Dall’8 Ottobre è in libreria La legge della vita, di Jack London, pubblicato da Ortica Editrice.
L’ambiente dei territori di frontiera, primitivi e remoti, consente a London di sottolineare la brutalità della Natura, vera protagonista dei suoi racconti, e come essa venga accettata pacificamente. Era la legge della vita, ed era giusta. Egli era nato vicino alla terra, era vissuto, e la legge perciò non gli era nuova. Era la legge di tutti gli animali. La natura non è buona col singolo. Non si preoccupa dell’essere chiamato individuo. Terribili corse verso improbabili salvezze, in luoghi dove la natura conserva rare tracce umane; il contrasto del mondo dei bianchi con quello dei nativi e la reciproca inspiegabilità; luoghi che lasciano intravedere le forze che regolano il rapporto dell’uomo con i suoi simili e con la natura in cui la posta in gioco è sempre altissima, la vita.
Cattedrale pubblica il racconto che apre la raccolta, per gentile concessione dell’editore.
La legge della vita
Il vecchio Koskoosh ascoltava avidamente. Benché la sua vista fosse scomparsa da tempo, l’udito era ancora buono, e il suono leggerissimo penetrava fin nella vaga intelligenza che dimorava ancora dietro la fronte rugosa, ma che non contemplava più le cose concrete del mondo. Ah! Il rumore era prodotto da Sit-cum-to-ha, che ingiuriava i cani, mentre li costringeva a forza di scapaccioni sotto la bardatura. Sit-cum-to-ha era la figlia di sua figlia, ma in quel momento era troppo occupata per dedicare un pensiero al misero nonno seduto solo lì nella neve, abbandonato e disperato. Bisognava disfare il campo. La lunga pista attendeva, mentre il breve giorno si rifiutava di attendere. La ragazza sentiva il richiamo della vita, non della morte. E il vecchio era ormai prossimo alla morte.
A questo pensiero, il panico invase per un momento Koskoosh, che tese le mani paralizzate, tastando con gesti tremanti la piccola catasta di legna secca che aveva accanto. Rassicurato che il combustibile fosse veramente lì, la mano si ritirò al riparo delle pellicce spelate, ed egli si mise ad ascoltare. Il cupo crepitare delle pelli a metà gelate, gli disse che avevano smontata la capanna del capo, e che ne ripiegavano i vari pezzi per renderla trasportabile. Il capo era suo figlio, forte e robusto, condottiero della tribù e gran cacciatore. Mentre le donne faticavano col bagaglio del campo, la sua voce si levò sgridandole per la loro lentezza. Il vecchio Koskoosh tese l’orecchio. Era l’ultima volta che avrebbe udita quella voce. Ecco che se ne andava la capanna di Geehow! E quella di Tusken! Sette, otto, nove; restava solo quella dello shaman. Ecco! Erano ormai al lavoro su essa. Il vecchio udiva lo shaman grugnire, mentre ammucchiava le pelli sulla slitta. Un bambino piagnucolò e una donna lo calmò con voce gutturale. Il piccolo Kootee, pensò il vecchio, un bambino scontroso e non troppo robusto. Sarebbe morto ben presto, forse, e gli avrebbero scavato una buca nella terra gelata, e vi avrebbero ammucchiato sopra delle rocce per proteggerlo dagli animali.
Ebbene, che importava? Era il destino di tutti: un po’ di anni trascorsi a ventre vuoto, qualche altro a ventre pieno, poi la fine... La morte, più affamata di tutti, non mancava mai di visitare la tribù.
Che era questo? Oh, gli uomini che legavano le slitte e stringevano le cinghie. Il vecchio ascoltò: il vecchio che non avrebbe più ascoltato. Le fruste schioccarono e morsero i cani. Uditeli mugolare! Come odiano la fatica e la pista! Eccoli partiti! Le slitte si allontanarono l’una dopo l’altra, svanendo nel silenzio. Erano partiti. Erano usciti dalla sua vita, ed egli affrontava da solo l’ultima ora amara. No. La neve scricchiolava sotto un paio di mocassini; un uomo si teneva accanto a lui; sulla sua testa una mano si appoggiava dolcemente. Suo figlio era buono, per compiere quell’atto. Il vecchio rammentò gli altri, i cui figli non avevano atteso, dopo che la tribù era partita. Ma suo figlio aveva atteso. La sua mente si smarrì nel passato finché la voce del giovane la riportò al presente.
— Hai tutto quel che ti occorre? – domandò.
E il vecchio rispose: — Tutto.
— Hai accanto una catasta di legna – continuò il giovane – e il fuoco arde brillantemente. La mattina è grigia e il freddo è venuto. Nevicherà fra breve. Comincia già a nevicare.
— Sì, comincia già a nevicare.
— Gli uomini della tribù hanno fretta. Le loro balle sono pesanti, il loro ventre è piatto per mancanza di cibo. La pista è lunga ed essi viaggiano rapidamente. Devo andarmene, ora. Va bene?
— Va bene. Sono come una foglia dell’anno scorso, attaccata leggermente per il gambo. Il primo alito di vento e cade. La mia voce è divenuta come quella d’una vecchia. Gli occhi non mi mostrano più il cammino e i piedi sono pesanti ed io sono stanco. Va bene.
Curvò la testa tranquillamente, finché gli ultimi scricchiolii della neve si spensero in lontananza, ed egli comprese che il figlio non era più a portata di voce. La sua mano si portò in fretta alla legna. Solo questa si trovava fra lui e l’eternità. Rappresentava la misura della sua vita. Una manciata di fascine. Una dopo l’altra, sarebbero andate ad alimentare il fuoco; e proprio così, passo per passo, la morte si sarebbe avvicinata a lui. Quando l’ultimo pezzo di legna avesse ceduto il suo calore, il gelo avrebbe cominciato ad acquistar forza. Prima i piedi, poi le mani; e poi l’assideramento si sarebbe insinuato piano piano dalle estremità al corpo. La testa gli sarebbe caduta avanti sulle ginocchia, e allora avrebbe trovato il riposo. Era facile. Tutti devono morire.
Non si lamentava. Era la legge della vita, ed era giusta. Egli era nato vicino alla terra, era vissuto, e la legge perciò non gli era nuova. Era la legge di tutti gli animali. La natura non è buona col singolo. Non si preoccupa dell’essere concreto chiamato individuo. Il suo interesse è riposto nella specie, nella razza. Questa era la più profonda astrazione di cui fosse capace la mente barbara di Koskoosh, ma la comprendeva bene. Vedeva in tutta la vita l’esempio di quella legge. Il sollevarsi della linfa, lo sbocciare dei bottoni verdi, la caduta delle foglie gialle: bastava questo a dire l’intera storia. Ma un compito la natura assegnava all’individuo. Se egli non l’adempiva, veniva a morte. Se l’adempiva era lo stesso: moriva. La natura non se ne curava; erano tanti gli obbedienti, e quello che importava era l’obbedienza. La tribù di Koskoosh era antichissima. I vecchi che egli aveva conosciuto da ragazzo avevano conosciuto a loro volta dei vecchi prima di loro. Perciò era vero che la tribù viveva, che esisteva per l’obbedienza di tutti i suoi membri, su su fino al passato dimenticato. Ma i singoli non contavano; erano semplici episodi. Erano scomparsi come nuvole in un cielo estivo. Anche lui era un episodio e sarebbe scomparso. La natura non se ne curava. La vita assegnava un solo compito, dava una sola legge: perpetuare era il compito della vita, la sua legge era la morte. Adempiuto il compito l’individuo, al primo periodo di carestia o alla prima pista difficile, sarebbe stato abbandonato, come avevano abbandonato lui nella neve, con una catasta di legna accanto. Tale era la legge.
Depose accuratamente un ramo sul fuoco e riprese la sua meditazione. Era lo stesso dappertutto, in tutte le cose. Le zanzare sparivano ai primi geli. I piccoli scoiattoli andavano a nascondersi per morire. Quando invecchiava, il coniglio diveniva lento e pesante, e non poteva più vincere i nemici nella corsa. Anche il grande orso diveniva incerto e cieco e irritabile, per essere abbattuto alla fine da un branco di cagnetti ululanti. Rammentava come lui stesso aveva abbandonato il padre un inverno, sul corso superiore del Klondike: l’inverno prima che il missionario venisse col libro di preghiere e la cassetta delle medicine. Molte volte Koskoosh s’era leccato le labbra al ricordo di quella cassetta. L’«ammazzadolori» era stato specialmente gradevole. Ma il missionario era un peso, dopo tutto, perché non portava carne al campo, e mangiava abbondantemente, e i cacciatori brontolavano. Ma si gelò i polmoni sulle montagne del Mayo, e qualche tempo dopo i cani ficcarono il naso fra le pietre e trovarono le sue ossa.
Koskoosh mise un altro ramo sul fuoco e tornò al passato. Era stata l’epoca della Grande Fame, quando i vecchi si accoccolavano col ventre vuoto intorno al fuoco, e rammentavano le vaghe leggende dei giorni antichi, allorché lo Yukon scorse libero per tre inverni e poi restò gelato per tre estati di seguito. In quella carestia egli aveva perduta la madre. Il passaggio del salmone era venuto meno nell’estate, e la tribù aveva atteso l’inverno sperando nel caribu. Poi venne l’inverno ma i caribu non apparvero. Non s’era mai visto nulla di simile, ricordavano i più vecchi. Ma i caribu non vennero, e giunse il settimo anno, e i conigli non s’erano riprodotti, e i cani non erano altro che mucchi di ossa. E durante le lunghe tenebre i bambini gemevano e morivano, e morivano le donne e i vecchi; e neppure uno su dieci della tribù sopravvisse per vedere il sole, quando esso ritornò nella primavera. Che grande carestia!
Ma egli aveva veduto anche tempi di abbondanza, quando la carne si sciupava e i cani erano grassi e incapaci di lavorare per la supernutrizione: tempi quando lasciavano passare indisturbata la selvaggina e le donne erano feconde e le capanne riboccavano di bambini. Allora fu che gli uomini divennero sdegnosi, e ravvivarono antiche lotte, e attraversarono le montagne a sud per uccidere i Pelly, e ad ovest per sedere accanto ai fuochi spenti del Tanana. Rammentava da ragazzo un’epoca di abbondanza, quando vide un alce abbattuto dai lupi. Zing-ha era disteso con lui nella neve e guardava; Zing-ha che più tardi divenne il più esperto dei cacciatori, e che alla fine cadde in una tasca d’aria sullo Yukon gelato. Lo trovarono un mese dopo, irrigidito dal ghiaccio nella posizione in cui era restato, mentre tentava di uscir fuori dalla buca.
Ma la sua mente tornò all’alce. Zing-ha e lui erano usciti quel giorno per giocare alla caccia, imitando i loro padri. Sul letto del fiume rilevarono le tracce fresche di un alce, e con esse le tracce di molti lupi.
— Un vecchio animale – disse Zing-ha che era pronto a leggere i segni. – Un vecchio che non riesce a seguire il suo branco. I lupi l’hanno tagliato fuori e non lo lasceranno più.
E fu così! Era la maniera dei lupi. Di giorno e di notte, mai riposandosi, ringhiando ai suoi talloni, saltandogli sotto il naso, gli restarono accanto sino alla fine. Come i due ragazzi avevano sentito accendersi la sete del sangue! La fine doveva essere uno spettacolo da vedersi!
Coi piedi doloranti, seguirono la pista, che anche lui Koskoosh, lento di vista o poco esperto, avrebbe potuto seguire alla cieca, tanto era larga. Sapevano di trovarsi vicinissimi alla caccia, leggendo in ogni passo la truce tragedia scritta di fresco sulla neve. Giunsero al punto dove l’alce aveva affrontato gli assalitori. In lungo e in largo in ogni direzione, la neve era calpestata e sconvolta. In mezzo erano le profonde impressioni della selvaggina dagli zoccoli spaccati, e tutt’intorno, dovunque, si vedevano le orme più leggere dei lupi. Alcuni, mentre i loro fratelli assalivano per uccidere, s’erano distesi su un fianco per riposarsi. Le lunghe impronte dei loro corpi sulla neve erano perfette come se le avessero lasciate un momento prima. Un lupo era stato abbattuto dalla vittima impazzita e calpestato a morte.
E poi giunsero al punto dove l’alce si era trovato davanti a un argine, che doveva superare per guadagnare la foresta. Ma ora i suoi nemici l’avevano assalito alle spalle, finché egli aveva dovuto indietreggiare, cadendo su loro e schiacciandone due. Era chiaro che la fine era imminente, perché i lupi avevano lasciati intatti i loro fratelli caduti. Due altri combattimenti erano seguiti, rapidi e in breve successione. La pista era rossa e il passo deciso della grande bestia era divenuto incerto e irregolare. Allora udirono i primi suoni della battaglia: non il coro pieno della caccia, ma i latrati brevi e ringhiosi, che parlavano d’una lotta corpo a corpo e dei denti affondati nella carne. Poiché si trovavano sottovento, Zing-ha strisciò nella neve, e con lui si trascinò Koskoosh, che negli anni a venire doveva essere il capo della tribù. Insieme scostarono i rami inferiori d’un giovane abete e guardarono davanti a loro. Assistettero alla fine.
Il quadro, come tutte le impressioni dei giovani, era ancora forte in lui, e i suoi occhi rividero la fine selvaggia e violenta, come l’avevano contemplata in quei giorni antichi. Koskoosh si meravigliò di questa nettezza di ricordo, perché nei giorni che seguirono, quando egli era capo di uomini, aveva compiuto delle grandi gesta, e aveva fatto maledire il suo nome dai Pelly, per non dir nulla dei bianchi che aveva ucciso coltello a coltello, in aperto combattimento.
Meditò a lungo sui giorni della sua giovinezza, finché il fuoco si abbassò e il gelo cominciò a morderlo. Lo ravvivò questa volta con due ramoscelli, e fece il conto della vita che gli restava. Se Sit-cum-to-ha avesse solo pensato al nonno, raccogliendo una bracciata più grande, le sue ore sarebbero state più lunghe. Sarebbe stato facile, allora. Ma ella era stata sempre una ragazza incurante e non onorava l’antenato, dall’epoca che il Castoro, figlio del figlio di Zing-ha, aveva gettato per la prima volta gli occhi su lei. Ebbene, che importava? Non aveva egli fatto lo stesso nella sua viva giovinezza? Per qualche tempo ascoltò in silenzio.
Tese l’orecchio. Non un movimento, nulla. Lui solo esisteva in mezzo al vasto silenzio! Ascolta! Che cos’era? Un brivido gli attraversò il corpo. Il lungo urlo familiare ruppe l’incantesimo del silenzio: era vicinissimo. Allora ai suoi occhi annebbiati apparve la visione dell’alce: i fianchi laceri e sanguinanti, la criniera arruffata e le grandi corna ramificate cadenti al suolo, alla fine. Vide le forme grige che si avventavano, gli occhi lampeggianti, le lingue rosse, le zanne coperte di bava. E vide il cerchio inesorabile serrarsi, finché diveniva un’unica macchia nera in mezzo alla neve calpestata.
Un muso freddo gli si appoggiò alla guancia, e a questo contatto l’anima del vecchio tornò al presente con un balzo. La sua mano corse al fuoco e trasse una fascina fiammeggiante. Sopraffatto dalla paura ereditaria dell’uomo, il bruto si ritirò, lanciando un grido prolungato ai fratelli; ed essi gli risposero prontamente, finché un cerchio di forme grige si formò intorno. Il vecchio ascoltava il serrarsi di questo cerchio. Agitò selvaggiamente il suo ramo, e gli sbuffi si trasformarono in ringhi; ma gli animali ansanti si rifiutarono di disperdersi. Ora uno strisciava avanti, ora un altro, ora un terzo; ma nessuno si ritirava d’un pollice. Perché aggrapparsi alla vita? si domandò il vecchio, lasciando cadere nella neve il ramo fiammeggiante. Questo sibilò e si spense. Il cerchio grugnì, inquieto, ma restò immobile. Koskoosh rivide l’ultima battaglia del vecchio alce, e lasciò cadere con aria stanca la testa sulle ginocchia. Che importava dopo tutto? Non era la legge della vita?