Il prossimo edificio che farò saltare, di Charles Baxter

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Mattioli 1885 porta in libreria Credenti, di Charles Baxter, tradotto da Francesca Cosi e Alessandra Repossi.
I personaggi di Baxter sembrano in equilibrio tra disperazione e fede: una giovane donna e il suo ragazzo, e forse una storia segreta di violenza; un vicino di casa che può essere un assassino di bambini o un patetico bugiardo; una ragazza che prova a superare la fine di una stoia d’amore cercando conforto in un dialogo immaginario con Ovidio. E poi il grande affresco della novella: un prete cattolico coinvolto in una relazione con una sinistra coppia benestante, che ha fatto vacillare il suo stato di grazia. Scritto in una prosa limpida e perfettamente modulata, Credenti conferma l’abilità di Baxter nel descrivere una quotidianità apparentemente ordinaria, la punta di un iceberg nelle vite comuni dei suoi personaggi, che nascondono un’enorme massa sommersa di passioni, follia, spensieratezza e dolore.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Il prossimo edificio che farò saltare

Nel parcheggio accanto alla banca, Harry Edmonds vide un pezzetto di carta per appunti grigia, grande quanto un biglietto di auguri. Il vento gliel’aveva sbattuto contro la gamba, alla quale era rimasto attaccato. Sul margine superiore c’era un appunto incompleto scritto con l’inchiostro viola. Raccolse il foglietto e lo esaminò. Nell’angolo superiore sinistro qualcuno aveva scarabocchiato la frase Il prossimo edificio che farò saltare. Harry dispiegò il pezzo di carta e vide lo schizzo a inchiostro di quella che sembrava una grande stazione ferroviaria o qualche altra struttura pubblica, forse il terminal di un aeroporto. Nel disegno si vedevano finestre ad arco e una facciata con le colonne, ma per il resto c’erano pochissimi altri dettagli. L’edificio pareva solido, monumentale e difficile da abbattere.
Si guardò intorno. Si trovava in un parcheggio di Five Oaks, nel Michigan, dove non c’erano edifici del genere. Il vento leggero faceva fluttuare convulsamente altri pezzetti di carta. Un volantino giallo si era appiccicato a un idrante. Per strada c’era il consueto esercito di bancari, avvocati, studenti e gente in giro a fare compere. Come al solito, nessuno lo guardava o gli prestava particolare attenzione. Si infilò il pezzo di carta nella tasca del cappotto.
Per tutto il pomeriggio, mentre era seduto alla scrivania, la mano continuava ad avvicinarsi alla tasca per sfiorare il disegno. Più tardi mostrò quasi per scherzo lo schizzo alla receptionist dell’ufficio.
“Deve assolutamente portarlo alla polizia,” gli disse lei. “È pericoloso, probabilmente è opera di un maniaco. Quello lì è il LaGuardia, l’aeroporto? Quello nel disegno? Ci sono stata il mese scorso. Sono sicura di sì, Mr Edmonds. Non c’è da scherzare. È senz’altro il LaGuardia.”
Perciò, a fine giornata, prima di tornarsene a casa andò in auto alla stazione di polizia al pianterreno del municipio.
Mentre guidava al sole si rese conto di stringere gli occhi per via del bagliore accecante. Non fece in tempo a entrare dall’ingresso principale che venne investito dall’odore burocratico di cera dell’edificio e gli venne subito il mal di testa. Un poliziotto in divisa dall’espressione impaziente era seduto dietro una scrivania e rimescolava alcuni documenti. In quell’attimo a Harry Edmonds venne in mente che se avesse mostrato alla polizia ciò che aveva in tasca sarebbe diventato il sospettato principale e sarebbe stato sottoposto a un esame minuzioso, perdendo così la sua privacy. Girò sui tacchi e andò a casa.

A cena disse alla fidanzata: “Guarda cos’ho trovato oggi in un parcheggio.” Le porse il disegno.
Lucia osservò il foglietto sporco tenendolo per un angolo con il pollice e l’indice, poi lesse: “‘Il prossimo edificio che farò saltare’.” Aveva un tono di voce leggero ed educato. Vendeva software ed era molto attenta alla gestualità. Poi disse: “È la Union Station di Chicago.” Sorrise. “Be’, Harry, cos’hai deciso di fare? Questa è opera di un pazzo, no?”
“In effetti oggi pomeriggio sono addirittura entrato nell’atrio della stazione di polizia,” disse. “Poi sono tornato indietro, non ce l’ho fatta a farlo vedere. Temevo che sospettassero di me o cose del genere.”
“Oh, quanto sei melodrammatico,” disse lei. “Non hai mai commesso un crimine in vita tua. Santo cielo, sei un bancario. Lavori nel settore dei fondi fiduciari, sei inoffensivo.”
Harry si appoggiò allo schienale della sedia e la guardò.
“Non sono poi così inoffensivo.”
“Sì che lo sei,” disse lei ridendo. “Sei piuttosto inoffensivo.”
“Lucia,” le disse, “ti chiederei di non usare quella parola.”
“Inoffensivo? Ma è un complimento.”
“No, in questo paese non lo è affatto,” le disse.
La tavola era apparecchiata con le candele gialle e i piatti azzurri in pendant con i tovaglioli che Lucia tirava fuori ogni volta che era orgogliosa di un piatto preparato da lei o da Harry. Quel giorno c’era il pollo al curry birmano. “Be’, se la cosa ti preoccupa, portalo alla polizia,” gli disse Lucia. “È a questo che servono i poliziotti. Caro,” aggiunse, “nessuno ti sospetterà di niente. Sei bello ed equilibrato, sei il mio tesoro e io ti amo. Che altro è successo oggi? Rimetti in tasca quel pezzo di carta inquietante. Ti piace questo curry?”
“È squisito,” disse lui.

Quando Harry ebbe chiamato a raccolta il coraggio necessario per ripresentarsi alla stazione di polizia, si diresse a passo deciso verso il bancone dell’accoglienza. Dopo aver osservato attentamente il disegno e la frase scritta a inchiostro e dopo essersi segnato il nome e l’indirizzo di Harry Edmonds, il poliziotto, che come si leggeva sul suo badge era il sergente Bursk, gli chiese: “Mr Edmonds, lei ha figli?”
“Figli? No, non ne ho. Perché?”
“Perché questo l’hanno fatto dei ragazzini,” disse il sergente Bursk agitandogli il pezzo di carta davanti agli occhi come se volesse farlo asciugare. “Avrebbero potuto farlo anche i miei figli. I bambini lo fanno, i maschi. Disegnano stanze della tortura, scrivono minacce, e chi più ne ha più ne metta. Si comportano così, è l’età. Ma sono ragazzi, non fanno sul serio.”
“E come fa a saperlo?”
“Perché ne ho tre,” disse il sergente Bursk. “Non dico che lei dovrebbe avere dei figli, dico solo che io ce li ho. Comunque, se non le dispiace, il disegno lo tengo io.”
“In realtà,” disse Harry, “lo rivorrei indietro.”
“D’accordo,” disse il sergente Bursk porgendoglielo. “Comunque, se dovessimo avere notizia di qualche grosso attentato e il bilancio delle vittime fosse importante, magari le daremo un colpo di telefono.” “D’accordo,” disse Harry. Se lo aspettava. “A proposito,” chiese, “le ricorda qualche posto in particolare?”
Il poliziotto esaminò il disegno, poi disse: “Certo, è la Grand Central di New York, quella sulla Quarantaduesima, mi pare. Una volta ci sono stato. Si capisce dall’orologio. Lo vede l’orologio?” Indicò un cerchio appena abbozzato. “Questa è la Grand Central e questo è il grande orologio che c’è sulla facciata.”

“Col cazzo che è quella,” disse il ragazzo. Era a letto con Harry Edmonds al Motel 6. Si erano conosciuti in un bar del centro e poi erano andati in quel motel, e una volta finito Harry aveva tirato fuori il disegno dalla tasca dei pantaloni abbandonati sul pavimento e gliel’aveva mostrato. I lunghi capelli castani ricadevano sugli occhi del ragazzo e, la coda di cavallo ormai allentata, si erano sparpagliati anche sul cuscino. “So che cazzo di posto è,” disse. “Cioè, io ho viaggiato, sai, in tutta Europa. E questa è in Europa, stiamo parlando della Deutschland del cazzo.” Il ragazzo si sollevò sui gomiti per vedere meglio. “Ah sì, mi ricordo questo posto. Ci sono stato forse due estati fa… Sarà Amburgo? Sì, è la Dammtor Bahnhof.”
“Mai sentita,” disse Harry Edmonds.
“Non l’hai mai sentita perché non ci sei stato, bello. Per conoscerla devi esserci andato, cazzo.”
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia come un professore che cerca di spiegare un punto particolarmente ostico. “Cioè, vedi, la bahnhof è la stazione ferroviaria, e la Dammtor Bahnhof è una delle stazioni di Amburgo, quella dove i nazisti radunavano gli ebrei, cioè. E poi li spedivano via. Da questo posto, bello mio. Garantito. È ancora in piedi. Meriterebbe di essere bombardato, cazzo. Spazzato via dalla faccia della terra. È solo una mia idea. È il male assoluto, bello.” Il ragazzo si girò sul letto, rimettendosi comodo dopo aver espresso le sue opinioni. Era sinuoso e caldo, come un gatto. Faceva persino dei rumori con la gola, una specie di ron ron soddisfatto.

“Credevo che l’avessimo superata,” disse la terapeuta di Harry. “Pensavo che avessimo finito con il sesso occasionale. Pensavo, Harry, che avessimo elaborato questi impulsi passeggeri. Scoprire che non è così mi preoccupa, glielo confesso. Non dico che siamo tornati al punto di partenza, ma si tratta di un passo indietro. E quello che mi chiedo è: perché è successo?”
“Lucia ha detto che ero inoffensivo, ecco perché.”
“E la cosa l’ha fatta arrabbiare?”
“Ci può scommettere che mi ha fatto arrabbiare.” Harry si appoggiò allo schienale della sedia e guardò la terapeuta dritto negli occhi. Avrebbe voluto che si comprasse un altro paio di occhiali, quelli che aveva la facevano assomigliare a una di quelle vittime dei film che venivano uccise nei primi dieci minuti, subito dopo i titoli di testa. Una passante innocente. “I bancari non sono inoffensivi, glielo posso assicurare.” “Allora perché ha abbordato quel ragazzo?” Aspettò la risposta. Vedendo che lui non diceva niente, aggiunse: “Non mi viene in mente nulla di più pericoloso.”
“È stato per via di quell’edificio,” disse Harry.
“Quale edificio?”
“L’ho mostrato a Lucia, è su un pezzetto di carta. Questo.” Lo estrasse dalla tasca e lo porse alla terapeuta. Ormai era tutto soffice e accartocciato. Mentre lei studiava lo schizzo, Harry guardava girare la lancetta dei secondi dell’orologio da parete.
“L’ha trovato?” chiese la terapeuta. “Non l’ha disegnato lei, giusto?”
“Sì, l’ho trovato.” Rimase in silenzio. “L’ho trovato in un parcheggio a sei isolati da qui.”
“D’accordo. Dunque, ha mostrato il disegno a Lucia e lei l’ha definita inoffensivo.
Perché la disturba tanto essere definito così?” “Perché,” disse Harry, “in questo paese se sei inoffensivo ti ammazzano e poi ti sbranano. È così che vanno le cose al giorno d’oggi, è questa la tendenza. Credevo che se ne fosse accorta anche lei. Ma forse non è così.”
“E perché dice che si viene uccisi e sbranati? È una metafora stravagante. È una sorta di paradosso isterico.”
“No, invece. Io lavoro in banca e lo vedo tutti i giorni. Poi tocca a me pulire il sangue dal pavimento.”
“Non vedo cosa c’entri questo con l’abbordare ragazzi e portarseli nei motel,” disse lei. “In questo modo si torna a quando agiva le sue fantasie. E quello che mi chiedo è: cosa ci dice del suo rapporto con Lucia? La sta mettendo in pericolo, sa?” Poi, come per sottolineare il concetto, aggiunse:
“Quello che ha fatto è sbagliato. E molto, molto pericoloso. Visto che non fa altro che pensare, a questo aveva pensato?”
Harry non rispose subito. Poi disse: “È buffo: tutti hanno una teoria su cos’è questo edificio. Lei però non ha ancora detto niente. Qual è la sua?”
“Su questo edificio?” La terapeuta di Harry esaminò il foglietto attraverso le sue lenti da vittima cinematografica. “Ah, è il Field Museum di Chicago. E non è una teoria: è davvero il Field Museum.”

Alle 3 di martedì mattina Harry puntò lo sguardo sul soffitto della camera da letto. Lì, come su uno schermo, tratteggiato dalla luce che filtrava dalle tende svolazzanti, vide un edificio pubblico con colonne sulla facciata, finestre ad arco e forse un orologio. Sempre sul soffitto, il sole proiettato dalla sua mente sorse in tutta la sua magnificenza, di un color oro brillante, con un paio di cumulonembi sfilacciati dalla fantasia che gli passavano davanti da destra a sinistra, senza però impedire che la sua luce penetrasse nel grande edificio pubblico nel quale uomini, donne e bambini – bimbi sui passeggini, bimbi per mano ai genitori – sfilavano come ombre sul soffitto, ombre illuminate, e per un attimo Harry vide il flash di un’esplosione.
Harry Edmonds era a letto ma non dormiva. Accanto a lui c’era la sua ragazza, che aveva intenzione di sposare dopo aver appianato e sistemato un paio di questioni personali.
Qualche ora prima aveva fatto l’amore con lei, con quella donna, Lucia, con carezze sincere, ma a quanto pareva adesso era di nuovo sveglio. Si alzò dal letto e scese in cucina.
Mangiò un biscotto nella cruda luce fluorescente e poi, d’istinto, accese la radio. Le emittenti ribollivano di chiamate in diretta, cariche di odio ed estremismo religioso, gridate da uomini rabbiosi che ansimavano e urlavano in tutti i microfoni disponibili. Girò la manopola per sintonizzarsi su uno di quei canali. Un tizio che chiamava dal Delaware disse: “Vorrei tanto fare un bel casino in un paio di posti, credetemi, partendo dalla Corte Suprema per passare a un paio di cliniche.” Harry spense di colpo la radio.

Adesso è seduto nella cucina illuminata. Si sente intontito quanto può esserlo un trentatreenne sano di mente al mattino. Non sono stupido e nemmeno banale, dice Harry a se stesso allungando la mano per prendere un blocco e una matita n.2. In cima al foglio scrive ‘Il prossimo edificio che farò saltare’ e poi, molto lentamente, con estrema cura, inizia a disegnare il proprio viso, dai contorni lisci e ben rasati, il suo mezzo sorriso gentile. Quando sente che gli occhi iniziano a lacrimare, strappa il foglio con il suo ritratto e lo getta nel cestino. Il frigo sembra intonare un motivo solo per lui, un motivo senza melodia, e Harry spegne la luce prima di riuscire a riconoscerlo.

Siamo in centro a Five Oaks, nel Michigan, ed è mezzogiorno, l’ora giusta per pranzare, riposarsi e chiacchierare, e anche, per alcuni, i pochi fortunati, l’ora giusta per amare, ma qui davanti a noi c’è Harry Edmonds, funzionario del settore fondi fiduciari della Southeastern Michigan Bank and Trust, in piedi all’angolo di una strada nel forte vento primaverile. Il vento gli tira la cravatta e gli scompiglia i capelli. A quanto pare nei paraggi si è rovesciato un cassonetto per la raccolta differenziata e i fogli di carta, a centinaia, pieni di disegni, illustrazioni e parole, si sono sparpagliati dappertutto. Come uno stormo di uccelli, hanno preso il volo. Sono presi, intorno a Harry Edmonds, in un vortice e adesso sbattono e si agitano in cerchi. Alcuni gli si appiccicano addosso. Ci sono pagine patinate con inserti profumati, fogli ingialliti con supereroi in quadricromia, altre pagine con immagini di corpi attraenti, nudi e ritoccati, e poi scontrini, annunci e prestiti. Qua ci sono gli annunci personali che turbinano via e là il volantino di una tv a schermo gigante con impianto home theatre. Harry Edmonds, un uomo che non sa bene quale valore abbia la sua vita, che al momento non sa nemmeno se la sua vita abbia in effetti una qualche importanza oppure un futuro, alza la testa nel vento, che acquista forza e intensità, e per un attimo immagina di essere spazzato via. A chi lo osservasse dall’altra parte della strada, il modo in cui solleva la testa potrebbe sembrare un atteggiamento di preghiera. Si dice che Dio si trovi nei turbini di vento e gli occhi di Harry Edmonds sono sicuramente chiusi e adesso tiene anche la testa china. Non si muove né avanti né indietro e dalla sua espressione non è chiaro se stia esprimendo un qualche desiderio. Rimane lì immobile, a quell’angolo di strada, mentre tutto intorno i fogli volano verso di lui e poi si allontanano. Un attimo dopo se n’è andato. Senza dubbio è tornato al suo lavoro in banca ed è lì che dobbiamo lasciarlo.

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