"Amami e poi lasciami", di Edwidge Danticat

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Dal 24 Settembre è in libreria La vita dentro, di Edwidge Danticat, pubblicato da Sem Editore. Una raccolta di racconti haitiani che ritrae le ferite di donne e uomini in fuga, sopravvissuti e superstiti, personaggi che portano piccole o grandi cicatrici da curare in un altrove salvifico. La diaspora haitiana a seguito della dittatura, è un sottofondo quasi invisibile, ma costante, che rende vivide le vicende più vicine alla nostra attualità: povertà, migrazione, disuguaglianza.

Cattedrale vi propone uno dei racconti per gentile concessione dell’editore.

“Amami e poi lasciami”

«Madame, hanno detto che sto per morire.»
Mélisande si era recata in una clinica del centro e si era sottoposta a un prelievo del sangue, solo per ricevere una possibile condanna a morte. Da un po’ di tempo soffriva di tosse, una tosse inizialmente leggera e discreta che si era fatta sempre più cavernosa, finché non ero stata costretta ad allontanare mio figlio Wesley, di appena undici mesi, dalle sue cure. Solo quando aveva avuto la febbre ed era diventata così lenta da non riuscire quasi a muoversi, si era finalmente decisa a rivolgersi a un medico. Ora singhiozzava sulla soglia di camera mia, il corpo sot- tile e piatto come lo stipite della porta. Sollevò la sottana di seta a fiori per asciugarsi le lacrime. Immediatamente rico- nobbi la gonna che un tempo era stata mia. L’avevo pagata sessanta dollari in un negozio di Miami quando frequen- tavo la scuola di specializzazione, dove avevo conosciuto mio marito, Xavier, un compatriota haitiano con cui ge- stivo un piccolo hotel, che era anche casa nostra, a Port-au- Prince. «Hai parlato con tua madre?» chiesi a Mélisande. Aveva ventuno, ventidue anni al massimo. La madre, Ba- bette, lavorava come cuoca nel nostro albergo. Mélisande era la tata di nostro figlio, e alloggiava con la madre in una stanza sul retro delle cucine. Non affidavo volentieri mio figlio ad altri, ma era evi- dente che Wesley adorava quella ragazza. Non appena lo avevo adagiato tra le sue braccia, Mélisande gli aveva strap- pato la risata più fragorosa che avesse mai fatto fino a quel momento. Forse l’attrazione che provava mio figlio era la stessa che provavo io: la faccia da folletto, la voce acuta, il passo blandamente incerto, come se temesse di toccare il suolo. Xavier pensava che Mélisande dovesse frequentare una scuola di ragioneria, imparare un mestiere quando non ba- dava a Wesley, ma non l’avevamo costretta a studiare e non avevamo mai insistito più di tanto. Durante il tempo libero, la vedevamo aiutare la madre in cucina. La vedevo anche scherzare con le nostre due cameriere quando, a volte, pu- liva la sala conferenze e le dodici camere insieme a loro. Aveva stretto un accordo con le cameriere: se le aiutava, quello che veniva lasciato nelle camere dovevano dividerlo con lei. A volte, oltre alle mance, le cameriere trovavano monili d’oro o d’argento – soprattutto orecchini spaiati e braccia- letti sottili – che io e mio marito facevamo di tutto per re- stituire, ma se nessuno ci rispondeva o li reclamava, dopo qualche mese permettevamo alle ragazze di venderli all’o- refice sulla strada, che li fondeva in altri gioielli da vendere agli ospiti. Quei soldi, Mélisande non li avrebbe guadagnati se fosse andata a scuola e non avesse lavorato per noi, ma l’istruzione avrebbe potuto esserle utile in futuro. E ora ri- schiava di non averlo, un futuro. «Entra e siediti» le dissi. Mi alzai dal letto e andai verso la porta. Ero ancora in camicia da notte. Wesley era in albergo con mio marito, che si trovava alla reception per accogliere cinque studenti universitari per le vacanze di primavera. Dall’albergo mio marito gestiva anche un’agenzia di viaggi. La clientela dei nostri tour guidati consisteva principalmente in figli di hai- tiani nati all’estero. Durante la giornata, Xavier li portava a visitare i monumenti e i siti storici. Di sera venivano ospitati dai nostri amici scrittori, artisti e musicisti, o cenavano con i bambini dell’orfanotrofio vicino. Un altro collega accom- pagnava gli ospiti fuori dalla capitale a visitare Jacmel, una cittadina della costa che un tempo era famosa come la Ri- viera di Haiti, Gonaïves, dove nel 1804 era stata dichiarata l’indipendenza di Haiti dalla Francia, e Citadelle Laferrière, una fortezza mozzafiato costruita dopo l’indipendenza. Il tour proposto da Xavier era anche un mezzo per il recluta- mento. Voleva incoraggiare quei giovani a tornare e a met- tere le proprie competenze al servizio del paese. Mélisande era impalpabile sotto le mie dita – come carta, stoffa o aria – mentre la conducevo verso la sedia a don- dolo accanto al letto. Scivolò sulla sedia dove avevo accata- stato alcuni cuscini. Posandole le braccia sulle spalle, perce- pii il calore della febbre persistente attraverso la maglietta bianca. «Cos’ha detto il dottore di preciso?» le domandai. «Ha detto» replicò seppellendo il viso tra le mani «che ho la SIDA. L’AIDS.» Inizialmente sospettavo una polmonite, una bronchite, ma niente di più grave. Quando Mélisande era tornata, ero pronta a rimproverarla per aver aspettato troppo a farsi visi- tare. Pensavo che al massimo avrebbe avuto bisogno di una cura antibiotica. «Anche se hai la SIDA,» le dissi «ora c’è una cura. Le per- sone vivono anni e anni.» Quel discorso innescò una nuova raffica di singulti. Le sue spalle sussultavano, e io iniziai a farmi prendere dal pa- nico. Wesley. Aveva toccato ogni singola parte del suo corpo, lo aveva lavato, asciugato, lo aveva baciato e coccolato. Si erano mai scambiati sangue incidentalmente? Avrei voluto lasciarla lì e correre oltre la piscina, il giardino di ibischi, i boschetti di alberi di fuoco, fino all’altra casa in stile ginger- bread, all’altro capo della proprietà, per trovare mio figlio. Come al solito Wesley si era svegliato prima di tutti noi, e mio marito lo aveva portato in ufficio con sé. Probabilmente stava giocando o gattonando sotto la scrivania mentre Xa- vier rispondeva al telefono. Mélisande stava ancora singhiozzando. Avremmo do- vuto sottoporre Wesley al test. E come avrei potuto perdo- narmi, se fosse stato contagiato? Decisi di lasciarla piangere. Di lasciarla sfogare prima di cercare una qualche soluzione. Alcune cliniche offrivano buone cure antiretrovirali. Certe lo facevano gratuitamente; altre invece esigevano l’adesione a progetti di ricerca e spe- rimentazione. La clinica a cui si era rivolta Mélisande offriva consulenza ma non cure a lungo termine. Avrei dovuto spronarla a rivolgersi al medico quando aveva iniziato a perdere peso. Avrei dovuto impedirle di amoreggiare più o meno apertamente con alcuni degli ospiti dell’albergo, già dalla sera stessa in cui il concierge aveva in- formato Xavier che a Mélisande piaceva cercare la compa- gnia di alcuni ospiti – quelli grassi, bianchi e affiliati a orga- nizzazioni non governative – che, siccome non sembravano aver mai saltato un pasto in vita loro, la ragazza credeva ric- chi. Non le importava se, per gran parte del tempo, non ca- piva cosa dicevano. Cercare di dare un senso alle loro parole era un gioco divertente per lei. Ripetendo alcune delle cose che dicevano, si illudeva di imparare l’inglese, lo spagnolo, il portoghese, il francese, il tedesco o qualsiasi altra lingua parlassero. Tuttavia, nel desiderio di rendere felici gli ospiti, il concierge notturno non l’aveva mai dissuasa. E comunque, il tempo che Mélisande trascorreva in compagnia di quegli uomini non gli sembrava mai sufficiente per un rapporto sessuale. Inoltre la ragazza viveva con la madre, che la sor- vegliava costantemente. Mélisande smise di piangere allorché parve aver finito le lacrime. Le venne il singhiozzo, che la costrinse ad agitare la testa avanti e indietro, vicino e lontano da me. «Dobbiamo trovare una clinica dove puoi ricevere un se- condo consulto» le suggerii. Mélisande alzò la testa e mi fulminò con lo sguardo, poi sgranò gli occhi, come se mi fosse spuntato sulla testa un al- veare o un nido d’uccello. Aveva gli occhi rossi come il fuoco, i capillari rotti quasi sovrastavano le iridi. «Mi hanno detto che non c’è cura» replicò lei. «Fammi parlare con mesye Xavier» le dissi. «Troveremo qualcuno che si occupi di te.» Non avevo idea di quale fosse la clinica migliore a Port-au-Prince, ma sapevo che Xavier sarebbe riuscito a sco- varla. Lui sapeva come procurarsi le informazioni, special- mente quando le cose prendevano una brutta piega. Il lavoro di una guida e di un albergatore consiste anche in questo. Se gli ospiti hanno fame, gli dai da mangiare. Se vogliono bere, li accontenti. Se vogliono essere lasciati in pace, ti fai vedere il meno possibile. Se vogliono compagnia, li intrattieni. Se hanno il cuore spezzato, gli procuri un nuovo amore. E se si ammalano, trovi il modo di curarli in fretta prima che tirino le cuoia sotto la tua responsabilità.

Wesley risultò negativo al test per l’HIV. Lo stesso medico canadese di Pétionville che aveva sottoposto lui e Mélisande, per la seconda volta, alle analisi fu anche quello che ci aiutò a trovare gli antiretrovirali di cui la ragazza aveva bisogno. La soluzione migliore, ci disse, era l’assunzione di una sola pa- stiglia che molti dei suoi pazienti avevano soprannominato la gwo blan, o la “biancona”. Sarebbe stato più semplice controllare che la paziente fosse ligia al dovere. Il medico si accorse subito che Mélisande non lo sarebbe stata. Innanzitutto negò di aver avuto rapporti sessuali e, siccome non si era iniettata con aghi ipodermici né era stata sottoposta a trasfusioni di sangue, non si poteva che concludere che stesse negando l’e- videnza. «Se nemmeno riconosci il modo in cui la malattia è en- trata nel tuo corpo, come puoi sperare di trovare la forza di combatterla?» chiese il dottore nel suo creolo dall’accento francese a Mélisande che, seduta davanti a lui, fissava la pa- rete tappezzata di diplomi con le palpebre a mezz’asta. Ma dopo che il medico ci ebbe fornito due mesi di cura dalla sua scorta personale – al prezzo di due dollari ameri- cani a pastiglia – Mélisande si rivelò più diligente di quanto ci aspettassimo. Per abituarla, le dissi di venire da me tutte le mattine per poter controllare che prendesse la pastiglia mentre facevamo colazione insieme, in genere a base di cibi solidi come platani e uova o spaghetti con l’aringa, per lei, e qualcosa di più leggero, tipo caffè e pane tostato, per me. La maggior parte delle volte mangiavamo sul patio di camera mia che si affacciava sulla piscina dell’albergo dove alcuni dei nostri ospiti già facevano la loro nuotata mattutina. Al- tre volte mangiavamo nella sala da pranzo dell’albergo, con Wesley sul seggiolone al mio fianco. Mélisande mise su peso, e ora i miei vecchi vestiti le sta- vano meglio. Piangeva meno, in parte forse perché sapeva che tutto il personale, inclusi i giardinieri e le guardie giu- rate, ci tenevano d’occhio. Ma quello che non faceva più era toccare mio figlio, che le tendeva le piccole braccia grassot- telle, distorcendo il faccino in una smorfia che si tramutava in dolore, e in pianto, quando lei lo ignorava o si voltava dall’altra parte. Dopo un po’ smisi di portare Wesley a colazione con noi. Era insopportabile per entrambi. Anche se ne avrei avuto sicuramente bisogno, non assunsi un’altra tata perché non vo- levo che Mélisande stesse peggio di quanto non si sentisse già. Invece chiesi a Xavier di darmi una mano quando non c’erano tour guidati, e mi portavo dietro Welsey dapper- tutto, spingendolo sul passeggino quando diventava troppo pesante. Quella settimana, tra gli ospiti più problematici c’era la coppia di sposini del posto che avevano trascorso quattro notti chiusi nella suite luna di miele pur avendola prenotata soltanto per due. E il senatore che aveva abbandonato casa sua per ragioni di sicurezza e adesso alloggiava in una delle camere accanto al gazebo. Mi imbattei nel senatore mentre correvo qua e là con We- sley, per dare una controllata frettolosa al giardino prima di fare colazione con Mélisande. L’uomo sedeva in piscina a leggere il giornale, con indosso solo il costume da bagno. Mi sorrise e mi fece l’occhiolino, come faceva sempre quando gli rammentavo il conto che doveva ancora saldare. C’era anche il vecchio gobbo, un filosofo francese che sosteneva di essere a Haiti per scrivere un libro sul paese, ma che non faceva al- tro che fumare e bere come una spugna per tutto il giorno. A tutti questi ospiti, e anche alla giornalista a cui dovevo ram- mentare che i soldi inviati dal suo giornale non erano mai arrivati, bisognava stare con il fiato sul collo. Molto più che a Mélisande, la quale ero convinta sarebbe stata in grado di assumere la terapia da sola. Ben presto smisi di fare colazione con lei e iniziai a mo- nitorare il suo comportamento nei confronti della madre, che dal giorno in cui aveva appreso della malattia della fi- glia aveva cominciato a chiamarla bouzen, “puttana”, anche se tutte le mattine interrompeva il lavoro per accertarsi che Mélisande avesse preso la pastiglia a colazione. Certe mattine le osservavo dal patio. Babette non era più alta di Mélisande, ma era robusta e grassoccia. Le vene del collo le pulsavano mentre inveiva contro la figlia, che pro- vava a mettere fine alla conversazione ingollando la pillola e poi dandosela a gambe. «Cosa farai quando mesye e madame smetteranno di pa- gare quelle pastiglie da cento gourde?» le strillava Babette come un sergente istruttore che tormenta una recluta. La sua paura era palpabile. La sopravvivenza della figlia ora di- pendeva da me e mio marito. Se avessimo deciso di vendere l’albergo e trasferirci altrove, le condizioni di Mélisande sa- rebbero peggiorate. E se le aziende farmaceutiche avessero smesso di produrre la medicina o di inviarla a Haiti? Se la catena che andava dalla creazione del farmaco alla nostra capacità di reperirlo si fosse spezzata in un punto qualsiasi, Babette avrebbe potuto perdere la figlia. Una mattina la udii chiedere a Mélisande, che stava prendendo la pillola: «E se gli stranieri, i blan, si tenessero il medikaman tutto per sé? E se mesye e madame lasciassero Haiti?». «Non avrai mai un bambino sano» le disse un altro giorno. «Non avrai mai un marito.» «Dovresti parlarle» mi suggerì Xavier un giorno, dopo aver origliato quei discorsi. Mio marito stava organizzando il pranzo per un gruppo di imprenditori locali che a volte usavano la sala conferenze dell’albergo per le loro assemblee. Si appuntava sul cellulare di ricordarsi di ordinare i vini, di avvisare lo chef e di elabo- rare un menu, tutto mentre parlava. «Non credo che a quella povera figliola faccia bene sen- tirsi dire certe cose» commentò Xavier. «Dove vuoi essere sepolta?» domandò Babette alla figlia poco dopo. «Meglio che tu cominci a mettere da parte i soldi se vuoi una bella bara.» A differenza di tutti noi, Babette non poteva permet- tersi il relativo ottimismo che a me e Xavier trasmettevano le pastiglie. Se Mélisande fosse stata figlia mia e non avessi avuto i soldi per comprarle una cura, avrei nutrito gli stessi timori.

L’indomani mattina chiesi di scambiare due parole con Ba- bette che, non appena chiusi la porta dell’ufficio di mio ma- rito, mi strinse la mano e disse: «Mèsi, mèsi. Grazie, madame, per non averla mandata via. Grazie per non averla lasciata morire». «Ci sono persone in tutto il mondo che prendono quelle medicine» esordii ritirando delicatamente la mano. «Inol- tre stai sprecando del tempo prezioso con tua figlia, tempo che potresti trascorrere come facevi prima. La aiuteresti molto di più se smettessi di insultarla e le dimostrassi il tuo amore.» «Il mio amore?» Si accigliò, indietreggiando da me. «Sì, il tuo amore» ripetei. Doveva esserle sembrato un or- dine. «Devi amarla» ribadii. Sapevo cosa le stava passando per la testa. Questi fore- stieri buoni a nulla, questi non più haitiani, quasi blan, pra- ticamente degli stranieri, questi dyaspora con le loro idee sdolcinate, perché riducono tutto a un solo genere d’amore, l’amore di cui parlano tutti, anziché quello che ti strazia il cuore? Questi dias-poracci, questi dyaspowa e dyasporèn, que- sti monarchi illuminati non sanno che ci sono molti altri modi per esprimere l’amore oltre a parlarne di continuo? «Certo che la amo» ribatté la donna allargando le brac- cia come a mostrare la portata del suo affetto. «Ecco perché sono così dura con lei.» Abbassò lo sguardo e chinò il capo, e parve vergognarsi del fatto che avessi avuto ragione di rimproverarla, del fatto che non aveva altra scelta che starsene lì e ingollare. «Eskize m. Scusami» le dissi. «Siamo madri tutt’e due. Ti capisco.»
Si guardò intorno nella stanza, le fotografie appese al muro, i ritratti dei parenti miei e di Xavier, a Haiti e all’e- stero. Guardò la decina e più di fotografie di Wesley che era al mondo da meno di un anno. Guardò le pareti come se sperasse di vedervi se stessa o Mélisande, ma nemmeno si stupì di non trovarvi nessuna delle due. «Lei è una madre che mantiene suo figlio, e anche la mia» disse Babette alzando gli occhi al soffitto imbiancato. «Non siamo uguali.» Io volevo il bene di Mélisande, replicai, così come lo de- siderava lei. In quel senso eravamo uguali. Sapevo di non averla convinta. Sapevo anche che dopo la nostra chiacchie- rata non ci sarebbero stati discorsi di scuse né abbracci di ri- conciliazione tra madre e figlia. L’indomani mattina mi affacciai dal patio con Wesley che saltellava nel box accanto a me e la vidi porgere in silenzio un bicchiere d’acqua a Mélisande. «Cosa diamine le hai detto?» domandò Xavier che era passato a fare un saluto a Wesley. «Lo sai...» risposi per fargli capire che non avevo voglia di parlarne.

Alla fine del secondo mese, quando Mélisande aveva bi- sogno di un’altra scorta di farmaci, il medico lasciò Haiti e tornò a Montréal. Mélisande non ebbe altra scelta che cer- carsi un altro dottore, un cubano stavolta, che le prescrisse un’altra batteria di analisi. Quando Mélisande fece ritorno con parecchie boccette di pastiglie, tra cui fitoterapici e vita- mine, compresi che qualsiasi illusione avesse mai nutrito di guarire era ormai svanita. La nuova terapia non faceva per lei. Mélisande aveva mal di stomaco, nausea e diarrea, e passava tutto il giorno a letto. Il suo corpo avrebbe impiegato del tempo ad abituarsi ai me- dicinali e agli integratori, disse il dottore cubano, ma aveva bisogno di entrambi, tanto degli antiretrovirali quanto dei rimedi naturali. Xavier fece qualche altra telefonata e le tro- vammo un altro medico, una dottoressa haitiana, per avere la conferma che Mélisande fosse curata nel modo giusto. Dopo che il medico l’ebbe visitata nella stanza dove al- loggiava con la madre, Mélisande disse che rivoleva la gwo blan, o la “biancona”. Mostrò le boccette che le aveva dato il medico canadese alla dottoressa haitiana che, non ap- pena lesse il nome del collega, fece schioccare la lingua ed esclamò: «Gesù, Giuseppe e Maria!». «Cosa c’è che non va?» chiesi dalla soglia, dove stazio- navo. A detta della dottoressa haitiana, quello che il medico canadese aveva prescritto a Mélisande era meno efficace di un’aspirina. Era una cura placebo. Non aveva alcun effetto. Anzi, avrebbe addirittura potuto indebolire il suo sistema immunitario. Il medico canadese che ci aveva prescritto e venduto le prime pillole era fuggito da Haiti perché era stato smascherato da alcuni colleghi che lo avevano denunciato al Ministero della Salute per aver venduto quei farmaci inutili a decine di pazienti ignari in tutta la città. Si dubitava perfino che fosse un vero medico. «Devi stare molto attenta» la dottoressa ammonì Méli- sande. Le prescrisse la gwo blan di nuovo, ma si racco- mandò affinché ci sincerassimo che fosse quella originale. A quella notizia il corpo di Mélisande sprofondò sotto le lenzuola. Aveva perso del tempo prezioso. «Quell’uomo ha giocato con la sua vita» mi disse la dot- toressa quando la accompagnai fuori dalla stanza. Méli- sande si voltò dall’altra parte, affondando il viso nel cuscino mentre chiudevo la porta.

Non avrei dovuto fidarmi del primo medico. Forse ero stata accecata dalla sua pelle bianca e da tutti i diplomi appesi al muro. Mi sarei fidata di lui se Mélisande fosse stata figlia mia? «Abbiamo fatto più del nostro dovere» affermò Xavier mentre si accordava per messaggio con un autista riguardo a una gita al MUPANAH, il museo nazionale, da organizzare in pochi giorni per un gruppo di studenti di storia dell’arte. «Come?» replicai. «Portandola da un ciarlatano?» «Ci abbiamo provato» disse lui. «Abbiamo fallito» lo corressi, gridando. «Abbiamo fatto tutto quello che avremmo fatto per We- sley» insisté lui. «Davvero?» Presi subito appuntamento per sottoporre nostro figlio a un secondo test.

Il pomeriggio, prima dell’appuntamento dal dottore per We- sley, la madre di Mélisande servì me e Xavier nel gazebo, mentre nostro figlio dormiva nel passeggino. Babette su- dava nell’uniforme azzurra. Aveva la testa avvolta in un fou- lard nero e, sebbene ultimamente lo portasse spesso, all’im- provviso quel velo mi parve un drappo funebre. «Siamo molto dispiaciuti» le disse Xavier. «Ma probabil- mente era già malata quando è arrivata da noi. Può essere successo anche quando era più giovane.» La donna servì il cibo in fretta, ci dette le spalle senza dire niente e si allontanò. Forse ci reputava disonesti come il medico ciarlatano, e adesso ci permettevamo addirittura di insultare sua figlia. Avrei dovuto chiederle scusa, dissi a Xavier dopo che se ne fu andata, garantirle che volevamo solo aiutare Méli- sande. Eravamo stati derubati con l’inganno, non solo dei nostri soldi ma anche delle nostre speranze. Mi alzai per andare a cercare la madre di Mélisande, ma Xavier mi afferrò la mano e mi tirò indietro. «Lascia stare» disse, ora davvero arrabbiato, non solo con il medico fasullo e la situazione nel suo complesso, ma an- che con Babette.

Alcuni giorni dopo mi recai nella loro stanza per vedere Mélisande e per informarla che anche il secondo test di We- sley era negativo. Lei era a letto e dormiva profondamente, e non si mosse quando entrai. Le treccine lunghe fino alla vita, fatte da poco, sembravano troppo voluminose per il suo viso e le si allargavano intorno alla testa come un nido di serpi in fuga. Il corpo dall’aspetto fragile, nudo tranne per un reggiseno nero e un paio di mutandine a pois, alla fine si sarebbe adattato completamente alla cura, ci aveva assicu- rato la dottoressa. Vedendola dormire, così serena e vulnerabile, special- mente con la bocca aperta, mi interrogai su quale fosse la sua volontà. I sintomi erano pressoché scomparsi per quasi due mesi quando aveva assunto la cura placebo. Pareva aver funzionato proprio perché lei ci credeva. Ora, però, c’era qualcosa di diverso nel suo viso. Non sembrava più giovane. Forse per via degli sbalzi di peso, adesso le erano spuntate persino le rughe, alcune in mezzo alle sopracciglia, altre in- torno alla bocca.

Una settimana dopo Mélisande si rimise in piedi. La notai un mattino, mentre io e Wesley facevamo colazione sul patio: era vestita di tutto punto e sedeva su una sdraio in piscina, lo sguardo fisso verso l’acqua. Si frugò in tasca ed estrasse un gioiello che si passò sulle linee del palmo. Quindi lo tenne stretto nel pugno prima di rimetterlo in tasca. Ripeté quei gesti un paio di volte, tirò fuori l’oggetto dalla tasca, lo guardò, lo ripose. A un certo punto notai che era un anello con una pietruzza scintillante che, nonostante le piccole di- mensioni, rifletteva la luce più di tutto il resto.
Portai Wesley alla piscina per salutarla. Aveva gli occhi chiusi e dovetti chiamarla per farle sapere che eravamo lì. Fu sorpresa di vederci. «Come stai?» le domandai mentre prendevamo posto sulla sdraio accanto. Mio figlio si precipitò verso l’oggetto scintillante che stava nella mano sinistra di Mélisande, ma lei ritrasse tutt’e due le mani e lo rimise in tasca. «Cos’è?» volli sapere. Probabilmente Mélisande si chiese da quanto tempo la stavo guardando mentre tirava fuori e metteva via il gioiello. Lentamente si frugò in tasca ed estrasse nuovamente l’a- nello. La fascetta era sottile come uno spaghetto, ma aveva, proprio come sospettavo, una piccola pietra trasparente che catturava la luce. Attratto dallo scintillio della pietra, Wesley allungò di nuovo la mano per prenderlo, ma Mélisande lo nascose come per proteggerlo. «Lo ha dimenticato uno degli ospiti?» le chiesi. Scosse la testa. «Allora te lo ha regalato qualcuno?» Annuì. «Un uomo?» Annuì di nuovo. «Te lo ha dato prima che ti ammalassi?» «Può darsi» rispose con un fil di voce tenendo lo sguardo puntato sul pugno richiuso intorno all’anello. «Aveva detto che ti voleva sposare?» Non rispose. Sì, le aveva detto che voleva sposarla, immaginai, poi era tornato alla sua vita, da sua moglie, o da qualsiasi persona a cui fosse davvero legato, e non aveva più fatto ritorno. L’anello era una patacca, naturalmente, uno dei gioielli di krizokal realizzati dall’orefice più avanti sulla strada. Ne avevo visti moltissimi alle dita delle ragazze che venivano a bere al bar dell’albergo per abbordare gli ospiti stranieri o locali, ospiti che sostenevano di amarle e regalavano loro un anellino uguale a quello, a pegno della propria fedeltà, e poi le abbandonavano, lasciandole appese a qualche vuota promessa, per non tornare mai più. Dalle nostre parti quel genere di anello aveva persino un nome. Li chiamavamo le fedi nuziali di Port-au-Prince, o gli anelli renmen n, kite m, “amami e poi lasciami”. «Mélisande» ripresi cercando le parole giuste per dirle, o meglio per ricordarle che quell’anello era come le pastiglie che aveva assunto all’inizio. Non c’era verità, magia o potere di guarigione in quell’oggetto. Il viso emaciato e gli occhi arrossati indicavano che già lo sapeva. «M konnen,» disse «lo so» agitando la mano ossuta per farmi capire che non voleva parlarne più.

Per gentile concessione di Societè Editrice Milanese e The Marsh Agency

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