Il primo Natale, di Gábor T. Szántó

Anfora edizioni porta in libreria 1945 e altre storie, di Gábor T. Szántó, l’ultimo scrittore ebreo ungherese - come lui stesso si definisce. Prima opera tradotta in italiano, da Richárd Janczer e Mónika Szilágyi, si tratta di otto racconti che riflettono tematiche tra le più importanti del nostro tempo e della nostra storia. Racconti audaci, profondi e taglienti, ma nello stesso tempo toccanti, grazie allo stile asciutto e senza fronzoli dell’autore, spinto da un elementare senso di giustizia e compassione per le prospettive dei sommersi che vivono con noi (immancabile il riferimento a Primo Levi).

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

IL PRIMO NATALE

Il primo Natale Gironzolava tra i venditori di abeti di piazza Lehel. Non aveva mai comprato un albero di Natale ma, in quell’inverno del 1969, non riuscì a resistere oltre, i due bambini si lamentavano così tanto e ripetevano con tono così accusatorio che nella loro classe tutti avrebbero avuto un albero, solo loro no. Anche Anikó, sua moglie, lo guardò talmente disperata, come se cadesse veramente il mondo per il fatto che i bambini dovevano fare a meno di quel fottuto abete.
Robi, il figlio più grande, si mise a piagnucolare quando il padre lo interrogò sul perché non capisse che il Natale non era una loro festa, come non era una loro festa nemmeno la Pasqua, anche se ricevevano un uovo di cioccolato ogni anno.
Non è giusto che gli altri abbiano le loro feste e noi non ne abbiamo! disse tutto imbronciato il più piccolo tra i ragazzi, Peti, che si limitò poi a sbattere le palpebre e rimase in ascolto tutto intimidito. Il maggiore non polemizzò. Sentiva che, con il suo tumulto, avrebbe dato pena ai suoi genitori. Aveva anche paura delle conseguenze, per questo piuttosto sopportò in silenzio, ripiegato, il proprio dolore.
Non festeggiano nemmeno le feste ebraiche perché, spiegò il padre, per loro che ormai sono uomini moderni, illuminati, quelle sono cose antiquate, religiose. Le feste di famiglia, il compleanno, sono altro, come l’anniversario di matrimonio, ma gli onomastici, quelli non li osservano, perché non è usanza. All’apparenza, i bambini accettarono la spiegazione ma gli sguardi afflitti, che lanciavano al ritorno a casa da scuola, ai Babbi Natale comodamente adagiati nelle vetrine natalizie, agli abeti addobbati, mentre lui, tenendoli per mano, faceva per trascinarli via, dall’inizio di dicembre, giorno dopo giorno, non mancavano di ricordargli che i ragazzi soffrivano. Peti una volta gli fece presente, con rassegnazione: Lascia che guardiamo almeno qui, se a casa non ci sarà Natale!
Questo fece sobbalzare anche il suo di stomaco. Non aveva obiezioni. I suoi bambini soffrivano.
Decidi tu! Non voglio che poi te ne penta, che rinunci ai tuoi principi a causa dei bambini o a causa mia, sussurrò Anikó la sera quando, dopo che si erano coricati, tirò fuori l’argomento che lo logorava.
Perché io? Decidi tu! disse teso perché sentiva che la moglie desiderava molto la gioia dei bambini, voleva solo addossargli la responsabilità, perché sola era incapace di trasgredire i divieti radicati in lei dall’educazione dei genitori.

Stava lì, nel viavai del mercato, il caratteristico profumo di abete si era fatto strada nel suo naso e, mentre esaminava con lo sguardo i potenziali alberi (gli appartamenti di moderna costruzione, nel condominio di Újlipótváros, dove abitavano, avevano due metri e ottanta centimetri di altezza interna), riaffiorò in lui il ricordo del Natale del quarantaquattro, vivido anche dopo i venticinque anni trascorsi, quando il loro campo si trovava accanto a un bosco di abeti innevato.
Da allora non aveva più annusato abeti. Da allora niente più scampagnate. Era la vicina, un’anziana signora, a portare i figli in gita a Normafa o sul monte János, e badava spesso a loro anche quando andavano all’asilo; lui ringraziava ma non gradiva prendere parte alle escursioni.
Ho camminato a sufficienza per una vita intera, borbottò ad Anikó, che fece un gran sospiro:
L’aria pulita serve.
E bussò alla vicina, la signora Klári.
Stava in piedi al mercato, in mezzo agli abeti legati con lo spago, e si ricordò che nelle baracche di legno la stufa a malapena tremolava. Non sapevano se esserne contenti o no che non li spingessero a marciare ancora nella neve verso Occidente, o se avrebbero dovuto appunto considerare quella calma inaspettata come un segno di cattivo presagio. In quello stato era pressoché impossibile pretendere che proseguissero, anche se sospettavano che la distensione non fosse di buon auspicio. I viveri scarseggiavano, difficilmente avrebbero potuto contare su rifornimenti nel mezzo della foresta. Il villaggio più vicino era a due giorni di cammino nella neve che arrivava fino alle ginocchia.
Prima di mezzogiorno aveva fatto capolino un’altra unità, anche loro si accamparono lì. Chi era capace di seguire i giorni, sapeva che stavano trascorrendo proprio la sera di Natale assieme al resto dell’altra compagnia dei lavoratori forzati e del loro contingente. Avevano appeso in tutta fretta a un albero qualche decorazione fatta con fogli di giornale ritagliati e vi avevano fissato un paio di candele.
I soldati, per la gioia dell’incontro e della festa, avevano tracannato acquavite già dal primo pomeriggio e gli avevano imposto di uscire dalle baracche. Dovevano mettersi in riga e ascoltare il proclama del loro comandante, l’anziano capitano Ferenczy.
È Natale, giudei! Non so se lo sapete o no ma questa è la festa dell’amore. A quest’ora è nato Nostro Signore Gesù Cristo, che voi avete messo in croce. Ma, per farvi vedere che noi siamo diversi, noi vi lasciamo un’occasione. Allestiamo una gara di corsa e dovrà crepare solo chi rimarrà indietro. Gli altri la faranno franca. Questo è il vostro regalo di Natale. Gareggeranno, l’una contro l’altra, squadre da cinque per ciascuna delle due compagnie. Ognuno potrà sparare solo a chi rimane indietro e ai lavoratori forzati degli altri, è chiaro? si rivolse ai soldati. Senza regole non si può né giocare né vivere!
Da entrambi i lati, i membri del contingente scoppiarono a ridere.
Su, andiamo, si preparino! Se farà troppo buio, finiremo per sparare di qua e di là, manca solo che si facciano male altri, non solo chi è impotente e non ce la farebbe comunque a proseguire.
In silenzio, si tolsero di dosso, strato dopo strato, i cappotti, le giacche e i maglioni. Alcuni si tolsero perfino i pantaloni, rimasero lì a congelarsi in calzoni o vestiti solo di mutande, solo per non farsi ostacolare da nulla nella corsa.
Dovevano correre nella neve, dalla linea di partenza fino alla parete rocciosa della cava di pietra abbandonata distante ben sessanta metri. Al primo sparo, al segnale dato dalla pistola da starter, entrambi i gruppi si lanciarono a correre. Coloro che partirono in ritardo si rattrappirono completamente. Nel silenzio di tomba si udiva solo il crepitare della neve, il loro ansimare e il sibilare degli spari. Mentre muovevano le gambe frettolosamente, con movimenti sregolati, affondavano nella neve vergine fino alle ginocchia. Le pallottole che mancavano il bersaglio schioccavano sui sassi con sibili assordanti.
Il sangue puzza? guaì Váradi, il mercante tessile, appena sbatterono contro la parete rocciosa, uno accanto all’altro.
Non sapeva se il compagno stesse solo boccheggiando o se l’avessero colpito.
Non ne ho idea. Perché? rispose con una domanda, ansimando. Non si era ancora reso conto che era vivo. Perché, se non puzza, allora mi sono solo cagato addosso.
In quel momento eruppero dei suoni di guaiti anche da lui. Non solo l’altro, nemmeno lui stesso sapeva se stesse ridendo o singhiozzando, crollò così nella neve.
Voleva un regalo che rendesse memorabile per i ragazzi il loro primo Natale. Considerato che, nell’azienda di commercio estero in cui lavorava, i colleghi potevano importare articoli da regalo, per giunta esenti da dogana e senza specifici permessi, nelle due settimane restanti a Natale fu in grado di occuparsi del fatto che le sorprese che aveva adocchiato nel catalogo arrivassero ancora in tempo, prima della festa, dalla Cecoslovacchia.
Non fu tuttavia disposto a comprare gli addobbi per l’abete, le minuscole, colorate lampadine da pinzare all’albero, le bacchette scintillanti e i cioccolatini.
Comprale tu queste cianfrusaglie, va bene? disse ad Anikó, la quale annuì in silenzio e pensò: dopo essersi decisi con molta fatica di festeggiare, perché lui doveva rovinare tutto con la sua malavoglia, perché dovevano sentirsi male, quando si sarebbero potuti sentire bene?

Lui avrebbe intagliato il tronco dell’albero e l’avrebbe montato nella stanza grande, davanti alla finestra, Anikó invece l’avrebbe addobbato, così diceva l’accordo. Non era entrato nella stanza finché non si era fatto buio e la moglie, un po’ impacciata, non l’aveva chiamato con entusiasmo infantile, dicendo che avrebbero dovuto cominciare, che tirasse fuori i regali dai nascondigli, perché ormai i ragazzi erano molto impazienti. Accesero le bacchette scintillanti e dissero ai bambini che potevano venire.
I ragazzi rimasero davanti all’albero con il volto ardente, commossi. Il più piccolo guardava a bocca aperta le scintille, le luci colorate brillare e spegnersi. Inspirarono profondamente il profumo di abete e fosforo che aleggiava per tutta la stanza, Robi invece sbatteva le palpebre, ora verso l’albero, ora verso il padre e la madre, come se aspettasse da loro il segnale di cosa avrebbero dovuto fare.
La moglie gli prese la mano dietro la schiena. Lasciò che la moglie lo toccasse ma non mostrò alcuna reazione. Quando le bacchette scintillanti si spensero e rimasero solo le luci colorate, fissate ai rami dell’abete a illuminare, Anikó accese un abat-jour accanto al divano, ma egli, caparbiamente, accese il lampadario.
Cos’è? chiese Robi, prendendo in mano emozionato il regalo in comune. Peti stava già strappando anche la carta dorata dall’oggetto di forma allungata. Quando lo scartarono dalla confezione decorativa, ancora non fece capolino: la sorpresa era avvolta da un involucro in tessuto marrone.
È forse una canna da pesca? Robi volse lo sguardo al padre, pieno di meraviglia.
Ma noi non andiamo mai a pescare! Peti, perdendosi d’animo, lasciò cadere la carta regalo.
Il volto disciplinato, il sorriso enigmatico del padre non rivelavano se fossero vicini o no alla soluzione. I ragazzi allargarono l’apertura stretta del sacco ma dovette aiutarli anche lui a far sgusciare fuori dall’involucro il congegno d’acciaio, splendente di una luce nera, oleosa, discretamente pesante, ricoperto da una pellicola di nylon, un fucile ad aria compressa Slavia, modello 620.
Uh! Mitico! la riconoscenza eruppe unanimemente dai bambini. Tastarono l’arma, si misero la tracolla al collo, la portarono in giro per la stanza così, poi se la strinsero sulle spalle e provarono a puntarla, per provare quanto fosse pesante.

La madre li guardava preoccupata. I ragazzi, fino ad allora, non avevano ricevuto neanche una pistola giocattolo.
Basta che non ve la puntiate addosso e su nessun altro! Sussurrò all’orecchio del marito: Non creerà problemi?
L’uomo l’abbracciò e la strinse a sé.
La preoccupazione sul volto di Anikó non si placò. I ragazzi intanto ormai avevano piegato più e più volte la canna unendo le forze, riempivano il serbatoio d’aria e, vedendo l’assenso del padre che annuiva, avevano premuto il grilletto dell’arma scarica.
Su, ragazzi! Volete provarlo?
Sì, sì! Strillarono Robi e Peti.
Prestate attenzione! Vi mostro come si carica, glielo prese dalle mani.
Ma come potremmo provarlo qui? chiese Robi. Non abbiamo mica un bersaglio.
Un po’ di pazienza! disse il padre, che continuava a sorridere, come chi avesse premeditato il tutto.
L’abete si trovava di fronte alla finestra. Scostò le tende retrostanti e spalancò la finestra. Di fronte alla casa a cinque piani si spalancava uno spazio vuoto, terreni non edificati in attesa del proprio destino al posto dei depositi di legname di un tempo. Ritornò al centro della stanza, accanto al ragazzo.
Sui cioccolatini non si spara, solo agli addobbi! Inserì i minuscoli proiettili di piombo nel fucile e lo porse al figlio maggiore.
Robi indietreggiò stupito. Cercò con lo sguardo la madre che, con le lacrime agli occhi, strinse a sé il figlio minore.