Quasi settecento anni dopo il Decameron di Giovanni Boccaccio, nel marzo 2020 gli editor del New York Times Magazine hanno raccolto quell’eredità e lanciato il Decameron Project, e alcuni grandi autori contemporanei hanno deciso di mandare le loro parole oltre i confini delle proprie case, oltre lo specchio del proprio mondo. Le loro storie non parlano della pandemia, ma ne sono intrise; non spiegano, ma evocano le piccole allegrie e le grandi nostalgie, le città improvvisamente spente e le strade che diventano miraggi di libertà. Sono testimonianze di un tempo straordinario, lo sguardo di un’umanità unita dagli stessi pensieri e sentimenti, in grado di costruire una memoria comune e una comune visione del domani.
NN pubblica Decameron Project in Italia, con le traduzioni di Ada Arduino, Chiara Baffa, Katia Bagnoli, Stefano Bortolussi, Guido Calza, Giuseppina Cavallo, Gaja Cenciarelli, Fabio Cremonesi, Serena Daniele, Velia February, Giovanna Granato, Gioia Guerzoni, Maria Nicola, Laura Noulian, Silvia Rota Sperti, Alessandra Scomponi, Sara Sullam.
Racconti di: Margaret Atwood – Mona Awad – Matthew Baker – Mia Couto – Edwidge Danticat – Esi Edugyan – Julián Fuks – Paolo Giordano – Uzodinma Iweala – Etgar Keret – Rachel Kushner – Laila Lalami – Victor LaValle – Yiyun Li – Dinaw Mengestu – David Mitchell – Liz Moore – Dina Nayeri – Téa Obreht – Andrew O’Hagan – Tommy Orange – Karen Russell – Kamila Shamsie – Leïla Slimani – Rivers Solomon – Colm Tóibín – John Wray – Charles Yu – Alejandro Zambra.
Cattedrale vi propone la postfazione dell’editrice Eugenia Dubini, e il racconto Un ladro gentile, di Mia Couto, contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.
di Eugenia Dubini
Questo libro è per tutti i lettori, e nasce perché NN vuole costruire un ricordo. Sarà un ricordo che si sommerà a tutti gli altri che a ogni latitudine si avranno dell’anno 2020. Ma il libro che avete tra le mani, per NN, segna un punto: nel 2020 eravamo qui, e con queste storie abbiamo deciso di partecipare al racconto di questo mondo in cui abbiamo vissuto. Nei mesi del primo lockdown, e sotto la pelle di tutto quello che accadeva, sembrava che il tempo si fosse fermato. Sembrava non esserci più passato, sembrava impossibile immaginare futuro, e si ripeteva costante il presente senza confini, che continuava ad accadere sotto i nostri occhi, e che ci lasciava sbalorditi, atterriti, incapaci, immobili. Un’altissima torre di presente (grazie, Chiara Valerio) che si alzava sopra le nostre teste, e che ci rendeva improvvisamente più uniti e più distanti, più vicini e più soli. Quando abbiamo ricevuto il manoscritto del Decameron Project per la traduzione italiana, una luce: i ventinove racconti che leggerete non sono le storie di questa solitudine, né il resoconto di questa inerzia temporale. Sono testimonianza e creazione di grandi scrittori contemporanei, che da ogni parte del mondo, in quel preciso istante del tempo, hanno deciso di partecipare al progetto del New York Times Magazine, così da mandare le loro parole oltre i confini delle proprie case, oltre lo specchio del proprio mondo. Gli scrittori hanno fatto affidamento, ancora una volta, sulla magia della narrazione. E noi di NN abbiamo sentito che il Decameron Project sarebbe stato il nostro modo di esserci, il 7 nostro modo di partecipare alla memoria e alla riflessione che ne verrà poi. Qui dentro c’è la pandemia e ci siamo tutti, ci sono tutti i luoghi del mondo e c’è il dono del tempo. Per questo assaggio a voi librai, abbiamo scelto quattro racconti, che da soli comunicassero l’ampiezza di sguardo dell’opera. C’è l’Italia e la convivenza forzata che tanti di noi hanno vissuto durante il lockdown, nella storia di Paolo Giordano; c’è un chiaro omaggio al Decameron di Boccaccio nella storia di Rachel Kushner, che immagina un vero e proprio racconto nel racconto, per distrarsi dall’avanzare del contagio; c’è la straordinaria fantasia di Margaret Atwood nell’immaginare un piano di supporto all’umanità in preda alla pandemia, grazie a un gruppo di volenterosi extraterrestri inviati sul nostro pianeta. E infine c’è il vecchio contadino di Mia Couto, che ha vissuto agli estremi del paese, senza notizie e connessioni, e che scambia l’infermiere giunto in suo soccorso per un ladro gentile. Proprio come nel Decameron di Boccaccio, che ha viaggiato in ogni luogo, e che ha vissuto quasi mille anni, qui dentro c’è il potere delle storie, che sono capaci di dare un volto al passato e di costruire un futuro. Questo libro, quindi, è un ricordo per NN, e per i lettori, perché il tempo non si è fermato: è stato raccontato, si è fatto memoria e sogno, e ha ripreso a scorrere. Anche oggi che scrivo, il futuro mette paura, ha tratti di grande incertezza ma esiste, e saremo noi a costruirlo insieme, perché in compagnia di queste storie, di tutte le storie, continueremo a cercare un mondo e un nostro tempo nel mondo.
Un ladro gentile
di Mia Couto
Traduzione di Fabio Cremonesi
Bussano alla porta. Bussano si fa per dire. Abito lontano da tutto, solo la fame e la guerra vengono a trovarmi. E ora, nell’eternità dell’ennesimo pomeriggio, qualcuno dà una raffica di pedate alla mia porta di casa. Corro ad aprire. Corro si fa per dire. Trascino i piedi, con le ciabatte che fanno scricchiolare le assi del pavimento. Alla mia età, non posso fare altro. La vecchiaia comincia quando guardi il pavimento e vedi un abisso.
Apro la porta. È un uomo mascherato. Quando si accorge della mia presenza, urla:
«Tre metri, resti a tre metri di distanza!».
Se è un rapinatore, è intimorito. La sua paura mi spaventa. I ladri timorosi sono i più temibili. Estrae una pistola dalla borsa. Me la punta contro. È strana quella pistola: è di plastica bianca ed emette un raggio di luce verde. Me la punta in faccia e io chiudo gli occhi, obbediente. Quel raggio di luce sulla fronte è quasi una carezza. Morire così è un segno che Dio ha esaudito le mie preghiere.
L’uomo mascherato ha la voce dolce, lo sguardo gentile. Non mi lascio ingannare: i soldati più crudeli mi si sono sempre presentati con modi da angelo. Eppure è da così tanto tempo che nessuno mi fa compagnia, che finisco per stare al gioco.
Chiedo al mio ospite di abbassare la pistola e di accomodarsi sull’unica sedia che mi resta. Solo in quel momento mi accorgo che ha le scarpe infilate dentro sacchetti di plastica.
Lo scopo è evidente: non vuole lasciare impronte. Gli chiedo di abbassare la maschera, gli assicuro che può fidarsi di me. L’uomo sorride triste e mormora: in questi giorni non ci si può fidare di nessuno, la gente non sa cos’ha dentro di sé. Capisco il suo messaggio enigmatico, l’uomo pensa che sotto la mia apparenza miserabile, io nasconda un tesoro prezioso.
Si guarda intorno e, dato che non trova niente da rubare, si decide a spiegarsi. Dice di essere lì per conto dei servizi sanitari. E io sorrido. È un ladro giovane, non è capace di mentire. Dice che i suoi capi sono preoccupati per una malattia grave che si sta diffondendo rapidamente. Fingo di crederci. Sessant’anni fa sono quasi morto di vaiolo. È forse venuto qualcuno a visitarmi? Mia moglie è morta di tubercolosi, si è forse visto qualcuno? La malaria si è portata via il mio unico figlio, sono stato io a seppellirlo, da solo. I miei vicini sono morti di aids, nessuno ha mai voluto saperne niente. La mia defunta moglie diceva che era colpa nostra, avendo scelto di vivere lontano dai posti dove ci sono gli ospedali. Lei, poverina, non sapeva che in realtà è il contrario: sono gli ospedali che vengono costruiti lontano dai poveri. Sono fatti così, gli ospedali. Non gliene faccio una colpa. Io sono simile a loro, agli ospedali, sono io che albergo e curo le mie malattie.
Il rapinatore bugiardo non desiste. Cerca di migliorare i suoi modi, ma risulta comunque grossolano. Tenta di giustificarsi: la pistola che mi ha puntato contro serviva a misurare la febbre. Dice che sto bene, me lo comunica con un sorriso sciocco. E io fingo un sospiro di sollievo. Vuole sapere se ho la tosse. Sorrido, conciliante. La tosse mi ha quasi portato alla tomba quando sono tornato dalle miniere, vent’anni fa. Da allora le mie costole hanno quasi smesso di muoversi, il mio torace è fatto solo di polvere e pietra.
Il giorno che riprenderò a tossire, sarà alle porte di San Pietro, per chiedere permesso.
«Non mi pare che lei stia male» commenta l’impostore.
«Però potrebbe essere asintomatico e ugualmente pericoloso».
«Pericoloso?» chiedo. «E perché? Per l’amor di dio, può perquisirmi la casa, sono una persona seria, non esco quasi mai».
Il visitatore sorride e mi domanda se so leggere. Mi stringo nelle spalle. E lui mette sul tavolo un documento di istruzioni per l’igiene, una scatola di saponette e una boccetta di quella che chiama “soluzione alcolica”. Poverino, deve pensare che, come tutti i vecchi solitari, io abbia la tendenza a bere. Congedandosi, l’intruso dice:
«Tra una settimana torno a trovarla».
A quel punto mi viene in mente il nome della malattia di cui parla il visitatore. La conosco bene quella malattia. Si chiama indifferenza. Per curare l’epidemia, servirebbe un ospedale grande come il mondo. Disobbedendo alle sue istruzioni, mi avvicino e lo abbraccio. L’uomo si oppone con forza e mi sguscia tra le braccia. In automobile, si spoglia in fretta. Si leva i vestiti come se si stesse togliendo di dosso la peste. Quella peste che si chiama miseria.
Sorridendo, gli faccio un cenno di saluto. Dopo anni di tormento, mi riconcilio con il genere umano: un ladro così goffo non può che essere una brava persona. La settimana prossima, quando torna, lascerò che rubi il vecchio televisore che ho in camera.
© 2020 by The New York Times
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