La Nave di Teseo, porta in libreria Un gatto attraversa la strada, di Giovanni Comisso, autore prolifico che con questi racconti ha vinto il Premio Strega nel 1955.
In questo volume, Comisso rappresenta con sguardo disincantato e anticonformista un microcosmo, un’umanità presa dalla strada, le sue ambizioni raramente soddisfatte, la fatica del vivere e gli inaspettati momenti di felicità.
Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.
Una notte di luna
Era la più bella della stalla: aveva i fianchi grassi come un maiale, le spalle compatte, le zampe giuste e la vena che andava alle mammelle turgida a garantire latte in abbondanza. Nell’imminenza del parto le mammelle si erano gonfiate fino a rimpicciolire i capezzoli, ed era costretta a stare sempre alzata con le zampe divaricate. Sarebbe stato il suo primo parto, e il contadino ne aveva costante il pensiero da quando erano già passate le nove lune e non dava segno di sgravarsi.
Ma in quella sera, nel darle il pasto abituale si era accorto che il momento era giunto, ed ebbe un sollievo, perché da più notti era stato costretto a scendere per vedere se accennava a partorire. Mandò ad avvertire le case vicine che dopo cena venisse qualcuno per aiutare. In campagna si creano certi consorzi spontanei basati sul principio della mutua assistenza. Per i parti degli animali, per il taglio e per la battitura del frumento, per la falciatura del fieno, per le arature pesanti, e così in tutte le occorrenze tristi o liete, gli uomini o gli animali o i mezzi di una famiglia vengono scambiati con quelli di un’altra. Questi consorzi si creano strettamente nel raggio più corto di vicinanza, per chiare ragioni di prontezza ad accorrere nell’urgenza del bisogno. Di una lunga assistenza che viene convalidata col farsi reciprocamente da compari alle nozze o ai battesimi dei figli.
Vennero dalle case vicine tre uomini e nell’entrare furono concordi a giudicarla: la più bella della stalla. “Bella sì, ma è stramba come sua madre, ve la ricordate, e temo che ci faccia dannare: sono già quindici giorni che è fuori dal termine,” disse il contadino. Il più vecchio che aveva esperienza di parti di animali, disse che dipendeva dalla luna, la quale solo da tre giorni aveva fatto il colmo, e si avvicinò a osservare attento: “Primaiuola; sarà un po’ difficile, ma speriamo bene.” Nell’attesa si misero a giuocare a carte e il contadino ogni tanto dava un’occhiata per vedere come andava.
Si era coricata come tutte le altre, illuminate nei fianchi dalla lampada bassa sulla tavola, mentre le teste rimanevano in ombra. La sera passò presto, già erano giunti al pieno della notte e non si vedeva nulla di nuovo, erano stanchi di giuocare, qualcuno sbadigliava e il contadino disse: “Volete vedere che ci manderà a dormire all’alba, mi dispiace per voi, mi basta che rimanga uno con me, se vi sarà bisogno degli altri vi manderò a chiamare, un caso simile non mi è mai toccato.” Anche agli altri non era mai toccato un caso simile, il più vecchio decise di rimanere, fuori era un bel chiaro di luna nella notte fredda e le fronde spoglie degli alberi facevano intreccio contro le stelle basse dell’orizzonte. Il contadino allora ebbe meno ritegno a confessare la sua paura: “Mi dispiacerebbe, compare, che non potesse liberarsi, che mi dovesse morire.” L’altro gli contradisse con calma che se mai sarebbe morto il vitello, e tenevano fisso lo sguardo su quel corpo rigonfio che ansava lento. “Un caso simile non mi è mai toccato,” ripeté il contadino vedendola alzarsi. “È primaiuola, e non sa aiutarsi. Il vitello potrebbe essere già morto. A quest’ora un’altra avrebbe partorito dieci volte,” disse il compare ed ebbe un brivido di freddo. “Benedette le brutte, certe bestie bislacche, non sono strambe come queste di bella apparenza. Se provassimo ad aiutarla,” disse il contadino. “Aiutarla, sì, ma se il vitello non si presenta.” Il contadino sentiva con ansia ogni attimo che passava. “Io ho freddo, compare, e voi?” “Io anche, l’alba è già vicina.” E l’altro andò a prendere da bere, bevettero, ma, scacciato il freddo, gli rimase tuttavia la paura di perdere il più bel capo della sua stalla. “La luna sta per calare, ho svegliato anche mia moglie, ci prepara il caffè, che ne dite se si mandasse a chiamare il veterinario? Da soli non possiamo fare niente.” L’altro disse che era meglio, e il contadino svegliato suo figlio lo affrettò ad andare in paese. Anche le altre si erano alzate in attesa del pasto mattutino, ed essa come se volesse approfittare che la vicina le aveva lasciato più spazio si coricò lentamente. Intontiti dal freddo e dal sonno guardavano fissi quei fianchi inerti. Un gallo cantò. “Sono le cinque e mezzo, il vostro gallo canta sempre a quest’ora, è più giusto del mio orologio, fra poco suonerà l’Ave Maria,” disse il compare, e subito dopo si intese una campana suonare.
Il contadino tramutò un sospiro in uno sbadiglio. Poco dopo abbaiò il cane segnalando l’arrivo del veterinario. Il contadino si scusò di averlo fatto chiamare così presto. “Presto? dovevate chiamarmi prima, è il mio mestiere.” E subito si tolse la giacca, si rimboccò le maniche della camicia, si mise un grembiule, fece mettere paglia fresca per terra, richiese due corde, erano intanto sopraggiunti altri vicini e il figlio del contadino e sua moglie col caffè. Bevettero in fretta, e il veterinario si inginocchiò sulla paglia. La moglie del contadino si era fermata nell’ombra: “Povera bestia,” disse, “da ieri sera e non si è ancora liberata. Ricordo anch’io il mio primo parto, dal sabato al lunedì, quanto ho dovuto penare”, e si ritrasse in cucina, sebbene fosse curiosa di vedere. Il veterinario aveva affondato il braccio entro il corpo, e, visto che si agitava, ordinò a uno che la tenesse. Fece un nodo scorsoio a una delle corde e dopo averlo stretto dentro al ventre affidò la corda a uno degli uomini dicendo che era quella delle zampe. Ne fece un altro all’altra corda e, dopo averlo assicurato dentro, avvertì che era quella della testa e che tirassero adagio.
Gli uomini tirarono barcollando sugli zoccoli. “Basta, tirate l’altra. Piano, è un fenomeno questo vitello, lo sento. Ancora quella delle zampe.” Gli ordini si susseguirono. I quattro uomini tenevano le corde e il contadino stava vicino alla mangiatoia accarezzando il collo alla sua bestia che sbarrati gli occhi agitava la testa: “Forza, ancora la corda delle zampe, ci siamo.” E d’un balzo ne sgusciò fuori il vitello sopra la paglia insanguinato, viscido. “È un fenomeno, morirà, ha le zampe deformi.” Tutti si erano fatti su di esso per vedere come era fatto, chi lo asciugava con un sacco, chi gli soffiava in bocca, chi gli metteva altra paglia sotto, ebbe subito un fremito, respirò roco, dischiuse le palpebre. “Vive,” uno disse con gioia. “Presto lasciate stare quel mostro, bisogna pensare alla bestia,” disse il veterinario. “Guardatela è in affanno, del vino, bisogna farle bere del vino, dell’aceto, spruzzateglielo sul muso.” Aveva sollevato la testa all’indietro e fissi gli occhi respirava rapida. Le venne spruzzato l’aceto, le diedero il vino, e tutti ritornarono a guardare il vitello che pulito e poi asciugato già muoveva la testa, ma le sue zampe restavano ferme grosse e anchilosate. “Questo non vive,” disse il veterinario lavandosi le braccia. “Fate una buca, concimerà la terra.” Il vitello ebbe un belato, che attrasse la premurosa attenzione di tutti. “Vive, vive,” ripeterono ed era come dicessero, evviva, per incoraggiarlo a non morire. “Se vivrà dategli il latte per alcuni giorni e poi lo venderete,” disse il veterinario apprestandosi per uscire.
Tutti gli stavano dietro per uscire con lui. Il mattino biancheggiava già tutto il cielo, impallidendo la luna che ancora non era tramontata e nel silenzio intesero dalla città vicina le sirene che suonavano stridule. “L’allarme,” dissero tutti e rimasero cupi in ascolto. Poco dopo si susseguirono lontani scoppi sempre più densi, più forti, la terra ebbe un lieve sussulto, tremarono i vetri e rossi bagliori vampeggiarono. “Bombardano la città,” disse il veterinario. Tutti rientrarono impauriti nella stalla. Il vitello ebbe un altro belato, deforme come era, voleva vivere ancora.