di Teresa Ciabatti
La prima volta che mi sono sentita vecchia è stata al Pronto Soccorso, quando il medico visitando mia figlia rivolto agli infermieri ha detto: una sedia per la signora.
Mia figlia ha dieci anni, undici per l’esattezza, ma io continuo a dire dieci, sarà che non mi sono abituata. Sarà che mi sembra ieri che nasceva e non sapevo come disporre di quel corpicino - tra le braccia, stretto al petto.
Per questioni di pandemia sono dovuta venire in ospedale da sola, mentre prima, nelle situazioni difficili, c’è sempre stato un adulto con me. Non guido, non ho un conto in banca personale. Rifiutare l’indipendenza significa vincere sul tempo, sottrarre ogni occasione alla responsabilità è un guadagno di giovinezza.
Immaginate due figure che corrono su un prato, una è mia figlia, l’altra sono io. Da lontano non c’è differenza. Da lontano due amiche; eccole buttarsi sull’erba, rotolarsi, ecco la piccola prodursi in una sequenza di ruote, oplà.
Ora avviciniamoci. Più vicini, oggi.
Il medico chiede la sedia per la signora e annuncia che la bambina si è rotta i legamenti crociati, va operata. Tutte quelle capriole - dico a mia figlia con senso di rivalsa (sull’elasticità e sugli anni che ci separano). Se fossi meno scalmanata - infierisco nel corridoio, spingendo la sedia a rotelle fino alla nostra stanza, con l’infermiere che apre la porta e ci fa sfilare davanti alle ricoverate, tre più rispettive mamme.
Nel primo letto una tredicenne operata alla schiena in seguito a una caduta da cavallo, racconta la madre. Negli altri, due bambine che devono operarsi ai piedi. “Ai piedi?” - chiacchieriamo - “piedi piatti”. “Ormai è un intervento di routine”. “Inseriscono le viti” - la mamma del letto 2, che, a occhio, oltre le mascherine dovrebbe essere la più anziana fra noi. Lei o forse io. L’ipotesi formulata alla luce, diventa certezza al buio: una mamma e una figlia arrivano a occupare il letto libero (la caduta da cavallo dimessa). Nell’oscurità della notte le sento agitarsi, sento la donna dire sveglia la signora, e la signora sarei io. Dall’istante in cui ho messo piede in ospedale mi sono trasformata in signora.
Signora, signora - chiama la bambina – è pieno di formiche, aiuto.
A questo punto sono tutte sveglie, sagome impettite su letti e poltrone (le mamme), testoline rivolte a me, all’adulto che deve risolvere il problema. Giù le mascherine, è evidente che la più vecchia sia io. Eppure vorrei dire non fidatevi, o almeno: datemi tempo. In un passato troppo recente ero io a chiedere aiuto, la scorsa estate, quattro estati fa: trovando nella tazza del bagno un pipistrello
A me l’unico ardire di abbassare la tavoletta perché non ci volasse addosso, nei capelli, a impigliarsi nei nostri capelli che avremmo dovuto tagliare, rimedio estremo per liberarci dell’animale (l’uomo di casa ci dirà che trattasi di leggenda, i pipistrelli volano verso la luce. Ehi – replico io a nome di tutte - sicuro che i nostri capelli biondi non valgano da luce?)
Nel bagno della casa di campagna si perpetua l’adolescenza indomita, istintiva, libera, scapestrata: io che dopo l’ispezione dell’uomo - è un pipistrello neonato, dice osservando il fondo della tazza - io fanciulla che scatto in avanti e tiro lo sciacquone, con mia figlia di sette anni ad applaudire. Il pipistrello precipita.
Che hai fatto - s’innervosisce lui - che senso ha ammazzare un animale che non nuoce.
Sbuffo, non tollero gli animalisti. Non è questione di animalisti - ribatte lui.
Ma io ho già smesso di ascoltare, fuori dal bagno, lungo il patio programmo la giornata, andiamo a raccogliere lavanda.
Esitando brevemente: dall’infanzia a oggi quanti esseri viventi ho ucciso? Direttamente o indirettamente a quante esistenze hai messo fine tu, ragazza?
È questa la domanda che risuona mentre raccolgo ciuffi di lavanda, e dopo, la sera, impedendomi di prendere sonno, la domanda che riemerge e riecheggia come voce lontana di donna - forse mia madre: quante creature hai ucciso nella tua lunga vita?
Contiamo: lucertole, un criceto messo appositamente sul davanzale della finestra, un coniglio nano dato via (liberarsene valeva da morte). Lucertole, criceto, coniglio, bambino.
Succedeva che a 16/17 anni rimanessimo incinte. Succedeva che non lo rivelassimo alle madri bigotte, e sbrogliassimo la questione tra noi, succedeva che mentre una piangeva l’altra - in genere io - consolava: in un attimo ti togli il pensiero, cinque secondi di dolore e fine. Sai che facciamo dopo? Ragionando: non puoi crescere un bambino ora. Siamo giovani, troppo giovani.
E parlo al plurale perché ogni gesto compiuto da una di noi era comune. Così gli aborti, sebbene io non abbia mai oltrepassato la porta chiusa, sempre fuori in attesa (ma qui è come i capelli biondi: sicuri che non valgano da luce?).
E dunque noi, generazione di ragazze che ha deciso di essere madre tardi; noi, a lungo indomite, istintive, libere, scapestrate persino nel tempo della maternità; generazione di non animaliste (ricordate le pelliccette rosa che tanto abbiamo desiderato? No, non erano sintetiche - volpe colorata, come i pulcini verdi venduti a gruppi di sette/otto nei mercati, e noi a piangere li voglio). Ebbene noi, adolescenti per un tempo lunghissimo diventiamo vecchie all’improvviso, in un giorno che per me è stanotte - stanza di ospedale, formiche, sette testoline nella penombra che aspettano la soluzione da me. Chi sono io, una persona grande, il capitano capace di condurvi fuori dalla tempesta di formiche. Ne rintraccio il tragitto, la scia nera che si allunga sul muro, e su su, fino al buco del termosifone, l’origine.
Cosa sono in grado di fare io che non guido, non ho un conto in banca personale.
Che esperienza ho di formiche, se non quelle dei libri. Tornano le formiche dei libri d’infanzia.
"Se lui ci avesse parlato di formiche (...) noi avremmo pensato di trovarci contro un nemico concreto, numerabile, con un corpo, un peso. (…) Creature di quelle che si possono toccare, smuovere, come i gatti, i conigli. Qui avevamo di fronte un nemico come la nebbia o la sabbia, contro cui la forza non vale”*
Poco importa dirvi come sia proseguita la notte, se io sia uscita nel corridoio alzando la voce, svegliando l’intero reparto, se abbia richiesto una disinfestazione, un intervento immediato, se mi sia mostrata rispettabile o ridicola.
In questa storia conta lo stato del nemico - nebbia, sabbia.
La nebbia e la sabbia che siamo state noi, adolescenti con la libertà di amare rischiando di rimanere incinta, insieme all’autonomia di decidere cosa diventare, quanta vita goderci, tantissima. E adesso che la giovinezza è passata, adesso che sono vecchia, vorrei trovare un modo di combattere senza uccidere.
Credo sia questo invecchiare: sussultare, gioire, maledire, precipitare in prima persona.
Così stanotte, non per esperienza, né per capacità di accudimento, io sono la nonna. La madre al quadrato di tutte le creature nella stanza, e oltre. Attraversando le pareti, oltrepassando ortopedia. Cardiologia, ginecologia, reparto neonatale col soffitto coibentato di un materialo argentato come carta regalo.
Questo intendo col termine nonna, la coscienza di maternità dilatata, il sentimento universale che si estende e prende il sopravvento sul diritto (diritto di abortire che pure difenderemo a oltranza), questo sentimento disgiunto dal diritto che volteggia, palpita di stanza in stanza.
E allora ragazza - risuona la voce di donna - in tutta coscienza, metteresti ancora fine alla vita di un essere vivente, lucertola o criceto? - dice la voce di adulta che è la mia. Tu, donna di mezza età - prosegue la voce - nonna, seppur tenacemente indomita, istintiva, libera, scapestrata, quello che sei stata un tempo sommato a quello che sei oggi, tireresti di nuovo lo sciacquone?
*La formica argentina – Italo Calvino