Le cose, di Christian Raimo

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Da Luglio, trovate in libreria La vita che verrà, di Christian Raimo, pubblicato da minimum fax. Un’antologia nella quale l’autore ha raccolto il meglio della sua produzione breve, partendo da Latte, la prima raccolta uscita nel 2001, per arrivare a «Bifida» del 2018. Storie di tradimenti, passioni, errori che possono costare caro; storie di persone fragili, instabili, sempre sul punto di cadere. Ma anche pronte a riconoscersi l’una con l’altra come amanti, fratelli, simili, alle prese con la loro occupazione più importante: la vita, sempre la vita.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuti nell’antologia, per gentile concessione dell’editore.


Le cose

Christian Raimo

Da quando mi sono sposato, nel 1992, mi è successo di dormire con altre donne, di starci, di tradire mia moglie insomma, soltanto un paio di volte: la prima risale a una decina di anni fa, durante un periodo oscuro che nella mia testa e forse anche nei fatti coincide con la presunta, o anche reale, malattia di nostro figlio Edoardo, che per un anno intero – prima che gli fosse accertata una forma rara ma piuttosto innocua di artrite reumatoide – fece dentro e fuori dagli ospedali tra esami invasivi, diagnosi allarmistiche e cure sbagliate. Al tempo dimagrii di una ventina di chili, per la tensione, la fatica o semplicemente per l’osmosi del morbo immaginario, e – in nome di qualche tipo di compensazione, credo – alla fine di tutto, come per respirare dopo essere stato troppo tempo sott’acqua, non feci molto per evitare una storia abbastanza dimenticabile con una donna che già allora non consideravo neanche bella, una nostra amica delle vacanze estive, capace però di rimanere in silenzio, in mia presenza, quasi incantata, per ore.

La seconda volta, la seconda volta che mi sono ritrovato a svegliarmi accanto a una persona diversa da mia moglie, con un odore diverso, un diverso modo di tenere la bocca semiaperta nel sonno, e questa volta senza provare l’ottuso disagio del post-tradimento, è cominciata lo scorso febbraio, una sera che ritornavo verso casa in scooter e fui sorpreso da uno di quei nubifragi che da un momento all’altro sembrano poter distruggere per intero, e ricreare dal giorno alla notte, Roma, rovine imperiali e palazzi umbertini compresi, spazzando via in un colpo gli alberi secolari e gli insetti effimeri. Mi riparai in un baretto squallido vicino alla stazione dismessa di via della Serenissima, dove – mentre guardavo fuori aspettando che spiovesse e non spioveva – entrò una ragazza, alta, allampanata, androgina senza volerlo, con una somiglianza che lì per lì mi venne immediata con l’attrice canadese Marie-Josée Croze, o meglio con il suo personaggio nelle Invasioni barbariche di Denys Arcand – la nipote sfaccendata, tossica, che fa le iniezioni di eroina al protagonista, il professore malato di tumore. Era talmente fradicia, lei, questa ragazza, colante acqua, che la proprietaria del bar le offrì subito un asciugamano e quindi un phon. Ma appena lei lo attaccò alla presa, come per un incantesimo al contrario, il sovraccarico elettrico fece saltare la corrente, e lei cacciò un urlo, si lasciò prendere da un panico inatteso per il buio, cominciò a strillare e ad agitarsi come in preda alle convulsioni, cercando a tentoni qualcuno che le stesse vicino, aggrappandosi con le unghie alla mia giacca, finché le iniziò a uscire il sangue dal naso, e mi parve sul punto di svenire. Ma andò avanti così per un bel pezzo; mentre io, con i piedi piantati nell’areola di luce intermittente che si formava sul pavimento attraverso i riflessi dei fari delle macchine, tentavo di sorreggerla in modo che non sbattesse la testa, e nel frattempo le sbirciavo da vicino gli occhi e la bocca in questa serie di tenui flash improvvisati.
Quando poi si calmò, quando anche la burrasca si placò, quando la proprietaria riuscì a ripristinare la corrente, mi convinsi, e convinsi lei, ad accompagnarla al pronto soccorso del Nuovo Regina Margherita, non lontano da lì, dove la trattennero una notte per sottoporla a una tac e da dove il giorno dopo mi chiamò per ringraziarmi e offrirmi un biglietto per lo spettacolo teatrale di un suo amico. Io non dissi no, e cominciammo a vederci.
Dovrei dire di avere passato lo scorso inverno, e la primavera, metà dell’estate, e l’autunno, vivendo una doppia vita, mistificando la realtà, ma non sarei esatto se descrivessi la cosa in questi termini. Perché dovrei parlare piuttosto di sovrapposizioni, di coincidenze che non credo vadano interpretate, come per esempio il fatto che questa ragazza si chiami Daniela, ossia come mia moglie; e dovrei – finendo coll’essere sincero – confessare che quello appena passato è stato un anno piuttosto felice: con mia moglie abbiamo deciso (o meglio: lei si è messa in testa, e io l’ho assecondata) di avere un altro figlio, di sfidare, a quarantasette anni, i consigli di amici e parenti, e di occuparci della buona salute dei miei spermicini e dei suoi ormoni follicolo-stimolanti, di quelli luteinizzanti e degli estradioli.
E questo è avvenuto contemporaneamente, contestualmente direi, a quello che mi pare essere stato un mio personale cammino di formazione che avevo rimandato per chissà quanto tempo e che invece soltanto con Daniela, la ragazza Daniela, con lei, attraverso di lei, ho cominciato a compiere. Non potendoci vedere mai di sera, gli appuntamenti che ci davamo si dovevano, per forza di cose, reggere sempre su una dose auto-alimentata di invenzione, di improvvisazione, di incitamento reciproco. Si trattava quindi di vagare per mostre, di imbucarsi alle matinée cinematografiche per la stampa con gli inviti che lei riusciva a rimediare da una sua amica che lavora in una produzione, di frequentare addirittura alcune lezioni di filosofia o di letteratura all’università, e – con una fascinazione tacitamente condivisa da subito da entrambi – di scovare motel desolati vicino il Raccordo o quelli, ancora più pulciosi, a ore che si trovano nelle stradine incrociate tutt’intorno alla stazione Termini.
Proprio mentre eravamo in una delle stanze di questi motel, qualche mese fa, è accaduto – ed è il fulcro del racconto che vi sto facendo – l’episodio che ha rimesso in gioco la mia percezione della realtà. Steso sul letto, annullato dal caldo, dalla narcosi post-coito e dall’aria satura di tutta l’anidride che avevamo buttato fuori nei nostri abbracci, avevo acceso distrattamente la televisione, dopo che Daniela si era addormentata, stanca e cancellata più di me per aver finito di dichiararmi quello che per mesi avevo temuto sarebbe arrivata a dirmi: non soltanto si era innamorata di me, ma era incinta – e le due cose, secondo il suo punto di vista, erano in inscindibile relazione. Nella camera anossica che era diventata adesso la stanza, il televisore a quindici pollici piazzato in alto illuminava il pulviscolo atmosferico con una radiazione celestina; ed era possibile seguire, mantenendo uno sguardo incantato o ebete, questi minuscoli pollini che precipitavano verso il basso senza mai effettivamente sparire, in un vortice rallentato, come un cuore che – senza aver dato nessun preavviso – decelera sempre più. Dentro il televisore, un conduttore dall’aria femminea al telegiornale parlava del delitto avvenuto il giorno prima, due giorni prima, a Tor Marancia, già definendolo ad uso degli spettatori «il delitto di Tor Marancia»: una ragazza, una ragazza di ventott’anni era accusata di aver ucciso la sua coinquilina per la quale – stando a varie dichiarazioni concordanti – pare avesse un’infatuazione da tempo, solo parzialmente ricambiata. Mostravano in tv, in una specie di show-reel con un commento musicale lugubre sotto, le immagini della presunta, quasi certa, assassina, raccolte da foto di famiglia... di amici... da blog... da Facebook... dal dovunque che ognuno sparge di sé nel mondo; ed erano immagini di una bellezza abbacinante. Io guardavo, stregato, svuotato, il volto ricorsivo di questa ragazza, e mi venivano in mente in successione: certi volti di modelle antiche, del secolo scorso, degli anni Sessanta o del dopoguerra persino, e poi alcuni ricordi vaghi patinati di donne della mia infanzia, e poi certe impressioni fuggevoli di ragazze che avevo incontrato soltanto una volta in vita mia e da cui però ero rimasto abbagliato. Mi sentii, non so come dirlo per risultare credibile, innamorato, così, come una porta che si apre all’improvviso al centro di un muro, con una nettezza inesorabile che non mi capitava da anni. Innamorato, senza remore né aggettivi né dubbi, di una ragazza che vedevo solo sullo schermo, un’assassina e lesbica, di nome – e il caso ancora una volta si rivelava un grande stronzo – Daniela: Daniela Carta.
Quello che è successo dopo è la dimostrazione della capacità narrativa della vita. Il modo in cui reagii alle dichiarazioni di Daniela, della ragazza Daniela, fu quello di fare finta che lei non mi avesse detto niente di cruciale: seguitavo a proporle di andare al cinema il pomeriggio, di accompagnarla per piazze e chiese, e a mia moglie continuavo a non fare cenno, né a mostrare in alcun modo i pensieri che mi assediavano, la massa gommosa di tutti i pensieri. Nel frattempo («nel frattempo» che in realtà era un tempo che passavo per la gran parte immobilizzato, almeno mentalmente) presi a scrivere delle lettere barocche, esaltate, dichiarazioni d’amore di una sincerità al limite dell’autodenuncia a Daniela Carta, presso Casa Circondariale di Rebibbia, via Bartolo Longo, a cui non ricevetti risposta a parte due scarni – anche se per me fondamentali – biglietti di ringraziamento per la solidarietà manifestata.

Due giorni fa mia moglie ha ritirato le analisi che confermano quello che le aveva detto il test la settimana scorsa: è incinta, anche lei è incinta – il feto è una goccia di vita di quasi due mesi e fino a questo punto è sano. Sarei dovuto diventare dunque due volte padre entro la fine dell’anno, se a Daniela, alla ragazza Daniela, al quinto mese, un fibroma uterino non avesse causato un aborto spontaneo. Daniela Carta è stata rinviata a giudizio e – a quanto dicono i giornali – si è fidanzata, non ho idea in che senso, forse platonicamente, forse nella finzione del gossip dei media, con un giornalista che da subito si era interessato al suo caso, ed è riuscito a incontrarla una volta in carcere. Le cose – pensavo proprio oggi – alla fine, vanno come vanno.

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