Exorma pubblica Animali non addomesticalbili, un libro in cui tre scrittori provano a restituire la voce a quei viventi che spesso certa tradizione letteraria rappresenta riduttivamente a nostra immagine e somiglianza attribuendogli solo i nostri sentimenti elementari. Nei racconti di Giacomo Sartori, Paolo Morelli, Marino Magliani e Paolo Albani, gli animali parlano; hanno tutti una grande propensione alla parola. Tanti sono gli animali che hanno già parlato nei miti, nelle stanze dei bestiari di tutti i tempi, nelle tradizionali messe in scena della letteratura, nelle favole, riallestiti in forme ibride, corpi di bestia e sentimenti domestici e scarni, del tutto umani. Questa volta ci chiedono di riconvertire il nostro immaginario: può capitare, ascoltandoli, che non siano loro a umanizzarsi, ma piuttosto sia l’uomo-che-legge a caninizzarsi, dromedarizzarsi, corvinizzarsi, vedovanerizzarsi, rinnovando un patto di alleanza con una parte selvatica, ineludibile e salvifica della propria umanità e un patto di sangue con la vita diversa dalla nostra.
Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.
Bruco
di Giacomo Sartori
Tanti sforzi, per poi ritrovarsi sfiniti qualche tronco più in là: davanti un mare sconfinato di foglie, dietro idem. Ogni tanto ti verrebbe da dirti io mi fermo qui, succeda quello che succeda. Almeno le giornate fossero più corte, invece hai sempre l’impressione che l’ora di smettere di scarpinare non arriverà mai. Cosa daresti in quei frangenti per essere uno di quei pennuti che fanno le giravolte nell’aria con un fruscio di foglie prima di un temporale, sempre pronti a scendere in picchiata a divorare noi poveri diavoli. O uno di quei mastodontici bestioni con quattro zampe lunghe come pertiche, con sulla capoccia due antennacce che paiono rami, e che se ne vanno in giro impettiti, pieni fino all’orlo di se stessi. Noi invece siamo fatti così: piccolini, grigi, con delle zampette da nulla, poco più che delle ventose. Sempre meglio dei vermetti che non hanno nemmeno quelle, intendiamoci. Voglio vederti a ogni passo inarcare il dorso a U, e poi a raddrizzarlo come un ramettino. Si immagini il dispendio di energie, gli effetti sulla digestione, il mal di schiena alla fine della giornata.
Un mio amico sostiene che il nostro stato è transitorio, poi ci trasformeremo in qualcos’altro.
«Ma sei cretino?» gli ho domandato la prima volta che mi ha esposto questa sua bislacca teoria. Eravamo ancora molto piccoli, saranno stati quattro o cinque giorni fa. «Io me lo sento, non ho alcun dubbio» mi ha risposto lui, guardando ispirato nel vuoto.
«Smetti di prendermi in giro» ho tagliato corto io. Sta di fatto che – forse proprio a causa del tono vibrante, quasi profetico – ancora adesso le sue parole mi risuonano nelle antenne, come se le avesse appena pronunciate.
È un tipo un po’ strano, però è anche molto intelligente, lo riconoscono tutti. Il suo sogno sarebbe inventare un sistema che consentisse anche a noi di volare. Prima però andrebbe escogitato un metodo per fissare bene le idee, dice sempre. A memoria si rimane troppo sul vago, e c’è sempre il rischio di dimenticare tutto durante la notte, di dover ricominciare ogni mattino da capo. Senza contare che spieghi a qualcuno una cosa e quello capisce tutt’altro, non c’è mai il verso di intendersi davvero. Ci vorrebbe invece una trovata per cristallizzare i concetti e ogni infimo dettaglio, per rendere le idee chiare, definitive, alla portata di tutti. Qualcosa come le tracce che restano nella polvere: uno vede le impronte, e dal loro andamento capisce senza possibilità di sbagliarsi l’umore di chi le ha lasciate: cosa voleva dire, in fondo. Ne abbiamo riparlato spesso di quella sua fissa della reincarnazione, mano a mano che crescevamo. Io continuo a fare lo scettico, ma in realtà ha finito quasi per convincermi.
«Ecco così diventeremo» ha sentenziato una volta, indicando col mento un animale con due ali finissime e colorate. Lì per lì davvero mi è sembrato che avesse in comune qualcosa con noi, quell’elegantona. E che ci guardasse anzi con occhi condiscendenti, manco la sapesse lunga sul nostro conto. Suggestione, verosimilmente. Eppure da quel momento mi sento un prurito sul dorso come di ali che spuntano. E qualche volta addirittura una smania di buttarmi nel vuoto: di volare, mi verrebbe quasi da dire. A lui non dico niente, perché vanitoso com’è camminerebbe a venti millimetri dalle foglie.
Certo però che è bello cullarsi nell’idea che un domani saremo anche noi delle bellezze colorate, libere di volteggiare dove più ci pare e piace, di fare lo slalom tra i fiori, di giocare col vento, di posarci con nonchalance su una spiga, su una foglia galleggiante. Con le ali perfettamente appaiate, inappuntabilmente verticali, coloratissime, splendide. Senza il pericolo di essere guardati con sdegno da uno di quegli antipatici animali che scricchiolano tutta la notte, e men che meno di ritrovarci da un momento all’altro nella pancia di qualche scaltro pennuto. La tua vita rimane uguale identica, intendiamoci: cammini, mangi, ti guardi attorno, chiacchieri, mediti su questo o su quello, cammini ancora, aspettando che arrivi finalmente la notte. Però fai le cose più volentieri, ti senti meno inquieto, più in pace con te stesso. Forse perché noi a differenza di altri esseri viventi non abbiamo genitori, nasciamo da uova capitate lì chissà come. E allora per tutta la vita ci sentiamo un po’ orfani: ci sembra sempre che la nostra esistenza sia inutile, che manchi uno scopo. Per questo qualche volta siamo malinconici, per questo interroghiamo sempre il blu del cielo.