Madre delle ossa, opera narrativa d’esordio del drammaturgo David Demchuk, è un’antologia horror molto peculiare che si dipana nel tempo e nello spazio, partendo dall’Ucraina dell’interguerra, da cui proviene la famiglia dell’autore, fino a giungere al Canada del 21° secolo.
Il testo, intensamente weird, è un mosaico di vicende narrate ognuna da un personaggio, la maggior parte legate dal luogo di provenienza. Al confine tra l’Ucraina e la Romania c’erano un tempo tre villaggi, legati da antiche tradizioni del folklore e da un patto inquietante con una fabbrica di preziosissimi ditali acquistati dai ricchi e dai nobili di tutto il mondo occidentale.
La traduzione è affidata a Claudia Durastanti.
Cattedrale vi propone due racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.
NICOLAI
Non me lo ricordo. E la verità non mi riesce. Un anno dopo che lei e mio padre si sposarono, mia madre perse il suo primo figlio, e le fu detto che non ce ne sarebbe stato un altro. Fu difficile, come potete immaginare, e mia madre disse a mio padre di andarsene e trovarsi un’altra moglie che potesse dargli un maschio. Mio padre amava mia madre e rimase. Ma il figlio morto era un’ombra tra loro di cui persino gli estranei si accorgevano. La storia che raccontava lei: un giorno, proprio quando l’inverno volgeva in primavera, mio padre stava aiutando un vicino a riparare il suo fienile mentre mia madre era rimasta in casa a cucire. Sentì un grido dalla foresta dietro la fattoria e, invece di aspettare che lui tornasse, uscì per vedere cosa fosse stato. Proprio oltre il limitare degli alberi, ancora visibile dalla casa, mi trovò sdraiato nella neve appena posata, un neonato, nudo e tremante e prossimo alla morte. Niente tracce di passi, da nessuna parte. Avevo i capelli bianchi e gli occhi trasparenti. Pensava che fossi il fantasma del suo primo bambino. Mi chiamò come lui, mi svezzò come se mi avesse generato e, quando nessuno venne a reclamarmi, lei e mio padre mi fecero loro.
Ma c’erano dei lupi in quei boschi; a volte si sentivano, raramente si vedevano. Ululavano, ma non venivano mai vicini. Una sera, mio padre era fuori sul retro con me, vicino ai cespugli di bacche. Alzò lo sguardo e vide un branco di figure buie ingobbite, con gli occhi scintillanti, che ci fissavano dalla macchia di alberi. Mi infagottò, spaventandomi fino alle lacrime, e si mise a correre verso casa. Aveva un’arma, il fucile da caccia di suo padre, ma non aveva mai ucciso niente con quello, e mia madre non lo aveva mai toccato. Lo prese dalla mensola della credenza sul retro, fece un passo fuori dalla porta e lo sollevò. Le figure scure dagli occhi scintillanti erano già andate via.
Un paio di mattine dopo, mia madre si svegliò per via di un venticello leggero che si era avviluppato attorno alle sue dita, l’odore di erba fresca a riempire la stanza. Spiò fuori in corridoio e si accorse che la porta sul retro in cucina era aperta, la luce del sole esplodeva in casa. Ansimò, saltò dal letto, controllando la mia culla. Non c’ero. Fece un urlo svegliando mio padre e, tirandosi i vestiti addosso, corse nel sole, accecata, gridando e piangendo nella foresta. Si fermò proprio sul punto in cui le prime foglie proiettavano la propria ombra sul terreno. Rimase in piedi, guardò, ascoltò. E mio padre si fermò e stette in piedi accanto a lei, reggendo il fucile.
Era tutto calmo e immobile. Quieto come una foresta non dovrebbe essere mai.
– Avremo bisogno di aiuto a cercare, – sussurrò lui. – Ci serviranno dieci, forse quindici uomini.
– No, – sibilò lei. – Non me ne andrò. Dobbiamo trovarlo adesso.
Diede uno sguardo a destra, dove un rialzo era sormontato da tre faggi. Si mosse lenta verso la piccola altura mentre mio padre guardava, poi si fermò ad ascoltare di nuovo. Un lamento leggero e acuto, e poi un ansimare gentile. Fece segno a mio padre di avvicinarsi, poi strisciò verso la fonte di quel suono, cauta e attenta. In una tana dall’altra parte del rialzo, una lupa bianca stava accucciata su un mucchietto di stracci, ad allattare i suoi cuccioli: tre lupetti bianchi e fragili, e me; il latte caldo di lupa spiaccicato attorno alla mia bocca affamata.
Mio padre sollevò il fucile, e mia madre lo fermò. – No, – disse. E mentre quella parola le si rovesciava fuori dalla bocca, emersero altri tre lupi dagli alberi. Lui abbassò la canna del fucile ed entrambi iniziarono a camminare lentamente indietro, mentre gli animali fissavano attenti. Una volta fuori dalla foresta, mio padre si volse per chiederle: – Cosa faremo?
– Aspetteremo, – disse mia madre. – Io aspetterò. Non gli faranno del male, altrimenti sarebbe già successo. – Poi si voltò verso mio padre e disse, – Ha riconosciuto il mio viso, e io il suo.
– Sono animali, – rispose irato. – Pure nostro figlio è un animale?
– Tutti siamo animali. Io aspetterò.
La sera successiva, mia madre si trovava in cucina a preparare la cena. Stava parlando a mio padre che era nell’altra stanza, quando si rese conto di essere sola. Era scivolato fuori dalla porta dietro di lei. All’improvviso sentì uno sparo, e poi un altro. Corse fuori per vederlo barcollare via dalla foresta e collassare a terra. Urlò e corse verso di lui; aveva il viso e il collo maciullati, tremava furiosamente, il sangue gli si svelava fuori e rallentava in un rivolo. Le convulsioni diminuirono e smisero. Era morto.
Un ululato si squarciò nella foresta dietro di lei. Mia madre si volse e scappò verso la tana per trovare una donna che non era una donna, una donna con lunghi capelli bianchi e otto mammelle, con un buco da sparo sulla spalla, i cuccioli confusi e frignanti attorno a lei, e attorno a me. La donna vide mia madre e si tirò gli stracci addosso per coprirsi; erano la sua camicetta e la sua gonna.
Mia madre si avvicinò, le si inginocchiò accanto, si stracciò la gonna per pulire e fasciarle la ferita. Diede ai cuccioli latte di capra riscaldato. Andò a prendere l’acqua e il cibo mentre i tre lupi osservavano e attendevano. Rimase tutta la notte con la donna, e ci ritornò con me giorno dopo giorno, fino a quando non trovò la tana vuota. I lupi se ne erano andati.
Non ricordo. Non so dire cosa sia vero o no. Ma so questo: quando mia madre morì molti anni dopo, mi inginocchiai accanto al suo letto e piansi, e i lupi nei boschi piansero insieme a me.
SABINA
C'è stato un tempo, nella storia dei nostri tre villaggi, in cui nascevano pochi bambini. Quasi nessuno di loro era femmina. La movchanya. Questo periodo è durato per quasi dieci anni. Ancora oggi nessuno sa perché, anche se ovviamente ci sono delle teorie: alcune hanno a che fare con la fabbrica di ditali, altre con il governo; alcune hanno a che fare con la terra su cui i nostri villaggi sono stati costruiti, e un paio danno la colpa alle nostre maledette linee di sangue.
Adesso non ne parliamo quasi più, ma all’epoca è stato abbastanza traumatico. Molte donne faticavano a restare incinte e, di quelle poche che riuscivano, quasi tutte abortivano nel corso dei primi due mesi. Solo una dozzina di donne ha portato avanti la gravidanza fino al nono mese, ma i bambini sono nati morti o così deformati che a malapena potevano respirare. Alcuni uomini hanno abbandonato i villaggi per la città, si sono sposati lì, e sono tornati con le nuove mogli, ma non importava. I risultati erano gli stessi. In quei dieci anni nei nostri villaggi sono sopravvissuti solo trenta bambini. Solo sei di loro erano bambine.
Io sono arrivata il settimo anno. Sono nata maschio ma cresciuta come una femmina. Ovviamente non lo capivo all’epoca, e non so se sono stata attratta verso le cose da ragazza prima che i miei genitori decidessero così, o se ne sono stata attratta proprio perché avevano deciso così. Ma quel che è fatto è fatto. Non ero la sola – altre quattro bambine sono cresciute così, tre più grandi di me e una più giovane – ma io ero l’unica del mio villaggio. I nostri genitori si assicuravano, mentre crescevamo, che indossassimo sempre qualcosa di verde per distinguerci dalle altre: un vestito o una gonna o un nastro o un braccialetto o dei calzettoni. Ci chiamavano le Zeleni Divuski, le ragazze verdi.
Naturalmente c’erano state delle prese in giro mentre crescevamo, e c’era anche un po’ di paura nei nostri confronti. Venivamo trattate diversamente, alcune dicevano, in maniera speciale, e questo è sempre faticoso quando si è piccoli. Con il tempo, tuttavia, le ragazze fuori dal gruppo, persino le più grandi, venivano da noi e ci raccontavano i segreti, e i ragazzi si avvicinavano e ci chiedevano come piacere alle ragazze.
I ragazzi spesso facevano pratica con noi, non sessualmente, questo è ovvio, ma tenendoci per mano e parlandoci e baciandoci. – Troppo ruvido, troppo veloce, – dicevamo a qualcuno di loro. – Troppo timido, troppo quieto, – a un altro. Incoraggiavamo i maschi a fare domande e ad ascoltare, a essere meno spacconi, a essere più gentili e a considerare le cose ponderandole bene. – Parleresti così a tua madre? – chiedevamo. Una volta un bambino aveva risposto, – Io non ho una madre, – e una di noi aveva detto, – E ci credo, – di impulso. Cercavamo di non far piangere i bambini, ma c’erano delle volte in cui.
E poi riferivamo tutto questo alle ragazze, dicevamo loro chi era divertente e affascinante, chi forte e chi timido, chi lesto e chi chiassoso. Volevano sapere tutte chi baciava meglio, ma noi non lo dicevamo mai. – Scopritelo da sole! – ridevamo. Era un divertimento innocuo, e da alcuni dei nostri incoraggiamenti sono nati buoni abbinamenti e buone famiglie. È stato solo molti anni dopo che abbiamo trovato mogli comprensive, o mariti comprensivi, per noi stesse.
Tutto questo accadeva prima della guerra. I villaggi si trovavano in terre eternamente contese, non solo tra nazioni, ma tra proprietari terrieri, tra religioni e persino specie diverse. C’erano delle storie sui Drevniye, le creature che sono venute prima di tutti noi, su come alcuni ci vivessero accanto in pace e si proteggessero mimetizzandosi tra noi. Avevamo sentito parlare dei mutaforma, ma non abbiamo mai saputo se vivessero tra di noi o chi potessero essere. E poi c’erano le fiabe oscure sulla Naystarsha, che viveva in profondità, sottoterra, e che era la fonte di tutto il potere dei Drevniye. Favole, tutte quante, eppure.
Un giorno, quando avevo diciassette anni, mi pare fosse un giorno d’estate, o all'inizio dell'autunno, stavo sorseggiando un tè in piazza quando una ragazza molto più piccola di me si era avvicinata e mi aveva detto: – Dovreste iniziare a meditare di andarvene da questo posto. Tutte le ragazze verdi, presto.
Ero sconvolta che una persona così giovane fosse già così audace. – Perché mi dici questo? Chi sei? E perché dovrei andarmene? – Si era portata un dito alle labbra, e poi aveva sussurrato: – Incontrati con le altre, stanotte se riesci. – Mi aveva scrutato negli occhi. – Tua madre ha una sorella a Satu Mare. Vai da lei. Se devi andare ancora più lontano, lo saprai. – Poi si era guardata attorno, e mi ero guardata attorno anche io, e avevo visto che un paio di abitanti del villaggio si tenevano a debita e rispettosa distanza, a osservarci. Credevo di conoscere tutti nel villaggio, ma ora ero circondata da sconosciuti.
– Quanto tempo abbiamo? – le avevo chiesto. – Quanto staremo via?
– Domani a mezzogiorno sarà ancora sicuro partire. Ma stanotte è meglio. Porta via tutto quello che ami.
Qualcosa in quelle ultime parole mi aveva congelata nel profondo. Avevo fatto un inchino verso di lei, verso tutti loro, mi ero voltata ed ero scappata a casa. Avevo detto a mia madre che sua sorella era ammalata, così diceva un’amica comune in paese, e che dovevamo correre da lei al più presto. Lei aveva sollecitato mio padre e il cane spingendoli nella carrozza con un po’ di vestiti e provviste, ed eravamo partiti subito dopo cena. Ho fatto in modo che ci fermassimo negli altri villaggi, ho raccontato la storia alle altre ragazze verdi. Tre si sono potute unire a noi. La piccola Maruska aveva una tosse terribile e non poteva spostarsi, così avevo invitato i suoi genitori a seguirci il prima possibile. Poi avevo chiesto scusa a mia madre per quella bugia ormai ovvia, ma lei si era resa conto di quanto ero spaventata, di quanto eravamo spaventate tutte e anche se era uno scherzetto, un tiro mancino di qualche tipo, almeno ci saremmo fatte un viaggio insieme e avremmo sorpreso la zia.
La piccola Maruska non ci ha mai raggiunto. E noi non siamo mai tornati indietro. Alla fine abbiamo scoperto cos’era successo, questo è ovvio. Non so ancora perché siamo state salvate.