Safarà Editore porta in libreria Fra le tue dita gelate. Racconti fantastici, di Francisco Tario, per la traduzione di Raul Schenardi.
Dedicato all’amata moglie Carmen Farell, il “mágico fantasma” che attraversa impalpabile il respiro di ogni pagina, questo libro è considerato all’unanimità il capolavoro di Francisco Tario, enigmatico protagonista della letteratura messicana del Novecento. Scritti con una prosa di inquietante bellezza, i racconti surreali, grotteschi e sensuali qui riuniti illuminano i varchi di accesso verso una dimensione altra che scorre parallela alla comune percezione, disseminando il testo di anticipazioni che solo i lettori più scaltri sapranno individuare e svelando, solo in parte, l’enigma della narrazione.
Cattedrale vi propone uno dei racconti del testo, per gentile concessione dell’editore.
La panchina vuota, di Francisco Tario
Traduzione di Raul Schenardi
Ogni giorno, a partire da quello in cui venne assassinata, aveva l’abitudine di tornare a casa sua, dove trascorreva le ore morte.
L’intimità della sua casa, gli odori del giardino, il pallido splendore degli specchi, tutte quelle cose care e familiari, ora avvolte in un emozionante mistero, le offrivano le ore migliori della sua morte, come in altri tempi le avevano riservato i momenti più indimenticabili della sua vita.
In altri tempi, tuttavia, persisteva nella casa, anche durante i pomeriggi più silenziosi, un rumore fastidioso, come se la casa intera si riempisse di foglie, ed era, oggi lo capiva, il respiro vivo della sua casa, perché allora la sua casa viveva, era lei, e la vita non è mai silenziosa.
C’era sempre qualche presenza maligna, che fosse quella del postino, o quella dell’orologio che segnava l’ora, o quella del campanello del cancello che annunciava qualche visita ina- spettata; o anche quella di lei stessa che scendeva le scale, la sua voce o quella del marito, o il proprio riflesso nello specchio.
Non era mai assoluta la quiete, come se un mare addormentato smuovesse le proprie acque sotto le piante del giardino.
E lei si lamentava spesso – ma come opporvisi? – del fatto che la sua vita, che era così breve e così bella, venisse turbata a qualsiasi ora da tante presenze tanto insistenti. Vivere sembrava inutile, era come una lotta forsennata fra qualcosa che nascondeva il suo pensiero e qualcosa che restava occulto tra i fiori.
Se n’era accorta da tempo, ma soltanto oggi riusciva a spiegarselo. Soltanto oggi, dalla sua silenziosa morte, da quell’immobile silenzio e da quella perpetua immobilità, dove non c’era niente da sperare, perché tutto quello che si sarebbe potuto sperare si era già realizzato, lei godeva di una serenità propizia per fermare il suo pensiero dove le conveniva, e per tutto il tempo necessario, sapendo che nessuna emergenza si sarebbe frapposta fra lei e il suo pensiero.
La casa era chiusa, sbarrata da anni, e sulla porta c’era un sigillo.
Quel sigillo lasciava intendere ai passanti che a nessuno di loro sarebbe stato permesso di abitare in quella casa, che era una casa proibita, forse maledetta, chiusa a qualsiasi destino di gioia. Che era, insomma, la casa stessa della morte.
Gli alberi, i cui rami secchi cadevano pesantemente sulla casa, erano fioriti e guardando attentamente quel sigillo, la donna trasaliva. Quel sigillo si riferiva a lei, parlava a tutti della sua intimità e del suo nome, era come il breve diario della sua vita. Ed erano tutte le sue memorie, i suoi dispiaceri, i suoi affetti, i suoi vestiti. Avrebbe potuto ripercorrere la maggior parte della sua vita soltanto guardando quel sigillo.
Ora toccava con timore quel sigillo, che cominciava a ingiallire sulla porta, e stava attenta che non venisse rotto, per- ché aveva l’impressione che, una volta rotto quel sigillo, si sarebbe spezzato in lei qualcosa di insolito e di caro, e che la tenue nebbia che ora l’avvolgeva, come c’era da aspettarsi, avrebbe formato un’oscura nube e l’avrebbe allontanata definitivamente dalla sua casa.
Dal balcone ora guardava i suoi pensieri; guardava le rose del suo giardino, che erano diventate selvatiche. Ricorda- va di aver avuto un cappellino giallo, con un gran mazzo di pensieri. E questi pensieri del suo giardino, quelli di cui pure era solita lamentarsi perché non ci trovava alcun aro- ma, pur essendo, come erano stati, i suoi fiori preferiti, oggi emanavano un profumo sconosciuto, che arrivava a farle gi- rare un po’ la testa. L’aroma saliva dal giardino e si diffondeva per la casa. Aspirando quell’aroma provava un vago e incomprensibile disagio. Tutto si conservava uguale; era strano. L’orologio si era fermato in una lontana e misteriosa ora, che lei non ricordava. E un giorno che le venne l’idea di mettere in moto l’orologio, questo ubbidì fedelmente, con una graziosa esattezza, e continuò per vari giorni a lasciarle sentire la sua musica. Sembrava addirittura che le rivelasse l’ora, dal suo cantuccio, in cui necessariamente qualcosa doveva succedere nella casa. E lei sorrideva nel sentirlo suonare e muoversi all’interno della sua teca di vetro. Sorrideva della sua serietà e della sua fretta, dato che non c’era più niente da segnalare e niente da fare, una volta che tutto, persino le cose più intime, era fatto. E durante interi pomeriggi la donna assassinata si sedeva sul suo grande divano rosa, con un libro fra le mani, non lontana dal balcone.
Quei libri non le offrivano alcuna novità; li aveva letti tutti. Ma restava importante far scorrere lo sguardo su un oggetto familiare, quando le cose erano tanto cambiate.
Nulla di nuovo le dicevano i libri. La riportavano a vecchi tormenti di amori e gelosie e, quando si imbatteva nelle orme della sua vita perduta, nella semplice impronta delle sue dita, in un fiore o un segnale che le ricordavano qualche vecchio fremito della sua anima, si commuoveva e sospirava, provando un tenero amore per uomini che non conosceva e per coloro che avevano scritto quei libri.
Tutto si conservava uguale e lei faceva in modo che continuasse a essere così. Non voleva disturbare l’ordine di una casa che le apparteneva in modo così completo, che era ancora sua, mentre tutti supponevano che fosse disabitata e solitaria. All’interno di quella casa c’era una vita costante, invisibile e attiva; un’esistenza occulta che spiegava di per sé perché la casa non invecchiava, perché ogni mattina sembrava più radiosa e soleggiata, e com’era possibile che gareggiasse sotto ogni aspetto con le altre case. L’edera copriva i suoi muri; ed era un’edera giovane e tenera sopra la pietra grigia del muro.
E in quelle memorabili notti fredde, quando lei e il marito tornavano da teatro e la porta dell’ingresso si apriva, lasciando intravedere l’interno completamente illuminato, e la casa intera tremava di luce, lei pensava a quanto fosse misterioso vivere, entrare piano piano nella propria casa e sentirsi avvolta nella luce e nel calore, trasformarsi in una sorta di immagine dorata o in un piccolo vuoto che si riempiva di quella luce e di quel colore così speciali.
A questa sensazione di benessere notturno e di vaga gratitudine, però, faceva subito seguito un’altra impressione più grave e precisa, conseguenza della precedente, e quasi il suo fine, quando il benessere fisico le annunciava un malessere improvviso che la spossessava di quel calore e di quella luce così speciali. E così lei pensava, notando come si chiudeva la porta alle sue spalle, che sarebbe stato orribile morire, non entrare più nella propria casa, restare abbagliati in un simile modo e non sentire più, di notte, quando la porta si chiudeva.
Allora lei e il marito cominciavano a salire le scale, lui con il cappello in mano, si sfilava piano piano i guanti e le do- mandava se non avrebbe gradito bere un caffè prima di andare a letto. Di solito preferiva un liquore, perché le piaceva guardare il liquore in controluce; e suo marito si avvicinava al camino e si fregava le mani, impaziente. Lui diceva che tempo faceva, oppure che la prima non gli era piaciuta e contemplava per un momento il giardino sollevando un lembo delle tendine. Era una dimora dorata. Dorata per il fuoco che ardeva, per la brevità e la dolcezza della vita e per i fiori dorati che decoravano il soffitto. E lei, ancora avvolta nel soprabito, continuava a chiedersi come sarebbero potute es- sere le notti, quelle notti che l’aspettavano e di cui nessuno aveva saputo dirle qualcosa. E se non sarebbe stato possibile che quelle notti, considerando quanto era giovane e bella, fossero diverse.
Si rifiutava di pensare che quel mondo complicato e vivo, così dorato, scomparisse di colpo. Che le cose più appassionate della sua vita non avessero senso. Che tutto rimanesse nell’oscurità, come quando cala la notte.
Voleva sapere se, perlomeno, sarebbe riuscita a ricordare quell’istante. Se avrebbe potuto conservare un po’ di vita. E non sapeva decidersi, se le avessero permesso di scegliere, se morire senza riserve e dimenticare tutto, oppure accumulare certi ricordi, ordinarli e classificarli, al fine di riviverli nuovamente e formare con quelli una seconda vita fatta interamente di ricordi.
Questo oblio delle cose la scoraggiava. Non si decideva a scegliere quella dolorosa dimenticanza; ma la intuiva. Sospettava che ad attenderla ci fosse un oblio di quella natura.
Allora si versava un altro calice, faceva risuonare ritmica- mente i suoi gioielli, oppure tratteneva il calice sulle labbra, per convincersi del suo sapore, del dolce miele che le lasciava sulle labbra, e non poteva accettare che tutte quelle luci che illuminavano la casa, tutte le cose che conosceva e desiderava, e tante altre che aveva riunito e conservato, così minuscole e meravigliose, la sensazione del liquore nel suo corpo, presto si sarebbero oscurate, si sarebbero interrotte contro la sua volontà, facendo pensare agli altri che lei non fosse mai esistita.
Rievocando tutte queste cose, ora la donna gettava indietro la testa contro la spalliera del divano e sorrideva. Trascorreva notte e giorno sorridendo. I ricordi la intenerivano. Il ricordo dei suoi pensieri la commuoveva.
Commossa, guardava sé stessa su un divano, all’altra estremità della sala. Si vedeva in un pomeriggio come tanti altri e sentiva il cocchiere bussare alla porta. Nel pomeriggio usciva sempre a fare un giro. Si sentiva pensierosa e sola; ma molto bella. Teneva in mano dei guanti. E adesso questa sua vecchia immagine la inteneriva, bella e giovane com’era, con quei guanti, e si sentiva perdutamente attratta verso di lei, verso quell’oscura tristezza che intuiva nella sua espressione e in quella precoce stanchezza con cui aspettava l’auto.
Commossa, le andava incontro, e si parlava, si interrogava instancabilmente su quali pensieri e quale stanchezza potesse aver avuto a quell’ora; che cosa desiderava, che cosa sperava, chi amava e, soprattutto, se l’inviolabile segreto che nascondeva nella sua anima, solo per sé, alla fine le sarebbe stato rivelato con maggiore chiarezza. Ma siccome quell’immagine del divano insisteva nel rimanere assente, dato che era un’immagine viva e innamorata, di solito si limitava semplicemente a chinarsi su di lei, a prenderle il viso fra le mani, a contemplarlo e baciarlo e stringerlo a sé, ripetendogli che l’unica cosa che riusciva a risollevarla un po’ era lo stupore che le provocavano ora la sua antica gioventù e bellezza.
Si svegliava più tardi, da sola. Quando era già giorno.
Dal giardino salivano delle esalazioni, e queste esalazioni e la sua solitudine le restituivano lo strano benessere precedente, perché quell’immagine sognata, e persino la propria voce – «A che cosa pensi?» – le avevano provocato un dolore effimero, come se esistesse di nuovo un’altra volta e di fronte a sé contemplasse non la propria immagine viva, bensì morta, come le succedeva di solito in altri tempi.
La turbava sapere che soffriva, scoprire che qualche volta aveva sofferto nella vita.
Allora si alzava, ormai tutta avvolta nel sole del mattino, invisibile come un raggio di sole, e vagava da una parte all’al- tra della casa. Sedeva al sole in giardino o si aggirava come un’immagine viva fra gli alberi. Erano dorati gli alberi e a poco a poco si stava dorando il giardino, perché era la stagione dei sempreverdi. E in questa atmosfera dorata, che da fuori sembrava di poter toccare, vagava senza sosta, speranzosa, lasciava sfuggire il tempo, si dimenticava del tempo e si sentiva piacevolmente impercettibile, curiosamente insignificante, e si chinava sui fiori, lasciandosi trafiggere dal sole, sognando di morire di nuovo, desiderando morire ancora di più, di svanire e acquisire così un’altra forma di vita, ancora più lieve, per godere meglio del giardino e della casa.
Chi l’avrebbe ricordata, ormai, pensava.
E in effetti svaniva, ma senza rendersene conto. Anche quella vita misteriosa era giunta alla fine. Anche l’invisibile aveva una fine, moriva.
Era come se, un giorno dopo l’altro, ogni nuova corrente d’aria le portasse via, a sua insaputa, una di quelle ineffabili foglie di cui era costituita. Come se un soffio di vento, che non si percepiva nemmeno, le rubasse ogni giorno una foglia.
E lei immaginava che tutto quel malessere che la invadeva, quella sensazione di cadere e perdere le foglie, come se il cielo si rannuvolasse, o qualcuno muovesse dolcemente un ventaglio alle sue spalle, costituisse una gioventù e un amore sconosciuti, in cui entrava adesso; e in effetti smetteva costantemente di esistere, ormai non era più nemmeno la propria ombra, bensì il vuoto di sé stessa, dato che il sole la feriva e la penetrava, la rendeva trasparente, e di notte veniva inondata dentro dall’oscurità; in effetti scompariva e di quello che era stata non rimaneva ormai che il nero vento notturno.
Chi l’avrebbe ricordata, si ripeteva.
Quasi nessuno la ricordava; era vero. E perciò moriva. Sol- tanto un ultimo ricordo, disperato e preciso, la teneva in vita da lontano. Di chi poteva essere quel ricordo? Chi la ricordava, desiderando ora che non morisse? Viveva i suoi ultimi giorni alla mercé di quell’unico pensiero. E non appena questo pensiero si fosse estinto, non appena quel ricordo avesse smesso di esistere, anche lei avrebbe smesso di esistere – lo capiva –, ma non aveva nemmeno la forza di pensarlo. Tutto era sempre più lieve di sera. Avrebbe voluto non dimenticare quei crepuscoli. E sentiva che anche l’ultima foglia le sfuggiva. «Mi hanno dimenticata» sospirò. E guardò la sua casa. Il sole batteva sui balconi e se lo immaginò sul tappeto. Scorse uno sprazzo di sole nel suo specchio. Si sentì lontana e confusa, infinitamente dimenticata, ma felice. Le sarebbe piaciuto fermarsi, in realtà. Ricordava ora, gettando indietro la testa e continuando a ridere mentre succedeva, una lettera che non aveva scritto.
Poi pensò che si sarebbe dovuta sedere sulla panchina. E così fece. Ma la panchina rimase vuota.