Gli esantemi e i lucumoni di Alessio Mosca

Nottetempo porta in libreria Chiromantica medica, la raccolta di racconti di Alessio Mosca. Se la realtà, a ben guardarla, è spesso allucinatoria, questi racconti rintracciano le sindromi nascoste e le configurazioni anomale che guidano le storie narrate dietro la sintassi apparentemente sconnessa, a tratti psicotica, degli eventi. Gli effetti narrativi sono del tutto singolari, onirici e concreti, comici e spiazzanti, lisergici e carnali. Un nuovo narratore con un immaginario che scarta fuori dai ranghi.

Cattedrale propone uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.



Gli esantemi e i lucumoni
di Alessio Mosca

Tutto quel che so è memoria delle fondamenta e delle mura, delle case e delle piazze, così che come una città muta io stesso cambio giacché il mio essere ricalca vie e palazzi, i miei desideri vivono nel cemento e nella calce, nel sogno proibito di una città perenne.
So del sottosuolo, di un uomo scomparso nelle viscere della Terra e di una strega affamata di luoghi infetti in grado di seguirne le tracce.
So di un dottore inconsolabile, della prima volta che si incontrarono. Lei scalciava e sputava mentre due guardie giurate la trascinavano fuori dal pronto soccorso.
“Lasciatemi! Maiali luridi che ve la prendete con una signora!” urlava.
“Tutto bene qui?”
“Niente, dottore, è solo la Sfacciata”.
“Andate pure, ci sto io”.
Mentre la donna si rassettava l’uomo notò i segni di una sindrome di Cushing avanzata, le guance gonfie, le ecchimosi e il ventre enorme sorretto da due gambette sottili come spilli. “Sta bene signora?”
La donna gli si avvicinò e gli diede una carezza.
“Lei prima era un esploratore o un archeologo. Come le città, gli uomini sono costruiti sulle rovine di altri uomini, come laggiù,” fece indicando l’ospedale.
“Lì prima c’erano delle tombe”.
Il dottore non fece in tempo a girarsi che la donna già fuggiva via. Non parli con gli infermieri, gli parve di sentire nel vento.
Era stato assunto da poco all’ospedale San Lazzaro di Volterra, a quel tempo tendeva a ignorare i piccoli falli di pietra che trovava negli interstizi dei muri, non prestava molta attenzione alle scritte sulle porte dei bagni in quell’incomprensibile alfabeto simile al fenicio o al greco antico. Li credeva scherzi o la stravaganza di qualche paziente psichiatrico. Non riusciva ad abituarsi a quei cunicoli stretti e a quelle vie che serpeggiavano nel tufo come se la città fosse emersa dalla roccia scavando fino a dissotterrarne i palazzi, sentiva che avrebbe potuto imboccare una stradina e senza rendersene conto ritrovarsi al centro della Terra.
So di quegli infermieri, del timore che incutevano, silenziosi e solenni come statue con quei nomi tutti uguali, Aulo, Aquilino, Attilio, Camilla, Lucrezia, Tarquinio. So dei loro capelli crespi e delle trecce, della barba a punta nerissima come gli occhi, grandi e allungati come se vi fosse l’ombra di un trucco ad accentuarne la forma.
“Non deve parlare con quella donna,” gli disse il caposala poco dopo che la Sfacciata era scappata via.
“Chi è la Sfacciata?” chiedeva il dottore. “Ed è vero che l’ospedale giace su una necropoli?”
Nessuno gli rispose.
Volle saperne di più, ma delle cartelle cliniche della donna non vi era traccia. Cominciò a fare domande ai colleghi.
“Lasci perdere,” gli dicevano.
“Si occupi d’altro. Che c’è? Nostalgia di casa?”
Gli infermieri invece non rispondevano affatto, alzavano le spalle o parlavano di un palazzo in costruzione. Gli sembrava che le loro espressioni lugubri si deformassero e che per attimi impercettibili digrignassero i denti e ruotassero gli occhi come diavoli o malati di tetano.

So dell’ossessione di cui a poco a poco fu preda. Decise di cercare la Sfacciata fuori Volterra a costo di frugare in ogni nosocomio, clinica o sanatorio, a costo di perdere tutto.
So che all’ospedale di Arezzo alcuni manutentori ne riconobbero la descrizione, che era stata vista entrare e uscire dagli ambulatori di Chiusi e che, a detta di un portantino, era stata ricoverata fino a pochi giorni prima al pronto soccorso di Pitigliano. Il dottore riuscì a delimitare una zona entro la quale la donna si muoveva, un’area che dall’Alto Lazio, costeggiando il Tirreno, arrivava fino a Pisa e Pistoia e, riscendendo, si allargava sfiorando la valle del Nestore e il Trasimeno. Era come se circolasse una leggenda per gli ospedali di quel pezzetto di terra dal nome dolce e divinatorio che i locali chiamavano Tuscia, una leggenda che tutti facevano finta di non conoscere ma che viveva nella febbre e nei suoi vaneggiamenti, nelle parole balbettate in punto di morte o sussurrate a mezza bocca dai portantini. La leggenda parlava di una donna impazzita, del marito scomparso anni prima nella necropoli di Veio e di come da allora lei si inducesse di proposito uno stato di immunodepressione iniettandosi del cortisone in vena pur di contrarre in quei luoghi infetti una qualsiasi malattia che le marchiasse la pelle.
A commuovere il dottore era qualcosa che aveva a che fare con l’ostinazione, quel tipo di ostinazione legata indissolubilmente ai pazzi o agli innamorati: per qualche oscuro motivo, lei in questo modo sperava di ritrovare il marito che ancora credeva vivo nelle viscere della Terra.
So che quando finalmente si incrociarono nel pronto soccorso dell’ospedale di Cerveteri, il dottore sorrideva ma le sue ginocchia tremavano, so che la donna era seduta su una barella dove, piegata sulle proprie gambe, ricalcava con carta velina le ecchimosi che le erano venute sulle cosce. Era notevolmente peggiorata, il cortisone l’aveva gonfiata ancora di più, si era ingobbita e le guance rosse sembravano infuocare il resto della pelle color della cenere.
“Chi è lei? E cosa è successo a suo marito?” chiese tenendole una mano.
La donna blaterò, si guardò intorno come una paranoica e sputò. Balbettò di cunicoli e catacombe, di reti fognarie scavate nel tufo che portavano a cripte divenute scantinati, di come ogni sera arrivasse a sfiorare le dita del marito senza mai riuscire a raggiungerlo.
“Ma io ce la farò, capito? Riuscirò a salvarlo”.
Poi ripiegò il foglio e lo mise in un quaderno che porse al dottore, un regalo, come volesse confidargli un segreto per ringraziarlo di tanta gentilezza. Proprio in quel momento entrò di corsa un manipolo di uomini vestiti di bianco, le si fecero attorno e portarono via la barella d’urgenza. Il dottore fece appena in tempo a nascondere il quaderno sotto i vestiti e a urlare: “Fermi! Fermatevi!” prima che le guardie giurate lo pestassero fino a fargli perdere i sensi.
Quando si riprese, era notte e la donna era già morta.
“Un arresto cardiaco,” dissero ridendo con gli occhi.
Il dottore allora corse a casa stringendo il quaderno sotto al cappotto, assicurandosi che nessuno lo seguisse, sprangò porte e finestre e lo sfogliò. C’erano autoscatti, la donna aveva conservato le foto che ritraevano tutti gli sfoghi e le malattie della pelle avuti negli anni e su quelle foto aveva disegnato linee e schemi, preso appunti e sovrapposto planimetrie e carte topografiche, era una sorta di trattato di dermatologia e urbanistica.
Le croste erano come fondi di caffè e i loro contorni seguivano i perimetri della città vecchia di Tuscania, le ecchimosi erano come linee di una mano o tarocchi e rispecchiavano il Mitreo di Sutri, le vescicole di un herpes erano presagi di mappe sulle quali decifrare la rete fognaria di Fiesole, le pustole della psoriasi indicavano la posizione delle grotte di Orvieto, i tunnel e le gallerie, e giuro che unendo con una matita le petecchie di una vecchia vasculite si ricostruiva il labirinto di Porsenna e pure il perimetro delle mura ciclopiche di Vetulonia.
I tumuli della Necropoli di Tarquinia erano i pomfi o le bolle che le erano venuti quando la donna era ricoverata all’ospedale di Vulci, come se quei sepolcri rivelassero l’ustione della Terra.
Le strie rubre si dipanavano come le strade cave di Sovana, le papule purpuriche indicavano la Tomba Ildebranda, quella del Tifone, delle Sirene o la chiesa di San Mamiliano. Era l’aruspicina dei cunicoli e dei mattoni, la divinazione degli esantemi e delle macule, era come se quella donna avesse scoperto un’arcana corrispondenza fra uomo e città e la memoria stessa dell’umanità fosse custodita nelle fondamenta e nei luoghi così come sulla sua pelle. Una strega che si orientava su mappe ottenute interpretando papule ed eczemi, abituata a stare sottoterra a contatto con i vermi e la muffa nella speranza di ritrovare il marito inghiottito da quell’oscurità. Era la sacerdotessa dei tunnel e delle verruche, di una rete sotterranea che collegava tutti i luoghi dei Tirreni dove un uomo scomparso nei cunicoli della necropoli di Veio poteva essere ritrovato nell’Ipogeo di San Manno a Perugia o nelle cantine abbandonate di un vinificio di Cortona.

So che quando il dottore tornò al lavoro i suoi pazienti iniziarono a morire, che non appena usciva dalla stanza quelli collassavano. Siringhe d’aria o emboli, infarti fulminanti o sortilegi. So che vedeva i risolini etruschi degli infermieri che simili ad apolli di Veio ricoprivano i cadaveri con un lenzuolo.
Pur di non allontanarsi dai pazienti iniziò a vegliarli, a dormire accanto a loro, ma bastava che chiudesse le palpebre un istante e veniva risvegliato dal rumore continuo del monitor che segnava l’assenza di battito cardiaco.
So che lo trovarono con un coltello in mano che minacciava di sventrare chiunque si fosse avvicinato alla stanza dei suoi pazienti, so che quel giorno fra loro c’era anche una bambina. Lo presero per pazzo, fu cacciato e radiato dall’albo.
Allora prese le piante e le planimetrie delle città, degli scavi, del sottosuolo. Aveva ancora con sé il quaderno su cui la Sfacciata aveva impresso le sue ecchimosi: cominciò a cercare schemi e punti di riferimento, a sovrapporre tavole e a lanciare dadi. Due lividi a forma di u potevano corrispondere alla Porta dell’Arco etrusco e alla Porta Diana, due macchie potevano combaciare con l’acropoli dietro al Palazzo dei Priori e all’ospedale San Lazzaro.
So che con una matita unì gli altri punti e disegnò corsi e stradine, fece emergere vie e piazze, e che quella mappa improvvisata gli indicò un percorso. Lo seguì finché si ritrovò davanti la chiesa di San Giusto. Entrò. Trovò una lapide incastonata nel pavimento su cui erano incisi gli stessi caratteri indecifrabili che aveva già incontrato nel suo peregrinaggio, la spaccò e si calò dentro. Si ritrovò in uno spazio circolare scavato nel tufo, una tomba ipogea dalla quale si dipanava un’intricatissima rete di grotte e gallerie. Fece qualche passo in avanti, arrivò sulla soglia del labirinto poi tornò indietro e corse via. Corse davvero.

* Appunti scritti dal dottore:
L’aorta è un architrave.
E gli occhi cortili.
Le ossa sono travi
o pilastri, i nervi solai.
Le vene sono archi e le arterie corridoi.
Il cuore è la chiave di volta.