraziando Dio adesso ci riuscirò”.
Mentre il vecchio faceva la sua parte, il Kite era nel Baltico, ma so che i periti valutarono il Grotkau, complessivamente, più di trecentosessantamila sterline (il suo manifesto di carico sfoggiava una ricchezza dopo l’altra) e McRimmon ne ebbe un terzo per aver recuperato una nave abbandonata. Vedete, c’è una grande differenza fra il rimorchiare una nave con l’equipaggio a bordo e recuperare un relitto… una grande differenza… in sterline. Inoltre, due terzi dell’equipaggio del Grotkau morivano dalla voglia di testimoniare sul cibo e c’era una relazione di Calder indirizzata al Consiglio, riguardo l’albero dell’elica, che sarebbe stata davvero dannosa per gli armatori se fosse arrivata in tribunale. Perciò quelli capirono che sarebbe stato meglio non andare in causa. Finalmente il Kite tornò e McRimmon pagò personalmente me, Bell e il resto della ciurma pro rata, si dice così se non sbaglio. La mia quota, la nostra quota dovrei dire, era precisamente di venticinquemila sterline».
A questo punto Janet si alzò e lo baciò. «Venticinquemila sterline. Ora, io sono del nord e non sono il tipo che butta i soldi, ma darei sei mesi di paga… centoventi sterline… per sapere chi ha allagato la sala macchine del Grotkau. Sono abbastanza ben informato sulle peculiarità di McRimmon e sono sicuro che non vi abbia a che fare. Non è stato Calder, perché gliel’ho chiesto, e voleva prendermi a pugni. Sarebbe stata una cosa estremamente contraria al dovere professionale da parte di Calder, non il prendermi a pugni ma l’aver aperto le prese d’acqua di sentina… tuttavia per un momento ho pensato che fosse stato lui. Sì, ho creduto che fosse stato lui, preso dalla tentazione».
«Che teoria avete?» domandai.
«Beh, sono incline a pensare che sia stato uno di quei casi singolari che ci ricordano che siamo nelle mani di Poteri Superiori».
«Non potrebbe essersi aperta e chiusa da sola?»
«Non dico quello; ma potrebbe essere che l’abbia aperta qualche oliatore mezzo morto di fame, o forse qualche stivatore per avere la certezza di poter abbandonare il Grotkau. È una cosa demoralizzante vedere una sala macchine che si allaga dopo un incidente alle macchine… una cosa demoralizzante e ingannevole. Beh, l’uomo ha ottenuto quello che voleva, perché l’equipaggio è salito a bordo del transatlantico gridando che il Grotkau stava affondando. Ma è interessante pensare alle conseguenze. Secondo le probabilità umane, adesso quell’uomo è condannato a lavorare a bordo di un’altra nave da carico; e io sono qui, con venticinquemila sterline in banca, deciso a non tornare più in mare, felice è la parola precisa, tranne che come passeggero, se tu vorrai, Janet».

***

McPhee mantenne la parola. Lui e Janet partirono per un viaggio come passeggeri di prima classe. Pagarono settanta sterline per la loro cabina e Janet conobbe una donna molto malata in seconda classe, cosicché per sedici giorni visse sottocoperta a chiacchierare con le cameriere ai piedi delle scale della seconda classe, mentre la sua paziente riposava. McPhee fu passeggero per ventiquattro ore esatte. Poi, la mensa dei macchinisti (quella dove ci sono i tavoli con tela cerata) lo accolse gioiosamente tra le sue braccia e per il resto del viaggio la compagnia si arricchì dei servizi gratuiti di un macchinista altamente qualificato.

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La mezza età, di Teresa Ciabatti

Questo racconto è uscito su La Lettura del Corriere della Sera, il 19 Giugno 2021

Questo racconto è uscito su La Lettura del Corriere della Sera, il 19 Giugno 2021

di Teresa Ciabatti

 

La prima volta che mi sono sentita vecchia è stata al Pronto Soccorso, quando il medico visitando mia figlia rivolto agli infermieri ha detto: una sedia per la signora.
Mia figlia ha dieci anni, undici per l’esattezza, ma io continuo a dire dieci, sarà che non mi sono abituata. Sarà che mi sembra ieri che nasceva e non sapevo come disporre di quel corpicino - tra le braccia, stretto al petto.
Per questioni di pandemia sono dovuta venire in ospedale da sola, mentre prima, nelle situazioni difficili, c’è sempre stato un adulto con me. Non guido, non ho un conto in banca personale. Rifiutare l’indipendenza significa vincere sul tempo, sottrarre ogni occasione alla responsabilità è un guadagno di giovinezza.
Immaginate due figure che corrono su un prato, una è mia figlia, l’altra sono io. Da lontano non c’è differenza. Da lontano due amiche; eccole buttarsi sull’erba, rotolarsi, ecco la piccola prodursi in una sequenza di ruote, oplà.
Ora avviciniamoci. Più vicini, oggi.
Il medico chiede la sedia per la signora e annuncia che la bambina si è rotta i legamenti crociati, va operata. Tutte quelle capriole - dico a mia figlia con senso di rivalsa (sull’elasticità e sugli anni che ci separano). Se fossi meno scalmanata - infierisco nel corridoio, spingendo la sedia a rotelle fino alla nostra stanza, con l’infermiere che apre la porta e ci fa sfilare davanti alle ricoverate, tre più rispettive mamme.
Nel primo letto una tredicenne operata alla schiena in seguito a una caduta da cavallo, racconta la madre. Negli altri, due bambine che devono operarsi ai piedi. “Ai piedi?” - chiacchieriamo - “piedi piatti”. “Ormai è un intervento di routine”.  “Inseriscono le viti” - la mamma del letto 2, che, a occhio, oltre le mascherine dovrebbe essere la più anziana fra noi. Lei o forse io. L’ipotesi formulata alla luce, diventa certezza al buio: una mamma e una figlia arrivano a occupare il letto libero (la caduta da cavallo dimessa). Nell’oscurità della notte le sento agitarsi, sento la donna dire sveglia la signora, e la signora sarei io. Dall’istante in cui ho messo piede in ospedale mi sono trasformata in signora.
Signora, signora - chiama la bambina – è pieno di formiche, aiuto.
A questo punto sono tutte sveglie, sagome impettite su letti e poltrone (le mamme), testoline rivolte a me, all’adulto che deve risolvere il problema. Giù le mascherine, è evidente che la più vecchia sia io. Eppure vorrei dire non fidatevi, o almeno: datemi tempo. In un passato troppo recente ero io a chiedere aiuto, la scorsa estate, quattro estati fa: trovando nella tazza del bagno un pipistrello
A me l’unico ardire di abbassare la tavoletta perché non ci volasse addosso, nei capelli, a impigliarsi nei nostri capelli che avremmo dovuto tagliare, rimedio estremo per liberarci dell’animale (l’uomo di casa ci dirà che trattasi di leggenda, i pipistrelli volano verso la luce. Ehi – replico io a nome di tutte - sicuro che i nostri capelli biondi non valgano da luce?)
Nel bagno della casa di campagna si perpetua l’adolescenza indomita, istintiva, libera, scapestrata: io che dopo l’ispezione dell’uomo - è un pipistrello neonato, dice osservando il fondo della tazza - io fanciulla che scatto in avanti e tiro lo sciacquone, con mia figlia di sette anni ad applaudire. Il pipistrello precipita.
Che hai fatto - s’innervosisce lui - che senso ha ammazzare un animale che non nuoce.
Sbuffo, non tollero gli animalisti. Non è questione di animalisti - ribatte lui.
Ma io ho già smesso di ascoltare, fuori dal bagno, lungo il patio programmo la giornata, andiamo a raccogliere lavanda.
Esitando brevemente: dall’infanzia a oggi quanti esseri viventi ho ucciso? Direttamente o indirettamente a quante esistenze hai messo fine tu, ragazza?
È questa la domanda che risuona mentre raccolgo ciuffi di lavanda, e dopo, la sera, impedendomi di prendere sonno, la domanda che riemerge e riecheggia come voce lontana di donna - forse mia madre: quante creature hai ucciso nella tua lunga vita?
Contiamo: lucertole, un criceto messo appositamente sul davanzale della finestra, un coniglio nano dato via (liberarsene valeva da morte). Lucertole, criceto, coniglio, bambino.
Succedeva che a 16/17 anni rimanessimo incinte. Succedeva che non lo rivelassimo alle madri bigotte, e sbrogliassimo la questione tra noi, succedeva che mentre una piangeva l’altra - in genere io - consolava: in un attimo ti togli il pensiero, cinque secondi di dolore e fine. Sai che facciamo dopo? Ragionando: non puoi crescere un bambino ora. Siamo giovani, troppo giovani.
E parlo al plurale perché ogni gesto compiuto da una di noi era comune. Così gli aborti, sebbene io non abbia mai oltrepassato la porta chiusa, sempre fuori in attesa (ma qui è come i capelli biondi: sicuri che non valgano da luce?).  
E dunque noi, generazione di ragazze che ha deciso di essere madre tardi; noi, a lungo indomite, istintive, libere, scapestrate persino nel tempo della maternità; generazione di non animaliste (ricordate le pelliccette rosa che tanto abbiamo desiderato? No, non erano sintetiche - volpe colorata, come i pulcini verdi venduti a gruppi di sette/otto nei mercati, e noi a piangere li voglio). Ebbene noi, adolescenti per un tempo lunghissimo diventiamo vecchie all’improvviso, in un giorno che per me è stanotte - stanza di ospedale, formiche, sette testoline nella penombra che aspettano la soluzione da me. Chi sono io, una persona grande, il capitano capace di condurvi fuori dalla tempesta di formiche. Ne rintraccio il tragitto, la scia nera che si allunga sul muro, e su su, fino al buco del termosifone, l’origine.
Cosa sono in grado di fare io che non guido, non ho un conto in banca personale.
Che esperienza ho di formiche, se non quelle dei libri. Tornano le formiche dei libri d’infanzia.
"Se lui ci avesse parlato di formiche (...) noi avremmo pensato di trovarci contro un nemico concreto, numerabile, con un corpo, un peso. (…) Creature di quelle che si possono toccare, smuovere, come i gatti, i conigli. Qui avevamo di fronte un nemico come la nebbia o la sabbia, contro cui la forza non vale”*
Poco importa dirvi come sia proseguita la notte, se io sia uscita nel corridoio alzando la voce, svegliando l’intero reparto, se abbia richiesto una disinfestazione, un intervento immediato, se mi sia mostrata rispettabile o ridicola.
In questa storia conta lo stato del nemico - nebbia, sabbia.
La nebbia e la sabbia che siamo state noi, adolescenti con la libertà di amare rischiando di rimanere incinta, insieme all’autonomia di decidere cosa diventare, quanta vita goderci, tantissima. E adesso che la giovinezza è passata, adesso che sono vecchia, vorrei trovare un modo di combattere senza uccidere.
Credo sia questo invecchiare: sussultare, gioire, maledire, precipitare in prima persona.
Così stanotte, non per esperienza, né per capacità di accudimento, io sono la nonna. La madre al quadrato di tutte le creature nella stanza, e oltre. Attraversando le pareti, oltrepassando ortopedia. Cardiologia, ginecologia, reparto neonatale col soffitto coibentato di un materialo argentato come carta regalo.
Questo intendo col termine nonna, la coscienza di maternità dilatata, il sentimento universale che si estende e prende il sopravvento sul diritto (diritto di abortire che pure difenderemo a oltranza), questo sentimento disgiunto dal diritto che volteggia, palpita di stanza in stanza.
E allora ragazza - risuona la voce di donna - in tutta coscienza, metteresti ancora fine alla vita di un essere vivente, lucertola o criceto? - dice la voce di adulta che è la mia. Tu, donna di mezza età - prosegue la voce - nonna, seppur tenacemente indomita, istintiva, libera, scapestrata, quello che sei stata un tempo sommato a quello che sei oggi, tireresti di nuovo lo sciacquone?

 

 

*La formica argentina – Italo Calvino

 

L’epilettica, di Adrian N. Bravi

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Quattro novelle sui rattristamenti di Adrian N. Bravi è uno dei libelli pubblicati da Edizioni Volatili.

Una casa editrice che si occupa di esoeditoria, ovvero un'editoria che si pone all'esterno dei circuiti economici usuali. I loro libri, difatti, curati e illustrati magnificamente, si diffondono esclusivamente attraverso il dono.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio».

L'osservatorio Cattedrale è felice di proporvi la lettura di uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell'editore.

L’epilettica
Adrian N. Bravi

A casa la chiamavamo l’epilettica, perché un giorno, insieme a mio cugino Kurg, l’avevamo vista stesa a terra all’ingresso dell’edicola di mio zio Rocco, a Grand Bourg, mentre si dibatteva come un pesce dentro un secchio vuoto. Scalciava e faceva degli strani versi, come un animale notturno, e quando le era cominciata a uscire dalla bocca una bava cremosa, bianca come la panna, frutto di qualche sofferenza interiore, Kurg e io ci siamo convinti che il maligno fosse entrato nel corpo di quella donna e se ne fosse impossessato. Di sicuro, pensavamo, ci voleva un esorcista per evitare che si trasformasse in qualche mostro. Invece, è intervenuta un'altra donna del quartiere a cui non importava niente della schiuma che aveva in bocca, le ha preso la lingua, gliela ha tirata fuori e le ha messo un fazzoletto bagnato sulla fronte per fermare le convulsioni.
Noi avevamo circa dodici anni e dopo quella volta la evitavamo sempre quando la incontravamo per strada, evitavamo anche suo marito, che era un signore alto e magro, con una gamba più corta dell’altra; perché, tra l’altro, di sottecchi, quest’uomo, andava in edicola a rubacchiare le riviste pornografiche che mio zio teneva in uno scaffale deputato a quel genere di pubblicazioni. Dunque, chiunque avesse avuto a che fare con l’epilettica o con il marito zoppo, noi l’evitavamo. Forse lei lo sapeva o lo immaginava, perché quando ci vedeva faceva un po’ la sostenuta e ci guardava con palese disprezzo. Comunque, per noi l’epilettica era un’indemoniata (e il marito un cleptomane della pornografia), anche quando si aggirava tranquilla per il quartiere, accanto allo zoppo che a ogni passo si abbassava e si alzava. Ed è probabile che anche noi, Kurg e io, ai suoi occhi, fossimo due ragazzini indemoniati e pieni di odio.
Un giorno l’abbiamo trovata a casa che prendeva il mate insieme a mia madre e a mia zia, in un quartiere non lontano da Grand Bourg. Lei, l’epilettica, ci guardava con un sorriso sornione, come a dire: “Sono qua, sono venuta a sputare sulle pareti di questa casa tutta la schiuma che ho in corpo, prova a mandarmi via, stramaledetto moccioso”. Quando mia madre è andata in cucina, l’ho presa in disparte per dirle:
“Sei matta, come fai a prendere il mate con quella? Ti ho detto che aveva tutta quella schiuma bianca in bocca, e ora tu bevi dallo stesso becco della bombilla? Come ti viene in mente?”
Mia madre mi guardava inorridita, era più spaventata dalle mie parole che non dalla possibilità che quella donna potesse cadere in preda alle convulsioni.
“Ma che dici? Stai zitto! È venuta a farsi accorciare un vestito”.
“E allora, tu devi per forza succhiare lì dove lei ci ha messo la bocca?”
“Ma, zitto un po’”.
Non capiva la gravità del suo gesto e quando le ho ricordato, tra l’altro, che il marito era un cleptomane di riviste, lei mi ha risposto che non erano affari suoi se lo zoppo rubacchiava.
“Ah bene,” le ho detto, “andiamo proprio bene, allora. Quello rubacchia le riviste zozze nell’edicola di tuo cognato e tu, come se niente fosse…”
Non mi ha fatto neanche finire la frase che era tornata dove c’era lei e aveva continuato a prendere il mate insieme.
Un anno dopo, l’epilettica è morta schiacciata da un camion su via El Callao, sempre a Grand Bourg. Aveva avuto un malore ed era andata a finire sulla strada. Nessuno, neanche l’autista, riusciva a spiegarsi come fosse accaduto. Dopo l’incidente, ogni settimana, il marito cleptomane lasciava un rametto di fiori sul ciglio della strada dove era morta la moglie. Aveva messo anche una targa con il nome e la data della disgrazia: Alicia Guzmán, 10 novembre 1975.

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Il prossimo edificio che farò saltare, di Charles Baxter

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Mattioli 1885 porta in libreria Credenti, di Charles Baxter, tradotto da Francesca Cosi e Alessandra Repossi.
I personaggi di Baxter sembrano in equilibrio tra disperazione e fede: una giovane donna e il suo ragazzo, e forse una storia segreta di violenza; un vicino di casa che può essere un assassino di bambini o un patetico bugiardo; una ragazza che prova a superare la fine di una stoia d’amore cercando conforto in un dialogo immaginario con Ovidio. E poi il grande affresco della novella: un prete cattolico coinvolto in una relazione con una sinistra coppia benestante, che ha fatto vacillare il suo stato di grazia. Scritto in una prosa limpida e perfettamente modulata, Credenti conferma l’abilità di Baxter nel descrivere una quotidianità apparentemente ordinaria, la punta di un iceberg nelle vite comuni dei suoi personaggi, che nascondono un’enorme massa sommersa di passioni, follia, spensieratezza e dolore.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Il prossimo edificio che farò saltare

Nel parcheggio accanto alla banca, Harry Edmonds vide un pezzetto di carta per appunti grigia, grande quanto un biglietto di auguri. Il vento gliel’aveva sbattuto contro la gamba, alla quale era rimasto attaccato. Sul margine superiore c’era un appunto incompleto scritto con l’inchiostro viola. Raccolse il foglietto e lo esaminò. Nell’angolo superiore sinistro qualcuno aveva scarabocchiato la frase Il prossimo edificio che farò saltare. Harry dispiegò il pezzo di carta e vide lo schizzo a inchiostro di quella che sembrava una grande stazione ferroviaria o qualche altra struttura pubblica, forse il terminal di un aeroporto. Nel disegno si vedevano finestre ad arco e una facciata con le colonne, ma per il resto c’erano pochissimi altri dettagli. L’edificio pareva solido, monumentale e difficile da abbattere.
Si guardò intorno. Si trovava in un parcheggio di Five Oaks, nel Michigan, dove non c’erano edifici del genere. Il vento leggero faceva fluttuare convulsamente altri pezzetti di carta. Un volantino giallo si era appiccicato a un idrante. Per strada c’era il consueto esercito di bancari, avvocati, studenti e gente in giro a fare compere. Come al solito, nessuno lo guardava o gli prestava particolare attenzione. Si infilò il pezzo di carta nella tasca del cappotto.
Per tutto il pomeriggio, mentre era seduto alla scrivania, la mano continuava ad avvicinarsi alla tasca per sfiorare il disegno. Più tardi mostrò quasi per scherzo lo schizzo alla receptionist dell’ufficio.
“Deve assolutamente portarlo alla polizia,” gli disse lei. “È pericoloso, probabilmente è opera di un maniaco. Quello lì è il LaGuardia, l’aeroporto? Quello nel disegno? Ci sono stata il mese scorso. Sono sicura di sì, Mr Edmonds. Non c’è da scherzare. È senz’altro il LaGuardia.”
Perciò, a fine giornata, prima di tornarsene a casa andò in auto alla stazione di polizia al pianterreno del municipio.
Mentre guidava al sole si rese conto di stringere gli occhi per via del bagliore accecante. Non fece in tempo a entrare dall’ingresso principale che venne investito dall’odore burocratico di cera dell’edificio e gli venne subito il mal di testa. Un poliziotto in divisa dall’espressione impaziente era seduto dietro una scrivania e rimescolava alcuni documenti. In quell’attimo a Harry Edmonds venne in mente che se avesse mostrato alla polizia ciò che aveva in tasca sarebbe diventato il sospettato principale e sarebbe stato sottoposto a un esame minuzioso, perdendo così la sua privacy. Girò sui tacchi e andò a casa.

A cena disse alla fidanzata: “Guarda cos’ho trovato oggi in un parcheggio.” Le porse il disegno.
Lucia osservò il foglietto sporco tenendolo per un angolo con il pollice e l’indice, poi lesse: “‘Il prossimo edificio che farò saltare’.” Aveva un tono di voce leggero ed educato. Vendeva software ed era molto attenta alla gestualità. Poi disse: “È la Union Station di Chicago.” Sorrise. “Be’, Harry, cos’hai deciso di fare? Questa è opera di un pazzo, no?”
“In effetti oggi pomeriggio sono addirittura entrato nell’atrio della stazione di polizia,” disse. “Poi sono tornato indietro, non ce l’ho fatta a farlo vedere. Temevo che sospettassero di me o cose del genere.”
“Oh, quanto sei melodrammatico,” disse lei. “Non hai mai commesso un crimine in vita tua. Santo cielo, sei un bancario. Lavori nel settore dei fondi fiduciari, sei inoffensivo.”
Harry si appoggiò allo schienale della sedia e la guardò.
“Non sono poi così inoffensivo.”
“Sì che lo sei,” disse lei ridendo. “Sei piuttosto inoffensivo.”
“Lucia,” le disse, “ti chiederei di non usare quella parola.”
“Inoffensivo? Ma è un complimento.”
“No, in questo paese non lo è affatto,” le disse.
La tavola era apparecchiata con le candele gialle e i piatti azzurri in pendant con i tovaglioli che Lucia tirava fuori ogni volta che era orgogliosa di un piatto preparato da lei o da Harry. Quel giorno c’era il pollo al curry birmano. “Be’, se la cosa ti preoccupa, portalo alla polizia,” gli disse Lucia. “È a questo che servono i poliziotti. Caro,” aggiunse, “nessuno ti sospetterà di niente. Sei bello ed equilibrato, sei il mio tesoro e io ti amo. Che altro è successo oggi? Rimetti in tasca quel pezzo di carta inquietante. Ti piace questo curry?”
“È squisito,” disse lui.

Quando Harry ebbe chiamato a raccolta il coraggio necessario per ripresentarsi alla stazione di polizia, si diresse a passo deciso verso il bancone dell’accoglienza. Dopo aver osservato attentamente il disegno e la frase scritta a inchiostro e dopo essersi segnato il nome e l’indirizzo di Harry Edmonds, il poliziotto, che come si leggeva sul suo badge era il sergente Bursk, gli chiese: “Mr Edmonds, lei ha figli?”
“Figli? No, non ne ho. Perché?”
“Perché questo l’hanno fatto dei ragazzini,” disse il sergente Bursk agitandogli il pezzo di carta davanti agli occhi come se volesse farlo asciugare. “Avrebbero potuto farlo anche i miei figli. I bambini lo fanno, i maschi. Disegnano stanze della tortura, scrivono minacce, e chi più ne ha più ne metta. Si comportano così, è l’età. Ma sono ragazzi, non fanno sul serio.”
“E come fa a saperlo?”
“Perché ne ho tre,” disse il sergente Bursk. “Non dico che lei dovrebbe avere dei figli, dico solo che io ce li ho. Comunque, se non le dispiace, il disegno lo tengo io.”
“In realtà,” disse Harry, “lo rivorrei indietro.”
“D’accordo,” disse il sergente Bursk porgendoglielo. “Comunque, se dovessimo avere notizia di qualche grosso attentato e il bilancio delle vittime fosse importante, magari le daremo un colpo di telefono.” “D’accordo,” disse Harry. Se lo aspettava. “A proposito,” chiese, “le ricorda qualche posto in particolare?”
Il poliziotto esaminò il disegno, poi disse: “Certo, è la Grand Central di New York, quella sulla Quarantaduesima, mi pare. Una volta ci sono stato. Si capisce dall’orologio. Lo vede l’orologio?” Indicò un cerchio appena abbozzato. “Questa è la Grand Central e questo è il grande orologio che c’è sulla facciata.”

“Col cazzo che è quella,” disse il ragazzo. Era a letto con Harry Edmonds al Motel 6. Si erano conosciuti in un bar del centro e poi erano andati in quel motel, e una volta finito Harry aveva tirato fuori il disegno dalla tasca dei pantaloni abbandonati sul pavimento e gliel’aveva mostrato. I lunghi capelli castani ricadevano sugli occhi del ragazzo e, la coda di cavallo ormai allentata, si erano sparpagliati anche sul cuscino. “So che cazzo di posto è,” disse. “Cioè, io ho viaggiato, sai, in tutta Europa. E questa è in Europa, stiamo parlando della Deutschland del cazzo.” Il ragazzo si sollevò sui gomiti per vedere meglio. “Ah sì, mi ricordo questo posto. Ci sono stato forse due estati fa… Sarà Amburgo? Sì, è la Dammtor Bahnhof.”
“Mai sentita,” disse Harry Edmonds.
“Non l’hai mai sentita perché non ci sei stato, bello. Per conoscerla devi esserci andato, cazzo.”
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia come un professore che cerca di spiegare un punto particolarmente ostico. “Cioè, vedi, la bahnhof è la stazione ferroviaria, e la Dammtor Bahnhof è una delle stazioni di Amburgo, quella dove i nazisti radunavano gli ebrei, cioè. E poi li spedivano via. Da questo posto, bello mio. Garantito. È ancora in piedi. Meriterebbe di essere bombardato, cazzo. Spazzato via dalla faccia della terra. È solo una mia idea. È il male assoluto, bello.” Il ragazzo si girò sul letto, rimettendosi comodo dopo aver espresso le sue opinioni. Era sinuoso e caldo, come un gatto. Faceva persino dei rumori con la gola, una specie di ron ron soddisfatto.

“Credevo che l’avessimo superata,” disse la terapeuta di Harry. “Pensavo che avessimo finito con il sesso occasionale. Pensavo, Harry, che avessimo elaborato questi impulsi passeggeri. Scoprire che non è così mi preoccupa, glielo confesso. Non dico che siamo tornati al punto di partenza, ma si tratta di un passo indietro. E quello che mi chiedo è: perché è successo?”
“Lucia ha detto che ero inoffensivo, ecco perché.”
“E la cosa l’ha fatta arrabbiare?”
“Ci può scommettere che mi ha fatto arrabbiare.” Harry si appoggiò allo schienale della sedia e guardò la terapeuta dritto negli occhi. Avrebbe voluto che si comprasse un altro paio di occhiali, quelli che aveva la facevano assomigliare a una di quelle vittime dei film che venivano uccise nei primi dieci minuti, subito dopo i titoli di testa. Una passante innocente. “I bancari non sono inoffensivi, glielo posso assicurare.” “Allora perché ha abbordato quel ragazzo?” Aspettò la risposta. Vedendo che lui non diceva niente, aggiunse: “Non mi viene in mente nulla di più pericoloso.”
“È stato per via di quell’edificio,” disse Harry.
“Quale edificio?”
“L’ho mostrato a Lucia, è su un pezzetto di carta. Questo.” Lo estrasse dalla tasca e lo porse alla terapeuta. Ormai era tutto soffice e accartocciato. Mentre lei studiava lo schizzo, Harry guardava girare la lancetta dei secondi dell’orologio da parete.
“L’ha trovato?” chiese la terapeuta. “Non l’ha disegnato lei, giusto?”
“Sì, l’ho trovato.” Rimase in silenzio. “L’ho trovato in un parcheggio a sei isolati da qui.”
“D’accordo. Dunque, ha mostrato il disegno a Lucia e lei l’ha definita inoffensivo.
Perché la disturba tanto essere definito così?” “Perché,” disse Harry, “in questo paese se sei inoffensivo ti ammazzano e poi ti sbranano. È così che vanno le cose al giorno d’oggi, è questa la tendenza. Credevo che se ne fosse accorta anche lei. Ma forse non è così.”
“E perché dice che si viene uccisi e sbranati? È una metafora stravagante. È una sorta di paradosso isterico.”
“No, invece. Io lavoro in banca e lo vedo tutti i giorni. Poi tocca a me pulire il sangue dal pavimento.”
“Non vedo cosa c’entri questo con l’abbordare ragazzi e portarseli nei motel,” disse lei. “In questo modo si torna a quando agiva le sue fantasie. E quello che mi chiedo è: cosa ci dice del suo rapporto con Lucia? La sta mettendo in pericolo, sa?” Poi, come per sottolineare il concetto, aggiunse:
“Quello che ha fatto è sbagliato. E molto, molto pericoloso. Visto che non fa altro che pensare, a questo aveva pensato?”
Harry non rispose subito. Poi disse: “È buffo: tutti hanno una teoria su cos’è questo edificio. Lei però non ha ancora detto niente. Qual è la sua?”
“Su questo edificio?” La terapeuta di Harry esaminò il foglietto attraverso le sue lenti da vittima cinematografica. “Ah, è il Field Museum di Chicago. E non è una teoria: è davvero il Field Museum.”

Alle 3 di martedì mattina Harry puntò lo sguardo sul soffitto della camera da letto. Lì, come su uno schermo, tratteggiato dalla luce che filtrava dalle tende svolazzanti, vide un edificio pubblico con colonne sulla facciata, finestre ad arco e forse un orologio. Sempre sul soffitto, il sole proiettato dalla sua mente sorse in tutta la sua magnificenza, di un color oro brillante, con un paio di cumulonembi sfilacciati dalla fantasia che gli passavano davanti da destra a sinistra, senza però impedire che la sua luce penetrasse nel grande edificio pubblico nel quale uomini, donne e bambini – bimbi sui passeggini, bimbi per mano ai genitori – sfilavano come ombre sul soffitto, ombre illuminate, e per un attimo Harry vide il flash di un’esplosione.
Harry Edmonds era a letto ma non dormiva. Accanto a lui c’era la sua ragazza, che aveva intenzione di sposare dopo aver appianato e sistemato un paio di questioni personali.
Qualche ora prima aveva fatto l’amore con lei, con quella donna, Lucia, con carezze sincere, ma a quanto pareva adesso era di nuovo sveglio. Si alzò dal letto e scese in cucina.
Mangiò un biscotto nella cruda luce fluorescente e poi, d’istinto, accese la radio. Le emittenti ribollivano di chiamate in diretta, cariche di odio ed estremismo religioso, gridate da uomini rabbiosi che ansimavano e urlavano in tutti i microfoni disponibili. Girò la manopola per sintonizzarsi su uno di quei canali. Un tizio che chiamava dal Delaware disse: “Vorrei tanto fare un bel casino in un paio di posti, credetemi, partendo dalla Corte Suprema per passare a un paio di cliniche.” Harry spense di colpo la radio.

Adesso è seduto nella cucina illuminata. Si sente intontito quanto può esserlo un trentatreenne sano di mente al mattino. Non sono stupido e nemmeno banale, dice Harry a se stesso allungando la mano per prendere un blocco e una matita n.2. In cima al foglio scrive ‘Il prossimo edificio che farò saltare’ e poi, molto lentamente, con estrema cura, inizia a disegnare il proprio viso, dai contorni lisci e ben rasati, il suo mezzo sorriso gentile. Quando sente che gli occhi iniziano a lacrimare, strappa il foglio con il suo ritratto e lo getta nel cestino. Il frigo sembra intonare un motivo solo per lui, un motivo senza melodia, e Harry spegne la luce prima di riuscire a riconoscerlo.

Siamo in centro a Five Oaks, nel Michigan, ed è mezzogiorno, l’ora giusta per pranzare, riposarsi e chiacchierare, e anche, per alcuni, i pochi fortunati, l’ora giusta per amare, ma qui davanti a noi c’è Harry Edmonds, funzionario del settore fondi fiduciari della Southeastern Michigan Bank and Trust, in piedi all’angolo di una strada nel forte vento primaverile. Il vento gli tira la cravatta e gli scompiglia i capelli. A quanto pare nei paraggi si è rovesciato un cassonetto per la raccolta differenziata e i fogli di carta, a centinaia, pieni di disegni, illustrazioni e parole, si sono sparpagliati dappertutto. Come uno stormo di uccelli, hanno preso il volo. Sono presi, intorno a Harry Edmonds, in un vortice e adesso sbattono e si agitano in cerchi. Alcuni gli si appiccicano addosso. Ci sono pagine patinate con inserti profumati, fogli ingialliti con supereroi in quadricromia, altre pagine con immagini di corpi attraenti, nudi e ritoccati, e poi scontrini, annunci e prestiti. Qua ci sono gli annunci personali che turbinano via e là il volantino di una tv a schermo gigante con impianto home theatre. Harry Edmonds, un uomo che non sa bene quale valore abbia la sua vita, che al momento non sa nemmeno se la sua vita abbia in effetti una qualche importanza oppure un futuro, alza la testa nel vento, che acquista forza e intensità, e per un attimo immagina di essere spazzato via. A chi lo osservasse dall’altra parte della strada, il modo in cui solleva la testa potrebbe sembrare un atteggiamento di preghiera. Si dice che Dio si trovi nei turbini di vento e gli occhi di Harry Edmonds sono sicuramente chiusi e adesso tiene anche la testa china. Non si muove né avanti né indietro e dalla sua espressione non è chiaro se stia esprimendo un qualche desiderio. Rimane lì immobile, a quell’angolo di strada, mentre tutto intorno i fogli volano verso di lui e poi si allontanano. Un attimo dopo se n’è andato. Senza dubbio è tornato al suo lavoro in banca ed è lì che dobbiamo lasciarlo.

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La bocca sentinella, di Andrés Neuman

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Sur pubblica Anatomia sensibile di Andrés Neuman,. Un libro che celebra il corpo in tutte le sue forme e un tributo alla bellezza non convenzionale scritto nella forma di un viaggio poetico, politico ed erotico alla scoperta di ciò che siamo veramente. Un libro che racconta come vediamo noi stessi e come ci guardiamo attraverso gli occhi degli altri, proponendo un ideale estetico dissacrante e inclusivo che mira a scardinare i pregiudizi di genere e sull’apparenza.

Cattedrale pubblica alcuni estratti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

La bocca sentinella

di Andrés Neuman

traduzione di Silvia Sichel

Capricciosa, parla a nome del corpo intero. È piena d’altri. La sua ansia trova origine nelle sue mansioni in fondo incompatibili: esternare e ingerire, proferire e trangugiare.
Molta gente chiacchierina manovra una bocca piccola, come se la cavità si sforzasse di restringere il discorso. Per lo stesso principio, una bocca smisurata può rappresentare parlanti timidi, che amministrano con prudenza quel portento.
Esiste la bocca pozzo. Profonda e umida. Ogni volta che si apre, qualcuno affoga. Dall’accurata rifinitura, la bocca sibilante rimane acquattata. Tra il benvenuto e il disprezzo passa appena un millimetro. La bocca bislunga forza le guance come la finestra il muro, facendo gargarismi di luce. Molto diversa è l’asimmetrica, in cui un labbro dissente dall’altro, in una discussione capace di poligoni inauditi.
Secondo la matematica boccale, se al primo labbro sottraiamo il secondo, si rivela l’incognita. Due più due fa un bacio, tatuaggio che non dura. Incurvandosi il piano, lanciano una parabola. Dalla mira di quel sorriso dipende la grandezza della bocca.
Ci sono labbra che si astengono e si ripiegano. Ce n’è di così gonfie che ostruiscono il linguaggio. Al labbro prominente spetta il protagonismo dell’alunno sapientone; e anche la sua vulnerabilità. Di tanto in tanto spunta un labbro superiore che si direbbe leggermente rialzato da un dito, come se gli chiedesse discrezione. Quelle ben disegnate sono patriote della bocca: ne delimitano il territorio anche senza parlare.
Rinunciando a ogni proselitismo, il labbro pallido sfuma. Quello rosso sottolinea i propri diritti, si delizia nella sua tonalità, cospira con la gengiva. Quello rosa diventa interessante in vecchiaia, conquista la nostra attenzione quando avvizzisce. Quello violaceo raggiunge la pienezza nell’inverno e il labbro scuro è forse il migliore a far nottata.
L’oreficeria della bocca esagera coi denti, opere maestre d’erosione. Ciascuno è il filo di un desiderio: quelli appuntiti chiedono, quelli rotti pregano. Nessuno di essi morde senza il permesso del labbro, dimostrando che la tenerezza governa la ferocia.
Il dente bianco si dà arie da smoking, risalta nelle feste e ha timore dell’alba. Quelli storti hanno un che di danza ebbra. Il dente giallo prova un pizzico di vergogna e, però, quanta sincerità nel suo smalto. I piccolini rosicchiano le parole con rigore aforistico. Tuttavia, niente è paragonabile al fascino puerile dei denti spaziati, tra cui s’intrufola, clandestina, l’allegria.
Con il masticare degli anni, i denti si riempiono di ingegnerie. I loro rilievi sono sferzati da minuscole inclemenze. L’intera dentatura inizia allora una lenta partita a scacchi, che si concluderà immancabilmente con la sconfitta dei pezzi bianchi.
Predicando tra i denti, la lingua batte il tempo e punteggia la nostra prosa. Attende la venuta della frase successiva, sentinella nel silenzio, sotto il cielo del palato.

Biasimo del braccio e lode del gomito

[…]

Nessuna di tali questioni si può paragonare al sacrificio, all’umiltà del gomito. La nostra esperienza vi si accumula e lascia un’impronta arida. Senza il suo provvidenziale contributo, il braccio sarebbe inadeguato alla rettifica o alla sottigliezza, ridotto a una specie di ossessione rettilinea. Chi, se non il gomito, sa essere insieme punto d’appoggio e di inflessione? Chi regge l’attesa e sopporta gli strusci, esponendo la propria corteccia per il bene del ramo? Cantare le lodi del suo silenzio è giustizia poetica.
Più è vivo, più è brutto: nessuno adora il gomito, paria della bellezza. Un giorno o l’altro lo vedremo sollevarsi per attuare la sua piccola rivoluzione sensuale.

 

 

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Da Decameron project, un racconto di Mia Couto

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Quasi settecento anni dopo il Decameron di Giovanni Boccaccio, nel marzo 2020 gli editor del New York Times Magazine hanno raccolto quell’eredità e lanciato il Decameron Project, e alcuni grandi autori contemporanei hanno deciso di mandare le loro parole oltre i confini delle proprie case, oltre lo specchio del proprio mondo. Le loro storie non parlano della pandemia, ma ne sono intrise; non spiegano, ma evocano le piccole allegrie e le grandi nostalgie, le città improvvisamente spente e le strade che diventano miraggi di libertà. Sono testimonianze di un tempo straordinario, lo sguardo di un’umanità unita dagli stessi pensieri e sentimenti, in grado di costruire una memoria comune e una comune visione del domani.

NN pubblica Decameron Project in Italia, con le traduzioni di Ada Arduino, Chiara Baffa, Katia Bagnoli, Stefano Bortolussi, Guido Calza, Giuseppina Cavallo, Gaja Cenciarelli, Fabio Cremonesi, Serena Daniele, Velia February, Giovanna Granato, Gioia Guerzoni, Maria Nicola, Laura Noulian, Silvia Rota Sperti, Alessandra Scomponi, Sara Sullam.

Racconti di: Margaret Atwood – Mona Awad – Matthew Baker – Mia Couto – Edwidge Danticat – Esi Edugyan – Julián Fuks – Paolo Giordano – Uzodinma Iweala – Etgar Keret – Rachel Kushner – Laila Lalami – Victor LaValle – Yiyun Li – Dinaw Mengestu – David Mitchell – Liz Moore – Dina Nayeri – Téa Obreht – Andrew O’Hagan – Tommy Orange – Karen Russell – Kamila Shamsie – Leïla Slimani – Rivers Solomon – Colm Tóibín – John Wray – Charles Yu – Alejandro Zambra.

Cattedrale vi propone la postfazione dell’editrice Eugenia Dubini, e il racconto Un ladro gentile, di Mia Couto, contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

di Eugenia Dubini

Questo libro è per tutti i lettori, e nasce perché NN vuole costruire un ricordo. Sarà un ricordo che si sommerà a tutti gli altri che a ogni latitudine si avranno dell’anno 2020. Ma il libro che avete tra le mani, per NN, segna un punto: nel 2020 eravamo qui, e con queste storie abbiamo deciso di partecipare al racconto di questo mondo in cui abbiamo vissuto. Nei mesi del primo lockdown, e sotto la pelle di tutto quello che accadeva, sembrava che il tempo si fosse fermato. Sembrava non esserci più passato, sembrava impossibile immaginare futuro, e si ripeteva costante il presente senza confini, che continuava ad accadere sotto i nostri occhi, e che ci lasciava sbalorditi, atterriti, incapaci, immobili. Un’altissima torre di presente (grazie, Chiara Valerio) che si alzava sopra le nostre teste, e che ci rendeva improvvisamente più uniti e più distanti, più vicini e più soli. Quando abbiamo ricevuto il manoscritto del Decameron Project per la traduzione italiana, una luce: i ventinove racconti che leggerete non sono le storie di questa solitudine, né il resoconto di questa inerzia temporale. Sono testimonianza e creazione di grandi scrittori contemporanei, che da ogni parte del mondo, in quel preciso istante del tempo, hanno deciso di partecipare al progetto del New York Times Magazine, così da mandare le loro parole oltre i confini delle proprie case, oltre lo specchio del proprio mondo. Gli scrittori hanno fatto affidamento, ancora una volta, sulla magia della narrazione. E noi di NN abbiamo sentito che il Decameron Project sarebbe stato il nostro modo di esserci, il 7 nostro modo di partecipare alla memoria e alla riflessione che ne verrà poi. Qui dentro c’è la pandemia e ci siamo tutti, ci sono tutti i luoghi del mondo e c’è il dono del tempo. Per questo assaggio a voi librai, abbiamo scelto quattro racconti, che da soli comunicassero l’ampiezza di sguardo dell’opera. C’è l’Italia e la convivenza forzata che tanti di noi hanno vissuto durante il lockdown, nella storia di Paolo Giordano; c’è un chiaro omaggio al Decameron di Boccaccio nella storia di Rachel Kushner, che immagina un vero e proprio racconto nel racconto, per distrarsi dall’avanzare del contagio; c’è la straordinaria fantasia di Margaret Atwood nell’immaginare un piano di supporto all’umanità in preda alla pandemia, grazie a un gruppo di volenterosi extraterrestri inviati sul nostro pianeta. E infine c’è il vecchio contadino di Mia Couto, che ha vissuto agli estremi del paese, senza notizie e connessioni, e che scambia l’infermiere giunto in suo soccorso per un ladro gentile. Proprio come nel Decameron di Boccaccio, che ha viaggiato in ogni luogo, e che ha vissuto quasi mille anni, qui dentro c’è il potere delle storie, che sono capaci di dare un volto al passato e di costruire un futuro. Questo libro, quindi, è un ricordo per NN, e per i lettori, perché il tempo non si è fermato: è stato raccontato, si è fatto memoria e sogno, e ha ripreso a scorrere. Anche oggi che scrivo, il futuro mette paura, ha tratti di grande incertezza ma esiste, e saremo noi a costruirlo insieme, perché in compagnia di queste storie, di tutte le storie, continueremo a cercare un mondo e un nostro tempo nel mondo.

Un ladro gentile
di Mia Couto

Traduzione di Fabio Cremonesi

Bussano alla porta. Bussano si fa per dire. Abito lontano da tutto, solo la fame e la guerra vengono a trovarmi. E ora, nell’eternità dell’ennesimo pomeriggio, qualcuno dà una raffica di pedate alla mia porta di casa. Corro ad aprire. Corro si fa per dire. Trascino i piedi, con le ciabatte che fanno scricchiolare le assi del pavimento. Alla mia età, non posso fare altro. La vecchiaia comincia quando guardi il pavimento e vedi un abisso.
Apro la porta. È un uomo mascherato. Quando si accorge della mia presenza, urla:
«Tre metri, resti a tre metri di distanza!».
Se è un rapinatore, è intimorito. La sua paura mi spaventa. I ladri timorosi sono i più temibili. Estrae una pistola dalla borsa. Me la punta contro. È strana quella pistola: è di plastica bianca ed emette un raggio di luce verde. Me la punta in faccia e io chiudo gli occhi, obbediente. Quel raggio di luce sulla fronte è quasi una carezza. Morire così è un segno che Dio ha esaudito le mie preghiere.
L’uomo mascherato ha la voce dolce, lo sguardo gentile. Non mi lascio ingannare: i soldati più crudeli mi si sono sempre presentati con modi da angelo. Eppure è da così tanto tempo che nessuno mi fa compagnia, che finisco per stare al gioco.
Chiedo al mio ospite di abbassare la pistola e di accomodarsi sull’unica sedia che mi resta. Solo in quel momento mi accorgo che ha le scarpe infilate dentro sacchetti di plastica.
Lo scopo è evidente: non vuole lasciare impronte. Gli chiedo di abbassare la maschera, gli assicuro che può fidarsi di me. L’uomo sorride triste e mormora: in questi giorni non ci si può fidare di nessuno, la gente non sa cos’ha dentro di sé. Capisco il suo messaggio enigmatico, l’uomo pensa che sotto la mia apparenza miserabile, io nasconda un tesoro prezioso.
Si guarda intorno e, dato che non trova niente da rubare, si decide a spiegarsi. Dice di essere lì per conto dei servizi sanitari. E io sorrido. È un ladro giovane, non è capace di mentire. Dice che i suoi capi sono preoccupati per una malattia grave che si sta diffondendo rapidamente. Fingo di crederci. Sessant’anni fa sono quasi morto di vaiolo. È forse venuto qualcuno a visitarmi? Mia moglie è morta di tubercolosi, si è forse visto qualcuno? La malaria si è portata via il mio unico figlio, sono stato io a seppellirlo, da solo. I miei vicini sono morti di aids, nessuno ha mai voluto saperne niente. La mia defunta moglie diceva che era colpa nostra, avendo scelto di vivere lontano dai posti dove ci sono gli ospedali. Lei, poverina, non sapeva che in realtà è il contrario: sono gli ospedali che vengono costruiti lontano dai poveri. Sono fatti così, gli ospedali. Non gliene faccio una colpa. Io sono simile a loro, agli ospedali, sono io che albergo e curo le mie malattie.
Il rapinatore bugiardo non desiste. Cerca di migliorare i suoi modi, ma risulta comunque grossolano. Tenta di giustificarsi: la pistola che mi ha puntato contro serviva a misurare la febbre. Dice che sto bene, me lo comunica con un sorriso sciocco. E io fingo un sospiro di sollievo. Vuole sapere se ho la tosse. Sorrido, conciliante. La tosse mi ha quasi portato alla tomba quando sono tornato dalle miniere, vent’anni fa. Da allora le mie costole hanno quasi smesso di muoversi, il mio torace è fatto solo di polvere e pietra.
Il giorno che riprenderò a tossire, sarà alle porte di San Pietro, per chiedere permesso.
«Non mi pare che lei stia male» commenta l’impostore.
«Però potrebbe essere asintomatico e ugualmente pericoloso».
«Pericoloso?» chiedo. «E perché? Per l’amor di dio, può perquisirmi la casa, sono una persona seria, non esco quasi mai».
Il visitatore sorride e mi domanda se so leggere. Mi stringo nelle spalle. E lui mette sul tavolo un documento di istruzioni per l’igiene, una scatola di saponette e una boccetta di quella che chiama “soluzione alcolica”. Poverino, deve pensare che, come tutti i vecchi solitari, io abbia la tendenza a bere. Congedandosi, l’intruso dice:
«Tra una settimana torno a trovarla».
A quel punto mi viene in mente il nome della malattia di cui parla il visitatore. La conosco bene quella malattia. Si chiama indifferenza. Per curare l’epidemia, servirebbe un ospedale grande come il mondo. Disobbedendo alle sue istruzioni, mi avvicino e lo abbraccio. L’uomo si oppone con forza e mi sguscia tra le braccia. In automobile, si spoglia in fretta. Si leva i vestiti come se si stesse togliendo di dosso la peste. Quella peste che si chiama miseria.
Sorridendo, gli faccio un cenno di saluto. Dopo anni di tormento, mi riconcilio con il genere umano: un ladro così goffo non può che essere una brava persona. La settimana prossima, quando torna, lascerò che rubi il vecchio televisore che ho in camera.

© 2020 by The New York Times

© 2021 Enne Enne Editore, Milano
Berla & Griffini Rights Agency

Polpette, le micro storie di Jacopo Masini

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Del Vecchio Editore pubblica Polpette, una raccolta di micro racconti folgoranti e paradossali. Le micro narrazioni di Jacopo Masini sono degli efficaci esperimenti linguistici e letterari. Quante parole servono per rendere una storia significativa e indimenticabile? La qualità di una storia è connessa al numero delle righe in cui è narrata? Le storie e le fiabe brevissime di Jacopo Masini riescono a costruire e decostruire immaginari, mondi letterari, orizzonti mitici. Passiamo di pagina in pagina come leggendo una guida in una galleria d’arte: ogni ritratto offre la possibilità di un’esperienza che va ben oltre lo stupore del primo sguardo. Ogni parola è scelta con la cura del miniaturista e con l’intelligenza del narratore consapevole. Il risultato è un ironico, a volte crudele, affresco delle piccinerie umane che offre come compenso la meraviglia nei confronti delle infinite possibilità della letteratura e un’arte che con la sua potenza sovverte le regole e inganna ogni prospettiva.

Cattedrale vi propone tre di queste micro storie, per gentile concessione dell’editore.

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Bianca Sereni spediva da dodici anni lettere minatorie a se stessa. Andava in posta, imbucava la lettera, e dopo due o tre giorni la riceveva.

“Stai attenta”, scriveva, “la tua vita è in pericolo”, oppure “Bastarda, me la pagherai cara”.

La notte successiva all’arrivo della lettera non dormiva quasi mai. Ogni rumore la faceva sussultare, immaginava agguati e incursioni nel buio.

– Ho così paura di me stessa, – diceva tremando.

Ha smesso la volta che ha provato a uccidere la propria ombra, pronta all’attacco sulla parete del bagno.

 

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Il Diavolo e la Morte

Il Diavolo, per caso, incontrò la Morte lungo una strada di campagna. Le corse incontro per abbracciarla. La Morte lo fermò severa.
– Continui a sbagliare, – disse, – io e te non lavoriamo insieme.
Poi si allontanò, lasciando il Diavolo solo e infuriato in mezzo alla campagna.

 

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– E adesso dove vado? – chiese il protagonista, giunto alla fine del libro.

– Prova a uscire, – rispose l’autore.

Il protagonista scosse la testa, pieno di cruccio e malinconia.

– Ma come faccio? – disse. – E se esco dalla pagina e casco di sotto?

– Sotto dove? – disse l’autore. – Non sai che oltre il bordo del tuo libro esiste solo un altro libro?

Il protagonista guardò perplesso l’autore.

– D’accordo, – disse, – ma se uscendo cado nella storia sbagliata?

– Quello è un rischio che corriamo tutti, – disse l’autore, – prima o poi ti succederà.

E chiuse il libro.

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A proposito dei racconti, di BERNARDO ATXAGA

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Obabakoak, ossia storie di Obaba, pubblicato da 21Lettere e tradotto da Sonia Piloto di Capri, è un classico della letteratura mondiale. Una raccolta di storie incentrate sulle storie, sull’atto creativo del raccontare e su quello del ricordare, sul processo di immaginarle e sul misterioso legame tra queste e la realtà. Gioia letteraria che con ironica maestria e delicatezza si riflette nei personaggi. Una dichiarazione d’amore per la letteratura e l'umanità.

Cattedrale vi propone uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.


A proposito dei racconti
di Bernardo Atxaga

Dopo aver ascoltato il racconto del servo, il mio amico rimase pensoso. Teneva gli occhi fissi sulla tazzina del caffè, come chi voglia leggere il futuro nei suoi fondi.
“Sono anch’io dell’opinione di Boris Karloff. È un bel racconto”, disse poi. E, come in ogni conversazione notturna degna di questo nome, quel commento portava con sé una domanda un po’ metafisica e di non facile risposta: “Perché è bello? Cosa serve a un racconto per essere bello?”
“Io conosco un racconto moltissimo migliore”, esclamò qualcuno vicino a noi con accento straniero. Sorpresi dalla presenza di un testimone inatteso, io e il mio amico voltammo la testa.
“Sono io”, ci disse allora. Ma non lo conoscevamo per niente. Era un uomo di una certa età, con la barba e i capelli bianchi. Benché fosse chino su di noi e quasi piegato in due, mi pareva molto alto; doveva essere sui due metri. “Io conosco un racconto moltissimo migliore”, ripeté. Il suo fiato puzzava di whisky.
“Allora raccontacelo”, lo incoraggiammo. Mi domandavo di che paese potesse essere quell’individuo. La foggia dei suoi abiti lo faceva straniero.
Alzò la mano con solennità e ci chiese di aspettare un momento. Mentre si avviava al bancone notai che con la testa e anche con il collo superava la media dei clienti dell’autogrill. Era davvero molto alto.
“Sarà meglio andare in qualche altro posto”, dissi al mio amico. Altrimenti non avremmo potuto parlare con tranquillità delle nostre cose.
Quel nonno dalla testa bianca aveva l’aria di essere un tipo interessante, ma sembrava piuttosto sbronzo. Inoltre, dovevamo proseguire per Obaba. “Hai già parlato con tuo zio di Montevideo? Lo sa che ci sarò anch’io?”
“Sì, l’ho già avvisato. È rimasto molto contento quando gli ho detto che anche tu avresti letto qualcosa. Sai com’è. Più vittime ha, più se la spassa”.
“Allora dovremmo ritirarci presto. Domani la giornata sarà dura”.
“Andiamocene subito”, approvai ridendo.
Ma l’uomo alto era già di ritorno. Ora aveva il cappello e teneva in mano un bicchiere di whisky.
“Il mio racconto è molto interessante. Lo dico per davvero”, insistette. Quando fece per sedersi, inciampò e ci cadde addosso.
“I’m sorry”, si scusò.
“Siamo tutt’orecchi”, gli disse il mio amico. L’uomo tirò fuori dalla tasca della giacca un piccolo registratore e lo depose sul tavolo.
“Il racconto s’intitola Il monkey di Montevideo. O, meglio, La scimmia di Montevideo”, affermò dopo aver premuto il tasto per registrare.
Ma non poté proseguire. Aveva la lingua spessa e le parole — alcune in inglese — gli si impastavano in bocca. Spense il registratore con un sospiro.
“Non si può”, si scusò, portandosi più volte le mani alle orecchie.
“Sì, è vero. Qui c’è molto rumore”, gli disse il mio amico alzandosi dalla sedia. “E poi dobbiamo andarcene. Sarà per un’altra volta”.
“It’s a pity”, ci disse quando tutti e tre eravamo in piedi.
“Eh, sì. Ma che possiamo farci! Chissà che non ci si riveda. Saremo ben lieti di ascoltare il suo racconto”. Ero tentato di invitarlo alla sessione di lettura che qualche ora dopo avremmo tenuto a Obaba, ma — benché questo genere di iniziative a sorpresa di solito piacesse molto a mio zio — alla fine non osai. La sua propensione al bere mi spaventava un po’. Giunti al bancone, il cameriere ci disse che la nostra consumazione era già stata pagata.
Con un cenno di saluto ringraziammo il nonno dalla testa bianca, e lui ci rispose portando la mano alla falda del cappello. Quindi uscimmo dall’autogrill e ci dirigemmo alla macchina.
“Eravamo rimasti alle caratteristiche di un bel racconto”, disse il mio amico, quando non avevamo ancora percorso un chilometro d’autostrada. Era chiaro che quell’argomento gli stava a cuore.
Lo presi un po’ in giro, scherzando sulla sua passione per i discorsi seri. In realtà, ammiravo molto l’adolescente che, pieno di inquietudini e assolutamente estraneo alle frivolezze, albergava in quel medico. Non sembrava affatto una persona di fine XX secolo.
“Potremmo iniziare rievocandone alcuni che ci sembrano belli, per verificare se ci troviamo d’accordo sulla qualità”, gli proposi, mentre abbassavo le luci per non abbagliare la Lancia rossa che ci aveva appena sorpassato.
“Mi è sembrato Ismael”, disse il mio amico.
“Come?”
“Che fosse Ismael quello che guidava la Lancia. Almeno mi è parso”.
“Andrà a Obaba per trascorrervi la domenica, come noi”, gli dissi.
“Te l’avevo detto che la storia del ramarro ci avrebbe riservato ancora delle sorprese”, rise il mio amico. “Come l’altra che ci voleva raccontare il nonno, quella della scimmia di Montevideo. Sono certo che un giorno di questi potremo ascoltarla per intero”.
“E siamo di nuovo al punto di partenza. Sarà bene chiarirci le idee prima che se ne presenti l’occasione. Altrimenti, non potremo dirgli se il suo racconto è bello o brutto, e il nonno si sentirà defraudato”, disse il mio amico. Vedevo che era sempre più eccitato.
“Comincia tu. Indicami un racconto che ti sembra bello”.
“Ne scelgo uno di Čechov”.
E il mio amico mi fece il riassunto di quello intitolato Sonno:
“Varka, una giovane cameriera a servizio in una casa perbene, non poteva mai dormire. Glielo impediva il bebè affidato alle sue cure, un bebè insonne che, per tutta la notte, non smetteva mai di piangere. Lei lo cullava, gli cantava dolci ninnenanne, ma tutto era inutile. Più intenso era il suo desiderio di dormire, più la mancanza di sonno la estenuava, e più il bambino strillava. Così un giorno dopo l’altro; finché una mattina, i genitori del bebè, chinandosi sulla culla per dargli il buon giorno, si accorsero con raccapriccio che…”
Come il mio amico finì, io attaccai con un racconto di Waugh intitolato La breve passeggiata di Mister Loveday:
“Una dama dell’alta società prova compassione per un mite vecchietto dai modi garbati, da venticinque anni internato in un manicomio. Perché lo tenete qui dentro? Sembra una persona così a modo, così normale... dice la signora al medico. Sta qui di sua volontà. È lui che non vuole uscire. Prima doveva essere diverso perché, a quanto c’è stato detto, aveva ucciso una ragazza che se ne andava tranquillamente in bicicletta, senz’alcun motivo. Ora la situazione è cambiata. Dopo tanto tempo, dovrebbe venir dimesso. Allora la dama cerca di convincere il vecchio che fuori starebbe meglio, che la libertà è qualcosa di meraviglioso, e gli offre il suo aiuto per espletare tutte le pratiche necessarie. Non ho molta voglia di uscire di qui, le dice il vecchietto, ma le sue parole mi hanno convinto. Sì, mi pare che non mi farebbe male cambiare aria. Inoltre, c’è una cosa che mi piacerebbe fare. E così, quel mite vecchietto dai modi tanto garbati riacquista la libertà. Ma succede che, poche ore dopo essere uscito, è già di ritorno al manicomio. Nel frattempo, su una strada vicina, un camionista trova una bicicletta gettata a terra, e…”
“Molto bene. Siamo d’accordo. Anche a me sembra un racconto ben riuscito. E ora quello della collana. È di Maupassant. Lo conosci?”
“L’ho letto molto tempo fa”, dissi mentre superavo un tir.
“La protagonista si chiamava Mathilde Loisel, no? Sì, mi pare che questo fosse il suo nome”, cominciò il mio amico.
Ma dovette interrompersi, perché l’autista del tir — seccato per il nostro sorpasso, o con voglia di giocare — accelerò e, facendo un rumore del diavolo, ci accostò sulla sinistra e molto da vicino.
Frenai per lasciargli riprendere vantaggio su di noi. Io e il mio amico avevamo bisogno di silenzio.
“Tanti auguri alla Francia”, gli dicemmo vedendo che la sua targa era francese.
“Anche Mathilde Loisel viveva in Francia. Abitava a Parigi”, proseguì il mio amico. “Nella frivola Parigi del XVIII secolo. Era sposata con un modesto impiegato, un travèt, accanto al quale la sua vita non aveva nulla di eccitante. Capitò che un giorno ricevette un invito per il ballo del ministro Ramponneau. La bella notizia fece sì che Mathilde si deprimesse ancor di più. Desiderava con tutta l’anima partecipare al ballo, ma come ci sarebbe andata? Che vestito si sarebbe messa? Che gioielli avrebbe indossato? Era presa da quelle ansie quando all’improvviso si ricordò di un’amica d’infanzia sposata con un uomo ricco. Che male ci poteva essere se le avesse chiesto in prestito qualche gioiello? Si decise a farlo e ottenne i gioielli. E fra questi c’era una preziosa collana di perle...”
“Ah, sì! Ora mi ricordo. Se non sbaglio, Mathilde, dopo aver ballato tanto da essere sfinita, si accorse che la collana di perle che le aveva dato l’amica era sparita dal suo collo. L’aveva persa...”
“Esattamente. Mathilde aveva perso la collana. Ma non poteva di certo dirlo all’amica. Doveva restituirgliela. Così, ipotecò tutto quanto possedeva, anche la sua vita, per poter comprare un’altra collana”.
“Sì, per lei fu una vera rovina. Dovette lavorare giorno e notte per mettere da parte i soldi del costo della collana. E guarda caso, qualche anno dopo, incontrò per strada la sua amica d’infanzia. E cosa venne a sapere? Che le perle della collana che le aveva prestato erano false, erano di bigiotteria!”
Ti sembrerà incredibile, Mathilde, le disse l’amica, ma da quando tu l’hai portata al ballo, la collana non sembra più la stessa, le perle hanno un colore diverso, come fossero autentiche”.
A questo racconto ne seguì un altro di Schwob, e a quello di Schwob un altro di Chesterton; e così, raccontando storie, uscimmo dall’autostrada e imboccammo il sinuoso percorso che, incuneandosi fra le montagne, conduceva a Obaba. Abbassammo i finestrini dell’auto.
“Da bambino chiamavo questa strada Delle farfalle”, dissi al mio amico.
“Non mi meraviglio”, mi rispose. Illuminate dai fari, un’infinità di farfalle bianche volteggiavano davanti a noi.
“Si direbbe che stia nevicando”, aggiunse il mio amico.
“Da piccoli venivamo spesso da queste parti. In bicicletta, proprio come le ragazze del racconto di Waugh. Passavamo l’estate in bicicletta”, ricordai.
“Perché mai ci saranno tante farfalle?” volle sapere il mio amico.
“Credo che questa varietà si nutra di menta. Nel bosco che ora stiamo attraversando, la menta cresce in abbondanza. Immagino sarà per questo”.
A riprova di quello che avevo appena detto, misi la testa fuori dal finestrino e aspirai con forza la tiepida aria estiva. Sì, effettivamente quei boschi odoravano ancora di menta.
Per due o tre chilometri rimanemmo in silenzio, ciascuno assorto nei propri pensieri, osservando le farfalle, scrutando i fremiti del bosco. Ogni tanto, nei tratti di strada più aperti, si scorgevano le luci delle case alle pendici dei monti, lontane, solitarie, nitide.
Quando mancava solo una mezz’oretta per arrivare a Obaba, vedemmo formarsi in cielo, fra le stelle, una nuvoletta. Alla nuvoletta seguì il botto di un fuoco d’artificio.
“C’è una festa in qualche paese qui intorno”, dedusse il mio amico.
“Da quella parte lì”, gli feci notare, indicandogli un campanile il cui profilo si stagliava al di sopra del bosco. “Sembra che alle farfalle non piacciano le feste. Guarda, sono scomparse”.
Il mio amico aveva ragione. In quel momento, i fari dell’auto illuminavano solo le bandierine colorate che ornavano la strada.
Parcheggiammo la macchina all’entrata del paese, su un poggio. Da lì, come dall’alto di un balcone, dominavamo tutta la piazza e si poteva osservare il ballo. La musica dell’orchestrina ci giungeva a intervalli, secondo le folate del vento.
“Allora, a che punto eravamo rimasti a proposito dei racconti?” domandò il mio amico.
Non voleva mescolarsi fra la folla prima di avere almeno un po’ chiarito la questione. E, a dire il vero, a me capitava esattamente la stessa cosa. Si stava molto bene su quel poggio. Veniva voglia di sognare a occhi aperti e di fumare.
Ci fermammo un bel po’ senza smettere di analizzare con molta calma cosa si proponessero autori tanto bravi come Čechov, Waugh o Maupassant, al momento di scrivere i loro racconti; e, traendo le nostre conclusioni, credevamo di avere individuato quelle che sembravano le peculiarità del genere. Avevamo la sensazione di aver avuto un dialogo molto proficuo.
Innanzitutto, ci pareva evidente il parallelismo che esiste fra il racconto e la poesia. Come disse il mio amico, riassumendo quanto si era detto, sia il racconto che la poesia derivano dalla tradizione orale, quindi sono sempre brevi. Inoltre, e probabilmente per queste implicazioni, devono rispondere al requisito di essere densi di significato. Prova ne sia che i brutti racconti e le brutte poesie risultano, come scrisse qualcuno, vani, vuoti e miserevoli.
“Visti in questa luce, la chiave non sta nell’inventare una storia”, concluse il mio amico. “In realtà, di storie ce ne sono in abbondanza. La chiave sta nell’occhio dell’autore, nel suo modo di vedere le cose. Se è capace, prenderà come materiale la sua esperienza, nella quale coglierà qualcosa di essenziale, e dalla quale estrarrà qualcosa di valido per chiunque. Se è incapace, non supererà mai la frontiera del meramente aneddotico. Per questo i racconti che oggi abbiamo rievocato sono belli. Perché esprimono cose essenziali, non semplici aneddoti”.
L’orchestrina che animava la festa stava suonando un pezzo sentimentale, molto lento. Le coppie che poco prima si erano scatenate, ora ballavano abbracciate, quasi senza muoversi.
“Per questo si sono scritti tanti racconti su grandi temi”, lo assecondai, riprendendo il filo della conversazione. “Voglio dire che ruotano sempre attorno a temi come la morte, l’amore e altre cose simili. Un po’ come capita anche con le canzoni, tanto per fare un esempio”.
“Valentino non ti ha dato qualcosa su questo argomento?” mi disse.
“Chi? Quello che vive ad Alaro?”
“Proprio lui”.
Il mio amico si riferiva a uno scrittore con cui ci incontravamo spesso.
“È vero!” mi ricordai. “Mi ha mandato una pubblicazione di Foster Harris. Se non mi sbaglio”, continuai, “Harris ha una teoria molto curiosa a proposito del racconto. Secondo lui, il racconto non sarebbe altro che una semplice operazione di aritmetica. Ma non un’operazione di cifre, beninteso, bensì a base di somme e sottrazioni di elementi quali amore, odio, speranza, desiderio, onore e via di seguito. La storia di Abramo e Isacco, per esempio, sarebbe una somma di pietà più amore filiale. Quella di Eva, invece, una perfetta sottrazione, amore verso Dio meno amore per il mondo. Harris sostiene, inoltre, che le somme, di solito, siano a lieto fine, e le sottrazioni diano origine a finali tragici”.
“In fondo, dice le stesse cose che diciamo noi, no?”
“Sì, ma la sua teoria è ancora più riduttiva. A ogni modo, chi lo può sapere. Magari non siamo altro che degli infelici dominati dall’aritmetica più elementare”.
“Eppure, non credo che quanto abbiamo detto sia esaustivo. Un’occhiata non basta a catturare l’essenziale.
Un buon racconto ha bisogno anche di un finale forte.
Così almeno mi pare”, sostenne il mio amico.
“Anche a me pare che un buon finale sia imprescindibile. Un finale che sia conseguenza di ciò che precede. E questa esigenza spiegherebbe, credo, l’abbondanza di racconti che terminano con una morte. Perché la morte è un evento definitivo, assoluto”.
“Senz’alcun dubbio. Considera il racconto di Čechov, o di Waugh, o quello del servo di Baghdad che mi hai raccontato nell’autogrill. Sono tutti ricchi di significato, e hanno un finale molto forte. Quello di Baghdad mi ricorda quanto è accaduto a García Lorca. Fuggì da Madrid perché temeva che lo avrebbero ucciso, poi... un racconto profetico, molto bello. Per me, il migliore della notte”.
Sorrisi nell’ascoltare le parole del mio amico. Finalmente accennava alla storia che gli avevo raccontato nell’autogrill. Era quindi giunto il momento di tirar fuori l’asso che avevo nella manica.
“Sì, indubbiamente è bello. Comunque, io gli cambierei il finale. Non mi piace tutto quel fatalismo”, gli dissi.
Il mio amico fece una faccia stupita.
“Sto parlando seriamente. Non mi piace il fatalismo di quel racconto. Mi sembra di un determinismo implacabile che si riflette anche sulla concezione che la vita sia come un tiro di dadi. Quello che vuole dirci è che al momento della nascita, il nostro destino è già segnato: lo si voglia o meno. La morte viene per noi? Allora non ci resta altra risorsa che morire”.
Stringendosi nelle spalle, il mio amico mi fece capire che non vedeva altra alternativa.
“Come vuoi. Ma mi pare che sia l’unico finale possibile per quel racconto”, volle chiarire.
“Beh, io gliene ho dato un altro”.
“Vuoi dire che hai scritto una variante del racconto?” disse inarcando le sopracciglia.
“Proprio. Ce l’ho qui”.
E da una cartelletta che tenevo sul sedile dell’auto tirai fuori due fogli fittamente scritti.
Il mio amico scoppiò a ridere.
“Ah, ah! Ora capisco. Quando hai attaccato con i gusti letterari di Boris Karloff e tutto il resto avrei dovuto immaginarlo. Stavamo parlando dei ramarri e degli andazzi di Ismael e, di colpo, ecco che cambi argomento senza alcuna ragione. Certo! Morivi dalla voglia di mostrarmi quello che avevi scritto. È incredibile! Non cambierai mai!”
Le sue ultime parole facevano riferimento alla mia cattiva fama. Tutti i miei amici erano dello stesso parere nel ritenermi capace di qualunque stratagemma pur di avere l’occasione di leggere i miei lavori.
“Signore, perdona questo tuo incorreggibile servo!” dissi levando gli occhi al cielo.
“E va bene. Ma prima andiamo in piazza. Sono disposto ad ascoltare la tua variazione solo con una birra in mano”, propose il mio amico.
“Mi sa che dovrò pagarla io la birra”.
“Sicuro”.
“Che dura è la vita dello scrittore! Bisogna persino corrompere la gente per poter lavorare”, esclamai prima di scendere dalla macchina.
In piazza vedemmo che i musicisti dell’orchestrina si stavano ritirando per una pausa, e che un fisarmonicista li sostituiva sul palco. La gente ora si accalcava negli unici due o tre bar vicini, ridendo e parlando ad alta voce.
Procurarci da bere ci riuscì quasi più difficile che definire le peculiarità dei racconti. Finalmente ce la facemmo e — visto che per sedersi c’erano solo delle panchine sul viale del cimitero — ci allontanammo in fretta e furia da quella baraonda.
Eravamo contenti. La nostra nottata stava sempre più somigliando a quella che in Inghilterra i membri dell’Other Society celebrano una volta all’anno. L’unica differenza era che non ci riunivamo all’Hotel Piccadilly, e che i nostri racconti — almeno in un certo senso — non erano gotici.
Giunto a questo punto del cammino, faccio una nuova sosta e passo a trascrivere la variazione che raccontai al mio amico. Il viaggio verso l’ultima parola proseguirà dopo.

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Madre delle ossa, di David Demchuk

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Madre delle ossa, opera narrativa d’esordio del drammaturgo David Demchuk, è un’antologia horror molto peculiare che si dipana nel tempo e nello spazio, partendo dall’Ucraina dell’interguerra, da cui proviene la famiglia dell’autore, fino a giungere al Canada del 21° secolo.
Il testo, intensamente weird, è un mosaico di vicende narrate ognuna da un personaggio, la maggior parte legate dal luogo di provenienza. Al confine tra l’Ucraina e la Romania c’erano un tempo tre villaggi, legati da antiche tradizioni del folklore e da un patto inquietante con una fabbrica di preziosissimi ditali acquistati dai ricchi e dai nobili di tutto il mondo occidentale.

La traduzione è affidata a Claudia Durastanti.

Cattedrale vi propone due racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.


NICOLAI

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Non me lo ricordo. E la verità non mi riesce. Un anno dopo che lei e mio padre si sposarono, mia madre perse il suo primo figlio, e le fu detto che non ce ne sarebbe stato un altro. Fu difficile, come potete immaginare, e mia madre disse a mio padre di andarsene e trovarsi un’altra moglie che potesse dargli un maschio. Mio padre amava mia madre e rimase. Ma il figlio morto era un’ombra tra loro di cui persino gli estranei si accorgevano. La storia che raccontava lei: un giorno, proprio quando l’inverno volgeva in primavera, mio padre stava aiutando un vicino a riparare il suo fienile mentre mia madre era rimasta in casa a cucire. Sentì un grido dalla foresta dietro la fattoria e, invece di aspettare che lui tornasse, uscì per vedere cosa fosse stato. Proprio oltre il limitare degli alberi, ancora visibile dalla casa, mi trovò sdraiato nella neve appena posata, un neonato, nudo e tremante e prossimo alla morte. Niente tracce di passi, da nessuna parte. Avevo i capelli bianchi e gli occhi trasparenti. Pensava che fossi il fantasma del suo primo bambino. Mi chiamò come lui, mi svezzò come se mi avesse generato e, quando nessuno venne a reclamarmi, lei e mio padre mi fecero loro.
Ma c’erano dei lupi in quei boschi; a volte si sentivano, raramente si vedevano. Ululavano, ma non venivano mai vicini. Una sera, mio padre era fuori sul retro con me, vicino ai cespugli di bacche. Alzò lo sguardo e vide un branco di figure buie ingobbite, con gli occhi scintillanti, che ci fissavano dalla macchia di alberi. Mi infagottò, spaventandomi fino alle lacrime, e si mise a correre verso casa. Aveva un’arma, il fucile da caccia di suo padre, ma non aveva mai ucciso niente con quello, e mia madre non lo aveva mai toccato. Lo prese dalla mensola della credenza sul retro, fece un passo fuori dalla porta e lo sollevò. Le figure scure dagli occhi scintillanti erano già andate via.
Un paio di mattine dopo, mia madre si svegliò per via di un venticello leggero che si era avviluppato attorno alle sue dita, l’odore di erba fresca a riempire la stanza. Spiò fuori in corridoio e si accorse che la porta sul retro in cucina era aperta, la luce del sole esplodeva in casa. Ansimò, saltò dal letto, controllando la mia culla. Non c’ero. Fece un urlo svegliando mio padre e, tirandosi i vestiti addosso, corse nel sole, accecata, gridando e piangendo nella foresta. Si fermò proprio sul punto in cui le prime foglie proiettavano la propria ombra sul terreno. Rimase in piedi, guardò, ascoltò. E mio padre si fermò e stette in piedi accanto a lei, reggendo il fucile.
Era tutto calmo e immobile. Quieto come una foresta non dovrebbe essere mai.
– Avremo bisogno di aiuto a cercare, – sussurrò lui. – Ci serviranno dieci, forse quindici uomini.
– No, – sibilò lei. – Non me ne andrò. Dobbiamo trovarlo adesso.
Diede uno sguardo a destra, dove un rialzo era sormontato da tre faggi. Si mosse lenta verso la piccola altura mentre mio padre guardava, poi si fermò ad ascoltare di nuovo. Un lamento leggero e acuto, e poi un ansimare gentile. Fece segno a mio padre di avvicinarsi, poi strisciò verso la fonte di quel suono, cauta e attenta. In una tana dall’altra parte del rialzo, una lupa bianca stava accucciata su un mucchietto di stracci, ad allattare i suoi cuccioli: tre lupetti bianchi e fragili, e me; il latte caldo di lupa spiaccicato attorno alla mia bocca affamata.
Mio padre sollevò il fucile, e mia madre lo fermò. – No, – disse. E mentre quella parola le si rovesciava fuori dalla bocca, emersero altri tre lupi dagli alberi. Lui abbassò la canna del fucile ed entrambi iniziarono a camminare lentamente indietro, mentre gli animali fissavano attenti. Una volta fuori dalla foresta, mio padre si volse per chiederle: – Cosa faremo?
– Aspetteremo, – disse mia madre. – Io aspetterò. Non gli faranno del male, altrimenti sarebbe già successo. – Poi si voltò verso mio padre e disse, – Ha riconosciuto il mio viso, e io il suo.
– Sono animali, – rispose irato. – Pure nostro figlio è un animale?
– Tutti siamo animali. Io aspetterò.
La sera successiva, mia madre si trovava in cucina a preparare la cena. Stava parlando a mio padre che era nell’altra stanza, quando si rese conto di essere sola. Era scivolato fuori dalla porta dietro di lei. All’improvviso sentì uno sparo, e poi un altro. Corse fuori per vederlo barcollare via dalla foresta e collassare a terra. Urlò e corse verso di lui; aveva il viso e il collo maciullati, tremava furiosamente, il sangue gli si svelava fuori e rallentava in un rivolo. Le convulsioni diminuirono e smisero. Era morto.
Un ululato si squarciò nella foresta dietro di lei. Mia madre si volse e scappò verso la tana per trovare una donna che non era una donna, una donna con lunghi capelli bianchi e otto mammelle, con un buco da sparo sulla spalla, i cuccioli confusi e frignanti attorno a lei, e attorno a me. La donna vide mia madre e si tirò gli stracci addosso per coprirsi; erano la sua camicetta e la sua gonna.
Mia madre si avvicinò, le si inginocchiò accanto, si stracciò la gonna per pulire e fasciarle la ferita. Diede ai cuccioli latte di capra riscaldato. Andò a prendere l’acqua e il cibo mentre i tre lupi osservavano e attendevano. Rimase tutta la notte con la donna, e ci ritornò con me giorno dopo giorno, fino a quando non trovò la tana vuota. I lupi se ne erano andati.
Non ricordo. Non so dire cosa sia vero o no. Ma so questo: quando mia madre morì molti anni dopo, mi inginocchiai accanto al suo letto e piansi, e i lupi nei boschi piansero insieme a me.


SABINA

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C'è stato un tempo, nella storia dei nostri tre villaggi, in cui nascevano pochi bambini. Quasi nessuno di loro era femmina. La movchanya. Questo periodo è durato per quasi dieci anni. Ancora oggi nessuno sa perché, anche se ovviamente ci sono delle teorie: alcune hanno a che fare con la fabbrica di ditali, altre con il governo; alcune hanno a che fare con la terra su cui i nostri villaggi sono stati costruiti, e un paio danno la colpa alle nostre maledette linee di sangue.
Adesso non ne parliamo quasi più, ma all’epoca è stato abbastanza traumatico. Molte donne faticavano a restare incinte e, di quelle poche che riuscivano, quasi tutte abortivano nel corso dei primi due mesi. Solo una dozzina di donne ha portato avanti la gravidanza fino al nono mese, ma i bambini sono nati morti o così deformati che a malapena potevano respirare. Alcuni uomini hanno abbandonato i villaggi per la città, si sono sposati lì, e sono tornati con le nuove mogli, ma non importava. I risultati erano gli stessi. In quei dieci anni nei nostri villaggi sono sopravvissuti solo trenta bambini. Solo sei di loro erano bambine.
Io sono arrivata il settimo anno. Sono nata maschio ma cresciuta come una femmina. Ovviamente non lo capivo all’epoca, e non so se sono stata attratta verso le cose da ragazza prima che i miei genitori decidessero così, o se ne sono stata attratta proprio perché avevano deciso così. Ma quel che è fatto è fatto. Non ero la sola – altre quattro bambine sono cresciute così, tre più grandi di me e una più giovane – ma io ero l’unica del mio villaggio. I nostri genitori si assicuravano, mentre crescevamo, che indossassimo sempre qualcosa di verde per distinguerci dalle altre: un vestito o una gonna o un nastro o un braccialetto o dei calzettoni. Ci chiamavano le Zeleni Divuski, le ragazze verdi.
Naturalmente c’erano state delle prese in giro mentre crescevamo, e c’era anche un po’ di paura nei nostri confronti. Venivamo trattate diversamente, alcune dicevano, in maniera speciale, e questo è sempre faticoso quando si è piccoli. Con il tempo, tuttavia, le ragazze fuori dal gruppo, persino le più grandi, venivano da noi e ci raccontavano i segreti, e i ragazzi si avvicinavano e ci chiedevano come piacere alle ragazze.
I ragazzi spesso facevano pratica con noi, non sessualmente, questo è ovvio, ma tenendoci per mano e parlandoci e baciandoci. – Troppo ruvido, troppo veloce, – dicevamo a qualcuno di loro. – Troppo timido, troppo quieto, – a un altro. Incoraggiavamo i maschi a fare domande e ad ascoltare, a essere meno spacconi, a essere più gentili e a considerare le cose ponderandole bene. – Parleresti così a tua madre? – chiedevamo. Una volta un bambino aveva risposto, – Io non ho una madre, – e una di noi aveva detto, – E ci credo, – di impulso. Cercavamo di non far piangere i bambini, ma c’erano delle volte in cui.
E poi riferivamo tutto questo alle ragazze, dicevamo loro chi era divertente e affascinante, chi forte e chi timido, chi lesto e chi chiassoso. Volevano sapere tutte chi baciava meglio, ma noi non lo dicevamo mai. – Scopritelo da sole! – ridevamo. Era un divertimento innocuo, e da alcuni dei nostri incoraggiamenti sono nati buoni abbinamenti e buone famiglie. È stato solo molti anni dopo che abbiamo trovato mogli comprensive, o mariti comprensivi, per noi stesse.
Tutto questo accadeva prima della guerra. I villaggi si trovavano in terre eternamente contese, non solo tra nazioni, ma tra proprietari terrieri, tra religioni e persino specie diverse. C’erano delle storie sui Drevniye, le creature che sono venute prima di tutti noi, su come alcuni ci vivessero accanto in pace e si proteggessero mimetizzandosi tra noi. Avevamo sentito parlare dei mutaforma, ma non abbiamo mai saputo se vivessero tra di noi o chi potessero essere. E poi c’erano le fiabe oscure sulla Naystarsha, che viveva in profondità, sottoterra, e che era la fonte di tutto il potere dei Drevniye. Favole, tutte quante, eppure.
Un giorno, quando avevo diciassette anni, mi pare fosse un giorno d’estate, o all'inizio dell'autunno, stavo sorseggiando un tè in piazza quando una ragazza molto più piccola di me si era avvicinata e mi aveva detto: – Dovreste iniziare a meditare di andarvene da questo posto. Tutte le ragazze verdi, presto.
Ero sconvolta che una persona così giovane fosse già così audace. – Perché mi dici questo? Chi sei? E perché dovrei andarmene? – Si era portata un dito alle labbra, e poi aveva sussurrato: – Incontrati con le altre, stanotte se riesci. – Mi aveva scrutato negli occhi. – Tua madre ha una sorella a Satu Mare. Vai da lei. Se devi andare ancora più lontano, lo saprai. – Poi si era guardata attorno, e mi ero guardata attorno anche io, e avevo visto che un paio di abitanti del villaggio si tenevano a debita e rispettosa distanza, a osservarci. Credevo di conoscere tutti nel villaggio, ma ora ero circondata da sconosciuti.
– Quanto tempo abbiamo? – le avevo chiesto. – Quanto staremo via?
– Domani a mezzogiorno sarà ancora sicuro partire. Ma stanotte è meglio. Porta via tutto quello che ami.
Qualcosa in quelle ultime parole mi aveva congelata nel profondo. Avevo fatto un inchino verso di lei, verso tutti loro, mi ero voltata ed ero scappata a casa. Avevo detto a mia madre che sua sorella era ammalata, così diceva un’amica comune in paese, e che dovevamo correre da lei al più presto. Lei aveva sollecitato mio padre e il cane spingendoli nella carrozza con un po’ di vestiti e provviste, ed eravamo partiti subito dopo cena. Ho fatto in modo che ci fermassimo negli altri villaggi, ho raccontato la storia alle altre ragazze verdi. Tre si sono potute unire a noi. La piccola Maruska aveva una tosse terribile e non poteva spostarsi, così avevo invitato i suoi genitori a seguirci il prima possibile. Poi avevo chiesto scusa a mia madre per quella bugia ormai ovvia, ma lei si era resa conto di quanto ero spaventata, di quanto eravamo spaventate tutte e anche se era uno scherzetto, un tiro mancino di qualche tipo, almeno ci saremmo fatte un viaggio insieme e avremmo sorpreso la zia.
La piccola Maruska non ci ha mai raggiunto. E noi non siamo mai tornati indietro. Alla fine abbiamo scoperto cos’era successo, questo è ovvio. Non so ancora perché siamo state salvate.

 

Giavasco, di Daniela Gambaro

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Nutrimenti pubblica l’opera prima di Daniela Gambaro, Dieci storie quasi vere, una raccolta menzionata con merito al Premio Calvino 2019.
Dieci storie possibili, dieci sguardi sul quotidiano di famiglie, coppie, madri, bambini. Dieci racconti scritti con una penna leggera e precisa, capace di narrare anche le cose più difficili, quelle terribili e scomode che sono così reali, da essere quasi vere.

Cattedrale pubblica il primo racconto della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Giavasco

Tua madre ti porta in centro a comprare le scarpe nuove e ti ripete più e più volte di accertarti che la misura sia quella giusta.
Quando tu e tua madre arrivate a casa, tu dici: “Forse l’unghia del ditone mi batte in punta”, ti togli le scarpe nuove e corri a piedi nudi. Non fai caso alle pietre, ai sassi insidiosi, alla gramigna tagliente, pensi solo a correre e mentre tua madre, riflettendo sulla difficoltà della restituzione delle scarpe utilizzate incongruamente nel tragitto negozio-casa, ti urla: “Te le faccio leccare finché non sono nuove, capito?”, tu continui, anche se la sua voce ti dà i brividi lungo la schiena (ricordi quella volta che una lucertola ti ha percorso da testa a piedi?), esci dal viottolo e ti infili nel giavasco: fresco, frusciante, gentile e sicuro come una fortezza. Ti fai strada nel fitto, all’interno, tra le sue mura verdi e premurose. Ci sono le bisce? Io non le ho mai viste. Ci buttano le siringhe? Io non ne ho mai trovate. Si prendono le malattie? Io non ho mai preso niente. Bene, tu conosci il giavasco meglio di me, sai che costeggia le case: casa mia, poi casa tua e di tua cugina, le casette a schiera ombreggiate dai pini e avanti fino al cancello dell’obitorio. Se arrivi all’obitorio sei salvo, tua madre non ti cercherà mai fin là; ti siedi e respiri.
Nel giavasco, tra l’erba alta e le ortiche, una volta mi dici: “Mio padre ha i calendari con le donne nude. Sono bellissime. C’è uno che lecca la passera a una tipa. E lei non ha i peli, neanche uno”. Ti dico che, se è per questo, nemmeno io ce li ho, ma la cosa non ti importa granché perché io sono la tua migliore amica. “Lo vuoi vedere?”, mi dici raggiante all’idea di condividere con me quel tesoro di famiglia.
Ci infiliamo di nascosto nell’officina di tuo padre: odore di grasso e di gas di scarico, striature oleose sul cemento grezzo del pavimento, penombra e stracci bisunti dappertutto. A me questa foto non interessa per niente, anzi mi fa un po’ paura, e tengo gli occhi bassi per non incontrarla, studiando una crepa nel pavimento.
“Non c’è più”, mi dici sconcertato indicando il muro vuoto, e per tutto il pomeriggio sei mogio e deluso come chi non ha mantenuto una promessa.
“Pensi che anche i tuoi genitori o i miei lo fanno?”, ti chiedo, sperando che riaprire l’argomento ti possa tirare su il morale.
“Certo”, dici serio, “e anch’io voglio farlo quando ho la morosa”.
Nella mia vita ho conosciuto alcuni artisti, li ho visti ragionare e poi come per magia collegare monadi di pensiero e creare mondi inesplorati, dotati di regole proprie e confini. Eppure conosco l’emozione del principio creativo perché tu me l’hai insegnato.
Se tua madre ti dice di non usare la bicicletta di tuo fratello che è troppo grande per te e tu la prendi, è ovvio che la giornata avrà un sapore interessante e clandestino. Facciamo su e giù nel parco del museo, sui vialetti lucidi di fango, e tu ti diverti a sgommarci sopra, in frenata. Io ti seguo ammirata, incapace di eguagliare le tue prodezze. Poi non so cosa sbagli, la ruota dietro ti parte di lato e tu rotoli sull’asfalto; quando ti alzi al posto delle ginocchia hai due nodi d’albero.
Per qualche secondo restano bianchi e rugosi, poi il sangue comincia ad affiorare e non si ferma più. Io dico “Oddio”, tu dici “Dio sangue”. Io dico “Andiamo in ospedale”, tu dici “Se lo sa mia madre, mi ammazza”. Io dico “Cosa facciamo?”, tu dici “Mi disinfetti tu”.
Inutile obiettare che è troppo profondo, perché la paura di tua madre è più forte di qualsiasi dolore, e aggiungi un logicissimo “Dio male”.
Nella vasca da bagno di casa mia ti faccio zampillare l’acqua ossigenata dentro la ferita, e la vedo friggere nella carne fin contro l’osso, la schiuma frizza e diventa rossa, mentre tu urli e inventi sempre nuove divinità, un olimpo personale, semplice e diretto, che già mi strega. Dio schiuma, dio ossigeno, dio muoio, dio osso, dio basta.
Mia madre torna dal lavoro e nemmeno la sentiamo, quando si affaccia in bagno tu hai quasi perso i sensi ma non la parola. “Dio madre… dio madre”, supplichi mentre ti porta all’ospedale in macchina. E io traduco: la stai ringraziando per non aver chiamato la tua, di madre.
Nel giavasco, lussureggiante e discreto, tu, io, tua cugina e i bambini del vicinato ci raduniamo in segretissime sessioni. Ci caliamo pantaloncini e mutande e confrontiamo le fogge delle reciproche parti intime, apprezzandone similitudini e diversità, nonché cambiamenti nel corso del tempo. Il tutto porta via alcuni minuti e viene eseguito come una routine necessaria e anche rilassante, un quieto intermezzo tra corse e arrampicate. Se ci sono estranei alla cerchia ristretta, la pratica è rimandata. Quello che è naturale tra di noi, diventa imbarazzante in presenza di un compagno o compagna di classe.
Una volta tuo nonno ci scopre e ci insegue con la vanga urlando paonazzo di rabbia: “Schifosi! Onti!”, e noi due per scappare nell’erba che fischia ci ritroviamo acquattati vicini, mezzi nudi, e ci viene da ridere senza potere.
Anche se è luglio il sole cocente non penetra lì sotto. A me batte il cuore all’impazzata mentre tuo nonno ci passa vicino e io vedo la terra sul contorno delle sue unghie. Poi, quando se ne va, tu mi dici serio: “Senti, ci ho pensato. Da grande ti voglio sposare!”.
Mi sembra che il petto mi si apra come a te le ginocchia quando sei caduto, e il sole mi picchia in testa anche se sono all’ombra, capisco che questo è quello che aspetto di sentirmi dire da quando ti conosco, ossia da quella volta che tu e tua cugina mi avete incontrato: io mi ero appena trasferita e non sapevo parlare ancora bene il dialetto, né andare in bicicletta senza mani, né sputare lontano, e per questo, credo, tu e tua cugina non vi sforzavate nemmeno di imparare il mio nome. “Può venire la bambina a giocare?”, chiedevate a mia madre, dopo aver suonato il campanello di casa.
E mi viene in mente un po’ tutto, anche quella volta che tuo nonno aveva messo i gattini appena nati nel sacchetto della Coop e poi l’aveva infilato in un secondo sacchetto sempre della Coop ed era partito in bicicletta verso l’argine del canale, e io singhiozzando ti avevo detto: “Come fai a non piangere?”, e tu mi avevi risposto: “Non posso piangere ogni volta”. E il tuo sguardo sembrava quello di un adulto, di un marito che si preserva, e che insegna alla famiglia come preservarsi.
Poi però mi ricordo del calendario. Se divento tua moglie, devo fare quello che fa la tizia del calendario, tu sei stato chiaro e risoluto: alla morosa farai fare quello che il tizio del calendario fa alla sua compagna senza peli. Ti ho detto che anch’io non ho peli laggiù, e può essere che questo ti abbia fatto riflettere sulla mia possibile candidatura al ruolo. Dio paura, dio amore, dio non posso, dio ho nove anni appena compiuti.
“Io no”, ti dico, tirandomi su i pantaloncini.
“No cosa?”, mi fai.
“Non ti voglio sposare”, ti dico e mi sento salva, leggera, euforica. Nemmeno ti aspetto, corro a cercare gli altri per giocare ad alto-da-terra.
Due mesi dopo inizia la scuola e tu ti innamori di Annalisa, la bambina più bella della classe, che non ha bisogno di correre veloce, saltare giù dai rami degli alberi e imparare il dialetto per piacerti (cosa tra l’altro non facile visto che mia nonna, per contrastare il mio improvviso imbarbarimento, mi sottopone a lezioni di francese: per cui è bosgato o cosciòn? È furscèt o piròn? È giavasco o forè?).
Visto che a nove anni sai già saldare, con la saldatrice di tuo padre costruisci ad Annalisa un portamatite in metallo zincato con il suo nome inciso sopra. Lo stomaco mi si contorce quando vedo la precisione delle saldature e ti immagino a srotolare la bobina del rame e a fonderla, l’odore dolciastro di bruciato che fa. Dio geloso, dio dolore, dio pentimento. Guardo le mie matite che giacciono in un anonimo astuccio con gli elastici e maledico la mia codardia. Che mai poteva succedere se mi facevo fare quello che si faceva fare la tipa del calendario? Annalisa se l’è fatto fare? Eppure non è morta, anzi è uguale a prima, più perfetta di prima, e con tutte le matite in ordine, per di più.
Con l’autunno arrivano gli operai, falciano il giavasco e caricano tutto su un furgone. Dopo di loro arrivano dei camion di sassi, poi le betoniere con l’asfalto e stendono la strada. Tutto ha un aspetto liscio, levigato e ordinato. Finché non cominciano a passare le macchine, possiamo giocare a pallavolo. Chi l’ha mai visto un pallone rimbalzare così? Prima, capace che lo facevi cadere e finiva chissà dove. Nel giavasco ne abbiamo persi un bel po’, di palloni.
“Sai che figo in bicicletta!”, mi dici.
“Già”, ti rispondo.
E mi volto con la speranza di trovare lo stesso sguardo di quando tuo nonno porta ad annegare i gattini: compìto e concentrato nell’impresa adulta di digerire la delusione.
Invece no.
Sorridi sereno, soddisfatto del cambiamento.

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La legge della vita, di Jack London

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Dall’8 Ottobre è in libreria La legge della vita, di Jack London, pubblicato da Ortica Editrice.
L’ambiente dei territori di frontiera, primitivi e remoti, consente a London di sottolineare la brutalità della Natura, vera protagonista dei suoi racconti, e come essa venga accettata pacificamente. Era la legge della vita, ed era giusta. Egli era nato vicino alla terra, era vissuto, e la legge perciò non gli era nuova. Era la legge di tutti gli animali. La natura non è buona col singolo. Non si preoccupa dell’essere chiamato individuo. Terribili corse verso improbabili salvezze, in luoghi dove la natura conserva rare tracce umane; il contrasto del mondo dei bianchi con quello dei nativi e la reciproca inspiegabilità; luoghi che lasciano intravedere le forze che regolano il rapporto dell’uomo con i suoi simili e con la natura in cui la posta in gioco è sempre altissima, la vita.

Cattedrale pubblica il racconto che apre la raccolta, per gentile concessione dell’editore.

La legge della vita


Il vecchio Koskoosh ascoltava avidamente. Benché la sua vista fosse scomparsa da tempo, l’udito era ancora buono, e il suono leggerissimo penetrava fin nella vaga intelligenza che dimorava ancora dietro la fronte rugosa, ma che non contemplava più le cose concrete del mondo. Ah! Il rumore era prodotto da Sit-cum-to-ha, che ingiuriava i cani, mentre li costringeva a forza di scapaccioni sotto la bardatura. Sit-cum-to-ha era la figlia di sua figlia, ma in quel momento era troppo occupata per dedicare un pensiero al misero nonno seduto solo lì nella neve, abbandonato e disperato. Bisognava disfare il campo. La lunga pista attendeva, mentre il breve giorno si rifiutava di attendere. La ragazza sentiva il richiamo della vita, non della morte. E il vecchio era ormai prossimo alla morte.
A questo pensiero, il panico invase per un momento Koskoosh, che tese le mani paralizzate, tastando con gesti tremanti la piccola catasta di legna secca che aveva accanto. Rassicurato che il combustibile fosse veramente lì, la mano si ritirò al riparo delle pellicce spelate, ed egli si mise ad ascoltare. Il cupo crepitare delle pelli a metà gelate, gli disse che avevano smontata la capanna del capo, e che ne ripiegavano i vari pezzi per renderla trasportabile. Il capo era suo figlio, forte e robusto, condottiero della tribù e gran cacciatore. Mentre le donne faticavano col bagaglio del campo, la sua voce si levò sgridandole per la loro lentezza. Il vecchio Koskoosh tese l’orecchio. Era l’ultima volta che avrebbe udita quella voce. Ecco che se ne andava la capanna di Geehow! E quella di Tusken! Sette, otto, nove; restava solo quella dello shaman. Ecco! Erano ormai al lavoro su essa. Il vecchio udiva lo shaman grugnire, mentre ammucchiava le pelli sulla slitta. Un bambino piagnucolò e una donna lo calmò con voce gutturale. Il piccolo Kootee, pensò il vecchio, un bambino scontroso e non troppo robusto. Sarebbe morto ben presto, forse, e gli avrebbero scavato una buca nella terra gelata, e vi avrebbero ammucchiato sopra delle rocce per proteggerlo dagli animali.
Ebbene, che importava? Era il destino di tutti: un po’ di anni trascorsi a ventre vuoto, qualche altro a ventre pieno, poi la fine... La morte, più affamata di tutti, non mancava mai di visitare la tribù.
Che era questo? Oh, gli uomini che legavano le slitte e stringevano le cinghie. Il vecchio ascoltò: il vecchio che non avrebbe più ascoltato. Le fruste schioccarono e morsero i cani. Uditeli mugolare! Come odiano la fatica e la pista! Eccoli partiti! Le slitte si allontanarono l’una dopo l’altra, svanendo nel silenzio. Erano partiti. Erano usciti dalla sua vita, ed egli affrontava da solo l’ultima ora amara. No. La neve scricchiolava sotto un paio di mocassini; un uomo si teneva accanto a lui; sulla sua testa una mano si appoggiava dolcemente. Suo figlio era buono, per compiere quell’atto. Il vecchio rammentò gli altri, i cui figli non avevano atteso, dopo che la tribù era partita. Ma suo figlio aveva atteso. La sua mente si smarrì nel passato finché la voce del giovane la riportò al presente.
— Hai tutto quel che ti occorre? – domandò.
E il vecchio rispose: — Tutto.
— Hai accanto una catasta di legna – continuò il giovane – e il fuoco arde brillantemente. La mattina è grigia e il freddo è venuto. Nevicherà fra breve. Comincia già a nevicare.
— Sì, comincia già a nevicare.
— Gli uomini della tribù hanno fretta. Le loro balle sono pesanti, il loro ventre è piatto per mancanza di cibo. La pista è lunga ed essi viaggiano rapidamente. Devo andarmene, ora. Va bene?
— Va bene. Sono come una foglia dell’anno scorso, attaccata leggermente per il gambo. Il primo alito di vento e cade. La mia voce è divenuta come quella d’una vecchia. Gli occhi non mi mostrano più il cammino e i piedi sono pesanti ed io sono stanco. Va bene.
Curvò la testa tranquillamente, finché gli ultimi scricchiolii della neve si spensero in lontananza, ed egli comprese che il figlio non era più a portata di voce. La sua mano si portò in fretta alla legna. Solo questa si trovava fra lui e l’eternità. Rappresentava la misura della sua vita. Una manciata di fascine. Una dopo l’altra, sarebbero andate ad alimentare il fuoco; e proprio così, passo per passo, la morte si sarebbe avvicinata a lui. Quando l’ultimo pezzo di legna avesse ceduto il suo calore, il gelo avrebbe cominciato ad acquistar forza. Prima i piedi, poi le mani; e poi l’assideramento si sarebbe insinuato piano piano dalle estremità al corpo. La testa gli sarebbe caduta avanti sulle ginocchia, e allora avrebbe trovato il riposo. Era facile. Tutti devono morire.
Non si lamentava. Era la legge della vita, ed era giusta. Egli era nato vicino alla terra, era vissuto, e la legge perciò non gli era nuova. Era la legge di tutti gli animali. La natura non è buona col singolo. Non si preoccupa dell’essere concreto chiamato individuo. Il suo interesse è riposto nella specie, nella razza. Questa era la più profonda astrazione di cui fosse capace la mente barbara di Koskoosh, ma la comprendeva bene. Vedeva in tutta la vita l’esempio di quella legge. Il sollevarsi della linfa, lo sbocciare dei bottoni verdi, la caduta delle foglie gialle: bastava questo a dire l’intera storia. Ma un compito la natura assegnava all’individuo. Se egli non l’adempiva, veniva a morte. Se l’adempiva era lo stesso: moriva. La natura non se ne curava; erano tanti gli obbedienti, e quello che importava era l’obbedienza. La tribù di Koskoosh era antichissima. I vecchi che egli aveva conosciuto da ragazzo avevano conosciuto a loro volta dei vecchi prima di loro. Perciò era vero che la tribù viveva, che esisteva per l’obbedienza di tutti i suoi membri, su su fino al passato dimenticato. Ma i singoli non contavano; erano semplici episodi. Erano scomparsi come nuvole in un cielo estivo. Anche lui era un episodio e sarebbe scomparso. La natura non se ne curava. La vita assegnava un solo compito, dava una sola legge: perpetuare era il compito della vita, la sua legge era la morte. Adempiuto il compito l’individuo, al primo periodo di carestia o alla prima pista difficile, sarebbe stato abbandonato, come avevano abbandonato lui nella neve, con una catasta di legna accanto. Tale era la legge.
Depose accuratamente un ramo sul fuoco e riprese la sua meditazione. Era lo stesso dappertutto, in tutte le cose. Le zanzare sparivano ai primi geli. I piccoli scoiattoli andavano a nascondersi per morire. Quando invecchiava, il coniglio diveniva lento e pesante, e non poteva più vincere i nemici nella corsa. Anche il grande orso diveniva incerto e cieco e irritabile, per essere abbattuto alla fine da un branco di cagnetti ululanti. Rammentava come lui stesso aveva abbandonato il padre un inverno, sul corso superiore del Klondike: l’inverno prima che il missionario venisse col libro di preghiere e la cassetta delle medicine. Molte volte Koskoosh s’era leccato le labbra al ricordo di quella cassetta. L’«ammazzadolori» era stato specialmente gradevole. Ma il missionario era un peso, dopo tutto, perché non portava carne al campo, e mangiava abbondantemente, e i cacciatori brontolavano. Ma si gelò i polmoni sulle montagne del Mayo, e qualche tempo dopo i cani ficcarono il naso fra le pietre e trovarono le sue ossa.
Koskoosh mise un altro ramo sul fuoco e tornò al passato. Era stata l’epoca della Grande Fame, quando i vecchi si accoccolavano col ventre vuoto intorno al fuoco, e rammentavano le vaghe leggende dei giorni antichi, allorché lo Yukon scorse libero per tre inverni e poi restò gelato per tre estati di seguito. In quella carestia egli aveva perduta la madre. Il passaggio del salmone era venuto meno nell’estate, e la tribù aveva atteso l’inverno sperando nel caribu. Poi venne l’inverno ma i caribu non apparvero. Non s’era mai visto nulla di simile, ricordavano i più vecchi. Ma i caribu non vennero, e giunse il settimo anno, e i conigli non s’erano riprodotti, e i cani non erano altro che mucchi di ossa. E durante le lunghe tenebre i bambini gemevano e morivano, e morivano le donne e i vecchi; e neppure uno su dieci della tribù sopravvisse per vedere il sole, quando esso ritornò nella primavera. Che grande carestia!
Ma egli aveva veduto anche tempi di abbondanza, quando la carne si sciupava e i cani erano grassi e incapaci di lavorare per la supernutrizione: tempi quando lasciavano passare indisturbata la selvaggina e le donne erano feconde e le capanne riboccavano di bambini. Allora fu che gli uomini divennero sdegnosi, e ravvivarono antiche lotte, e attraversarono le montagne a sud per uccidere i Pelly, e ad ovest per sedere accanto ai fuochi spenti del Tanana. Rammentava da ragazzo un’epoca di abbondanza, quando vide un alce abbattuto dai lupi. Zing-ha era disteso con lui nella neve e guardava; Zing-ha che più tardi divenne il più esperto dei cacciatori, e che alla fine cadde in una tasca d’aria sullo Yukon gelato. Lo trovarono un mese dopo, irrigidito dal ghiaccio nella posizione in cui era restato, mentre tentava di uscir fuori dalla buca.
Ma la sua mente tornò all’alce. Zing-ha e lui erano usciti quel giorno per giocare alla caccia, imitando i loro padri. Sul letto del fiume rilevarono le tracce fresche di un alce, e con esse le tracce di molti lupi.
— Un vecchio animale – disse Zing-ha che era pronto a leggere i segni. – Un vecchio che non riesce a seguire il suo branco. I lupi l’hanno tagliato fuori e non lo lasceranno più.
E fu così! Era la maniera dei lupi. Di giorno e di notte, mai riposandosi, ringhiando ai suoi talloni, saltandogli sotto il naso, gli restarono accanto sino alla fine. Come i due ragazzi avevano sentito accendersi la sete del sangue! La fine doveva essere uno spettacolo da vedersi!
Coi piedi doloranti, seguirono la pista, che anche lui Koskoosh, lento di vista o poco esperto, avrebbe potuto seguire alla cieca, tanto era larga. Sapevano di trovarsi vicinissimi alla caccia, leggendo in ogni passo la truce tragedia scritta di fresco sulla neve. Giunsero al punto dove l’alce aveva affrontato gli assalitori. In lungo e in largo in ogni direzione, la neve era calpestata e sconvolta. In mezzo erano le profonde impressioni della selvaggina dagli zoccoli spaccati, e tutt’intorno, dovunque, si vedevano le orme più leggere dei lupi. Alcuni, mentre i loro fratelli assalivano per uccidere, s’erano distesi su un fianco per riposarsi. Le lunghe impronte dei loro corpi sulla neve erano perfette come se le avessero lasciate un momento prima. Un lupo era stato abbattuto dalla vittima impazzita e calpestato a morte.
E poi giunsero al punto dove l’alce si era trovato davanti a un argine, che doveva superare per guadagnare la foresta. Ma ora i suoi nemici l’avevano assalito alle spalle, finché egli aveva dovuto indietreggiare, cadendo su loro e schiacciandone due. Era chiaro che la fine era imminente, perché i lupi avevano lasciati intatti i loro fratelli caduti. Due altri combattimenti erano seguiti, rapidi e in breve successione. La pista era rossa e il passo deciso della grande bestia era divenuto incerto e irregolare. Allora udirono i primi suoni della battaglia: non il coro pieno della caccia, ma i latrati brevi e ringhiosi, che parlavano d’una lotta corpo a corpo e dei denti affondati nella carne. Poiché si trovavano sottovento, Zing-ha strisciò nella neve, e con lui si trascinò Koskoosh, che negli anni a venire doveva essere il capo della tribù. Insieme scostarono i rami inferiori d’un giovane abete e guardarono davanti a loro. Assistettero alla fine.
Il quadro, come tutte le impressioni dei giovani, era ancora forte in lui, e i suoi occhi rividero la fine selvaggia e violenta, come l’avevano contemplata in quei giorni antichi. Koskoosh si meravigliò di questa nettezza di ricordo, perché nei giorni che seguirono, quando egli era capo di uomini, aveva compiuto delle grandi gesta, e aveva fatto maledire il suo nome dai Pelly, per non dir nulla dei bianchi che aveva ucciso coltello a coltello, in aperto combattimento.
Meditò a lungo sui giorni della sua giovinezza, finché il fuoco si abbassò e il gelo cominciò a morderlo. Lo ravvivò questa volta con due ramoscelli, e fece il conto della vita che gli restava. Se Sit-cum-to-ha avesse solo pensato al nonno, raccogliendo una bracciata più grande, le sue ore sarebbero state più lunghe. Sarebbe stato facile, allora. Ma ella era stata sempre una ragazza incurante e non onorava l’antenato, dall’epoca che il Castoro, figlio del figlio di Zing-ha, aveva gettato per la prima volta gli occhi su lei. Ebbene, che importava? Non aveva egli fatto lo stesso nella sua viva giovinezza? Per qualche tempo ascoltò in silenzio.
Tese l’orecchio. Non un movimento, nulla. Lui solo esisteva in mezzo al vasto silenzio! Ascolta! Che cos’era? Un brivido gli attraversò il corpo. Il lungo urlo familiare ruppe l’incantesimo del silenzio: era vicinissimo. Allora ai suoi occhi annebbiati apparve la visione dell’alce: i fianchi laceri e sanguinanti, la criniera arruffata e le grandi corna ramificate cadenti al suolo, alla fine. Vide le forme grige che si avventavano, gli occhi lampeggianti, le lingue rosse, le zanne coperte di bava. E vide il cerchio inesorabile serrarsi, finché diveniva un’unica macchia nera in mezzo alla neve calpestata.
Un muso freddo gli si appoggiò alla guancia, e a questo contatto l’anima del vecchio tornò al presente con un balzo. La sua mano corse al fuoco e trasse una fascina fiammeggiante. Sopraffatto dalla paura ereditaria dell’uomo, il bruto si ritirò, lanciando un grido prolungato ai fratelli; ed essi gli risposero prontamente, finché un cerchio di forme grige si formò intorno. Il vecchio ascoltava il serrarsi di questo cerchio. Agitò selvaggiamente il suo ramo, e gli sbuffi si trasformarono in ringhi; ma gli animali ansanti si rifiutarono di disperdersi. Ora uno strisciava avanti, ora un altro, ora un terzo; ma nessuno si ritirava d’un pollice. Perché aggrapparsi alla vita? si domandò il vecchio, lasciando cadere nella neve il ramo fiammeggiante. Questo sibilò e si spense. Il cerchio grugnì, inquieto, ma restò immobile. Koskoosh rivide l’ultima battaglia del vecchio alce, e lasciò cadere con aria stanca la testa sulle ginocchia. Che importava dopo tutto? Non era la legge della vita?

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"Amami e poi lasciami", di Edwidge Danticat

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Dal 24 Settembre è in libreria La vita dentro, di Edwidge Danticat, pubblicato da Sem Editore. Una raccolta di racconti haitiani che ritrae le ferite di donne e uomini in fuga, sopravvissuti e superstiti, personaggi che portano piccole o grandi cicatrici da curare in un altrove salvifico. La diaspora haitiana a seguito della dittatura, è un sottofondo quasi invisibile, ma costante, che rende vivide le vicende più vicine alla nostra attualità: povertà, migrazione, disuguaglianza.

Cattedrale vi propone uno dei racconti per gentile concessione dell’editore.

“Amami e poi lasciami”

«Madame, hanno detto che sto per morire.»
Mélisande si era recata in una clinica del centro e si era sottoposta a un prelievo del sangue, solo per ricevere una possibile condanna a morte. Da un po’ di tempo soffriva di tosse, una tosse inizialmente leggera e discreta che si era fatta sempre più cavernosa, finché non ero stata costretta ad allontanare mio figlio Wesley, di appena undici mesi, dalle sue cure. Solo quando aveva avuto la febbre ed era diventata così lenta da non riuscire quasi a muoversi, si era finalmente decisa a rivolgersi a un medico. Ora singhiozzava sulla soglia di camera mia, il corpo sot- tile e piatto come lo stipite della porta. Sollevò la sottana di seta a fiori per asciugarsi le lacrime. Immediatamente rico- nobbi la gonna che un tempo era stata mia. L’avevo pagata sessanta dollari in un negozio di Miami quando frequen- tavo la scuola di specializzazione, dove avevo conosciuto mio marito, Xavier, un compatriota haitiano con cui ge- stivo un piccolo hotel, che era anche casa nostra, a Port-au- Prince. «Hai parlato con tua madre?» chiesi a Mélisande. Aveva ventuno, ventidue anni al massimo. La madre, Ba- bette, lavorava come cuoca nel nostro albergo. Mélisande era la tata di nostro figlio, e alloggiava con la madre in una stanza sul retro delle cucine. Non affidavo volentieri mio figlio ad altri, ma era evi- dente che Wesley adorava quella ragazza. Non appena lo avevo adagiato tra le sue braccia, Mélisande gli aveva strap- pato la risata più fragorosa che avesse mai fatto fino a quel momento. Forse l’attrazione che provava mio figlio era la stessa che provavo io: la faccia da folletto, la voce acuta, il passo blandamente incerto, come se temesse di toccare il suolo. Xavier pensava che Mélisande dovesse frequentare una scuola di ragioneria, imparare un mestiere quando non ba- dava a Wesley, ma non l’avevamo costretta a studiare e non avevamo mai insistito più di tanto. Durante il tempo libero, la vedevamo aiutare la madre in cucina. La vedevo anche scherzare con le nostre due cameriere quando, a volte, pu- liva la sala conferenze e le dodici camere insieme a loro. Aveva stretto un accordo con le cameriere: se le aiutava, quello che veniva lasciato nelle camere dovevano dividerlo con lei. A volte, oltre alle mance, le cameriere trovavano monili d’oro o d’argento – soprattutto orecchini spaiati e braccia- letti sottili – che io e mio marito facevamo di tutto per re- stituire, ma se nessuno ci rispondeva o li reclamava, dopo qualche mese permettevamo alle ragazze di venderli all’o- refice sulla strada, che li fondeva in altri gioielli da vendere agli ospiti. Quei soldi, Mélisande non li avrebbe guadagnati se fosse andata a scuola e non avesse lavorato per noi, ma l’istruzione avrebbe potuto esserle utile in futuro. E ora ri- schiava di non averlo, un futuro. «Entra e siediti» le dissi. Mi alzai dal letto e andai verso la porta. Ero ancora in camicia da notte. Wesley era in albergo con mio marito, che si trovava alla reception per accogliere cinque studenti universitari per le vacanze di primavera. Dall’albergo mio marito gestiva anche un’agenzia di viaggi. La clientela dei nostri tour guidati consisteva principalmente in figli di hai- tiani nati all’estero. Durante la giornata, Xavier li portava a visitare i monumenti e i siti storici. Di sera venivano ospitati dai nostri amici scrittori, artisti e musicisti, o cenavano con i bambini dell’orfanotrofio vicino. Un altro collega accom- pagnava gli ospiti fuori dalla capitale a visitare Jacmel, una cittadina della costa che un tempo era famosa come la Ri- viera di Haiti, Gonaïves, dove nel 1804 era stata dichiarata l’indipendenza di Haiti dalla Francia, e Citadelle Laferrière, una fortezza mozzafiato costruita dopo l’indipendenza. Il tour proposto da Xavier era anche un mezzo per il recluta- mento. Voleva incoraggiare quei giovani a tornare e a met- tere le proprie competenze al servizio del paese. Mélisande era impalpabile sotto le mie dita – come carta, stoffa o aria – mentre la conducevo verso la sedia a don- dolo accanto al letto. Scivolò sulla sedia dove avevo accata- stato alcuni cuscini. Posandole le braccia sulle spalle, perce- pii il calore della febbre persistente attraverso la maglietta bianca. «Cos’ha detto il dottore di preciso?» le domandai. «Ha detto» replicò seppellendo il viso tra le mani «che ho la SIDA. L’AIDS.» Inizialmente sospettavo una polmonite, una bronchite, ma niente di più grave. Quando Mélisande era tornata, ero pronta a rimproverarla per aver aspettato troppo a farsi visi- tare. Pensavo che al massimo avrebbe avuto bisogno di una cura antibiotica. «Anche se hai la SIDA,» le dissi «ora c’è una cura. Le per- sone vivono anni e anni.» Quel discorso innescò una nuova raffica di singulti. Le sue spalle sussultavano, e io iniziai a farmi prendere dal pa- nico. Wesley. Aveva toccato ogni singola parte del suo corpo, lo aveva lavato, asciugato, lo aveva baciato e coccolato. Si erano mai scambiati sangue incidentalmente? Avrei voluto lasciarla lì e correre oltre la piscina, il giardino di ibischi, i boschetti di alberi di fuoco, fino all’altra casa in stile ginger- bread, all’altro capo della proprietà, per trovare mio figlio. Come al solito Wesley si era svegliato prima di tutti noi, e mio marito lo aveva portato in ufficio con sé. Probabilmente stava giocando o gattonando sotto la scrivania mentre Xa- vier rispondeva al telefono. Mélisande stava ancora singhiozzando. Avremmo do- vuto sottoporre Wesley al test. E come avrei potuto perdo- narmi, se fosse stato contagiato? Decisi di lasciarla piangere. Di lasciarla sfogare prima di cercare una qualche soluzione. Alcune cliniche offrivano buone cure antiretrovirali. Certe lo facevano gratuitamente; altre invece esigevano l’adesione a progetti di ricerca e spe- rimentazione. La clinica a cui si era rivolta Mélisande offriva consulenza ma non cure a lungo termine. Avrei dovuto spronarla a rivolgersi al medico quando aveva iniziato a perdere peso. Avrei dovuto impedirle di amoreggiare più o meno apertamente con alcuni degli ospiti dell’albergo, già dalla sera stessa in cui il concierge aveva in- formato Xavier che a Mélisande piaceva cercare la compa- gnia di alcuni ospiti – quelli grassi, bianchi e affiliati a orga- nizzazioni non governative – che, siccome non sembravano aver mai saltato un pasto in vita loro, la ragazza credeva ric- chi. Non le importava se, per gran parte del tempo, non ca- piva cosa dicevano. Cercare di dare un senso alle loro parole era un gioco divertente per lei. Ripetendo alcune delle cose che dicevano, si illudeva di imparare l’inglese, lo spagnolo, il portoghese, il francese, il tedesco o qualsiasi altra lingua parlassero. Tuttavia, nel desiderio di rendere felici gli ospiti, il concierge notturno non l’aveva mai dissuasa. E comunque, il tempo che Mélisande trascorreva in compagnia di quegli uomini non gli sembrava mai sufficiente per un rapporto sessuale. Inoltre la ragazza viveva con la madre, che la sor- vegliava costantemente. Mélisande smise di piangere allorché parve aver finito le lacrime. Le venne il singhiozzo, che la costrinse ad agitare la testa avanti e indietro, vicino e lontano da me. «Dobbiamo trovare una clinica dove puoi ricevere un se- condo consulto» le suggerii. Mélisande alzò la testa e mi fulminò con lo sguardo, poi sgranò gli occhi, come se mi fosse spuntato sulla testa un al- veare o un nido d’uccello. Aveva gli occhi rossi come il fuoco, i capillari rotti quasi sovrastavano le iridi. «Mi hanno detto che non c’è cura» replicò lei. «Fammi parlare con mesye Xavier» le dissi. «Troveremo qualcuno che si occupi di te.» Non avevo idea di quale fosse la clinica migliore a Port-au-Prince, ma sapevo che Xavier sarebbe riuscito a sco- varla. Lui sapeva come procurarsi le informazioni, special- mente quando le cose prendevano una brutta piega. Il lavoro di una guida e di un albergatore consiste anche in questo. Se gli ospiti hanno fame, gli dai da mangiare. Se vogliono bere, li accontenti. Se vogliono essere lasciati in pace, ti fai vedere il meno possibile. Se vogliono compagnia, li intrattieni. Se hanno il cuore spezzato, gli procuri un nuovo amore. E se si ammalano, trovi il modo di curarli in fretta prima che tirino le cuoia sotto la tua responsabilità.

Wesley risultò negativo al test per l’HIV. Lo stesso medico canadese di Pétionville che aveva sottoposto lui e Mélisande, per la seconda volta, alle analisi fu anche quello che ci aiutò a trovare gli antiretrovirali di cui la ragazza aveva bisogno. La soluzione migliore, ci disse, era l’assunzione di una sola pa- stiglia che molti dei suoi pazienti avevano soprannominato la gwo blan, o la “biancona”. Sarebbe stato più semplice controllare che la paziente fosse ligia al dovere. Il medico si accorse subito che Mélisande non lo sarebbe stata. Innanzitutto negò di aver avuto rapporti sessuali e, siccome non si era iniettata con aghi ipodermici né era stata sottoposta a trasfusioni di sangue, non si poteva che concludere che stesse negando l’e- videnza. «Se nemmeno riconosci il modo in cui la malattia è en- trata nel tuo corpo, come puoi sperare di trovare la forza di combatterla?» chiese il dottore nel suo creolo dall’accento francese a Mélisande che, seduta davanti a lui, fissava la pa- rete tappezzata di diplomi con le palpebre a mezz’asta. Ma dopo che il medico ci ebbe fornito due mesi di cura dalla sua scorta personale – al prezzo di due dollari ameri- cani a pastiglia – Mélisande si rivelò più diligente di quanto ci aspettassimo. Per abituarla, le dissi di venire da me tutte le mattine per poter controllare che prendesse la pastiglia mentre facevamo colazione insieme, in genere a base di cibi solidi come platani e uova o spaghetti con l’aringa, per lei, e qualcosa di più leggero, tipo caffè e pane tostato, per me. La maggior parte delle volte mangiavamo sul patio di camera mia che si affacciava sulla piscina dell’albergo dove alcuni dei nostri ospiti già facevano la loro nuotata mattutina. Al- tre volte mangiavamo nella sala da pranzo dell’albergo, con Wesley sul seggiolone al mio fianco. Mélisande mise su peso, e ora i miei vecchi vestiti le sta- vano meglio. Piangeva meno, in parte forse perché sapeva che tutto il personale, inclusi i giardinieri e le guardie giu- rate, ci tenevano d’occhio. Ma quello che non faceva più era toccare mio figlio, che le tendeva le piccole braccia grassot- telle, distorcendo il faccino in una smorfia che si tramutava in dolore, e in pianto, quando lei lo ignorava o si voltava dall’altra parte. Dopo un po’ smisi di portare Wesley a colazione con noi. Era insopportabile per entrambi. Anche se ne avrei avuto sicuramente bisogno, non assunsi un’altra tata perché non vo- levo che Mélisande stesse peggio di quanto non si sentisse già. Invece chiesi a Xavier di darmi una mano quando non c’erano tour guidati, e mi portavo dietro Welsey dapper- tutto, spingendolo sul passeggino quando diventava troppo pesante. Quella settimana, tra gli ospiti più problematici c’era la coppia di sposini del posto che avevano trascorso quattro notti chiusi nella suite luna di miele pur avendola prenotata soltanto per due. E il senatore che aveva abbandonato casa sua per ragioni di sicurezza e adesso alloggiava in una delle camere accanto al gazebo. Mi imbattei nel senatore mentre correvo qua e là con We- sley, per dare una controllata frettolosa al giardino prima di fare colazione con Mélisande. L’uomo sedeva in piscina a leggere il giornale, con indosso solo il costume da bagno. Mi sorrise e mi fece l’occhiolino, come faceva sempre quando gli rammentavo il conto che doveva ancora saldare. C’era anche il vecchio gobbo, un filosofo francese che sosteneva di essere a Haiti per scrivere un libro sul paese, ma che non faceva al- tro che fumare e bere come una spugna per tutto il giorno. A tutti questi ospiti, e anche alla giornalista a cui dovevo ram- mentare che i soldi inviati dal suo giornale non erano mai arrivati, bisognava stare con il fiato sul collo. Molto più che a Mélisande, la quale ero convinta sarebbe stata in grado di assumere la terapia da sola. Ben presto smisi di fare colazione con lei e iniziai a mo- nitorare il suo comportamento nei confronti della madre, che dal giorno in cui aveva appreso della malattia della fi- glia aveva cominciato a chiamarla bouzen, “puttana”, anche se tutte le mattine interrompeva il lavoro per accertarsi che Mélisande avesse preso la pastiglia a colazione. Certe mattine le osservavo dal patio. Babette non era più alta di Mélisande, ma era robusta e grassoccia. Le vene del collo le pulsavano mentre inveiva contro la figlia, che pro- vava a mettere fine alla conversazione ingollando la pillola e poi dandosela a gambe. «Cosa farai quando mesye e madame smetteranno di pa- gare quelle pastiglie da cento gourde?» le strillava Babette come un sergente istruttore che tormenta una recluta. La sua paura era palpabile. La sopravvivenza della figlia ora di- pendeva da me e mio marito. Se avessimo deciso di vendere l’albergo e trasferirci altrove, le condizioni di Mélisande sa- rebbero peggiorate. E se le aziende farmaceutiche avessero smesso di produrre la medicina o di inviarla a Haiti? Se la catena che andava dalla creazione del farmaco alla nostra capacità di reperirlo si fosse spezzata in un punto qualsiasi, Babette avrebbe potuto perdere la figlia. Una mattina la udii chiedere a Mélisande, che stava prendendo la pillola: «E se gli stranieri, i blan, si tenessero il medikaman tutto per sé? E se mesye e madame lasciassero Haiti?». «Non avrai mai un bambino sano» le disse un altro giorno. «Non avrai mai un marito.» «Dovresti parlarle» mi suggerì Xavier un giorno, dopo aver origliato quei discorsi. Mio marito stava organizzando il pranzo per un gruppo di imprenditori locali che a volte usavano la sala conferenze dell’albergo per le loro assemblee. Si appuntava sul cellulare di ricordarsi di ordinare i vini, di avvisare lo chef e di elabo- rare un menu, tutto mentre parlava. «Non credo che a quella povera figliola faccia bene sen- tirsi dire certe cose» commentò Xavier. «Dove vuoi essere sepolta?» domandò Babette alla figlia poco dopo. «Meglio che tu cominci a mettere da parte i soldi se vuoi una bella bara.» A differenza di tutti noi, Babette non poteva permet- tersi il relativo ottimismo che a me e Xavier trasmettevano le pastiglie. Se Mélisande fosse stata figlia mia e non avessi avuto i soldi per comprarle una cura, avrei nutrito gli stessi timori.

L’indomani mattina chiesi di scambiare due parole con Ba- bette che, non appena chiusi la porta dell’ufficio di mio ma- rito, mi strinse la mano e disse: «Mèsi, mèsi. Grazie, madame, per non averla mandata via. Grazie per non averla lasciata morire». «Ci sono persone in tutto il mondo che prendono quelle medicine» esordii ritirando delicatamente la mano. «Inol- tre stai sprecando del tempo prezioso con tua figlia, tempo che potresti trascorrere come facevi prima. La aiuteresti molto di più se smettessi di insultarla e le dimostrassi il tuo amore.» «Il mio amore?» Si accigliò, indietreggiando da me. «Sì, il tuo amore» ripetei. Doveva esserle sembrato un or- dine. «Devi amarla» ribadii. Sapevo cosa le stava passando per la testa. Questi fore- stieri buoni a nulla, questi non più haitiani, quasi blan, pra- ticamente degli stranieri, questi dyaspora con le loro idee sdolcinate, perché riducono tutto a un solo genere d’amore, l’amore di cui parlano tutti, anziché quello che ti strazia il cuore? Questi dias-poracci, questi dyaspowa e dyasporèn, que- sti monarchi illuminati non sanno che ci sono molti altri modi per esprimere l’amore oltre a parlarne di continuo? «Certo che la amo» ribatté la donna allargando le brac- cia come a mostrare la portata del suo affetto. «Ecco perché sono così dura con lei.» Abbassò lo sguardo e chinò il capo, e parve vergognarsi del fatto che avessi avuto ragione di rimproverarla, del fatto che non aveva altra scelta che starsene lì e ingollare. «Eskize m. Scusami» le dissi. «Siamo madri tutt’e due. Ti capisco.»
Si guardò intorno nella stanza, le fotografie appese al muro, i ritratti dei parenti miei e di Xavier, a Haiti e all’e- stero. Guardò la decina e più di fotografie di Wesley che era al mondo da meno di un anno. Guardò le pareti come se sperasse di vedervi se stessa o Mélisande, ma nemmeno si stupì di non trovarvi nessuna delle due. «Lei è una madre che mantiene suo figlio, e anche la mia» disse Babette alzando gli occhi al soffitto imbiancato. «Non siamo uguali.» Io volevo il bene di Mélisande, replicai, così come lo de- siderava lei. In quel senso eravamo uguali. Sapevo di non averla convinta. Sapevo anche che dopo la nostra chiacchie- rata non ci sarebbero stati discorsi di scuse né abbracci di ri- conciliazione tra madre e figlia. L’indomani mattina mi affacciai dal patio con Wesley che saltellava nel box accanto a me e la vidi porgere in silenzio un bicchiere d’acqua a Mélisande. «Cosa diamine le hai detto?» domandò Xavier che era passato a fare un saluto a Wesley. «Lo sai...» risposi per fargli capire che non avevo voglia di parlarne.

Alla fine del secondo mese, quando Mélisande aveva bi- sogno di un’altra scorta di farmaci, il medico lasciò Haiti e tornò a Montréal. Mélisande non ebbe altra scelta che cer- carsi un altro dottore, un cubano stavolta, che le prescrisse un’altra batteria di analisi. Quando Mélisande fece ritorno con parecchie boccette di pastiglie, tra cui fitoterapici e vita- mine, compresi che qualsiasi illusione avesse mai nutrito di guarire era ormai svanita. La nuova terapia non faceva per lei. Mélisande aveva mal di stomaco, nausea e diarrea, e passava tutto il giorno a letto. Il suo corpo avrebbe impiegato del tempo ad abituarsi ai me- dicinali e agli integratori, disse il dottore cubano, ma aveva bisogno di entrambi, tanto degli antiretrovirali quanto dei rimedi naturali. Xavier fece qualche altra telefonata e le tro- vammo un altro medico, una dottoressa haitiana, per avere la conferma che Mélisande fosse curata nel modo giusto. Dopo che il medico l’ebbe visitata nella stanza dove al- loggiava con la madre, Mélisande disse che rivoleva la gwo blan, o la “biancona”. Mostrò le boccette che le aveva dato il medico canadese alla dottoressa haitiana che, non ap- pena lesse il nome del collega, fece schioccare la lingua ed esclamò: «Gesù, Giuseppe e Maria!». «Cosa c’è che non va?» chiesi dalla soglia, dove stazio- navo. A detta della dottoressa haitiana, quello che il medico canadese aveva prescritto a Mélisande era meno efficace di un’aspirina. Era una cura placebo. Non aveva alcun effetto. Anzi, avrebbe addirittura potuto indebolire il suo sistema immunitario. Il medico canadese che ci aveva prescritto e venduto le prime pillole era fuggito da Haiti perché era stato smascherato da alcuni colleghi che lo avevano denunciato al Ministero della Salute per aver venduto quei farmaci inutili a decine di pazienti ignari in tutta la città. Si dubitava perfino che fosse un vero medico. «Devi stare molto attenta» la dottoressa ammonì Méli- sande. Le prescrisse la gwo blan di nuovo, ma si racco- mandò affinché ci sincerassimo che fosse quella originale. A quella notizia il corpo di Mélisande sprofondò sotto le lenzuola. Aveva perso del tempo prezioso. «Quell’uomo ha giocato con la sua vita» mi disse la dot- toressa quando la accompagnai fuori dalla stanza. Méli- sande si voltò dall’altra parte, affondando il viso nel cuscino mentre chiudevo la porta.

Non avrei dovuto fidarmi del primo medico. Forse ero stata accecata dalla sua pelle bianca e da tutti i diplomi appesi al muro. Mi sarei fidata di lui se Mélisande fosse stata figlia mia? «Abbiamo fatto più del nostro dovere» affermò Xavier mentre si accordava per messaggio con un autista riguardo a una gita al MUPANAH, il museo nazionale, da organizzare in pochi giorni per un gruppo di studenti di storia dell’arte. «Come?» replicai. «Portandola da un ciarlatano?» «Ci abbiamo provato» disse lui. «Abbiamo fallito» lo corressi, gridando. «Abbiamo fatto tutto quello che avremmo fatto per We- sley» insisté lui. «Davvero?» Presi subito appuntamento per sottoporre nostro figlio a un secondo test.

Il pomeriggio, prima dell’appuntamento dal dottore per We- sley, la madre di Mélisande servì me e Xavier nel gazebo, mentre nostro figlio dormiva nel passeggino. Babette su- dava nell’uniforme azzurra. Aveva la testa avvolta in un fou- lard nero e, sebbene ultimamente lo portasse spesso, all’im- provviso quel velo mi parve un drappo funebre. «Siamo molto dispiaciuti» le disse Xavier. «Ma probabil- mente era già malata quando è arrivata da noi. Può essere successo anche quando era più giovane.» La donna servì il cibo in fretta, ci dette le spalle senza dire niente e si allontanò. Forse ci reputava disonesti come il medico ciarlatano, e adesso ci permettevamo addirittura di insultare sua figlia. Avrei dovuto chiederle scusa, dissi a Xavier dopo che se ne fu andata, garantirle che volevamo solo aiutare Méli- sande. Eravamo stati derubati con l’inganno, non solo dei nostri soldi ma anche delle nostre speranze. Mi alzai per andare a cercare la madre di Mélisande, ma Xavier mi afferrò la mano e mi tirò indietro. «Lascia stare» disse, ora davvero arrabbiato, non solo con il medico fasullo e la situazione nel suo complesso, ma an- che con Babette.

Alcuni giorni dopo mi recai nella loro stanza per vedere Mélisande e per informarla che anche il secondo test di We- sley era negativo. Lei era a letto e dormiva profondamente, e non si mosse quando entrai. Le treccine lunghe fino alla vita, fatte da poco, sembravano troppo voluminose per il suo viso e le si allargavano intorno alla testa come un nido di serpi in fuga. Il corpo dall’aspetto fragile, nudo tranne per un reggiseno nero e un paio di mutandine a pois, alla fine si sarebbe adattato completamente alla cura, ci aveva assicu- rato la dottoressa. Vedendola dormire, così serena e vulnerabile, special- mente con la bocca aperta, mi interrogai su quale fosse la sua volontà. I sintomi erano pressoché scomparsi per quasi due mesi quando aveva assunto la cura placebo. Pareva aver funzionato proprio perché lei ci credeva. Ora, però, c’era qualcosa di diverso nel suo viso. Non sembrava più giovane. Forse per via degli sbalzi di peso, adesso le erano spuntate persino le rughe, alcune in mezzo alle sopracciglia, altre in- torno alla bocca.

Una settimana dopo Mélisande si rimise in piedi. La notai un mattino, mentre io e Wesley facevamo colazione sul patio: era vestita di tutto punto e sedeva su una sdraio in piscina, lo sguardo fisso verso l’acqua. Si frugò in tasca ed estrasse un gioiello che si passò sulle linee del palmo. Quindi lo tenne stretto nel pugno prima di rimetterlo in tasca. Ripeté quei gesti un paio di volte, tirò fuori l’oggetto dalla tasca, lo guardò, lo ripose. A un certo punto notai che era un anello con una pietruzza scintillante che, nonostante le piccole di- mensioni, rifletteva la luce più di tutto il resto.
Portai Wesley alla piscina per salutarla. Aveva gli occhi chiusi e dovetti chiamarla per farle sapere che eravamo lì. Fu sorpresa di vederci. «Come stai?» le domandai mentre prendevamo posto sulla sdraio accanto. Mio figlio si precipitò verso l’oggetto scintillante che stava nella mano sinistra di Mélisande, ma lei ritrasse tutt’e due le mani e lo rimise in tasca. «Cos’è?» volli sapere. Probabilmente Mélisande si chiese da quanto tempo la stavo guardando mentre tirava fuori e metteva via il gioiello. Lentamente si frugò in tasca ed estrasse nuovamente l’a- nello. La fascetta era sottile come uno spaghetto, ma aveva, proprio come sospettavo, una piccola pietra trasparente che catturava la luce. Attratto dallo scintillio della pietra, Wesley allungò di nuovo la mano per prenderlo, ma Mélisande lo nascose come per proteggerlo. «Lo ha dimenticato uno degli ospiti?» le chiesi. Scosse la testa. «Allora te lo ha regalato qualcuno?» Annuì. «Un uomo?» Annuì di nuovo. «Te lo ha dato prima che ti ammalassi?» «Può darsi» rispose con un fil di voce tenendo lo sguardo puntato sul pugno richiuso intorno all’anello. «Aveva detto che ti voleva sposare?» Non rispose. Sì, le aveva detto che voleva sposarla, immaginai, poi era tornato alla sua vita, da sua moglie, o da qualsiasi persona a cui fosse davvero legato, e non aveva più fatto ritorno. L’anello era una patacca, naturalmente, uno dei gioielli di krizokal realizzati dall’orefice più avanti sulla strada. Ne avevo visti moltissimi alle dita delle ragazze che venivano a bere al bar dell’albergo per abbordare gli ospiti stranieri o locali, ospiti che sostenevano di amarle e regalavano loro un anellino uguale a quello, a pegno della propria fedeltà, e poi le abbandonavano, lasciandole appese a qualche vuota promessa, per non tornare mai più. Dalle nostre parti quel genere di anello aveva persino un nome. Li chiamavamo le fedi nuziali di Port-au-Prince, o gli anelli renmen n, kite m, “amami e poi lasciami”. «Mélisande» ripresi cercando le parole giuste per dirle, o meglio per ricordarle che quell’anello era come le pastiglie che aveva assunto all’inizio. Non c’era verità, magia o potere di guarigione in quell’oggetto. Il viso emaciato e gli occhi arrossati indicavano che già lo sapeva. «M konnen,» disse «lo so» agitando la mano ossuta per farmi capire che non voleva parlarne più.

Per gentile concessione di Societè Editrice Milanese e The Marsh Agency

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Yucu, di Giovanna Rivero

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Dal 25 Giugno 2020 è in libreria la raccolta di racconti di Giovanna Rivero Ricomporre amorevoli scheletri pubblicata da gran vìa edizioni. Feroci e implacabili, eppure ammantati da un’atmosfera di delicata malinconia, questi quindici racconti, tra i più rappresentativi dell’autrice e raccolti in forma inedita in questa edizione, fanno conoscere al lettore italiano una delle voci più originali della letteratura boliviana e latinoamericana contemporanea.
La traduzione dei racconti è stata realizzata dagli allievi primo corso di traduzione di gran vìa "Tradurre la narrativa breve", sotto la cura di Matteo Léfevre.

Cattedrale vi propone uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.

YUCU
di Giovanna Rivero


Traduzione di Francesco Esposito

La prima cosa che si nota tra la folla che urla il mio nome con un misto di fanatismo e orrore è la scandinava testa rossa di Olaf Stamm, il parroco, accorso presumibilmente per placare gli animi e assicurare la mia cattura con le garanzie previste dalla legge. Che sia esemplare la punizione per il più esecrabile dei peccati, ma che il popolo non si sporchi le mani.
Non mi sorprende vedere la cuoca in mezzo a quella ressa. Posso giustificarla. Sul viso scuro eccessivamente esposto al sole e alla tristezza non si muove nemmeno un muscolo. Si trova lì perché deve. In quale altro luogo potrebbe attendere la ricomparsa della figlia, la piccola cameriera di otto anni, il cui canino sinistro io conservo come offerta devota? Se la cuoca bussasse alla mia porta con sincera gentilezza, le restituirei il canino affinché le rimanesse almeno qualcosa della figlia, un ricordo.
Ma così, con tale brutalità, io non cedo.
Pensano che mi piegherò, che la mia condizione di straniero costituisca un terreno fertile per lo scherno, che mi porti dietro da altre culture vizi e difetti da mettere in pratica nella mia perversa intimità.
Comunque sia, anche il parroco è uno straniero e porta con sé i propri vizi e i propri retaggi culturali. Se lo accettano è per il compromesso vantaggioso che offre dal suo leggìo ogni domenica: la salvezza eterna. Io, che conosco meglio la tediosa questione dell’eternità, non prometto nulla. Non rompo le palle e non voglio che me le rompano. Un compromesso equo.
Fino a ieri qui ci vivevo bene. Non avevo intenzione di spostarmi dal dipartimento del Beni, per lo meno fino a quando non fosse diventata indissimulabile e sgradevole la persistenza della mia relativa giovinezza. Non sempre posso fingere. Non sempre voglio fingere. La sincerità per me è un lusso, qualcosa che altri sprecano e spendono senza un progetto. La sincerità dovrebbe essere un progetto esistenziale, o quanto meno politico. La bambina lo aveva capito sin dall’inizio e per questo mi sono azzardato a fare quello che ho fatto.
Che esca fuori quel maledetto!, grida qualcuno dalla folla. È la voce acuta di una donna. La cuoca rimane quieta, in silenzio, dignitosissima nella tragedia. A volte mi chiedo se avesse capito.
Esci, figlio di puttana!, grida un uomo.
Spio dalla fessura lasciata da una sassata sul legno logoro della finestra a quattro ante. Le gole urlano, s’infiammano, affiorano vene gonfie che tuttavia, in questo momento, non risvegliano in me alcun appetito. Non sono nervoso per loro. Questa inquietudine è dovuta ad altre cause.

La bambina è scomparsa due notti fa. Le prime ricerche della polizia hanno condotto a un gruppo di malviventi da quattro soldi. Li hanno rilasciati dopo averli massacrati di botte e aver verificato che, nonostante conoscessero la piccola cameriera, non avevano la più pallida idea di dove si trovasse.
È stato proprio Stamm, spinto dai suoi terrori ecclesiastici, a presentarsi in commissariato per parlare dei suoi sospetti. L’altra volta, nel caso della gringa dai capelli rossi (quali conti in sospeso avrò mai con quelli con i capelli rossi?), fu sempre lo stesso Stamm a suggerire il mio nome come elemento da tenere in considerazione. Quella volta non si scatenò nessuna caccia all’uomo e potei addirittura fare l’offeso, l’uomo mortificato da una tale insinuazione. Inoltre, l’ambasciata fu soddisfatta della perizia del medico legale: la gringa era rimasta folgorata mentre cercava di far cadere i manghi maturi da un albero più frondoso di quello che Olaf Stamm coltivava nell’eden della sua immaginazione. L’asticella metallica con cui la sventurata cercava di rubare quei frutti aveva fatto contatto con un cavo dell’alta tensione che attraversava il fogliame e, come dicono da queste parti, chau majau.
L’unico in grado di addossarmi la colpa per una morte del genere poteva essere solo il parroco Stamm, che per lo meno è una persona istruita, questo glielo concedo.
Durante una notte insonne trascorsa a contemplare Marte, l’unico pianeta che mi tranquillizza, Stamm passò davanti a casa mia. Stava portando a spasso i cani che facevano la guardia alla parrocchia dopo che alcuni brasiliani avevano lasciato la Madonna coperta solo dal velo, portandosi via i gioielli barocchi che la adornavano. I cani, ovviamente, rincularono con il pelo drizzato. Non mi capita spesso una situazione del genere, ma quella notte avevo sognato secoli passati e i miei pori trasudavano nostalgia. Il sudore di uno come me è una brutta cosa.
Stamm guardò per terra, non per paura ma per calcolare quanti centimetri raggiungesse la mia ombra sotto i piedi. Io continuai a guardare Marte e ad aspettare con pazienza il respiro di qualche gattino randagio.

L’unica che si rese conto di ciò che mi tormentava fu la bambina, la figlia della cuoca. Occhi nerissimi, anziani, al contrario dei denti: giovani, bianchi, su cui si poteva ancora notare l’affilatura seghettata, come se la bambina non avesse mai masticato nulla di consistente, un bel pezzo di carne rossa o il cilindro fibroso di una canna. Come se si cibasse soltanto di pappine e payuje.
Ammetto che questi sono stati anni facili rispetto ai precedenti. La gente del Beni è famosa per il carattere allegro e a tratti indiscreto – dei ficcanaso insomma –, ma nessuno si era mai azzardato a indagare oltre quello che ero disposto a condividere. Qui il concetto di “straniero” conserva ancora un’aura romantica, un certo glamour antiquato di cui non godevo dagli inizi del xx secolo, quando passai circa venti o trent’anni ai confini della Germania, nel Brandeburgo. Lì mi trattarono bene, con prudente distanza ma con il dovuto rispetto, fin quando le mie abitudini alimentari cominciarono a dar fastidio ed essi confusero la mia allora insuperabile avversione alla carne con un’origine ebraica che invece non possiedo. Perché io non posseggo nulla. In genere, comprendo e accetto tutto delle culture e questa passività benevolente, per definirla in un certo modo, mi risparmiava tutta una serie di rogne, per la gioia dei miei muscoli. Non si trattava di una strategia transumante: era più che altro un’indolenza cronica.
Una maledetta indolenza.
Il giorno della scomparsa le cose andarono come sempre. Era una giornata nuvolosa, quindi ne approfittai per pranzare all’aperto. Per scherzare, gli abitanti del luogo dicono che il calore dei tropici è l’anticamera dell’inferno.
La bambina si avvicinò con il taccuino. Oggi abbiamo “fegato strapazzato”, “pacú affumicato” e “collo ripieno”.
Cavolo! Non avete il “falso coniglio”? (Mi divertiva questo piatto, il mio preferito.)
No, signor duca. Solo quello che le ho detto. E da bere, chicha di mais o limonata.
Il “fegato strapazzato” contiene uova?
La bambina chiese urlando alla madre, la cuoca, se il “fegato” contenesse uova, e che lo stava chiedendo “il duca”.
Stranamente mi chiamano “il duca” per la mia passione per le eleganti guayaberas che indosso e non per il mio nome, Duke Moldova. Riguardo alle guayaberas, si tratta più che altro di un gusto che ho acquisito qui, dalle abitudini dei tropici. C’è una domestica della provincia di Moxos che viene a casa tre volte a settimana per lavare e stirare. È un’artista nell’inamidare i colletti. Li porto ben alzati, nonostante il sole picchi forte. In compenso, non ho mai sentito un’inclinazione speciale per la moxeña, il suo collo anemico mi lascia indifferente. Inoltre, raramente mischio le sfere che compongono la mia vita quotidiana.
Il “fegato strapazzato” in effetti conteneva uova. E io, in seguito a quell’episodio che sollevò un polverone in ogni angolo del paese, ho sviluppato una specie di allergia all’uovo. Non tanto al suo sapore, ma probabilmente all’albumina, o all’immagine della gringa dai capelli rossi che spiegava alla bambina cosa significasse essere vegana. Ricordo che la bambina la guardava meravigliata, rapita dall’accento impacciato, con gli occhioni neri fissi sul viso lentigginoso della ragazza. Le argomentazioni vegane erano lunghe, evangelizzatrici, desideravano arrivare al tenero cuore della piccola cameriera, contagiarla con il loro irritante amore per il regno animale, colpevolizzarla. Ho una mucca vegana, è una mucca australiana, mangia il fieno alla mattina, fuma erba in cucina, la la la, la la la, aveva infine cantato la gringa. La piccola cameriera aveva accennato un sorriso, intuendo – grazie a un’intelligenza atavica, estremamente sviluppata rispetto alla sua età – la disperata cosmesi ideologica dei miserabili esseri umani.
Quindi aveva trovato qualcosa nel menu che sembrava adeguarsi all’estrema severità della purezza vegana: si trattava di una crema di zapallo. Era stato in quel momento che ero intervenuto con un’opportuna traduzione: lo zapallo altro non era che zucca, ovvero pumpkin. La gringa aveva sorriso riconoscente. Aveva un collo pallido con vene celesti, ben marcate. Senza latte, aveva precisato. La cuoca, che al cospetto della parabola vegana si era spinta fino al patio per servire personalmente la gringa, aveva inarcato le sopracciglia. Sarebbe stato difficile far addensare lo zapallo senza il latte, ma avrebbe trovato il modo…

Allora, meglio una porzione di “collo ripieno”, ordinai.
Farcito per bene, mi assicurò la bambina, e si allontanò camminando tacco-pianta-punta fino in cucina. La bambina era diversa, senza ombra di dubbio. La sua gentilezza derivava dalla cultura, sì, ma una specie di arroganza la elevava al di sopra delle cose e delle banalità del suo lavoro. Il destino le riservava altro. Un giorno disse di avermi sognato e che io sapevo qual era stato il suo sogno. Non indagai. Non si può mai sapere che genere di stratagemmi utilizzino i nativi per ficcare il naso dove non dovrebbero. La cuoca, ad esempio, conosceva i peccati di mezzo paese e di certo condiva con questi la sua cucina amazzonica. La piccola cameriera era tutt’altra cosa. Gli occhi neri e il sorriso dai denti affilati mi convinsero definitivamente delle sue intuizioni selvagge. La bambina non aveva bisogno di sapere altro su di me.
Mi distrassi guardando i delfini rosa. Sbuffavano piano piano, si stava avvicinando il periodo dell’accoppiamento e i musi umidi erano diventati di un rosa ancora più intenso. Si scambiavano baci, saltavano e si tuffavano con eleganza, muovendo le pinne come le ali di uccelli enormi. Adorabili bestie. Il parroco Stamm arrivò alla locanda in quel momento. Ci salutammo inclinando la testa con riguardo. Scelse un tavolo accanto alla riva. Sorrise ai delfini, forse in maniera meccanica. Quei delfini addolciscono l’animo con la loro simpatia.
La bambina mi portò finalmente l’ordinazione. Appoggiò il piatto fumante sul legno grezzo del tavolo, un legno che mi piaceva per le sue irregolarità, che sentivo con i polpastrelli con lo stesso obiettivo con cui i giapponesi si soffermano a palpare le asperità delle sfere di carta di alluminio: placare la fame. Non questa fame – quella fisica, diciamo – ma l’altra, la fame che mi trasforma in un animale. Il luogo comune della mia leggenda, la fame prevedibile che mi rende uguale, per disperazione e umiliazione umana, agli scheletri di quelle fotografie tendenziose dell’Africa. Potrebbero scattare anche a me una di quelle fotografie manichee durante le notti di inquietudine, quando mi alzo a contemplare Marte per ascoltare il fragore dei suoi gas che lo proteggono da quell’intestino infinito e vorace che è l’universo. Le mie notti con Marte sono le notti in cui lotto con me stesso, un altro vecchio luogo comune su cui il chiacchiericcio popolare ha tessuto racconti dozzinali (magari proprio la mia vita, questa parentesi nel tropico boliviano, sarebbe stato l’ennesimo, dozzinale racconto, se non ci fosse stata la bambina a placare le mie battaglie). A ogni modo, questa lotta non è così straordinaria né così perversa. È soltanto un crampo sgradevole allo stomaco, un’insonnia persistente simile all’infelicità, con la certezza che nonostante l’indolenza cronica voglio, devo, continuare a respirare. Il mio compito è passivo come quello del testimone. Non è previsto nemmeno un interlocutore. Vedo scorrere i secoli, mi sfamo e sopravvivo. Durante le notti di Marte, alla fine, scrivo qualcosa, lo brucio rigorosamente e mi accontento di qualche gattino famelico senza un padrone che lo pianga o un cane che gli abbai contro. E se qualcuno fotografasse l’istante in cui aspetto il languido felino, potrebbe notare l’indefinibile debolezza della mia natura mentre accetto queste elemosine dalla civiltà (cazzo, così tanti anni e non sono ancora riuscito a togliermi di dosso l’autocommiserazione).
Il piatto in questione era semplice. Guardai la bambina, quasi come per reclamare qualcosa, l’esuberanza di altri cibi che avevo assaporato in quella stessa locanda di Laguna Suárez. Non ordinavo mai pesce per non andare a cercare proprio il pelo nell’uovo, ma si poteva affermare che quella locanda era una succursale dell’Olimpo. La bambina sorrise: trasparente, cartilagine pura. Una gocciolina di sangue le tingeva il labbro inferiore. Oh, dio santo, dammi la forza!, respirai profondamente. Che miserabile che sono.
Indicai la bocca della bambina con il dito che tremava, chiudendo gli occhi per non guardarla mentre tremava anche lei, mentre sanguinava. Scambiò forse per disgusto ciò che era invincibile debolezza.

* * *

Prendono a calci la porta e le assi interne con cui l’ho bloccata si piegano, ma non cedono. Penso a quelle bare medievali, dai legni così umili e raffinati come questi del Beni.
Linciamolo!, s’infiammano le voci. È curioso, ma sento in esse quasi una certa allegria, una rinnovata vitalità.
Mi cambio la guayabera sudata. Devono esserci quasi quaranta gradi. Magari piovesse. Piove, piove, la gatta non si muove, canticchio. Non riesco a fischiare. La dentatura e il palato non aiutano.
Una corda!

Quel giorno, nel pomeriggio, aspettai la bambina lungo la strada sterrata. Conoscevo le abitudini della cuoca e sapevo che sarebbe rimasta alla locanda fino a sera per squamare il pacú. La bambina spuntò dal colle Monovi con passo deciso. Una gambetta dopo l’altra. Camminava concentrata su quelle pietre che scintillano quando si sfregano. L’avevo già vista raccogliere quelle pietruzze in un barattolo di vetro. Quando mi superò, la seguii per un tratto. Volevo godermi quella velocità infantile che di lì a poco avrei raggiunto, sì, ma in altri termini.
La bambina sentì, immagino, lo scricchiolio dei miei sandali sulla ghiaia, ma invece di correre rallentò il passo. Tuttavia, sollevò la testa per sentire, suppongo, quanto fosse vicino il suo inseguitore.
Lo ero abbastanza da potermi perdere nell’odore acido della sua graziosa pelle. Perché lei era interamente ricoperta da una pelle resistente, da asperità di bambina che la proteggevano, come se di lei ce ne fossero due. Una che serviva i clienti alla locanda e un’altra che era soltanto una luce fioca e selvaggia che mi cercava lungo la strada sterrata.
I capelli, al contrario, odoravano di fumo. Allungai la mano e le toccai la treccia già quasi sciolta.
La bambina si voltò con degli occhi neri enormi, umidi per le lacrime.

La turba entra. Olaf Stamm nomina Iddio, invoca alla calma, alla fiducia in una giustizia che supera la volontà dell’uomo. Siete figli del Bene!, urla. Non ci sentite forse, uomini sordi? Siete figli del Bene!
Guardo la clessidra che io stesso ho riempito con la sabbia fine del Mamoré. Una clessidra infallibile, del tutto indifferente al tempo. Mancano tre ore. Mi aggiusto il colletto della camicia. Stavolta la domestica ha esagerato con l’amido.

* * *

Non fu necessario offrirle caramelle né tenderle alcuna trappola arcinota. La chiamai con il suo nome: Lena.
Questo è tuo, dissi, porgendole il gioiello.
Lena guardò il palmo della mia mano.
Ha tantissime rughe sulla mano, signor… duca, disse. Le lacrime le scorrevano lungo il viso dolce e bruno.
Lena odorava anche di cipolle fresche.
Non prendi ciò che è tuo?

* * *

Tre soggetti mi avvolgono una corda spessa attorno al collo. Essere catturato e massacrato non mi preoccupa. Non è questo il metodo giusto. Mi trascinano tra i piedi della folla. Riconosco le gambe varicose della cuoca. Succede tutto molto rapidamente. Stamm cerca di proteggermi con il suo corpo vichingo, ma lo spintonano via, dicendogli, con permesso, questa non è né la sua terra né il suo regno. Vengo colpito in faccia da uno stivale da cowboy. Non riesco nemmeno ad avvertirli delle conseguenze che comporta il cospargere la loro terra con il mio sangue, che in un attimo mi ritrovo legato mani e piedi all’asta della piazza dove ogni 18 novembre viene issata la bandiera.

Il famoso “collo ripieno” era, in realtà, una specie di verme grassoccio nella vastità circolare del piatto. Un pezzo di yucca alleviava la solitudine della porzione. Non riuscivo a tagliare quel budello, la sua oscena pienezza mi ipnotizzava.
Olaf Stamm mi guardava dal suo tavolo, affamato e disgustato dalla lussuriosa visione del mio pranzo, circondato dal vapore che impregnava l’aria di spezie e sali.
Ho sviluppato la capacità di vedermi dall’esterno, qualcosa che cinque o sette secoli fa mi sembrava francamente impossibile, poiché avevo sempre seguito l’istinto, l’istante troppo breve della soddisfazione, in un’intimità asfissiante. Ero il cannibale di me stesso. In questo deve consistere la penitenza della mia stirpe: l’istante contro l’eternità. L’eternità cade sconfitta davanti all’infantile esistenza dell’istante. L’uomo comune non lo sa ed è felice.
Tagliai il “collo” in tre parti. Mi piace fare le cose così, in tre episodi, quasi a imitare la lunghezza dei racconti. Nella prima parte qualcuno soffre, e lo vengono a dire a me, che riconosco il panico persino negli occhi di un avvoltoio. È curioso. Continua a sorprendermi la creatività dei poveri, aizzati dalle avversità per distrarre la morte, gli aspetti volgari della morte. Anche io, a essere sincero, sono abbastanza povero. Sempre a calcolare l’imminenza della fame, la penuria di gatti, i sospetti di un villaggio che sa distinguere i suoi crimini dagli atti abominevoli.

C’era della filosofia in quel “collo ripieno”. La pelle del collo della gallina – la delicatissima ingegneria delle ossa che lo costituiscono – viene farcita con le rigaglie dello stesso animale. Nulla si spreca, tutto si trasforma, contiene sé stesso, in un egoismo molecolare mascherato da frugalità. Forse era per quello che mi sentivo così bene in quel tropico aggressivo, per quell’etica selvaggia al momento di sedersi a tavola.
Terminato il piatto, scoprii il gioiello, la sorpresa! Una perla appuntita brillava tra le interiora del “collo”. Alzai la testa e scrutai la baia, le acque ancora calme, i musi femminili dei delfini che si stuzzicavano, la gronda della cucina, i ganci delle reti da pesca, l’amaca sul retro con i suoi ciuffi di fili che ballavano nella brezza; arrivai fino alla bambina e la vidi sorridente, con un’oscurità appena nata nel punto in cui fino a quella mattina c’era il canino sinistro. Me lo aveva dato in offerta. La bambina mi aveva dato in offerta un frutto della sua infanzia.
Una voglia antichissima di piangere mi bruciò gli occhi. Uno come me non piange senza pagarne le conseguenze. Quel sale provoca delle bolle persistenti che mi rendono simile a un lebbroso. Un essere con cui posso avere alcune cose in comune, ma per il quale non sento proprio alcuna empatia. Questione di chimica, di leggende risapute.
Non piansi. Bevvi la chicha tutta d’un sorso. La sua acidità finale mi ricompose.
Il parroco dai capelli rossi mi guardava con cattiveria ecclesiastica.
Riposi il dente nel taschino. Mi servii un altro po’ di chicha, ne bevvi un ultimo sorso e andai via. Il parroco disse, buon appetito, ma con gli occhi socchiusi, quasi a misurare la mia ombra e il modo in cui questa si piega sotto i miei talloni.

* * *

Adesso implora pietà, maledetto Moldova!
Qualcuno porta una tanica di benzina.
Lena, dico a bassa voce.
Olaf Stamm piange disperato. Alza le mani e dice che ho almeno il diritto di pregare. Non so se è una frase di circostanza o uno stratagemma. Non è possibile che lo dica sul serio.

L’ho seppellita tra alberi alti, fitti, affinché al risveglio non avesse le convulsioni e la sete fosse tollerabile. Esistono miti e verità. Le avevo chiesto se conoscesse una parola magica nella lingua di sua madre, il moxeño, e che quella sarebbe stata la sua parola nel momento in cui avrebbe cominciato a percorrere il suo cammino ultrasecolare, affinché il diluirsi del tempo non la scavasse del tutto e le vite accumulate non la riempissero di un tedio insopportabile.
Yucu, disse Lena.
Accendemmo quindi un fuoco discreto e mettemmo a cuocere il canino, solo per essere sicuri. Il dente si elevò affilato e platinato come una luna calante. Allora le presi il polso e le recisi la pelle con il suo stesso dentino. Il resto fu meno complicato. Lo scricchiolio alla rottura del suo piccolo “collo” per aprire il flusso del sangue mi commosse. In quel momento sì che piansi un po’, di pura emozione.
Infine immersi il mio viso, le mie fauci, i lunghi anni delle mie ricerche nel fiume di Lena.
Le avevo promesso che si sarebbe risvegliata al terzo giorno, come era successo a tante persone in tutta l’umanità. Lena mi promise che la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata cercarmi. Venire a me.

Mi cospargono le gambe di benzina. Non imploro pietà. Oltretutto, il mondo ha perso il suo significato. Per qualche motivo, piuttosto, mi affligge l’angoscia del parroco Stamm che, tenuto in piedi da due cambas corpulenti, comincia a vomitare. Un vichingo inutile in una terra dove il mare è dolce e crudele. Un mare aperto come una femmina multipara, che non approda da nessuna parte, un mare immobile. Un mare bastardo che genera anche spietati piranha. Povero parroco.
La cuoca mi guarda senza tradire emozioni, ormai sprofondata in un abisso di disperazione. Mi piacerebbe darle il piccolo canino, consolarla, dirle che Lena avrà nuovi denti, fiammanti, autoritari, invidiati da qualsiasi animale.
Le donne mi tirano pietre e frutta marcia. I ragazzini accendono fiammiferi e li spengono con un soffio, per gioco, torturandomi. Va bene così, che si divertano durante quest’ultima ora che Lena impiegherà a svegliarsi, a sorprendersi del nuovo stato d’animo del mondo, del verde pungente dell’erba, a scrollarsi di dosso le foglie secche, a sistemarsi la treccia, a mangiare rapidamente un coniglio, strizzando gli occhi mentre gusta il primo sapore di un cuoricino delicato, ad attraversare l’enorme montagna, a spaventare le bestie e infine a venire, venire a me.
Nel frattempo, che continui a innalzarsi dalle paludi questa nebbia complice e che l’ululato del vento ravvivi la fiamma sterile ai miei piedi. Bruciare è ciò che voglio.

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Lontano lontano, di Gianni Di Gregorio

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Dopo anni di cinema Di Gregorio arriva finalmente alla letteratura con Lontano lontano, tre novelle che confermano il suo talento e sorprendono per la naturalezza, come se dietro il regista da sempre si fosse celato lo scrittore. Sono storie di famiglie indolenti e camminate solitarie, di italiani medi che pensano soprattutto a se stessi, personaggi e situazioni che mai cadono nello stereotipo, tratteggiati in una lingua ricca e originale, in apparenza senza tempo e che invece affonda nella contemporaneità, nei suoi problemi, nei suoi paradossi.

Cattedrale vi propone l’incipit dell’ultima novella che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.



Lontano lontano


Lunedì

Il professore era seduto al tavolinetto del bar e leggeva il giornale. Gli piaceva quel posto la mattina, il bell’affaccio sulla strada alberata che sale al Gianicolo, i ragazzi simpatici che gli facevano grossi sconti perché lo conoscevano e lo vedevano sempre gentile e sorridente, anche quand’era ubriaco.
Andato in pensione da poco, si ritrovava a condurre la sua vitarella, fatta di piccole cose noiose ma rassicuranti in fondo, tanto non c’era altra scelta.
Era stato un bell’uomo, e piaceva alle donne ma era innamorato di tutte e di nessuna, un inetto. Tuttavia si sposò e il matrimonio durò qualche anno. Non aveva figli ma non ne sentiva certo la mancanza dopo più di trenta anni passati a combattere con i suoi studenti del liceo, fra gioie e dolori, più dolori che gioie, cercando di illuminare generazioni di testoni con briciole di sapienza.
Qualcuno reclamò il giornale, che era quello del bar. Lo cedette a malincuore e tornò a sorseggiare lentamente il suo calice di vino bianco. Si accorse che si stava scaldando, e questo poteva compromettere il sereno avvio del nuovo giorno. Si domandò se fosse più giusto continuare a centellinare oppure berlo tutto d’un botto, prima che diventasse un brodo. In quel frangente vide passare il Vichingo sul marciapiede opposto. Bevve d’un botto e lo raggiunse.
«Ciao Vichì».
«Ciao. M’accompagni all’Ufficio Postale a ritirà la pensione, così te ridò quel cinquantino?».
Il Vichingo era suo coetaneo e vecchio amico. Di più, la loro amicizia risaliva all’infanzia, si erano conosciuti a sette otto anni mentre facevano il bagno nel Fontanone del Gianicolo. Era un’usanza bellissima. Le domeniche d’estate i ragazzini di Trastevere salivano al Fontanone e in mutande si tuffavano. Due o tre bambini scendevano da nord, un altro paio erano i figli degli ambasciatori che abitavano a due passi, scavalcavano i cancelli e arrivavano già in mutande o addirittura in costume da bagno. Era una festa. Lo scintillio del sole, gli schizzi, il pavimento fresco e ricoperto di sottile muschio, per cui scivoloni e un tripudio di urla e di risate.
Il Vichingo era stato per tutta la vita ed era tuttora refrattario e ostile al lavoro. Avrebbe potuto lavorare al banco di frutta e verdura al mercato gestito prima da sua madre e poi da suo fratello, lavorare in famiglia è un privilegio, ma non ci fu mai niente da fare. L’alzarsi presto la mattina, il caldo, il freddo, la polvere e il vento, un carattere antico e misterioso, la romanità stessa, avevano creato in lui una barriera d’orrore.
Ora aveva, per fortuna, la pensione minima. Si accontentava di poco, veramente di poco, gli piaceva stare al bar a chiacchierare, farsi quattro birrette e buonasera. Ogni tanto, se qualcuno gli stava antipatico, mostrava un certo caratterino, ma erano cose passeggere. Non era cattivo, anzi, considerando la fatica e l’impegno necessari a pensare il male, e dal pensiero passare all’azione, c’era da immaginare che l’anima del Vichingo fosse limpida come l’aria del mattino.
L’ufficio postale era pieno di vecchietti, giorno di pensione. Tutti cercavano di piazzarsi davanti alla bocchetta dell’aria condizionata, che più di tanto non poteva fare. Ma qualcuno non era rassegnato, e inveiva contro l’unico impiegato, un poraccio pure lui.
Finalmente ne uscirono e andarono a sedersi al bar San Calisto, per il meritato premio, vino bianco e una birretta. Il Vichingo aprì la busta e volle per forza restituire il cinquantino al professore. «Quello che è giusto è giusto, i buffi vanno pagati, anzi...».
Si alzò ed entrò deciso nel bar. Ne riuscì qualche secondo più tardi, pensieroso. Ricontò i soldi. «Ma qui ce mancano, porca mignotta!».
Allungò il foglietto al professore che si mise gli occhiali.
«Dunque… detrazione INPS euro diciannove e novanta… detrazione INAIL ventidue, IRPEF detrazione modello settecentotrenta euro ventitré e sessanta. Totale quattrocentoventi. Beh, è giusto, non manca niente».
«Ma come non manca niente?! Ogni volta sò de meno!».
Il Vichingo stracciò il foglio e bevve un sorso amaro.
«A professò, bisogna che ce ne andiamo da ’sto paese!».
«E dove vai?».
«I pensionati in Italia se ne vanno tutti, che non lo sai? Io per esempio c’ho la pensione minima, no?».
Il professore annuì.
«E ringrazia Dio che ce l’hai, co’ quello che hai lavorato...».
Il Vichingo lo guardò male.
«Insomma io qua non ce faccio niente, mentre ce sò paesi dove co’ ’sti quattro soldi ce vivi e fai pure una vita dignitosa!».
«Sarà, me sa che la fai troppo facile».
«Certo, che te frega a te? Tu c’hai la pensione bona!».
«Ah! Io c’ho la pensione bona? Io fra l’affitto e le spese non c’ho una lira e bada bene che ho insegnato latino e greco a centinaia di ragazze e ragazzi, per anni, hai capito?».
Al Vichingo scappò un sorrisetto.
«E pensi che se lo ricordano?».
«Se lo ricordano, non te preoccupà, se lo ricordano...».
La sera il professore aveva già dimenticato lo sproloquio del Vichingo e si preparò una minestrina più buona del solito. Il segreto sta nel non fare le cose di corsa. Tempo ce n’era ed era quello il momento migliore della giornata. Già al tramonto la coscienza si rilassava, aveva fatto quello che poteva, cioè niente, ed era abbastanza. Si addormentò davanti al televisore che trasmetteva un clamoroso western. Il Vichingo, staccatosi finalmente dalla sedia del bar, veleggiò verso casa, con il bicchiere di Campari ancora in mano. Rientrò nella sua tana, un antico fondaco ripieno di impicci, ma che aveva un bel bagnetto, grande comodità. Proprio lì cercava di entrare il Vichingo, ma la porta non si apriva. Quasi si spaventò.
«Chi c’è dentro?».
Dallo spiraglio si affacciò la faccia insaponata di un ragazzetto africano.
«Sono Abu, faccio la doccia. M’hai dato chiavi, ti ricordi?».
Il Vichingo si ricordò e andò a sedersi. «Che palle! Sbrigate!».
Certo, Abu. Gli dava spesso le chiavi per farsi la doccia, stava tutto il giorno in giro sotto il sole. Però aveva detto una doccia ogni tanto e adesso passava quasi tutti i giorni. E ogni volta lasciava al Vichingo un elefantino, pezzo forte delle piccole cose africane che cercava di vendere.
«Basta, ce n’ho tanti!».
«Porta fortuna!».
«Eeeh!».
Il Vichingo regalò ad Abu un sacchetto di frutta fresca e lo congedò. Ne giravano per Trastevere e per tutto il centro storico di ragazzi così. Gli facevano pena.


© Sellerio editore,  2020 - Tutti i diritti riservati.

 
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Le ultime parole del poeta, di René Daumal

Fotografia di Luc Dietrich.

Fotografia di Luc Dietrich.

La poesia e la morte

Un’introduzione alle ultime parole del poeta di René Daumal

 

«Non si conosce la parola mediante la parola, ma attraverso il silenzio» 

René Daumal

 

René Daumal ebbe due ossessioni, una consequenziale all’altra: la poesia e la morte. La poesia era per lui un fatto serissimo, una questione di vitale importanza: la ricerca della Parola Unica, della Cosa-da-dire; la poesia, l’unica poesia che abbia un vero senso – la poesia bianca – è fatta esclusivamente di «parole di verità», pensava Daumal. E questa Parola Unica è inevitabilmente una «parola impronunciabile» poiché deve emergere, deve germogliare come un seme dal silenzio, dal buio, dal vuoto (o se vogliamo dalla vacuità buddhista), deve passare attraverso l’esperienza della morte. Morte che non è fisica, non è quella del corpo ma negazione dell’Io e della sua immagine falsa, del suo “apparire” –  diremmo forse oggi. Solo morendo metafisicamente, prima che sopraggiunga la morte definitiva, il poeta può davvero raggiungere il proprio Sé e lavorare strenuamente alla ricerca della Verità.

 

«Tutta la notte cercò di estrarre dal cuore la parola impronunciabile».

 

Il 1936 è un anno essenziale per René Daumal. Innanzitutto, è l’anno della pubblicazione di Le Contre-Ciel (in uscita, per la prima volta in italiano, nella versione di Damiano Abeni, per Edizioni Tlon), l’unico libro di poesia dell’autore e il primo dei soli due testi che vide pubblicati in vita. Questa pubblicazione segna la fine di un percorso – una morte – e l’inizio di un nuovo cammino che lo porterà ad allontanarsi da tutto quanto aveva vissuto fino a quel momento per intraprendere la perigliosa salita al Monte Analogo. 

Ed è nel 1936 che Daumal scriverà: «Le ultime parole del poeta», un breve testo, rappresentativo di tutta la sua poetica fino a quel punto e paradigmatico di quanto seguirà, nella sua vita e nella sua opera, da lì e in avanti fino alla sua prematura morte, otto anni dopo. Si tratta di una prosa lirica che, raccontando di un poeta condannato a morte, cui viene concesso di dire la sua ultima poesia, parla appunto della poesia in generale. Della Poesia Unica, dell’unica parola che valga la pena pronunciare. «Non ho che una parola da dire, una parola semplice come il fulmine», poiché quella Cosa-da-dire corrisponde al seme da cui può nascere la Verità. 

Eppure, ci dice Daumal, «La poesia non ascoltata è un seme perso», «se la poesia è un frutto, il poeta non è un albero. Vi chiede di prendere le sue parole e di mangiarle all’istante. Poiché non può, da solo, produrre il proprio frutto». Dobbiamo essere noi a mangiare la Poesia Unica e farla attecchire dentro, questo è il grande lascito di René Daumal: darci la responsabilità assoluta di raccogliere il suo insegnamento immane per non lasciarlo imputridire con il suo corpo. Ci offre una possibilità, una direzione, un’indicazione misterica e silenziosa – l’unica possibile – della via da seguire per raggiungere la Verità, la cima del Monte Analogo, la poesia bianca, il vero senso della nostra vita.

Così, l’ultimo grido del poeta, prima della fine, esprime tutti i timori intimi di René, la sua urgenza di ricerca, il suo bisogno estremo di morire per ritrovarsi, per risorgere nella conoscenza e nell’illuminazione del seme fattosi albero, fattosi uomo, divenuto poeta e infine maestro. 

 

«Raccogliete queste parole, che non siano un seme perduto!

Covate le mie parole, fatele crescere, fatele parlare!».

 

Pubblichiamo questo testo illuminato in attesa del suo Controcielo e nella speranza che il lettore attento possa trarne il significato più profondo e radicale per farlo suo e covarlo dentro di Sé con un lavoro costante teso a raggiungere la Parola Unica e l’unica Verità.

 

Andrea Cafarella

 


 Le ultime parole del poeta

 

Da un frutto che si lascia imputridire per terra può ancora nascere un nuovo albero. Da quest’albero, centinaia di nuovi frutti.

Ma se la poesia è un frutto, il poeta non è un albero. Vi chiede di prendere le sue parole e di mangiarle all’istante. Poiché non può, da solo, produrre il proprio frutto. Occorre essere in due per fare una poesia. Chi parla è il padre, chi ascolta è la madre, la poesia è il figlio. La poesia non ascoltata è un seme perso. O ancora: chi parla è la madre, la poesia è l’uovo e chi ascolta ne è il fecondatore. La poesia non ascoltata diventa un uovo imputridito.

 

*

 

A questo pensava, nella sua prigione, un poeta condannato a morte. Era in un piccolo paese, appena invaso dalle armate di un conquistatore. Avevano arrestato il poeta perché, in una canzone che cantava nelle strade, aveva paragonato la tristezza che logorava fino all’osso la carne del suo corpo ai fumi micidiali che avevano bruciato fino alla roccia la terra del suo villaggio.

Domani all’alba sarà impiccato. Ma gli si concede la grazia di poter dire di fronte al popolo, prima di morire, un’ultima poesia.

 

*

 

Diceva a se stesso, nella sua cella:

 

«Finora non ho fatto che canzoni per divertire.

Sarà la mia prima ed ultima poesia.

Dirò loro:

“Raccogliete queste parole, che non siano un

seme perduto!

Covate le mie parole, fatele crescere, fatele

parlare!”.

 

Ma che dirò loro, poi?

Non ho che una parola da dire, una parola semplice come il fulmine.

Una parola che mi gonfia il cuore, una parola che mi sale alla gola, una parola che gira nella mia testa come un leone nella gabbia.

Non è una parola di pace. Non è una parola facile da ascoltare. Ma deve condurre alla pace. Ma deve rendere tutto facile da ascoltare. A patto che la si prenda così come la terra riceve il seme e lo nutre uccidendolo.

Quando sarò imputridito, tra qualche giorno, che un albero di parole nasca dalla mia putrefazione. Non di parole di pace, non di parole facili da ascoltare, ma di parole di verità.

 

*

 

Ma, ancora, che dirò loro?

Non ho che una parola da dire, una parola tanto reale quanto la corda che m’impiccherà.

Una parola che mi dà prurito, una parola che mi divora, una parola che anche il boia potrà capire.

Aprirò la bocca – dirò la parola – chiuderò la bocca – e questo sarà tutto.

 

Non appena avrò aperto la bocca, si vedranno rientrare sotto terra i fantasmi e i vampiri e tutti i ladri di parole, gli imbroglioni al gioco della vita, gli speculatori della morte:

Quelli che fanno girare i tavoli,

quelli che fanno oscillare i pendoli,

quelli che cercano negli astri ragioni per non far nulla.

I fantasticoni, i suicidi,

i maniaci del mistero,

i maniaci del piacere,

i viaggiatori immaginari, cartografi del pensiero,

i maniaci delle belle arti, che non sanno perché cantano,

danzano, pettinano o costruiscono.

I maniaci dell’aldilà

che non sanno stare quaggiù.

I maniaci del passato, i maniaci del futuro, illusionisti di eternità.

Li si vedrà rientrare sotto terra non appena avrò la bocca aperta.

 

Non appena potrò pronunciare la parola, gli occhi dei sopravvissuti si rivolteranno nelle loro orbite, e ciascuno di questi uomini e ciascuna di queste donne guarderà in faccia il fondo della propria sorte.

Abisso di luce! Oscurità sofferente!

 

Non appena avrò chiuso la bocca, i loro occhi si rivolgeranno verso il mondo, carichi della luce centrale, e vedranno che il fuori è l’immagine del dentro. Saranno re, saranno regine, si vedranno gli uni gli altri, ciascuno solo come il sole è solo; ma tutti illuminati, dentro, dal fuoco di un’unica solitudine, così come, fuori, dal fuoco di un unico sole.

 

*

 

Ma sogno e cedo alla troppo facile speranza. Piuttosto, senza dubbio – diranno:

“Quel matto, è ora che lo si impicchi. Quella bocca inutile, è ora che la si chiuda”.

O forse diranno ancora:

“Le sue non sono parole di pace, non sono parole facili da ascoltare. Sono parole di un demonio. È ora d’impiccarlo e basta”.

 

E, in ogni caso, sarò impiccato. Ebbene, dirò loro:

“Voi non vivrete molto più a lungo di me.

Io muoio oggi, voi la prossima settimana. E la nostra miseria è la stessa, e la nostra grandezza è la stessa”.

 

Ma crederanno che sono parole d’odio. Questi infelici sono talmente certi di essere immortali! E, in ogni caso, sarò impiccato.

Che dirò loro? Certo dirò loro: “Svegliatevi!”. Ma non saprò dir loro come fare, e loro diranno:

“Ma noi non dormiamo. Impiccate, impiccate quest’impostore, e che lo si veda sputare la lingua!”.

Ed io, in ogni caso, sarò impiccato». 

 

*

 

E il poeta, nella sua prigione, colpiva la testa contro il muro. Il rumore di tamburo soffocato, il tam-tam funebre della sua testa contro il muro fu la sua penultima canzone.

Tutta la notte cercò di estrarre dal cuore la parola impronunciabile. Ma la parola cresceva nel suo petto e lo soffocava e gli saliva nella gola e girava sempre nella sua testa come un leone in gabbia.

Ripeteva a se stesso:

 

«Ad ogni modo, sarò impiccato all’alba».

 

E ricominciava il tam-tam sordo della sua testa contro il muro. Poi tentava ancora:

 

«Non ci sarebbe che una parola da dire. Ma sarebbe troppo semplice. Direbbero:

“Sappiamo già. Impiccate, impiccate questo ciarlone”.

Oppure diranno:

“Vuole sradicarci dalla pace dei nostri cuori, dal nostro solo rifugio in questi tempi di dolore. Vuole immettere il dubbio straziante nelle nostre teste, mentre la frusta dell’invasore già ci strazia la pelle. Non sono parole di pace, facili da ascoltare. Impiccate, impiccate questo malfattore!”.

E, in ogni caso, sarò impiccato. Che dirò loro?».

 

*

 

Il sole sorgeva con il rumore degli stivali. Fu condotto, i denti serrati, verso la forca. Davanti a lui i suoi fratelli, dietro di lui i suoi boia. Diceva a se stesso:

 

«Ecco dunque la mia prima e ultima poesia. Una parola da dire, semplice come aprire gli occhi. Ma questa parola mi mangia dal ventre alla testa, vorrei aprirmi dal ventre alla testa e mostrare loro la parola che nascondo. Ma se occorre farla passare dalla mia bocca, come ne varcherà lo stretto orifizio, questa parola che mi riempie?».

 

Allora tacque una prima volta: la sua bocca mantenne il silenzio. Una seconda volta tacque: il suo cuore si fermò. Una terza volta tacque: tutto il suo corpo divenne come una roccia silenziosa.

(Era come una roccia bianca, come la statua di un ariete davanti a un branco di montoni addormentati; e dietro di lui i lupi già sogghignavano).

 

*

 

Si sentirono rumori di baionette e di speroni. La proroga accordata giungeva al termine. Sul suo collo, il poeta sentì il solleticare della canapa e nel fondo dello stomaco la zampa unghiata della morte. E allora, all’ultimo momento, la parola esplose dalla sua bocca vociferando:

 

«Alle armi! Alle vostre forche, ai vostri coltelli,

alle vostre pietre, ai vostri martelli,

siete mille, siete forti,

liberatevi, liberate me!

voglio vivere, vivete con me!

uccidete a colpi di falce, uccidete a colpi di pietre!

Fate che io viva e io vi farò ritrovare la parola!».

Ma fu la sua prima e ultima poesia.

 

Il popolo era già troppo terrorizzato.

E per aver troppo tentennato in vita, il poeta ciondola ancora dopo la sua morte.

Sotto i suoi piedi, i piccoli mangiatori di putrefazione spiano questa carogna che morì appesa al ramo. Sopra la sua testa volteggia il suo ultimo grido, che non ha nessuno su cui posarsi.

(Poiché spesso è la sorte – o il torto – dei poeti, parlare troppo tardi o troppo presto).

  


Il testo qui riprodotto è tratto da Poesia nera e poesia bianca (Castelvecchi, 2014). Traduzione di Michela Summa. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione. 

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Pulisci le ossa, di N. Thompson-Spire

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L’editore Black Coffee ha portato ai lettori italiani, la raccolta di racconti Facce di colore, di Nafissa Thompson-Spires, tradotta da Massimiliano Bonatto.
Se molti autori di colore restano aggrappati a una narrativa che guarda al passato, queste storie rielaborano il canone letterario ancorandolo saldamente al presente. È così che Nafissa Thompson-Spires, giovane autrice al suo esordio letterario, riflette sulla «visibilità» fisica, sociale e politica del cittadino nero dell’America di oggi, resistendo alla tentazione di fornire facili risposte in favore di uno sguardo autentico che rifugge la generalizzazione.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro per gentile concessione dell’editore.



Pulisci le ossa


Alma tenne gli occhi chiusi mentre cantava, in chiesa e poi al cimitero. Le bare sigillate le mettevano ansia, lasciavano alla fantasia troppi spazi da colmare. Provò a concentrarsi sulla canzone. Tredici. Il ragazzo aveva tanti anni quanti fori di proiettile in corpo, dalla testa al torace. Il vento di gennaio le sferzava le guance ma non riusciva ad asciugarle il sudore. Si tamponò la fronte con la sciarpa di seta, trattenne il respiro e si sedette sulla sedia bianca con il proprio nome. Non sentì il sollievo abituale nel pronunciare «going up yonder», i profondi suoni gutturali non la liberarono dal dolore. Era il quinto funerale in due mesi. Vedendo i portatori appoggiare rose bianche sulla bara argentata si sentì, d’un tratto, in colpa a farsi pagare per prendere parte a quell’intimità. Non conosceva il ragazzo, ma ne conosceva tre di quelli per cui aveva cantato negli ultimi tempi. I compensi permettevano a lei e al piccolo Ralph di infagottarsi in cappotti imbottiti come il soprabito blu con basco in tinta che indossava quel giorno. Composta all’esterno, dentro si sgretolava. Le dolevano le anche, gocce di sudore le imperlavano l’attaccatura della parrucca migliore che aveva e non riuscì a scaldarsi né in chiesa né sul prato assolato, accanto alla fossa dove deposero il ragazzo e la cassa in un gesto definitivo. «Hai cantato» disse Bette, collega di Alma in ospedale, che la aspettava con il piccolo Ralph presso l’ultima fila di sedie.
«È stata una bella cerimonia, fiori stupendi. E tu hai cantato».
La madre del ragazzo, la signora Madison, si avvicinò e strinse la mano ad Alma in silenzio, annuendo con approvazione prima di seguire il resto della famiglia nel corteo. Lei e il marito avevano poco più di quarant’anni e il ragazzo era, o era stato, il secondo di quattro figli.
«Ottima interpretazione. Vi aspettiamo a casa per il pasto» disse un uomo alto dalla fila in movimento, uno zio o forse un cugino che aveva aiutato con la sepoltura. Alma sorrise. Aveva conquistato il pubblico. Era il suo dono. Placare, almeno per un po’, l’agitarsi insonne della notte precedente.
Aveva eseguito «See You When I Get There» assieme a canti funebri tradizionali.
I genitori del ragazzo le avevano richiesto espressamente di evitare «I Believe I Can Fly».
Per cantare ai funerali servivano le stesse doti che impiegava nel confortare gli amici nelle sale d’aspetto o consolare i mariti al capezzale delle loro mogli. L’assemblea aveva mormorato i suoi «Mmm», pronunciato gli «Amen», cantato con lei «Since I Lay My Burdens Down», sventolato la mano destra in accordo alle parole «ne ho abbastanza di averne abbastanza». Era stata una cerimonia decorosa, senza forti pianti né lamenti, ma la mancanza della tensione abituale – l’assenza di singhiozzi o plateali traumi fisici – le aveva dato un senso di nausea, e il freddo le gonfiava la pancia come un fibroma che le si aggrovigliava ogni istante di più ai noduli che aveva dentro. I farmaci l’avevano ingrassata di dieci chili in due mesi, che erano andati ad aggiungersi al peso guadagnato con la gravidanza di Ralph, che ancora non aveva perso, e la faccia di prima ora galleggiava nella sua nuova faccia. La gonadotropina e gli antidepressivi che le aveva prescritto la ginecologa nonché collega, la dottoressa Brown, non lenivano la sofferenza, ma lei li prendeva lo stesso per avere la sensazione di star facendo qualcosa. Si svegliava in un bagno di sudore freddo, teneva una vestaglia e lenzuola pulite sul comodino accanto al letto per cambiarsi alle tre di notte, riusciva a cronometrare le palpitazioni nel petto e le fitte alle ossa del bacino. A trentacinque anni le avevano indotto la menopausa precoce per fermare la crescita dei noduli, ed erano sintomi che aveva previsto. Quello che non si era aspettata era l’intensità del terrore notturno, che la teneva sveglia dopo che il sudore si era asciugato e che si insinuava lungo le ore di veglia. E cosa avrebbe fatto del bambino accoccolato sulla spalla di Bette – anche lui ne aveva abbastanza di averne abbastanza – con il muco rappreso che gli incrostava entrambe le narici e lo costringeva a rantolare dalla bocca, il bambino che compariva sempre più spesso durante gli attacchi di terrore?
«Andiamocene da qui» disse a Bette.


Alla tavola calda di Ashland, Alma e Bette si sedettero a un tavolo e sistemarono Ralph sul lato corto in un seggiolone. Stava piagnucolando, così Alma gli diede la scatola con le bustine di zucchero e altri dolcificanti con cui giocare.
«Sei andata a fargli vedere il naso?» chiese Bette, mescolando il latte nel caffè. Aveva un anno in più di Alma e niente figli, e spesso le teneva Ralph quando i turni in rianimazione non si sovrapponevano. «Sempre la stessa storia» disse Alma, fissando il suo tè. Bette stava dicendo che Ralph era davvero carino, che la camicetta e la cravatta bordeaux lo facevano sembrare un ometto, che se lo sarebbe potuto mangiare.
Puoi tenertelo, pensò Alma. Poi lo disse ad alta voce: «Puoi tenertelo».
«E io me lo terrei anche» tubò Bette, rivolta a Ralph. «Certo che sì, certo che sì». Prese una delle bustine gialle di dolcificante che il bambino aveva disseminato sul vassoio del seggiolone. Lui le rifilò un grugnito e gliela strappò di mano. «Fai il bravo, Ralphie». La sua voce era stucchevole come le bustine. «Fai il bravo con zia Bette».
Alma intonò e alleggerì la voce per conferirle l’aria di una domanda ipotetica: «Ma cosa faresti se te lo lasciassi così, davanti alla porta di casa?». Le sfuggì una risata.
Bette smise di sorridere, aprì le dita di Ralph per prendere la bustina, la svuotò in fretta nel caffè e gliela restituì: «Lo prenderei con me, ma mi preoccuperei. Cosa c’è, Alma, è per il funerale, tutti quei funerali?». «Ma come faresti a tenerlo al sicuro?» chiese Alma. «Noi viviamo in un buon quartiere» rispose Bette.
L’altra metà di quel «noi» era il marito Justin. «Anche tu vivi in un buon quartiere, cavoli».
«Ma come faresti a proteggerlo?» le chiese Alma.
«Farei del mio meglio» cominciò Bette, ma finì con: «Forse è meglio andare a casa, così ti puoi riposare. È stata una lunga settimana. Posso tenere Ralph questa sera, se vuoi staccare un po’».
Alma scosse la testa.
Quando si separarono, Bette diede un altro abbraccio a Ralph con un «Fai il bravo con la mamma, tesoro», e poi disse che l’avrebbe chiamata più tardi.


Durante l’attacco di terrore di due sere prima Terry, il fratello di Alma, le era apparso assieme al ragazzo della stanza 26: duettavano con le chitarre mentre cantavano un medley delle canzoni preferite di Terry. Macchie di sangue secco chiazzavano il camice verde sbiadito del ragazzo, simili a tanti colpi di pistola, e sebbene la pelle scura apparisse pallida sotto la luce a neon della stanza, lui continuava a suonare la chitarra elettrica con energia, ululando come un forsennato.

Oh what’s a man to do?
What’s a man to do
If I can’t have you?
If I can’t


Cantavano senza la tipica leggerezza di Terry nel declamare i testi, con i volti arrabbiati. Il ragazzo mise giù la chitarra di colpo e dal taschino del camice estrasse un bisturi e si avvicinò ad Alma. «Praticherò un’incisione sul lato destro, da qui a qui» disse, indicandosi il bacino striminzito da una parte all’altra. «Tirerò fuori un bambino e gli darò un nome antiquato, tipo Ralph». Alma guardò Terry in cerca d’aiuto, ma lui era disteso sul letto del ragazzo con gli occhi chiusi e le mani cinte in grembo, la stessa posizione che aveva nella bara. Provò a urlare, ma tutto quel che le uscì fu una canzone. L’incubo finì bruscamente con Alma inzuppata di sangue, ma quando si toccò le anche, era soltanto sudore.


Alma entrò con Ralph nell’appartamento, che si affacciava su un laghetto artificiale, e si tolse il cappotto. Il bambino, grassoccio al diciottesimo mese di vita, si era riempito le tasche di bustine di dolcificante, quattro gialle e due rosa.
Durante il tragitto in macchina, e anche adesso a casa, aveva stretto in mano una cannuccia rossa, e mentre Alma lo svestiva ed era alle prese con il suo naso e l’aspiratore, lui canticchiava versi striduli ma appagati. «Vai a giocare con le tue cose, Ralphie» disse Alma dopo che gli ebbe cambiato il pannolino. Lasciò la porta della camera accostata e si accomodò nella cucina spaziosa.
Bette doveva pensare che fosse impazzita. Avrebbe dovuto dirle della mancanza di sonno, almeno quella causata dai farmaci. I terrori notturni li avrebbe tenuti per sé. Terry le faceva spesso visita durante gli attacchi, ma negli ultimi tempi le apparivano sempre più spesso anche i pazienti della rianimazione, e persino quelli di traumatologia di cui aveva solo sentito parlare nei corridoi e che non aveva seguito personalmente.
Sette anni prima Alma, sua madre, la sorella Lisette e la ragazza di Terry, Katrina, avevano sepolto il ventinovenne Terry in seguito a una sparatoria con la polizia. Era quello il termine che aveva usato la stampa, «sparatoria», ma Terry era disarmato. Le cause legali erano chiuse, la bara di Terry aperta, le sue visite notturne assidue ma non più allarmanti. Non sembrava che stesse tentando di dirle qualcosa che non sapesse già sulle circostanze della sua morte. Nell’armadio di sotto, avvolto nella carta da forno, Alma teneva un pezzo di femore del fratello. L’aveva lavato e pulito lei stessa, una richiesta personale che aveva fatto al medico forense. La madre, la sorella e Katrina avevano tenuto le altre spoglie, i vestiti, i libri, le chitarre.
Ma perché le appariva con i ragazzini, quelli dell’ospedale? Tre settimane prima era stata la volta del ragazzo investito dalla volante, due mesi fa una ragazza il cui fratello stava giocando con la pistola della madre.
Ralph si mise a piangere dietro la porta socchiusa, voleva che lo prendesse in braccio. E sebbene fosse in grado di camminare (era solo cocciuto), Alma lo sollevò al petto e lo portò in soggiorno, mettendogli davanti due frollini e un piatto di plastica pieno di cracker al formaggio.
Alma aveva immaginato la vita come qualcosa di sensuale: tasti, corde, fili che nella combinazione giusta producevano accordi bellissimi, blues lenti e lacrimosi. Adesso era fatta di strilli nel cuore della notte e piagnucolii senza preavviso. Era tutta corpi: quelli che arrivavano in reparto crivellati di proiettili, ragazzini di undici, dodici anni con le felpe fradice, e quelli vestiti per i funerali, con i fori tamponati e coperti da abiti eleganti, spesso comprati all’ultimo minuto da madri che faticavano a mettere in tavola un piatto di spaghetti in bianco. All’inizio del lavoro in ospedale, alcune infermiere le avevano insegnato a pregare per i ragazzini a seconda della gravità. Il primo livello, pregare che si rimettessero; il secondo, pregare che il dolore si placasse. Alma ci aveva messo un po’ a comprendere il terzo livello – pregare che morissero, che la pietà e la grazia accorciassero la sofferenza –, ma dopo qualche mese di lavoro l’aveva accettato, quando avevano portato il ragazzo con il volto fatto a pezzi. Gli occhi di sua madre avevano con- vinto Alma che a volte la vita allungava soltanto il dolore.


C’erano così tanti corpi nella vita quotidiana di Alma. Come quello minuscolo di Ralph, a tratti gocciolante, a tratti congestionato per la bronchite, le infezioni bronchiali, la sinusite cronica che gli colorava di verde e giallo le narici e gli provocava il vomito per impedirgli di soffocare nel cuore della notte. Alma lo lavava e provava a rimettersi a dormire, grata che non fosse asfissiato.
Squillò il telefono e Alma valutò se ignorare la chiamata di Bette prima di risponderle.
«Sto bene» insistette, quando l’amica si offrì di andare da lei. «Lo metto a dormire presto e mi godo la giornata libera prima che finisca».
Sul certificato di nascita c’era scritto Ralph Boaz Parr, ma Alma lo chiamava il piccolo Samuele, perché quando ancora l’utero le si attorcigliava alle viscere, aveva promesso al Signore che se l’avesse benedetta con un figlio, lo avrebbe offerto a Lui. Dopo due laparoscopie (una per estrarre un fibroma di sei centimetri completo di denti e capelli), un raschiamento e un ciclo di punture per la fertilità, aveva concepito Ralph con l’aiuto dell’amico Danny, che aveva acconsentito a fungere da donatore di sperma ma non da genitore, da padre ma non da papà. In quel momento ad Alma era andato bene. Ora le aderenze erano tornate, le sentiva tirare nel fianco sinistro, e prendeva i farmaci per ritardare un altro intervento. Si domandava cosa sarebbe successo se avesse scelto di avere un bambino in modo tradizionale, se Danny fosse stato il papà, addirittura il marito, e non solo il padre. Forse avrebbe ricevuto più sostegno oppure, trovando insopportabile badare ad Alma e a suo figlio, Danny l’avrebbe lasciata sola, proprio come adesso.
Aveva messo a Ralph un vestitino bianco e una cuffietta in occasione del battesimo, al quale Danny era presente. Era avvenuto tre mesi prima, all’incirca quando i terrori notturni si erano intensificati. Al battesimo non avevano immerso Ralph per intero, gli avevano spruzzato un po’ d’acqua addosso e unto la testa con l’olio consacrato, secondo la tradizione pentecostale. Sotto il lavandino del bagno, Alma conservava una parte dell’olio d’oliva in una sottile bottiglia intagliata.
Lei non aveva passato il segno quanto sua madre nell’usare l’olio consacrato. La madre ci aveva unto le colonne di casa, si era aggirata per le stanze mormorando incantesimi e aveva suggerito che, quando il bambino avesse fatto il difficile, una spalmata in faccia gli avrebbe senz’altro giovato. Tuttavia, quando si esibiva, Alma si ungeva la fronte con l’olio e pregava velocemente affinché potesse, in tutta umiltà, dare conforto a famigliari e amici, perché ricordassero l’incoraggiamento dei testi e le canzoni servissero a rasserenarli. Benché non potesse esserne certa, senza l’olio le esibizioni le sembravano meno capaci di alleviare il dolore, spargevano sabbia invece di balsamo. Non che le canzoni fossero meno belle, ma dopo aver cantato senza l’unguento, le famiglie le sorridevano e le stringevano le mani quasi fosse lei ad aver bisogno di consolazione. Sì, doveva essersi scordata di usare l’olio prima di esibirsi al funerale del ragazzo di Madison. Doveva essere quella la ragione per cui, nonostante i complimenti ricevuti, si era sentita così inquieta.
«Andiamo a fare il bagnetto» disse Alma. Accese un po’ di musica e portò Ralph nel secondo bagno.
Quella sera si spalmò olio di ricino sull’addome, cominciando dal lato destro, massaggiando il fegato e scendendo lungo il ventre fino alle anche e poi di nuovo sui fianchi.
Come per l’olio consacrato anche quando dimenticava di completare il rituale il corpo glielo faceva sapere. Le tossine sembravano accumularsi più in fretta, la digestione diventava lenta e il dolore, che non si placava mai del tutto ma era lieto di rammentarle che poteva andare peggio, le faceva contorcere la cavità addominale e pelvica. Gli impacchi di olio di ricino avrebbero dovuto ridurre i noduli, così diceva Internet, e nonostante la formazione da ricercatrice e la diffidenza, ogni sera Alma si cospargeva con quell’olio freddo e viscoso in attesa di qualche miglioramento. Si premeva addosso un cuscinetto termico e avvolgeva il busto con vecchi panni. L’olio macchiava lo stesso le lenzuola, lasciandovi un odore penetrante. Era quella la sua vita, i resti che riusciva a lavare via e quelli che non riusciva a togliersi di dosso.
Non dormì. Non era mai capace di dormire dopo una performance, a prescindere da come fosse andata, ma soprattutto adesso. Prevedeva l’arrivo di Terry e pensava che ad accompagnarlo sarebbe stato il ragazzo di Madison da sotto il coperchio della bara. Tuttavia fu Ralph a comparire assieme a Terry durante l’attacco di terrore. Stavolta non canta- va, ma gridava con voce tombale: «Come farai a tenermi al sicuro?». Aveva il volto e i vestiti zuppi, come se lo avessero immerso nell’acqua.
Alma si alzò e andò a controllare il figlio, che russava lievemente nella culla. Quando tornò in camera, si mise in ginocchio accanto al letto e recitò un’altra serie di preghiere. Spense il volume della televisione e riprodusse musica dal cellulare tenendola bassa. Sedette sul letto e cominciò ad angosciarsi per il turno che sarebbe cominciato da lì a quattro ore, per la propria vita, per il suo bacino.

Quando, single e senza figli, Alma aveva cominciato a cantare ai matrimoni, gli affari andavano a rilento, ma era la sua passione e non soltanto un secondo lavoro; i soldi non le servivano. Alcuni clienti, che avevano saputo di lei con il passaparola all’ospedale e grazie ai cd demo che distribuiva durante le visite, trovavano i gorgheggi e i virtuosismi eccessivi per l’occasione: per il loro giorno speciale preferivano qualcosa più da Chiesa episcopale invece che da Chiesa di Dio in Cristo. Come cantante da funerali aveva più esibizioni di quante ne desiderasse e con i guadagni, per quanto le sembrasse sbagliato chiamarli così, aveva pagato le terapie per la fertilità.
La madre e la sorella non capivano perché Alma si fosse sottoposta a cure così impegnative per sistemarsi l’utero soltanto per diventare una madre single. Però non avevano più menzionato i modi poco tradizionali in cui Ralph era stato concepito, una volta visto «quell’adorabile bebè, uguale identico allo zio Terry».
Per quanto il bambino fosse separato dall’utero, e nono- stante una solida rete di famigliari e amici che la sosteneva- no, talvolta Alma sentiva che Ralph era solo un’altra aderenza, un nodulo nella sua felicità futura.
Una volta capito che Terry e Ralph stavano per tornare da lei, Alma si rassegnò a non dormire e andò a sedersi in cucina. Fuori era ancora buio e il lago si increspava alla luce di un lampione lontano. Controllò di nuovo Ralph nella culla. Aveva il pannolino e la parte inferiore del body fradici, e sul petto gli si era rappreso qualcosa di bianco e limaccioso. Mentre andava nell’altro bagno a riempire la vasca, Alma si sentì sull’orlo delle lacrime.
Doveva chiamare Bette o forse l’ospedale, o addirittura sua madre.
Non pensò a prendere dall’armadio la vaschetta per bambini. Aprì l’acqua, saggiando la temperatura con il gomito. Tolse dalla culla Ralph, che per un attimo si lamentò e frignò, e poi la guardò negli occhi come a dire: «Perché mi hai svegliato?».
Tentò di comporre un sms col pensiero, di dargli un qual- che tipo di spiegazione o richiesta di scuse, ma non riusciva a decidersi sulle parole giuste. Ralph batté le mani prima e dopo essersi fatto sfilare dalla testa la maglietta. Alma lo spogliò e poi gli mise un completo bianco di lino che aveva comprato per una vacanza imminente. Gli unse la fronte con l’olio d’oliva.
Le sovvenne una canzone, una che Terry suonava alla chitarra acustica quando lei aveva sei o sette anni. Una volta finito con Ralph si sarebbe preparata per il lavoro – altre volte aveva lavorato dormendo anche meno di così – e si sarebbe occupata del ragazzo della stanza 47, magari avrebbe detto una preghiera da terzo livello per lui e una da secondo per sé.
Quando coprì la testa di Ralph con l’acqua tiepida, rifletté che quantomeno non era ghiacciata. Quantomeno non era profonda come se avesse fatto un tuffo da una nave negriera. Quantomeno era più confortevole che se l’avesse obbligato a galleggiare sul Nilo in un cesto di vimini. Lo spinse sotto una prima volta e contò fino a cinque. Quando i proiettili gli ave- vano frantumato la gamba destra e poi il petto, Terry aveva avuto tempo di gridare? Avrebbe conservato anche una parte di Ralph? I volti di entrambi si mescolavano tra loro. Pianse di terrore e placò il rimorso canticchiando qualche strofa, «le sue ossa non si spezzeranno», «lassù non ci saranno più pianti». Poteva farcela: undici, dodici, tredici. A quattordici, il dubbio aveva cominciato a insinuarsi. Non doveva avere un scelta anche Ralph, adesso che era qui? Chi era lei per strappargli la vita nel timore che qualcos’altro potesse farlo? Era questo che avrebbe voluto Terry per suo nipote?
Strattonò Ralph fuori dall’acqua. Aveva gli occhi sbarrati e lei aveva perso il conto. Temette che il danno fosse ormai irreparabile e ascoltò il petto del figlio. Alma era fuori di sé, ma la memoria muscolare prese il sopravvento e si mise a praticare il massaggio cardiaco. E se non si fosse svegliato? E se si fosse svegliato ma fosse rimasto un vegetale per tutta la vita?
Alla prima compressione Ralph emise un gorgoglio, sputò acqua e pianse. Era abituato a respirare appena.
Per la prima volta da mesi Alma tirò il fiato.
Non sapeva come sarebbero riusciti a superare la notte, tantomeno gli anni. Un giorno o l’altro uno di loro o entrambi avrebbero potuto finire con la testa sott’acqua. Per ora, Alma avrebbe controllato Ralph e se stessa, magari avrebbe chiamato Bette. Diede un leggero pizzicotto alla gamba grassottella di Ralph. Sentì una specie di raggio di sole illuminarle il collo e il petto, vide un bagliore caldo di cielo o speranza nel volto bagnato del piccolo, e rivestì entrambi per andare a letto.

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Piccole apocalissi, di Livio Santoro

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Epifanie minime
L’esordio di Livio Santoro

 di Andrea Cafarella


Ogni esordio suona sempre come una presentazione.
Bisognerebbe poi fare un distinguo tra un esordio assoluto e un esordio in lingua e poi dovremmo considerare accuratamente il periodo del quale stiamo parlando, solo per capire il ruolo che un libro d’esordio possa aver avuto per un autore e per il suo pubblico e i pubblici che si sono passati il testimone nei decenni.
Basti pensare agli esempi di Jorge Luis Borges, Julio Cortázar e Roberto Bolaño. Tre scrittori sudamericani molto diversi, probabilmente i più grandi del novecento, appartenenti a tre generazioni che si susseguono. Borges esordisce nel 1923, Cortázar nel 1945 e Bolaño nel 1976. Ognuno di questi esordi ha una diversa storia: Furore a Buenos Aires di Borges ha avuto una prima pubblicazione frettolosa, seguita da un posteriore labor limae che ha trasformato il suo Furore in quella che ora è una raccolta poetica tradotta in tutto il mondo, simbolo dello spirito argentino. L’altra sponda di Cortázar è stato messo in ombra dal Bestiario ed è diventato un’opera minore che troviamo solitamente nelle raccolte complessive di tutti i racconti. Reinventar el amor, un po’ come tutta la poesia di Bolaño, si è tramutato in un cimelio per appassionati, raramente citato o tradotto. La caratteristica che mi interessa di questi libri è una certa “inconsapevolezza”. Si dice sempre che la caratteristica essenziale di uno stile solido e credibile sia la consapevolezza, eppure, credo che l’eccesso di questa immancabile qualità possa portare – causa l’ansia psicotica del giudizio altrui – a una castrazione assoluta dell’altro attributo indispensabile che pertiene allo Stile: il coraggio.
A questi tre giganti sudamericani il coraggio di certo non mancava, tuttavia, sono convinto che è soprattutto nei primi e negli ultimi libri che si può trovare il cuore magmatico della loro scrittura: per Borges i primi sono Inquisizioni (1925) e Finzioni (1944 – il suo secondo libro di racconti dopo Storia universale dell’infamia) e gli ultimi: Libro di sogni (1976) e Nove saggi danteschi (1982); Cortázar pubblicò Rayuela nel 1963 e – dato ancora più ambiguo e significativo – pubblica nel 1986 Divertimento e L’esame (scritti rispettivamente nel 1949 e nel 1950) e nel 1995 Diario di Andrés Fava (un frammento del testo originale de L’esame); Il caso di Bolaño è ancora più palese poiché i suoi due libri più famosi, importanti e splendenti, I Detective Selvaggi e 2666, furono pubblicati rispettivamente nel 1998 (tre anni dopo i suoi primissimi romanzi brevi) e nel 2004, incompiuto, dopo la sua morte e a seguito di un lavoro estenuante che lo impegnò fino agli ultimi giorni di vita. Tutti questi dati possono non voler dire assolutamente nulla, anzi, in quanto dati non significano niente: ma. Ma possiamo senza dubbio affermare che i primi e gli ultimi passi lungo il cammino hanno sempre un sapore diverso rispetto a tutti gli altri passi. Illuminano la via che va a venire e adombrano quanto abbiamo lasciato alle spalle, dandoci tempo e spazio per riposarci sopra. Sono l’inizio e la fine e, in barba al «qui e ora», sono quanto di più eloquente e rappresentativo esista del viaggio, dell’opera e della vita stessa di ognuno di noi.

Siamo onorati e lieti di presentarvi, attraverso un racconto estratto dalla sua prima raccolta pubblicata in Italia, Piccole apocalissi (Edicola, 2019), il primo passo, l’esordio di Livio Santoro. Vi basterà cercare il suo nome nell’immensa ragnatela del web per avere un’idea del percorso che lo ha portato fino a questo importante “primo passo”. Si occupa di letteratura sudamericana, ha scritto diversi pezzi di critica sull’opera di Volodine e trovate suoi racconti in diverse riviste, se vorrete farvene un’idea previa. I racconti contenuti in Piccole apocalissi sono «epifanie minime», prendono piede da quella che al giorno d’oggi viene chiamata microfiction o micronarrazione ma non gli importa niente di saperlo – come non importava a Borges, d’altronde –, divampano dello stesso fuoco delle più differenti lingue babiloniche. Parlano tutti gli idiomi, le apocalissi di Santoro, indagano il quotidiano come il fantastico, esplodono ma senza fare il botto: esplodono dentro, in silenzio, nell’illusione che tutto rimanga quel che è ma lasciando il mondo totalmente diverso da com’era prima, prima del momento illuminante, prima di vedere le stelle muoversi nella luce del sole.

Ringraziamo l’autore e l’editore per averci gentilmente permesso la pubblicazione del testo che segue.


*

 

Piccole apocalissi

Il giovanissimo Antonino era quel che si dice una peste. Una maledizione, insomma, per i suoi genitori. Non stava mai fermo, non prestava attenzione, masticava ogni cosa per poi sputartela in faccia e non potevi girarti che rompeva un bicchiere o ti tirava un calcione.
Nessuno era capace di farlo star buono, ancorché utilizzasse coercizione e minacce. Solo una cosa lo rendeva momentaneamente inerte e tranquillo, per il breve conforto di mamma e papà. Era quando di pomeriggio, un po’ prima del tramonto, il sole entrava in salone sotto forma di una striscia obliqua tra le tende della finestra, andando a finire sul muro di fronte. In quella fetta illuminata di stanza, Antonino contemplava le particole di polvere che riflettevano il sole muovendosi scoordinate nell’aria. Fermo e con la bocca aperta, le osservava con tanta intensità da tralasciare gli abituali uffici.
Quella pace temporanea era tanto gradevole e sacra che i due afflitti genitori, timorosi di infrangere malauguratamente l’incantesimo, evitavano persino di chiedere ad Antonino cosa ci trovasse di bello nella luce filtrante, ed evitavano pure di pulire per bene il salone.
Venne però un giorno in cui, cedendo alla speranza di trarre qualche informazione utile a estendere la quiete del bimbo anche nelle ore lontane dal tramonto, dopo lungo e attento consulto si decisero cauti a interrogare il figliolo.
Perché ti piace così tanto questa luce, Antonino?, gli fece garbata la mamma, porgendogli una fetta di torta.
Perché lì dentro la polvere mi sembrano le stelle, rispose il bambino senza nemmeno guardarla.
È vero, le stelle sono belle, ribatté lei, vogliamo andare a guardare anche quelle su in cielo, più tardi? No, rispose immediato Antonino, e stavolta si girò per fissarla negli occhi. Quelle stanno ferme.
Queste invece si muovono, sbattono una contro l’altra, vanno a finire sul muro. A quest’ora, qui a casa è come la fine di tutto l’universo.

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Non è mica la vergine Maria, di Feby Indirani

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Add editore pubblica Non è mica la Vergine Maria, di Feby Indirani, tradotto da Antonia Soriente.

In Indonesia, la più popolosa nazione musulmana al mondo, i veli che coprono i volti delle donne – e delle bambine – sono esplosi come una moda. Di recente il governatore della capitale Jakarta, Ahok, è stato arrestato con l’accusa di blasfemia perché, cristiano, ha osato citare il Corano in campagna elettorale. Da questo clima nascono i diciannove racconti di Feby Indirani, parodie provocatorie che con acume e umorismo mettono in rilievo le incongruenze dell’islam radicale. Musulmana ed emancipata, l’autrice offre una lettura femminista della vita sociale dell’Indonesia contemporanea sottoposta all’ortodossia islamica.

Cattedrale vi propone il racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell ‘editore.


Non è mica la Vergine Maria

Maria era incinta. Senza aver fatto sesso con alcun uomo e al di fuori del matrimonio.
Quando se ne rese conto rimase basita, quasi spaventata. Era il 2016, ed era impossibile immaginare che un miracolo come quello accaduto a Siti Maryam, la Maria della tradizione islamica, potesse avvenire di nuovo. Il tutto si era già concluso quando nacque Gesù, senza padre, tanti secoli fa. Al giorno d’oggi chi crederebbe che Maria possa essere incinta senza avere avuto rapporti sessuali con un uomo? Figuriamoci lei, che certo non è una vergine. Maria è convinta di essere incinta per miracolo senza che nessuno l’abbia sfiorata. Ma chi le crederebbe? Come qualsiasi donna che vive in una metropoli segue uno stile di vita non proprio casto. Di certo non trascorre le giornate tra le mura della moschea in ginocchio a pregare come faceva Siti Maryam. Lei è solo una ragazza come tante con la sua vita di donna indipendente e lavora in un ufficio di un’azienda privata. Ha anche un se- condo impiego, fa la modella per una rivista per adulti, il che significa che è abituata a mostrarsi liberamente con vestiti succinti davanti alla macchina fotografica. Ma è lei a stabilire le condizioni e quali pose vuole o non vuole assumere.
Quando può, conduce una vita rilassata e si concede delle pause a sorseggiare caffè nei bar con gli amici, o trascorre i fine settimana fuori città, fa l’amore con il fidanzato, quando ne ha uno. Ma adesso un fidanzato non ce l’ha, eppure qual- cosa ha cominciato a crescere nel suo ventre. Lei non se ne è resa conto prima di essere entrata nel terzo mese di gravidanza. Sapeva soltanto di non avere il ciclo, ma nei primi mesi pensava che si trattasse di stanchezza o stress, o di altri motivi. Quando al terzo mese la sua pancia ha cominciato di giorno in giorno a ingrossarsi è andata nel panico e ha fatto ogni possibile test di gravidanza per scoprire che tutti porta- vano allo stesso risultato: era incinta.
La prima reazione fu di smettere di parlare. Ma dopo un’in- tera nottata trascorsa in silenzio, a riflettere e a piangere, non riusciva a sopportare quel peso da sola e così aveva chiamato Saskia, la sua migliore amica dalle scuole superiori. Quando Saskia era arrivata, Maria stava lì abbandonata, debole, sul letto, in una stanza lussuosa in affitto, cui era stato volontariamente dato l’appellativo di «residence» per dimostrare che non si trattava di un appartamento qualunque. «Chi è il padre?» Maria aveva fatto di no con la testa. «Per l’amor di Dio, non c’è.»
«Sì, come no...»
Maria aveva chiuso gli occhi. «Davvero, non c’è.»
«Prova a ricordare, forse eri ubriaca, o non eri cosciente? Forse sei stata con qualcuno ma non te lo ricordi.»
Maria continuava a negare con la testa. «Non ho mai bevuto fino a ubriacarmi.»
Saskia la guardava con incertezza. «Da quanto tempo mi conosci? Non sono mica una bugiarda.»
«Quindi, vuoi abortire?»
Maria si voltò e tornò a sdraiarsi dando le spalle a Saskia. «Mar...»
«E se portassi in grembo un profeta? Non si dice forse che alla fine dei tempi Isa, ovvero Gesù, ritornerà nel mondo per salvare i fedeli? I segni della fine del mondo sono sempre più vicini, non lo sai?»
«Sì, se ti comportassi come Siti Maryam, la vergine Maria, che pregava devota, avvicinandosi a Dio e mantenendo le distanze dagli uomini. Ma tu... scusami... non sei proprio una santarellina.»
Maria tornò a zittirsi. «Sì, però, non faccio neanche così tanto schifo...» disse offesa. «Non ho mai calpestato i diritti degli altri né corrotto nessuno, tiro avanti da sola, con il mio sudore, anche se tra le altre cose faccio la modella sexy. Faccio le mie preghiere, anche se qualche volta ne salto qualcuna. Pago le tasse, non butto l’immondizia dove capita, faccio le file... Non rubo, non violo le regole, non dormo con i mariti delle altre...»
Saskia tacque. Confusa. Seguì un silenzio imbarazzante. Non sapeva cosa fare o dire, era davvero difficile crederle. «Quindi che cosa vuoi fare?»
Maria continuò a tacere. Aveva gli occhi gonfi come fossero troppo stanchi per piangere ancora.
Saskia le prese le mani. «Cerchiamo un uomo che voglia sposarti.»
«E dove lo troviamo uno che mi voglia?»
«Ma ancora non ci abbiamo provato, no?»
Cominciarono a fare una lista degli uomini che erano stati vicini a Maria e che ancora le giravano intorno in quegli ultimi due anni, un lasso di tempo che valutarono fosse abbastanza ragionevole.
Se avessero indagato più indietro nel tempo, quegli uomini si sarebbero rifiutati subito. «Rama?»
«Si è appena accasato...»
«Ricky?»
«Sì, ma ha una religione diversa, sarebbe una cosa troppo lunga da gestire...»
«Ardan?»
«Ah, è inutile, non sono il suo tipo.»
«Fahmi?»
«Con lui non mi ci metterei neanche morta!»
«Dai, Mar, ma perché? Non hai scampo. Cosa pretendi?» «No, non se ne parla. Meglio lasciar perdere...» Saskia fece il broncio, stizzita. «Ah, c’è pure Gilang! Non è da tanto che hai smesso di frequentarlo, no?» «Gilang... uhm... è ancora sposato con quella, Sas...»
«Ma come? Lo vedi? Non avevi detto che non dormivi con i mariti delle altre?»
Maria si imbarazzò e, per la prima volta in quelle ore, le scappò un sorriso. «Non spesso...»
Saskia continuava a fare no con la testa, con un’espressione frustrata sul viso. «Come può qualcuno credere che tu sia incinta senza aver avuto nessuna relazione con un uomo?»
«Vuoi dire che tu non mi credi?»
«Chiunque stenterebbe a crederti...» Anche Maria mise il broncio.
«Mar, che io ti creda o meno non è importante. Quello che bisogna capire ora è cosa devi fare. Più passerà il tempo e più la tua pancia si ingrandirà, e la gente comincerà a farsi delle domande. A casa, in ufficio, i tuoi amici, anche la tua famiglia lo scoprirà se tornerai a casa, non puoi continuare a nasconderlo.»
«Già...»
«Perciò, secondo me, le scelte sono due: o trovi un uomo che ti voglia sposare oppure abortisci quanto prima.»
«Uhm... entrambe le scelte non mi piacciono.»
«Il problema non è cosa ti piaccia o no, Mar...» Saskia si alzò, seguita dallo sguardo fisso e preoccupato di Maria. Aprì il frigorifero, versò l’acqua in due bicchieri, diede un bicchiere a Maria e tracannò l’altro.
«Ok. Fahmi. È la tua migliore possibilità» disse con fermezza Saskia.
Maria immediatamente scosse la testa con forza. «Ok. Se è così, abortisci.»
«Ma perché deve essere così? Perché non posso essere una donna indipendente, mettere al mondo un bambino da sola, senza dovermi sposare con qualcuno? Ho dei risparmi. Saranno abbastanza per mantenere me e il bambino.»
«Sì, ma tutti chiederanno di chi è il bambino!»
«È mio figlio, chiaro...»
«Ok, ma chi è il padre?»
«Non c’è, io sono come Siti Maryam. Suo figlio era un profeta, chissà che non lo sia anche il mio...»
«Sei impazzita!»
«Sì, ma tu sei più pazza di me, imponendomi di uccidere mio figlio.»
Saskia agitò le mani. «Non è possibile che tuo figlio sia un profeta. Se davvero tu non hai dormito con nessuno, al massimo potrebbe essere uno spiritello o un fantasma. Se, invece, in realtà stai mentendo, si tratterà solamente di un figlio illegittimo!»
«Ma tu ancora non credi che io sia incinta senza che un uomo abbia avuto un ruolo... ok, bene. Credevo che fossi la mia unica amica, l’unica persona sulla faccia della terra che mi avrebbe creduto!»
«Non c’è nessuna differenza, che io ti creda o no. Il punto è che io non posso aiutarti, perché sei testarda e non vuoi seguire i miei consigli. Anzi, se proprio vuoi saperlo, io in realtà non ti credo!»
«Bene! Allora se è così, che cosa fai ancora qua?» disse Maria, in tono di sfida.
Senza dire più niente, Saskia andò via.
In quel momento Maria capì di essere davvero sola. Erano solo in due, lei e il bambino.
Non c’era nessun altro che le avrebbe creduto. Tutti le avrebbero dato della sgualdrina. Ma chi se ne frega! Questo è mio figlio. Questa è la mia vita. E questo è il 2016. Essere una madre single non è poi così strano nel 2016.
Maria vive in un luogo a maggioranza musulmana, è vero, ma è fortunata: non verrà frustata perché accusata di aver peccato. Anche se in qualche modo avrebbe dovuto pensare bene a come nascondere la cosa alla famiglia. Doveva anche avere a disposizione più soldi per le spese del parto e cercare un nascondiglio sicuro per quando il suo grembo sarebbe diventato più evidente. Poi doveva cominciare a pensare dove sarebbero andati a vivere lei e il bambino quando fosse nato.
All’improvviso si sentì girare la testa, troppi pensieri la assalirono nello stesso momento. Maria trascorse i giorni successivi da sola, cercando di tenere duro. Tornò in ufficio, come suo solito, comportandosi come se nulla fosse cambiato nella sua vita. Indossava vestiti più larghi, ma nessuno sospettava di lei.
Dopo essere entrata nel quinto mese, alcune persone cominciarono a fare commenti sul fatto che sembrasse più pienotta, più grassa, ma che allo stesso tempo sembrasse più bella. Maria dispensava sorrisi come sempre, sebbene spesso la notte piangesse. Rifiutò le offerte per servizi fotografici che le arrivarono, perché la sua gravidanza si sarebbe vista chiaramente indossando vestiti attillati e aperti sulla pancia.
I suoi genitori, che vivevano in un’altra città, la vennero a trovare. Maria dovette agire di furbizia e coprì il tutto con la scusa di aver cambiato modo di vestire e in più raccontando la storiella che all’improvviso le piacesse molto mangiare. I genitori furono contenti nel vedere le sue guance piene e il suo viso in salute. Incredibilmente la passò liscia fino all’ingresso nel settimo mese. Da lì, la gravidanza divenne sempre più difficile da nascondere. Sebbene usasse vestiti molto larghi, la pancia si vedeva lo stesso. Continuò a mostrarsi calma e disinvolta, come se niente fosse cambiato. Era consapevole che si parlasse di lei, che la guardassero con il grande desiderio di sapere, qualcuno anche con sdegno. Tutti sapevano che non era sposata. Ma in fondo questi non erano solo affari suoi?
Alcuni colleghi di lavoro più coraggiosi di altri cominciarono a domandare direttamente a lei. Maria aveva deciso di rispondere la verità, a qualsiasi costo. I commenti iniziarono a piovere implacabili. «Sei pazza, tu credi di essere la Siti Maryam o la santa Maria? Solamente perché porti il suo nome? Non sognartelo nemmeno!»
«Non ti vergogni di crederti simile alla vergine Maria? Sei una modella di giornali per adulti!»
«Siamo nel 2016, che una donna sia incinta senza marito non è poi così strano, l’importante è che tu sia sincera, noi ti aiuteremo a costringere quell’uomo a prendersi le sue responsabilità.»
Le dicerie sulla sua gravidanza continuarono a circolare, e sempre più persone facevano strane supposizioni su Maria. Chissà da dove prendevano le informazioni. Alla fine anche la sua famiglia venne a conoscenza della gravidanza. E vennero anche a sapere del secondo lavoro come modella di riviste per adulti. Come se una persona avesse spiattellato tutto di proposito per far vergognare Maria e anche loro. Maria venne richiamata a tornare al villaggio, proprio quando mancavano pochi giorni al parto. Il suo arrivo fece scalpore tra i vicini e gli amici di vecchia data. Era incinta senza marito, ed era pronta a giurare di non essere incinta a causa di un uomo.
«Chi è il padre?» chiesero la madre e il padre piangendo. Maria restò in silenzio. Diede una lettera ai suoi genitori piena di richieste di perdono in cui ribadiva che era davvero incinta senza avere avuto relazioni con nessuno. Diceva anche che era stanca e non avrebbe più parlato fino alla nascita del bambino.
Nel mezzo di un giorno torrido, dopo nove mesi e nove giorni, Maria mise al mondo una bambina.
Non si sa come, ma la notizia si sparse in fretta tra i suoi amici. Erano tutti stizziti. Come mai la santa Maria non aveva dato alla luce il profeta? Come mai non aveva partorito il salvatore? Ma a Maria non importava. Era sola, si stiracchiava e continuava ad allattare la bambina.
Lei la guardava con gli occhi fissi, finché parlò. «Mamma, stavo quasi per non nascere, questo mondo da troppo tempo ha smesso di credere.»
Maria abbracciò la sua bambina.
«Ma io ci credo!»

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Farsi una birra, di Robert Coover

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Esce oggi 21 Novembre 2019, La babysitter e altre storie, l’attesa raccolta di racconti di Robert Coover, pubblicata da NN editore; un libro che ripercorre la carriera di uno dei padri della letteratura americana.

Ognuna di queste trenta storie si avventura oltre i confini della realtà, catapultando il lettore in universi fantastici come quelli dell’Uomo Invisibile o dei cartoni animati, oppure riscrivendo le narrazioni del mondo occidentale, dalla Bibbia alle fiabe classiche, dai film ai fumetti. Ciascun racconto è stato affidato alla traduzione di trenta traduttori, che hanno restituito la potenza evocativa linguistica di questo autore preciso e denso.

L’editore di NN Eugenia Dubini, commenta così l’idea del progetto: “Mi sembrava che far tradurre a 30 diversi traduttori 30 racconti di Robert Coover riuscisse a restituire l’infinità di voci di questo scrittore”.

La curatela è affidata a Luca Pantarotto e Serena Daniele.

Cattedrale vi anticipa uno dei racconti della raccolta, con la collaborazione di NN Editore, dandovi appuntamento a un approfondimento con le voci che hanno reso possibile la realizzazione di questo progetto.

Farsi una birra
Robert Coover

Traduzione di Laura Noulian

Si ritrova seduto nel bar del quartiere a bere una birra proprio nel momento in cui comincia a pensare di andar lì a berne una. In realtà l’ha già finita. Forse può ordinarne un’altra, pensa, mentre se la scola e ne ordina una terza. C’è una donna giovane seduta non lontano da lui che non è esattamente attraente, ma lo è comunque quanto basta, e ha l’aria di essere brava a letto, come in effetti è. Lui l’ha finita quella birra? Non se lo ricorda. Conta solo una cosa: gli è piaciuto godere? Ma ha goduto davvero? Questo si chiede uscendo dall’appartamento di lei e tornando a casa lungo le strade nebbiose. L’appartamento era pieno di bambole Kewpie, di quelle che si vincono al luna park, e si sono dati appuntamento, lui ricorda, per andarci insieme. E lì lei ne vince un’altra: è qualcosa per cui ha talento. Dopodiché eccoli di nuovo nell’appartamento di lei, si spogliano, la donna eccitata stringe fra le braccia la nuova bambola in un letto che ne è pieno. Lui non ricorda da quanto tempo non dorme, e fatica a trovare, barcollando per le strade notturne, ancora nebbiose, la via di casa, quanto all’orgasmo, ammesso ne abbia avuto uno, gli sta già svanendo dalla memoria. Forse dovrebbe portarla di nuovo al luna park, pensa, dove lei vincerà un’altra bambola Kewpie (questo è quantomeno il loro secondo appuntamento, se non il quarto), e stavolta vanno a farsi un romantico cicchetto notturno nel bar in cui si sono incontrati la prima volta. Dove un tipo muscoloso comincia a importunarla. Lui interviene e se la vede spuntare accanto al letto in ospedale: gli ha portato una delle bambole Kewpie perché gli faccia compagnia. Questo è il modo in cui la donna vuole esprimere il legame che c’è fra loro, o così lui suppone, mentre lascia l’ospedale sulle stampelle, non sapendo di preciso in quale parte della città si trovi. O in quale parte dell’anno. Decide che è tempo di darci un taglio – lei lo sta facendo uscire matto – ma poi il tipo muscoloso si presenta al loro matrimonio e si scusa per le botte che gli ha dato. Non aveva capito, dice, quanto fosse seria la loro storia. I regali di nozze del tipo sono un buono per due birre al bar dove si sono conosciuti e un paio di nastri di satin bianco per le stampelle. Durante la cerimonia sia lei che lui hanno in mano una bambola Kewpie, il che probabilmente ha un significato molto poco recondito, come in effetti si dimostrerà presto. Il bambino che lei gli dà, suo o di un altro, gli ricorda, come se ne avesse bisogno, che il tempo scorre veloce. Ora lui ha delle responsabilità e decide di verificare se sia ancora suo il lavoro che svolgeva quando l’ha conosciuta. Lo è. La sua assenza, ammesso che sia stato assente, non viene rimarcata, ma neanche si congratulano con lui per il matrimonio, senza dubbio perché – se ne ricorda ora – prima di conoscere la moglie lui aveva una relazione con una collega e c’era stata già una festa di fidanzamento organizzata dai colleghi, i quali ora devono avercela con lui per i soldi che hanno speso per i regali. È imbarazzante, e l’atmosfera in qualche modo è ostile, ma lui ha un bambino all’asilo e un altro in arrivo, quindi cosa può fare? Be’, non ha ancora utilizzato il buono, così, innanzitutto, che diavolo, può farsi una birra, due in realtà, e può permettersene una terza. C’è una donna giovane seduta vicino a lui e ha l’aria di essere brava a letto, ma non è sua moglie e lui non vuole commettere adulterio, o almeno così si dice mentre è seduto sul bordo del letto di lei con i pantaloni attorno alle caviglie. Se li sta togliendo o se li sta mettendo? Non lo sa, ma ora se li tira su e torna a casa zoppicando, avendo lasciato chissà dove le stampelle coi nastri. Rincasando trova tutte le bambole Kewpie, che da quando sono cominciati ad arrivare i bambini sono state collocate su uno scaffale, sparse qui e là per l’appartamento, decapitate e mutilate. Uno dei bambini piange e lui, dopo aver messo sul fornello il latte per il biberon, va nella camera del piccolo per calmarlo e, appuntato sul pigiamino, trova un biglietto della moglie, in cui dice di essere andata in ospedale a partorire un altro figlio e che sarà meglio che lui non si faccia trovare a casa quando ritorna, perché altrimenti lo ammazza. Lui le crede, e poco dopo è di nuovo per strada, e si chiede se ha poi dato il biberon al piccolo o se il latte è ancora sul fornello. Passa davanti al bar del vecchio quartiere ed è tentato di entrare ma decide di avere avuto già tanti guai quanti ne bastano per un’intera vita e sta per proseguire quando viene intercettato dall’energumeno che lo aveva picchiato e che ora gli offre un sigaro perché è appena diventato padre e lo trascina nel bar per festeggiare l’evento con un cicchetto, o meglio svariati cicchetti, lui ha perso il conto. In ogni caso i festeggiamenti sono già finiti e il neo padre, che ha sposato la stessa donna che ha buttato lui fuori di casa, piange sulla sua birra le miserie della vita matrimoniale e si congratula con lui perché ne è uscito, che uomo fortunato. Lui però non si sente affatto fortunato, soprattutto quando vede una donna giovane seduta vicino a loro, che ha l’aria di essere brava a letto, e decide di proporle di andare da lei ma è troppo tardi: lei sta uscendo dal bar con il tipo che lo ha picchiato e che gli ha rubato la moglie. E a quel punto lui si fa un’altra birra, e si chiede dove andare a vivere adesso, e rendendosi conto – è il barista che glielo dice, allungandogli un’altra birra gratis – che la vita è breve e brutale e che prima ancora di rendersene conto uno è già bello che morto. Il barista ha ragione. Dopo qualche altra birra, e qualche altro orgasmo, alcuni li ricorda vagamente, la maggior parte no, uno dei suoi figli, ora pilota di macchine da corsa e presidente della stessa società per la quale lui lavorava un tempo, viene a trovarlo mentre è sul letto di morte e, scusandosi per il notevole ritardo (Sono andato a farmi una birra, papà, sai come vanno queste cose), gli dice che sentirà la sua mancanza ma che probabilmente è meglio così. Perché è meglio così? chiede lui, ma suo figlio se n’è andato, ammesso che sia mai venuto davvero. Be’... sa... la vita, dice lui all’infermiera che è venuta per coprirgli il viso col lenzuolo e a portarlo via sul letto a rotelle.

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Il futuro promette bene, di Lesley Nneka Arimah

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Premiato con il Kirkus Prize, il New York Public Library’s Young Lions Award e il Commonwealth Short Story Prize per l’Africa, Quando un uomo cade dal cielo, di Lesley Nneka Arimah, è una raccolta di storie che spazia dal realismo al racconto fantastico, tutte legate dallo stesso filo: le loro protagoniste femminili. La scrittura di Lesley Nneka Aarimah, la sua capacità di fissare con poche parole un momento decisivo, di descrivere i sentimenti con grande lucidità, sono la chiave di un talento che ha ancora molto da dire.

Cattedrale vi propone il racconto che apre la raccolta, per gentile concessione dell’editore e The Italian Literary Agency.

Il futuro promette bene

Ezinma traffica con le chiavi nella serratura e non vede cosa le arriva alle spalle: suo padre quando era ancora un bambinetto adorabile, lì a contendersi l’amore della propria madre. La nonna, riempita di lavoro fino al collo da donne a cui spolverava la casa, lavava la biancheria, puliva il culo dei figli; riempita di lavoro da un marito che voleva molti figli maschi, e dagli uomini con cui lei si intratteneva per farli; una donna che vigila sul figlio fino ai suoi tredici anni con la precisione di un’infermiera e che poi muore nel suo letto con un lungo, esausto sospiro. Qualche tempo dopo la matrigna guarda il ragazzino come si guarderebbe un cane randagio che si presenta alla porta abbastanza spesso da riconoscerne il muso, ma dio la fulmini se lo farà entrare in casa. Danzano l’uno attorno all’altra, il bambino avanzando determinato a passo di valzer, la donna allontanandosi con piroette. È la maggiore di troppi figli e sa quanto i bisogni di un bambino possano prosciugare i sogni di una ragazza. Il piccolo vede solo le sue spalle voltate, il rifiuto, mentre suo padre ignora la cosa, accecato dalla gioia di essere un uomo vecchio con una moglie giovane e ancora fertile. Non la vuole condividere con nessuno. E quando il ragazzino ha quindici anni e tornando dal mercato trova tutte le sue cose in due buste di plastica sui gradini di casa, non bussa nemmeno per scoprire il perché o per chiedere dove dovrebbe andare, ma insieme ad altri senzamadre occupa un bungalow costruito a metà e abbandonato, dove gli vengono rubate le sue due camicie migliori e impara a portarsi sempre dietro tutti i suoi soldi. Mendica, vende rottami di ferro, ruba, e questa terza cosa gli riesce così facile che diventa la sua via di fuga. Inizia in piccolo, scippando borse e sgraffignando merce da banconi del mercato incustoditi. Poi impara a scassinare le serrature, a mettere in moto automobili senza la chiave, diventa sempre più bravo. Quando ha ventun anni, arriva la guerra, e mentre la gente festeggia nelle strade e urla «Biafra! Biafra!» lui inizia a fare scorte di beni. Quando in giro non c’è più niente, fa una fortuna. E quando anche il cibo comincia a scarseggiare, saccheggia le fattorie nel cuore della notte, che è come ha conosciuto sua moglie, e perché Ezinma, trafficando con le chiavi nella serratura, non vede cosa le arriva alle spalle: sua madre a ventidue anni, non proprio una bellezza ma con l’aspetto sano di una persona che non ha mai sofferto la fame. Una ragazza sfrontata che prende più di quello che le viene offerto. È il 1966, mesi prima che cambi tutto, la madre si trova a una festa a casa di amici dei suoi e c’è un uomo, la pelle gialla come un mango, la mascella squadrata e un fisico come la statua del David; le donne senza marito sfoderano tutte le loro armi (sorrisi seducenti, décolleté abbondanti, personalità servizievoli) e si battono per lui. Quando alla fine è lei a spuntarla, prende la vittoria come se le fosse dovuta. Quasi un anno dopo l’inizio del corteggiamento arriva la guerra. La famiglia di lei è leale alla repubblica del Biafra, quella di lui pensa che Ojukwu sia un pazzo. La sera della festa di fidanzamento ci sono solo i parenti della ragazza. E quando lei l’indomani va a trovarlo, scopre che lui ha lasciato il paese.
La famiglia di lei viene presto costretta a lasciare la città, presto costretta a barattare le cose che era riuscita a portare con sé, e infine costretta quasi a mendicare. Per la prima volta nella sua vita, il cibo scarseggia così tanto che di notte la giovane donna si intrufola di nascosto nelle fattorie e raccoglie furtivamente tenere piante di granturco non ancora cresciute del tutto. Bollite diventano così morbide che mangia sia la parte più interna sia le foglie esterne. Una sera s’imbatte in una piccola fattoria nascosta dietro una collina dove incontra un uomo che ruba patate dolci novelle che avrebbero potuto essere sue. Ma non c’è storia: lui è ben nutrito e forte, e anche se lei provasse a dare l’allarme per dispetto, lui riuscirebbe a zittirla. L’uomo però mette un dito sulle sue labbra e le dà una patata. Ed essendo quella che è, lei gli fa segno di dargliene due. Lui gliene passa un’altra e lei scappa via. Quando la sera successiva torna alla fattoria, lo trova ad aspettarla. Gli si siede accanto e ascoltano i grilli e i respiri uno dell’altra. Quando lui la cinge con un braccio, lei gli si appoggia contro e piange per la prima volta dalla festa di fidanzamento di molti mesi prima. Quando le mette una patata in grembo, lei ride. E quando le prende una mano, pensa: “Valgo tre patate dolci”. Avrà due figlie. La prima la chiama Biafra per sfida, come a dire: “Ecco, mamma, riponi le speranze in un’altra cosa fragile”. E alla seconda dà il nome di sua madre, che a quel punto è morta e non sa che sua figlia l’ha perdonata per avere scelto il lato perdente e ha chiamato la propria figlia più piccola Ezinma, che traffica con le chiavi nella serratura e non vede cosa le arriva alle spalle: sua sorella, che tutti hanno cominciato a chiamare Bibi, perché non ha senso chiamare una bambina come un paese che non esiste. Bibi, bella come sua madre non è mai stata. Bibi, testarda come sua madre è sempre stata. Litigano fin da quando era nel suo grembo e le pesava così tanto sulla cervice che un piccolo colpetto avrebbe potuto spingerla fuori. Costretta a letto, la madre ha finito per avercela con lei, scaldandosi così tanto che la bambina rischiava di bollirle in pancia. E tre anni dopo ecco arrivare Ezinma, carina, sì, ma così docile che non farebbe male a una mosca. È un fantasma di Bibi, più pallida nei toni e nella personalità, ma dolce come Bibi sa essere solo quando vuole qualcosa. Bibi la detesta. No, Ezinma non può giocare con i suoi giocattoli; no, Ezinma non può andare a piedi a scuola con Bibi e le sue amiche; no, Ezinma non può avere un assorbente vero, deve mettere insieme un po’ di fazzoletti di carta e gestirsela così. Ezinma cresce bramando l’affetto della sorella. Quando ha ventun anni e i suoi genitori sgobbano per pagarle le tasse universitarie, Bibi conosce Godwin, la pelle gialla e la mascella squadrata come il padre, e si innamora. Se ne innamora ancora di più quando la madre cerca di dissuaderla. E quando la madre insiste, dicendo «Non conosci la sua famiglia», Bibi risponde: «La conosco. Tu sei solo arrabbiata e amareggiata che ho un uomo migliore del tuo». Sua madre la schiaffeggia e il discorso si chiude così. Ezinma fa da intermediaria, ruolo a cui è costretta sin da quando era piccola, e informa Bibi di tutte le novità in famiglia, malgrado la richiesta della madre di essere esclusa dalla vita della figlia. E Godwin sa provvedere ai suoi bisogni meglio del padre, che adesso è un modesto commerciante. Le prende in affitto un appartamento. Le procura una macchina. La acceca con una costellazione di regali, cose che lei non ha mai avuto prima. Ma l’unica volta in cui Bibi prova a parlare di matrimonio, lui esce di casa e lei non riesce a rintracciarlo per dodici giorni. Dodici giorni in cui Bibi deve ricorrere ai risparmi in banca; dodici giorni in cui se ne sta seduta nell’appartamento intestato a lui, guida l’auto intestata sempre a lui, e si chiede cosa ci sia di tanto prezioso in quel suo cognome da non volerlo condividere con lei. E quando alla fine Godwin ritorna e la vede fare le valigie, la afferra per i capelli, glieli tira urlando che anche quelli sono suoi, e lei viene colpita... da un pugno, sì, ma anche dall’intuizione che forse doveva dar retta alla madre. Ritrovarsi non è dolce. L’occhio destro di Bibi è quasi chiuso dal gonfiore, la bocca della madre resta sigillata: non si guardano, non si parlano. Il padre, che non riesce a sopportare la tensione tra loro, ripensando alla propria infanzia turbolenta, stringe le spalle di Bibi, poi va via, ed è quella fugace stretta che la fa piangere. Dopo un attimo singhiozza mentre la madre è ancora impenetrabile, anche se è un viso bagnato dalle lacrime quello che volge dall’altra parte perché nessuno possa vederlo. Ezinma porta Bibi al gabinetto, lo stesso che hanno condiviso e si sono litigate fino a essere grandi a sufficienza da riuscire a parlare. La fa sedere sulla tavoletta del water e inizia a pulirle le ferite. Quando finisce, la sorella ha ancora un aspetto terribile. E quando Bibi si alza per esaminarsi il viso, si ritrovano entrambe davanti allo specchio. «Continuo a fare schifo» dice Bibi. «Mi sa di sì» risponde Ezinma, e scoppiano a ridere. E nel loro riflesso notano per la prima volta che hanno lo stesso identico sorriso. Come hanno fatto a non accorgersene prima? Nessuna delle due lo sa. Bibi è preoccupata perché le sue cose sono ancora nell’appartamento. Ezinma le dice di non preoccuparsi, andrà a prenderle lei. «Perché continui a essere così gentile con me?» domanda Bibi. «Abitudine» replica Ezinma. Bibi ci pensa per un istante e dice alla sorella una cosa che non le ha mai detto. «Grazie.» E così Ezinma traffica con le chiavi nella serratura e non vede cosa le arriva alle spalle: Godwin, cresciuto nella corrosiva indulgenza del padre. Godwin, così poco avvezzo a sentirsi dire di no che la cosa lo ferisce come un’ondata di acido, dissolvendo la patina di decenza tipica di chi ottiene sempre ciò che vuole. Godwin, che ha rotto il suo violoncello quando ha scoperto che il fratello minore sapeva suonarlo meglio di lui, che è il motivo per cui è finito qui, a guardare Ezinma – che da dietro somiglia così tanto alla sorella – mentre traffica con chiavi che non conosce nella serratura dell’appartamento di Bibi così da non vedere cosa le arriva alle spalle: Godwin, che con una pistola le spara.

Quando un uomo cade dal cielo
di Lesley Nneka Arimah
Pubblicato in accordo con The Italian Literary Agency
Titolo originale dell’opera: What it means when a man falls from the sky
© 2017 Lesley Nneka Arimah Copyright © 2019 Società Editrice Milanese 
www.semlibri.com

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