L’erba grassa, di Romana Petri

Giulio Perrone Editore porta in libreria l’ultimo lavoro di Romana Petri: Mostruosa maternità, una raccolta di racconti che è un viaggio nella parte più oscura e indicibile dell’universo femminile. Iniziando e chiudendo con il caso Franzoni, i racconti iniziano nel Medio Evo per poi finire ai nostri giorni. In quel parte della mente può andare a finire il pianto dirotto di un figlio? Quale senso di inadeguatezza estetica durante la gestazione può fare impazzire? E perché si può accettare violenza sul proprio figlio da parte di un uomo che ne sia o non sia il padre? Che tipo di insana gelosia può provare una madre verso una figlia?

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

L’erba grassa

Akifa Šeremeta (Sarajevo), 1993

Spesso mi pento. Ogni volta me ne pento, ma siamo in guerra e non c’è scampo per nessuno.
Che non vedo la mia gente sono ormai due anni. Giorni di guerra e feste comandate, tutto da questa parte, in terra nemica. Dall’altra parte, invece, nella mia terra, c’è l’esercito di questa gente, e immagino ci sarà strazio anche per quei soldati in tanta lontananza. Lontananza nel tempo dell’assenza, perché volendo ognuno di noi potrebbe tornarsene a casa con poche ore di viaggio. Certe volte è così. Lontananza fatta di tempo che passa, non di chilometri.
Parliamo tutti la stessa lingua e questo è un bene, dice il mio comandante, la comprensione rende l’odio molto più autentico. Storie, dico io, col nemico non si parla mai. Quella comprensione che, dice il comandante, sta tutta nel pensiero, ma il pensiero esiste anche tra chi parla lingue straniere e non si comprende, perché chiunque, dal nemico, lo sa di essere odiato, lo sa e basta. Ciò che si impara qui è che il rispetto non c’è mai stato in nessuna guerra, che in fondo non esiste nemmeno in tempo di pace, perché altrimenti quale sarebbe mai il punto di partenza di una guerra? E non è vero nemmeno che si ama di più la propria gente, falso, è solo una condizione dello stare, non lo so spiegare bene, e tante volte mi addormento col pensiero che potrei svegliarmi e fare strage di chi trovo, chiunque sia.
L’unica cosa vera è che qui si pensa a caso: le lenzuola, la roba cucinata, i gesti che abbiamo visto fare fin da bambini, come quello di lucidare le maniglie delle porte che è sempre stato la passione di mia madre e il modo mio di guadagnarmi qualche soldo.
Si cambia molto qui, e per diventare tutti uguali: di una ferocia che poi non so quanto tempo ci vorrà a farla placare.
Il fatto del pentimento è cosa che se ne sta nel fondo, elemento veloce e passeggero che ha un suo peso diverso per ognuno. A volte esplode come una granata, ed è un fastidio, quasi un intralcio alla situazione nuova che dentro a ogni soldato ha preso una forma tutta sua. Il pentimento mio è del genere ubriaco, una caduta da eliminare in fretta. Ma è fatto a strati, e uno sull’altro si depositano come un ingombro di grande peso che poi si sbilancia. Lo sento dentro il corpo che se ne va in cerca di un luogo di maggiore convenienza, ci sono giorni in cui se ne va tutto dentro un piede, che diventa quello che trascino quando devo camminare, altri invece è una gobba deforme sulla schiena che mi spinge in avanti indebolendomi le gambe.
L’importante è disprezzare tutto ciò che appartiene al nemico, un bel ruscello pescoso che scorre tra le rocce, un campo arato, anche un tramonto.
Ho ucciso già molte volte, e mi sono accorto che in questo non c’è grande pentimento perché ho capito che va fatto senza pensare, prendendoci il gusto equilibrato del lavoro che va svolto. Mi dico sono uomini e stanno in guerra, come ci sto io in questo evento scritto dal destino.
Ma del nemico vanno odiate anche le donne, lo dice il comandante con una smorfia tutta obliqua della bocca, e poi sputa lontano. Dice che è colpa delle donne se ce ne sono sempre tanti in giro di nemici, ché li hanno partoriti loro con le nemiche pance. Mi è sembrata strana quella storia lì delle pance, senza una vera colpa, e ci ho pensato a lungo la scorsa primavera, mentre correvo in un campo d’erba grassa col fucile in spalla e il sudore a fiumi tra stoffa e carne. Abbandonavamo un casolare in fiamme che avevamo devastato col disprezzo necessario dopo aver ucciso i contadini senza rispetto per la loro morte. Siamo poi fuggiti tutti dietro al grido di uno dei nostri, aveva detto: «Le donne stanno nel campo oltre la valle!», e si era messo a correre veloce seguito da tutti quanti noi.
Mi avevano detto che le vecchie andavano ammazzate e le giovani prese di violenza per farle gravide del sangue dei nemici, e che al momento andavano sputate in faccia così come si esercitava il comandante quando raccontava. Lo diceva lui che andava seminato l’odio e che quello era un bel modo, lasciandosi alle spalle un po’ di seme sparso nelle schifose pance delle donne loro.
Con una donna io non c’ero stato mai, né con la forza né teneramente. E mentre correvo a precipizio, giù nell’erba grassa, sentivo che a eccitarmi era quel correre insieme agli altri, quell’arrembaggio molto fanciullesco che mi ridiede tutto il senso degli anni tanto lontani nella mia terra. Correvo io di quel momento ma anche un altro me, quello di un’epoca passata. E anche quell’altro così remoto lo sapevo trascinato dai più grandi che lo precedevano veloci. E pure lui correva dell’identico entusiasmo, ma ignaro dello scopo.
Fu questo a darmi una grande rabbia: la mia insignificanza, questo partecipare inutile e senza conoscenza. Stava calando il sole, e le ombre nostre corridore erano lunghe, frastagliate nell’erba che prendeva l’arancione di una bella luce. Lo sentivo tutto il peso del mio corpo, il suo calore, la fiacchezza senza più fiato. E poi mi ci ritrovai in mezzo e vidi ciò che facevano gli altri presi dall’impazzimento. Volevo dire: «Fermatevi che era solo un gioco!». E dentro lo stomaco sentivo che avevo fame veramente, che tutto si scuoteva dal basso verso l’alto in un battito del cuore che mi sembrava quasi esterno.
Vidi una vecchia appena uccisa, rovesciata a terra, col braccio destro mutilato da dove usciva ancora denso un flusso di sangue rosso scuro che allargava il suo disegno sull’erba grassa, in grandi riversamenti sparsi e subito assorbiti dalla terra.
Ad ascoltare e vedere ciò che accadeva tutto intorno, mi sentii preso dal verso giusto della situazione e con tutta la quantità del sangue mio che da freddo tornava caldo, pronto a partecipare a quel massacro solo perché certo di essere tra i vincenti, ché questo in guerra accade molto umanamente: di sentirsi predisposti a essere spietati quando si ha certezza di non correre noi stessi il rischio della morte. Questa è la condizione dello stare: fingimento e un poco di baldanza.
Così detti un grido forte di allegria ammattita, e dopo la breve sosta d’osservazione ripresi quella corsa a fin di male.
L’afferrai per un braccio e la voltai di forza guardandola negli occhi. Da lontano era una figurina acerba che correva, ma da vicino una donna senza attraenza, col fazzoletto scuro legato sulla nuca e scarpe troppo grosse per i suoi piedi. La sbilanciai col peso mio di tutto il corpo e le fui sopra sull’erba morbida con l’urlo nelle orecchie dei suoi lamenti di paura e il significato chiaro di tutte le parole. Mi venne voglia di ascoltare solo le sue domande e così le rispondevo dicendole dei contadini che avevamo ucciso e dell’incendio che aveva distrutto il casolare, mentre mi accorgevo che il calore del suo corpo dato dal respiro mi ripugnava come cosa estranea a me. Sentivo intanto le urla soffocate di quelle che morivano e le altre più straziate di chi subiva il furore greve del disprezzo. Mi disse: «Salva almeno me che aspetto un figlio». E me lo disse col sorriso, con la speranza di chi s’è accorto dell’indugio. Fu in questo suo atteggiamento che trovai la mia determinanza, ché tanto non avrei mai preso lei né nessun’altra. E allora la sputai, e subito la uccisi sparandole in gola, quasi soffocando nell’allagamento di quel sangue rosso che venne a sbruffarmi in piena faccia dandomi così, di tutto il mondo che vedevo intorno, la visione colorata dell’odio bellicoso.
Mi abbandonai poi supino nell’erba grassa, accanto al corpo suo morto che ancora gorgogliava di qualche solitario fiotto già scurito dal tramontare rapido del sole. E mi ritrovai nel giusto, nel gran bello e fatto che si adattava alla mia natura di soldato.
Dopo lo scempio di quel giorno ce ne tornammo tutti al campo nella stanchezza silenziosa del rientro. Di ognuno, nel bosco, sentivo il frusciare suo da animale e il viluppo che gli stava ancora addosso col profumo selvatico della violazione e del massacro.
Quando arrivammo era già notte e feci quello che andava fatto imitando gli altri, raccontai com’era andata la parte mia e dissi che dopo la violenza l’avevo uccisa per via che in quella pancia non c’era odio da lasciarci dentro. Fui giudicato giusto dal borbottio di tutti quanti prima di cominciare il giro delle bevute forti che offriva il comandante.
Mi addormentai con un pensiero esatto: quello dell’azione della guerra ben condotta e dell’anima pulita. Da quella volta ho sempre scelto donne gravide. Dei miei compagni nessuno si è mai accorto che non ne facevo abuso corporale. Con i pensieri giusti ho addomesticato sempre il pentimento momentaneo che indebolisce il cuore dei soldati, e continuo così con metodo sicuro: le sputo in faccia e poi le sparo tutte, le sparo e basta.