O la biblioteca o la vita!, di Alejandro Zambra

Il cambiamento può essere una forza dirompente  ̶ un’intuizione scientifica che genera una scoperta, un avvenimento che stravolge le nostre vite  ̶ o una lenta trasformazione che modifica il nostro paesaggio, mentale o naturale. Qualunque forma assuma, è proprio il cambiamento a circoscrivere i parametri della nostra esistenza, di cui è il motore fondamentale.
Provano a raccontarcelo, in questo numero di Freeman’s - la rivista curata da John Freeman che Black Coffee pubblica ogni anno a Marzo - autori celebrati come Lauren Groff, Aleksandar Hemon e Ocean Vuong accanto ad altri a noi meno noti, provenienti dai quattro angoli di questo mondo sconvolto dai recenti mutamenti. Perché è la narrazione che facciamo del cambiamento a farci capire chi siamo.

Gli autori di questo numero:

Joshua Bennett, Christy Namee Eriksen, Lauren Groff, Sulaiman Addonia, Jakuta Alikavazovic, Kyle Dillon Hertz, Rick Bass, Lina Mounzer, Ocean Vuong, Sayaka Murata, Aleksandar Hemon, Adania Shibli, Sandra Cisneros, Zahia Rahmani, Yoko Ogawa, Alejandro Zambra, Elizabeth Ayre, Mark Strand, Kamel Daoud, Yasmine El Rashidi, Valzhyna Mort, Siarhiej Prylucki, Dmitry Rubin, Julia Cimafiejeva, Uladzimir Liankievič, Lina Meruane, Julia Alvarez, Lana Bastašić, Rickey Laurentiis e Cristina Rivera Garza.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti in questo numero della rivista, per gentile concessione dell’editore.

O la biblioteca o la vita!
di Alejandro Zambra

1

«La mia patria è mio figlio e la mia biblioteca» disse una volta Roberto Bolaño, e anch’io vorrei dire esattamente la stessa cosa ma la biblioteca non ce l’ho più, l’ho regalata: tre anni fa, poco prima di venire in Messico, decisi di donare tutti i miei libri all’università dove lavoravo. Se la biblioteca è la patria, penso a volte con fare melodrammatico, io ho rinunciato a entrambe.
Il desiderio di possedere sembra una forza inarrestabile, ma è altrettanto vero che ci sono ragioni in abbondanza per disfarsi della propria biblioteca: ad esempio la mancanza di spazio, i traslochi, uno slancio filantropico, la vicinanza con la morte, oltre a ragioni meno precise e forse ignote al proprietario, come l’esaurimento, la depressione e la stupidità.
Nel mio caso tutti questi motivi si combinarono e confusero tra loro: la biblioteca che mi ero tirato dietro e avevo protetto fin dall’adolescenza era diventata di colpo una sorta di cimitero, e nessuno dei soliti alibi che usavo per giustificare l’accumulo di libri – necessità professionali o emotive, collezionismo, sindrome di Diogene, eccetera – era abbastanza forte da liberarmi da quella sensazione.
In realtà, la mancanza di spazio non è mai stata un argomento che abbia pesato più di tanto. All’inizio l’assenza di mobili adatti portò a un paesaggio di torri pendenti a un passo dal crollo; poi però lo spazio aumentò, forse pure troppo: la mia casa non era grande per una famiglia, ma quando quella famiglia smise di esistere divenne immensa per me, la mia cagna Sardina e la mia gatta Oscuridad, e perfino per gli amici, anche loro appena separati, che si disputavano la stanza degli ospiti. La biblioteca continuò a crescere al ritmo di un’edera ai tropici, ma c’era ancora spazio per appendere alla parete principale, ad esempio, la bella foto del poeta Jorge Teillier regalatami dal fotografo Miguel Sayago.
L’unica volta che ho contato i miei libri ne avevo novantadue, tutti letti e in buona parte riletti. Vent’anni dopo, nell’imminenza dell’addio, non mi è nemmeno venuto in mente di contarli; poi però ricevetti un file Excel con l’inventario, composto pazientemente dai bibliotecari dell’università: tremilaseicentotrentaquattro libri. Quindi, tra i ventuno e i quarantuno anni di età, avevo accumulato tremilacinquecentoquarantadue libri o, per metterla in cifre più intelligibili, in vent’anni la mia biblioteca si era moltiplicata di 39,5 volte. Secondo un altro modo di processare i dati, e forse quello che più mi impressiona: in quei due decenni, sulle mensole è arrivato un libro nuovo ogni 2,03 giorni.
È di pessimo gusto vantarsi dei beni materiali, perfino se si parla di libri, ma immagino che farlo col senno di poi, dal mio presente quasi francescano, possa mitigare la mia mancanza. A volte mi sorprendo a guardare come uno stupido il file Excel, come un impresario in rovina che controlla, con malinconia, vecchi estratti conto della banca. Il mio grado di pentimento varia: ci sono giorni in cui, nel ricordare i libri perduti, provo orgoglio e penso addirittura, con indulgenza, alla mia presunta generosità, o visualizzo alcuni cari ex alunni aggirarsi felici tra gli scaffali; ma mi capita anche semplicemente di non conoscere più la persona che ha preso quella decisione tanto splendida quanto idiota. Mi mancano alcuni libri in particolare, ma mi mancano anche tutti in generale, compresi i non pochi esemplari che non ce l’ho mai fatta a leggere o che so non avrei riletto mai.
A proposito, mentre mi gingillavo con l’idea di – forse è questo il verbo esatto – sgravarmi della mia biblioteca, continuai ad accumulare libri, il che non è poi tanto strano, come sappiamo bene noi fumatori, gente a cui di solito viene più voglia di fumare quando parla del proposito improrogabile di smettere.

2

Molto prima di disfarmi della biblioteca, un mattino all’inizio del 2016, a metà del periodo che trascorsi a New York, la mia amica Blanca mi chiamò da Santiago per dirmi che era incinta, e dopo le domande e i complimenti di rito finimmo per parlare di passeggini, un argomento di cui non sapevo nulla ma di cui lei e Daniel – il futuro padre – sapevano o sembravano sapere tutto: avevano studiato scrupolosamente ogni opzione fino a trovare il passeggino ideale, ma esitavano a comprarlo, perché in Cile costava quasi il doppio che negli Stati Uniti.
In un raptus di generosità di cui poi mi sarei pentito amaramente, mi offrii di portargli io stesso il passeggino, qualche mese dopo, quando fossi tornato a Santiago. Blanca rifiutò categoricamente, ma notai la speranza nella sua voce (adesso penso che forse l’aveva impostata, perché di mestiere fa l’attrice). Non feci fatica a convincerla (o lei a farmi credere di averla convinta), tanto che comprarono il fantastico stroller quella stessa sera, e io non mi capacitai del casino in cui mi ero infilato se non la settimana dopo, quando due afflitti signori di Amazon mi depositarono in salotto due enormi scatoloni.
Ovviamente non potevo presentarmi in aeroporto con quegli scatoloni: dovevo montare il passeggino e registrarlo come un bagaglio qualsiasi. Feci passare qualche giorno finché dal Cile non arrivò il mio amico Rodrigo che, con quell’incomprensibile gioia che alcune persone provano nel disimballare e assemblare aggeggi, dedicò il suo primo pomeriggio a New York a montare il passeggino che, da quel momento in poi, era rimasto in un angolo, in paziente attesa del viaggio.
«¿Y el bebé?» mi chiese, mesi dopo, un’impiegata colombiana della Latam Airlines. Aveva un tono di pura curiosità, ma mi innervosii lo stesso. «Il bebè viaggia con sua madre» le risposi, solenne. «¿Y es juicioso?» «Sì» le dissi, senza sapere che cosa mi stesse chiedendo, perché allora non conoscevo quel modo curioso dei colombiani di chiedere se un bambino si comporta bene.
«E perché non viaggiate insieme?»
«Perché non vogliamo che Jacinto» il primo nome che mi venne in mente «perda entrambi i genitori nello stesso momento. Sono partiti con il volo di ieri».
Mi avviai al gate pensando ai genitori che volano per rincontrare i loro figli, e mi dispiacqui per una lunga serie di terribili incidenti immaginari. Sull’aereo cercai di dormire, ma il mio umore cupo mi portò a pensare alla mia cagnolina, morta da poco, a dieci anni d’età: il mio amico Puppo, che badava a lei, aveva trascorso settimane atroci tra la casa e la clinica veterinaria. Era una bastardina grossa e bonaria, che ringraziava per ogni passeggiata serale con bizzarri ansiti di felice stanchezza.
«¿Y la guagua?» mi chiese il tassista qualche ora dopo, a Santiago. «Il bebè non c’è» risposi, brusco.
L’uomo mi guardò con uno sguardo di scuse, anche se la domanda era pertinente: avevamo appena sistemato nel portabagagli tre valigie pesantissime e il passeggino ancora nuovo di pacca che, grazie a un allenamento intensivo alla vigilia del viaggio, maneggiavo ormai con destrezza, come se fossi un padre abituato a montarlo e smontarlo di continuo.
Arrivato a casa, per prima cosa abbracciai Oscuridad. Dopo un anno di lontananza mi aspettavo che avrebbe opposto resistenza, che mi castigasse per qualche giorno, invece mi accolse con naturalezza, come se non me ne fossi mai andato. Poi constatai l’assenza di Sardina – il cortile era troppo silenzioso e le ciotole stavano impilate vicino a un sacco quasi pieno di mangime Eukanuba – e trangugiai un caffè orribile in piedi in salotto, guardando le mensole. Mi ero quasi deciso a disfarmi della libreria, e se ancora mi restavano dei dubbi, in quel momento si dissiparono: sentii che quei libri non mi appartenevano più, che le uniche cose mie in quella casa erano la gatta, le valigie e quel passeggino che non era neanche mio davvero.
La settimana dopo andammo dal veterinario. Mi sembrava che Oscuridad scoppiasse di salute ma non era così, anzi, tutto il contrario: morì di lì a qualche giorno. Subito dopo averla seppellita in giardino e aver pianto in modo imbarazzante per un paio d’ore, cominciai a imballare i libri, come se fossero stati suoi, cosa peraltro sensata visto che per dieci anni – gli stessi della mia cagnolina: le due non sono mai state amiche ma a volte si sdraiavano a prendere il sole insieme – Oscuridad aveva dormito in quasi tutti gli angoli della libreria e a volte l’aveva perfino difesa da un altro gatto che, come il più attaccabrighe dei critici letterari, era solito intrufolarsi in casa con l’unico proposito di pisciare su qualche libro.

3

Vivevamo a Città del Messico da qualche settimana quando scoprimmo della gravidanza. Convinto che un padre debba almeno dare l’illusione di sapere tutto, nei primi mesi mi lanciavo in frenetiche passeggiate nel quartiere per memorizzare i nomi delle strade, e studiavo anche, con una calma tremendamente falsa, i nomi degli alberi, delle piante e degli uccelli.
La sera mi dedicavo alla ricerca della carriola perfetta (uso la parola messicana per passeggino, perché per me la paternità si è svolta quasi esclusivamente nello spagnolo del Messico). A volte passavo anche due ore davanti allo schermo setacciando il mercato: paragonavo modelli, leggevo recensioni, guardavo testimonianze entusiaste e probabilmente false su YouTube. La carriola di David e Blanca, naturalmente, era tra le finaliste, ma immaginavo anche modelli più portatili e, quindi, compatibili con gli eventuali viaggi in Cile, che nella mia mente sarebbero stati numerosissimi.
Tanto girare per vetrine, purtroppo, risultò inconcludente, perché un pomeriggio una zia di mia moglie ci portò una carriola in regalo. Nella mia classifica quel modello non c’era neanche. La ringraziai a denti stretti.

4

Avevo già alle spalle due terremoti cileni, ma non ero assolutamente pronto per affrontarne uno in quella città che nemmeno i chilangos di nascita conoscono bene. Cercavo la stabilità dei nomi e la sicurezza delle carte geografiche, invece trovai un inventario di edifici distrutti che non dovetti nemmeno studiare, perché si impose da solo, con l’abituale eloquenza della catastrofe. Il terremoto, però, sortì lo strano effetto di farmi sentire al tempo stesso più messicano e più cileno di prima. Il giorno in cui nacque mio figlio (non riesco a evitare di formulare questa frase implicita: il giorno più bello della mia vita) provai la netta sensazione di vivere da anni in quella casa, sentii che in qualche modo avevo sempre vissuto lì, e che quella città schiva, caotica, inaccessibile e zeppa di contraddizioni mi apparteneva.
Durante le prime passeggiate alla guida del caval donato, volli convincermi che la carriola non fosse poi così male, ma la verità è che era pessima: pesava più di un’incudine, faticavi a curvare e, in salita, era impossibile non pensare al castigo di Sisifo. Per quanto mi prenda gioco del mio arrivismo, ogni volta che incrocio un modello particolarmente desiderabile mi sorprendo a ricacciare indietro l’invidia. Non so niente di macchine, sono cieco alla loro presunta bellezza, ma immagino che la mia invidia fosse simile a quella provata da chi guida un veicolo scalcinato quando si trova davanti una di quelle automobili luccicanti guidate dai calciatori di successo o dagli imprenditori succhiasangue. Alla fine, una sera, mia moglie si lamentò amaramente della carriola, e io pilotai abilmente il discorso per darle la sensazione che l’idea di prenderne un’altra fosse sua.
Nel bosco di Chapultepec vedevamo sempre un venditore di bolle di sapone che trasportava la sua merce su un passeggino sgangherato, così gli regalammo il nostro, che lui accettò con estrema gratitudine, anche se mi diede l’impressione che nemmeno a lui sembrasse granché.

5

Quando mi chiedono se mi piace vivere a Città del Messico mi esce un sì sonoro ed euforico, ma in realtà sto rispondendo a un’altra domanda: mi piace moltissimo la nostra vita qui, adoro la sfida minuziosa della felicità e amo condividere la gioia di mio figlio quando impara parole che sono nuove anche per me (ahuehuete, chimeco, chirundo), lancia frasi come adiós amigo quesadilla o imita il modo in cui camminano le oche. Non sono venuto in questo Paese alla ricerca di Pedro Páramo, ma qui sono diventato padre e non posso più separare le due esperienze. Adesso prendere le distanze dalla città è quasi impossibile: sarebbe come prendere le distanze da mio figlio.
Quando mi chiedono se il Cile mi manca mi esce un monosillabo e poi un flusso incontrollato di frasi confuse. A volte rispondo di no, ed è una bugia: quello che voglio dire è che a Città del Messico ho trovato un subitaneo radicamento e il premio immeritato di un nuovo inizio, e mi risulta difficile immaginarci trapiantati in Cile. Ma la maggior parte delle volte rispondo di sì, che il Cile mi manca; che quasi tutto il giorno dialogo con il mio Paese e non vorrei mai concepirlo come un luogo distante, perduto o immaginario. Perché sono consapevole del pericolo. Penso alla mia lingua cilena bloccata nel tempo, mescolata, accantonata, penso al vertiginoso ed esplosivo problema di trovare parole mie. Penso agli esiliati e ai migranti come se potessi comprendere meglio le loro vite.
È un sentimento fasullo, perché io non sono affatto un esiliato e, anche se tecnicamente sono un migrante con tutte le carte in regola, non sono venuto in Messico in cerca di una vita migliore ma perché mi sono innamorato di una messicana e abbiamo deciso di stabilirci e avere un figlio qui.
Per buona parte dell’anno la differenza di fuso orario tra Cile e Messico è di tre ore, il che mi provoca una sensazione quotidiana di ritardo: mi alzo molto presto, ma in Cile sono già le otto e mezza o le nove. L’app della radio ti permette di riascoltare i programmi, sincronizzando il tempo tra i due Paesi. È un miracolo modesto – il vero miracolo sarebbe che l’app permettesse di muoversi in avanti nel tempo – che mi procura una certa serenità, come se fosse normale ascoltare notizie importanti con tre ore di ritardo.
Per il resto, ascoltare il notiziario cileno fa parte della routine quotidiana di mio figlio fin dai primi giorni di vita. Mentre sua madre, a letto, cerca di ricostruire la sensazione di aver dormito bene, noi, in salotto, salutiamo il sole, il ritratto di Jorge Teillier (questo sì me lo sono portato dal Cile) e una sfilza traballante di peluche, e leggiamo cinque o sei volte il libro del momento (adesso è fan sfegatato di Paco y el rock di Magali Le Huche: in effetti, la prima parola che ha detto questa mattina è stata rock!!!). E mentre facciamo tutto questo, in sottofondo si sente il notiziario cileno dell’immediato passato. Poi arriva qualche minuto di indipendenza: il bambino si avvicina agli scaffali e maneggia i libri, che nelle sue mani si trasformano in Lego giganti, e me ne porge qualcuno sorridendo, come se me li consigliasse. Gli scaffali che riesce a raggiungere corrispondono alle lettere r e s dei libri in lingua inglese: molti Salman Rushdie, David Sedaris, Rebecca Solnit e Susan Sontag.
Come vedete abito di nuovo in una biblioteca, quella di mia moglie, che per certi versi assomiglia a quella che avevo io. Lei però, invece di crescere con le traduzioni, fin da bambina ha letto le edizioni originali in lingua inglese, per cui a volte, quando guardo le mensole, ho l’impressione di vedere la versione originale della mia vecchia biblioteca sottotitolata. Mi piace guardare gli scaffali, immaginarla mentre legge quei libri, trovare sottolineature e foto, e scoprire che non è mai stata preda, come invece è successo a me, di tsundoku: non ha mai accumulato più libri di quanti riuscisse a leggerne. Per il resto, la sua è una biblioteca eccellente, salvo per la mancanza, per me assordante, della letteratura cilena.
Ho sempre letto molta letteratura del mio Paese, ma adesso che i libri cileni scarseggiano faccio di tutto per procurarmeli, soprattutto quelli dei miei amici, dei miei «quasi-amici» e dei vari conoscenti, la mia famiglia letteraria con i suoi cugini di secondo grado e le nonne, gli zii e i patrigni, e perfino qualche nemico occasionale con cui ho qualcosa in comune, non so che cosa: un piano, un desiderio, un modo di ballare. 109 o la biblioteca o la vita!
Accumulo alcuni libri, sono davvero pochi e mi trattengo dal contarli, ma di sicuro posseggo la migliore biblioteca di poesia cilena del quartiere San Miguel Chapultepec.

6

Temevo che mio figlio crescesse convinto che chile non fosse altro che la parola messicana per «peperone», ma non è stato così. Andammo a Santiago quando aveva appena sette mesi, e una volta di ritorno a casa, quando gli facevamo domande sul viaggio, imitava alcune galline cilene di cui conservava un ricordo vivido. Dopodiché arrivò una variante inaspettata della cilenità, un caso perfetto per il fantastico dottor Winnicott: invece di chiedere la tetta con la parola chichi, come fanno i bambini messicani, mio figlio coniò il neologismo chichile.
Adesso ha un anno e mezzo e parla di continuo, e quando gli chiedo qual è il suo Paese risponde il Cile, riempiendomi di inebetita soddisfazione; ma forse ho esagerato con l’indottrinamento, perché quando gli chiedo dove viviamo risponde sempre che viviamo in Cile. E quando lo carico sulla carriola e gli chiedo dove andiamo, lui risponde, con il volto che trabocca di risate, che andiamo in Cile.
L’idea mi piace: viviamo in un Paese che si chiama Cile e andiamo con la carriola in un Paese che si chiama sempre Cile per incontrare le galline. La nuova carriola, a proposito, è davvero buona: è leggera, comoda e versatile, e ha anche una tasca enorme dove, oltre alla borsa con i pannolini, entra un buon numero di libri. Forse la mia misera collezione di testi cileni starebbe tutta nella carriola e potrei montare una biblioteca ambulante, ma non voglio più prestarli né venderli, né tantomeno regalarli.
Oggi pomeriggio, dopo pranzo, siamo andati nel bosco, e quando il bambino si è addormentato ho parcheggiato la carriola davanti a un ahuehuete e mi sono seduto sull’erba a leggere i poeti cileni che ammiro e mi mancano tanto. Voglio farlo tutti i giorni.

Città del Messico, giugno 2019