Inverness, la scrittura e i movimenti traduttivi di Monica Pareschi

di Debora Lambruschini

Per leggere Monica Pareschi ho bisogno, innanzitutto, di allontanarmi. Di provare a far tacere la voce della traduttrice amatissima per onorare stavolta la scrittrice. O, almeno, queste erano le intenzioni. Dopo una sola manciata di pagine di Inverness, la raccolta di racconti che di recente ha pubblicato per Polidoro, era già chiaro che le due voci sono indissolubilmente intrecciate, che l’una non fa alcun torto all’altra, e che pezzi della scrittrice sono sempre stati lì, tra le pagine di altri autori. Me lo conferma proprio Pareschi, nel dialogo intercorso tra noi nelle scorse settimane, quando le chiedo direttamente se il mestiere di traduttrice influenza in qualche modo quello di scrittrice:

Sì, ed è sicuramente vero anche il contrario: sono una scrittrice anche quando traduco. Ogni scrittura contiene un movimento traduttivo, in particolare ogni scrittura onestamente letteraria, e che quindi si proponga di indagare e “tradurre” ciò che è altro, difficile, paradossalmente indicibile, persino osceno nell’esperienza umana. Naturalmente la pratica quotidiana del tradurre affina gli strumenti artigianali della scrittura: si è particolarmente attenti alla lingua nel suo farsi, al suo andamento ritmico, al peso delle parole sulla pagina. Ma forse l’aspetto più evidente è che chi traduce è portato a “dire l’indicibile”: è in quel solco di difficoltà che la scrittura acquista un senso.

La fascinazione per il mestiere della traduzione esercita su alcuni lettori un potere molto forte, simile a quello stesso nei confronti della scrittura, e riconoscere, dunque, quanto l’una si intrecci all’altra significa onorarle entrambe.
Inverness è una raccolta eterogenea ma allo stesso tempo coesa, una raccolta di racconti pura, arrivata a distanza di tempo da quella precedente, È di vetro quest’aria, che ha visto la luce anche grazie alla sinergia tra Pareschi e Orazio Labbate, direttore di Interzona, la collana di narrativa italiana di Polidoro.

Il nucleo di alcune storie risale a molto tempo fa. Altre sono state scritte più di recente. Il libro, nella sua unità, è il frutto di una richiesta. Nell’autunno del 2022 mi ha contattata Orazio Labbate, spiegandomi il progetto di Interzona, la collana di Polidoro che cura e per cui è uscito Inverness. Orazio conosceva il mio libro precedente, È di vetro quest’aria, che gli era piaciuto. Mi ha chiesto se avevo qualcosa da fargli vedere, perché sarebbe stato felice di esaminarlo per la collana. Ci siamo visti, io un po’ titubante, perché qualcosa avevo ma per pigrizia, mancanza di tempo e determinazione, non ne facevo niente. Orazio mi ha aiutata a mettere a fuoco il desiderio che avevo di dare una forma unitaria al materiale che c’era, e ad aggiungerne di nuovo. Il suo è stato un intervento forte dal punto di vista motivazionale, diciamo pure maieutico, delicatissimo invece per quanto riguarda la scrittura: tanto che abbiamo scartato quasi subito l’ipotesi di trasformare i racconti in una narrazione più unitaria e più appetibile dal punto di vista editoriale. Io ogni tanto gli mandavo qualcosa, dubbiosa, e lui trovava sempre il modo per dirmi di andare avanti. Mi scriveva un commento, anche poche righe, sui miei racconti – le sensazioni che gli creavano, anche molto primarie, immediate, fisiche – che me li faceva vedere con occhi nuovi, e quello che vedevo mi piaceva, mi sembrava degno di essere raccontato. Credo che ci completiamo molto: io ho un’indole dubitante, a volte un po’ (auto)distruttiva, lui invece è molto determinato, estremamente empatico anche con scritture lontane dalla sua. Così ho sistemato o completato le storie vecchie, trovato un finale per storie che non ne avevano uno, scritto nuove storie. Man mano diventava chiaro che c’era un motivo comune che legava le storie: insomma, che c’era un libro.

Il rapporto tra lo scrittore e l’editor è fatto di equilibri delicati ed è davvero interessante questa dinamica raccontata, anche perché apre una finestra non solo sul mondo editoriale ma anche sulla sua identità di scrittrice e spinge a riflettere su quanto lo sguardo esterno, accogliente e professionista, possa nutrire la scrittura, mettere le cose in una nuova prospettiva. Da questa sinergia, dunque, nasce Inverness, frutto di una scrittura che si è presa il suo tempo, in cui è la lingua a fare il racconto. E, dato il mestiere primario di Pareschi, non poteva essere altrimenti. Se c’è come sostiene lei stessa un «motivo comune» a legare le storie, ancora prima di temi, occorrenze, suggestioni, a farlo è prima di tutto la lingua con cui decide di raccontarle: ogni parola e ogni spazio bianco sono scelti e lavorati con cura artigiana, omissioni e sottesi sono dosati con attenzione nel lasciare al lettore un ruolo attivo nella comprensione delle storie; la narrazione si compie anche attraverso il dispiegarsi di immagini, di simboli, rimandi, i racconti si aprono spesso in media res e sono attraversati da un certo grado di tensione che riesce a non venire mai meno. Colpisce, dunque, il contrasto ideale tra le parole selezionate con cura, uno stile sinuoso ma privo di orpelli inutili, e la brutalità di certe scene, la “carnalità” delle storie. Un processo che per Pareschi è difficile da spiegare ma che ha a che fare con la propria voce autoriale: 

È come se la crudezza del reale si potesse rappresentare, per me, solo con una lingua controllata, distaccata, “fredda”. Riconosco in me scrittrice il desiderio, o forse dovrei dire l’impulso, a mettere ordine nel caos del reale attraverso un certo tipo di scrittura. Sì, pensandoci, la scrittura per me è proprio questo: un’attività ordinatrice.

 

Cercò l’odore ruvido di fumo e cuoio che chiamava maschile, e quel fondo dolcemente stomachevole di pelle attaccato alla stoffa dei vestiti che da anni l’accoglieva nell’intimità di lui. Lo trovò, e ne fu nauseata. Con la sua bella voce bassa lui le parlò di sé e del lavoro, i progetti e le attese, niente che già lei non sapesse. Mentre la luce calava un poco dietro le foglie, si lasciò cullare in una tristezza senza rimedio. (“Fiori”, p. 36)

 

C’è qualcosa del feroce incanto di Fleur Jaeggy, delle sue increspature minime sulla superficie che lasciano intravedere gli abissi della narrazione, la scrittura mai consolatoria o salvifica che è anche di Pareschi. Sono i rapporti umani quel motivo che si diceva lega le storie: le relazioni affettive, il corpo, le ambiguità, il desiderio, le ombre, la morbosità, sono i fili che legano gli otto racconti, le profondità del cuore in cui l’autrice si cala. Osserva, con lo sguardo di chi è allenato a scandagliare le parole e comprenderne ogni movimento minimo e implicazione, senza giudicare, senza condanna o assoluzione, qualcosa da cui la letteratura, è la stessa Pareschi a sottolinearlo, deve stare attenta a non cedere: «Se c’è una cosa che la letteratura non deve fare, è proprio questa. Sogno un reale più etico, e una letteratura meno bigotta».
Nello scandagliare le relazioni affettive, dunque, lo sguardo dell’autrice non si tira mai indietro, i sentimenti si legano anche alla carne, alla materia, alla fisicità, perché ogni cosa viene esplorata nella sua autentica brutalità, in quel contrasto ideale tra la scrittura chirurgica, controllata, “fredda”, e quanto viene narrato. I personaggi di queste storie fanno i conti con le umane debolezze, proprie o delle persone che stanno loro accanto, con la complessità dei rapporti affettivi – sentimentali e non – , del crescere, dell’invecchiare, i cui effetti sono tanto emotivi che fisici.

In “Troppo amore uccide” assistiamo al disfarsi di un matrimonio – anzi, più propriamente di due – , la rete di bugie e omissioni dietro le apparenze, che cosa si sceglie di sapere «o di sospettare». Ma a interessare è soprattutto la banalità di certe scelte che portano alla rovina.

 

Quell’estate il furor destruens li aveva posseduti. Alberto aveva tradito Laura, Laura aveva tradito Alberto: nessuno dei due per vera voglia, più per ingordigia, smania di potere e ripicca. Ciascuno si sentiva in diritto di essere felice, rozzamente, smodatamente, rapinosamente felice. (“Troppo amore uccide”, p. 50)

 

Un incidente fa venire a galla segreti che forse non si teneva poi così tanto a mantenere tali, l’ordinario scosso da qualcosa di incontrollabile che svela rapporti già irrimediabilmente incrinati.
Su queste piccole fini, disincantate e inevitabili, Pareschi costruisce alcune delle storie di Inverness, il tono dolceamaro che cola da ogni parola scelta:

 

Cercò l’odore ruvido di fumo e cuoio che chiamava maschile, e quel fondo dolcemente stomachevole di pelle attaccato alla stoffa dei vestiti che da anni l’accoglieva nell’intimità di lui. Lo trovò, e ne fu nauseata. Con la sua bella voce bassa lui le parlò di sé e del lavoro, i progetti e le attese, niente che già lei non sapesse. Mentre la luce calava un poco dietro le foglie, si lasciò cullare in una tristezza senza rimedio. (“Fiori”, p. 36)

 

I sentimenti svicolano da troppo definiti contorni spazio temporali per trovare casa in una dimensione altra, in cui il richiamo al mondo entro cui sono calati è delineato per qualche dettaglio ma quasi mai riferito alla contemporaneità più prossima. Abitano dunque uno spazio sospeso che contrasta con l’urgenza della letteratura, specie quella in lingua inglese, di raccontare la contemporaneità quasi in presa diretta: i racconti di Inverness si collocano invece in una dimensione altra, ma questa sorta di atemporalità non le rende astratte o artificiose, tutt’altro.

Come scrittrice non mi interessa particolarmente “raccontare la contemporaneità”. Voglio dire che non lo faccio programmaticamente. Immagino che, mio malgrado, le mie storie in parte lo facciano, e questo è inevitabile, visto che nella contemporaneità ci vivo. Ma se è così sono i testi, che naturalmente ne sanno sempre più del loro autore, a farlo. Non ho alcun interesse a parlare, nelle mie storie, di temi caldi, questioni dibattute quotidianamente sui giornali: per quello ci sono i giornalisti e gli opinionisti. A me interessa altro. Anzi: mi interessa soprattutto quello che non so. Forse è di questo che trattano le mie storie. Forse, se arrivano a toccare una qualche verità, è proprio questa: ciò che non sappiamo. Il mistero che ci sfiora di continuo, lasciandoci intravedere, se va bene, qualche sprazzo nel buio in cui siamo tendenzialmente immersi.

Il tempo, dunque, si compie e scorre dentro le storie, mentre poco peso ha al loro di fuori. Questo tempo interno che Pareschi sa dilatare e percorrere attraversando all’occorrenza molti anni, una vita intera, sempre senza venire meno alla frammentarietà dello spazio racconto. Un’immagine, un’increspatura, danno l’avvio al racconto che sembra compiersi come atto davanti al lettore e talvolta intraprende una strada diversa da quella che ci si sarebbe aspettati.
La solitudine della protagonista di “Un bacio, ancora” avvolge ogni parola ma non c’è pietismo, solo realtà, ed è una vita che si dispiega quasi interamente davanti al lettore, su piani temporali diversi, nel racconto di una bambina che si sforza per compiacere il padre con ogni mezzo a sua disposizione, attenta a non essere mai meno di perfetta perché dopotutto «a cosa serviva quella perfezione, se non a farsi amare?». Ma non esiste perfezione, non sulla pagina, di sicuro non nella vita e ci si accorge qualche volta troppo tardi che non può essere la chiave per farsi amare.

 

Papà, penso. Poi lo ripeto forte, papà. Le volte che non mi hai amata, le volte che non sono riuscita a farmi amare da te. (“Un bacio, ancora”, p. 132)

 

Amiamo tutti di un amore imperfetto come tali siamo in quanto esseri umani. Di queste mancanze, di una perfezione impossibile da raggiungere e che sfugge sempre sono intrise le storie talvolta molto amare di Monica Pareschi, scaturite da un’immagine che spesso si lega al mondo animale, in una simbologia molto cara all’autrice:

Gli animali sono molto importanti nei miei racconti. Per come la vedo io, loro abitano il mistero di cui ti dicevo sopra, e lo fanno, a differenza degli umani, con un grande agio. Spesso, come nei racconti “I gabbiani” e “Primo amore”, costituiscono la prima immagine, il nucleo che da quell’immagine si espande e diventa racconto. Anzi, il racconto si fa proprio coprendo la distanza che si apre tra l’animale e l’umano.

Otto storie come lampi di bellezza abbagliante, che scorticano, di sentimento ma anche e soprattutto di carne e materia. Una voce che ha trovato la sua dimensione e che possiamo riconoscere.

"Come un clown, provo a far tremare il reale", intervista a Pierre Jourde

 

di Alice Pisu

 

Se esistono in Francia voci letterarie realmente dissacranti, una di queste è quella di Pierre Jourde. Il suo equilibrio ideale tra finzione e metafisica ha portato la critica ad associarlo a Proust. Figura irriverente della letteratura contemporanea, riconosce tra i suoi maestri Diderot, Rabelais, Sterne, Jerome K. Jerome. Le sue opere rivelano il bilico problematico tra vecchio e nuovo, tra suggestione immaginifica e realtà, tra parodia e dramma, con una prosa che palesa un gusto raffinato per la digressione con scorci sull’irrealtà, stacchi temporali, giochi al contrasto, ritratti beffardi, dialoghi impossibili, dissertazioni letterarie, e esplorazioni fisiche e interiori che tracciano complessi processi narrativi, esito di una ricerca ininterrotta sul senso della scrittura e dell’esistenza. Scrittore eclettico, pubblicato in Francia da Gallimard, autore di saggi filosofici, romanzi, racconti, oltre che acuto critico letterario, Jourde è stato insignito nel corso degli ultimi decenni dei maggiori riconoscimenti letterari (tra cui il Grand Prix De L’Académie Française) che non hanno tuttavia condizionato i suoi giudizi veementi, scagliati anche verso le stesse istituzioni che lo celebrano.

Lo incontro in occasione della tappa parmigiana alla libreria Diari di bordo del tour di presentazione del suo ultimo libro, Il viaggio del divano letto, pubblicato da Prehistorica nella vivace e intensa traduzione di Silvia Turato.

La grazia che traspare dal sorriso accennato cela il disagio nel trovarsi in una chiassosa caffetteria del centro durante un acquazzone. Sin dal primo scambio di opinioni, emerge una nitida idea di letteratura intesa come un’immersione nell’immaginario, spazio fecondo in cui osservare la complessità dei rapporti, rintracciare un ordine interno nel caos delle cose del mondo e riconoscerne una peculiare magnificenza. Memorabili, a tal proposito, nell’accordarsi alla visione di Diderot sulla bellezza, le tre pagine dedicate alla visione e all’odore del letame alle porte del borgo perso nella remota regione dell’Alvernia in Paese perduto (trad. Claudio Galderisi). Anche a causa della celebrazione dello splendore brutale del luogo, quelle pagine contribuirono a scatenare l’ira degli abitanti del villaggio, costarono all’autore un tentato linciaggio e un epilogo drammatico in tribunale narrati ne La prima pietra (trad. Silvia Turato).

Parlare del suo ultimo libro implica confrontarsi con un’impresa anomala, il viaggio a bordo di un Jumper con suo fratello e sua nuora per attraversare la Francia alla volta di Lussaud con il vecchio e scomodo divano letto della nonna appena deceduta. Intriso del ricordo della noia, della desolazione, della vacuità degli anni dell’infanzia, il percorso è una graduale elaborazione dei traumi e delle euforie dell’esistenza, verso un luogo mitizzato, teatro di tenerezze e crudeltà. Nel ripensare al significato di quel ritorno, Jourde parla dell’attesa nuda del miracolo. Le insistenze descrittive dell’opera rese nell’evocare la sala da pranzo art déco, il gabinetto azzurro, il busto in stile impero coloniale di una donna nera a seno nudo, il pastore tedesco con la testa dondolante sul copri-termosifone, attestano la propensione finzionale a lambire i reperti dell’infanzia, i tragicomici casi familiari, i turbamenti e le esuberanze della maturità.

Inizia così la nostra conversazione, nella confessione di studiare con incessante curiosità il rapporto con i luoghi e il passato, nell’intento di misurare, nella dimensione ideale del frammento, l’inganno della memoria, le crepe nei rapporti tra genitori e figli, la scoperta del desiderio, l’innocenza rinnovata, le nevrosi, attraverso eventi minimi che simboleggiano una distanza dal corpo e dal mondo.

 

Che posto occupa Il viaggio del divano letto in un lungo percorso di scrittura in cui ha esplorato una grande varietà di generi e temi, e in che modo in quest’opera l’insensatezza del viaggio si scopre la condizione ideale per generare una narrazione picaresca sulla scorta di grandi esempi letterari classici?

In generale quel che scrivo non è imposto da una condizione ma proviene da un immaginario profondamente personale. Per questo detesto l’autobiografia. La teoria peggiore è quella di Rousseau, che sostiene l’interesse verso sé stessi, e questo non fa per me. Ormai la tendenza generale è portare sempre tutto verso l’autobiografia. La fascinazione della letteratura deve essere verso l’altro. Lo scrittore, come un pugile, deve saper ricreare una giusta distanza e guardare altrove, non verso sé stesso. Un episodio della mia vita mi ha condotto a fare questo viaggio iniziatico per comprendere la figura della madre, per provare a conoscerla. Probabilmente non avevo neanche intuito tutto all’inizio dell’avventura, come accade sempre quando scrivo: vado dispiegando e provo a capire, come davanti a un collage di momenti sovrapposti.

 

L’opera si regge su continui sconfinamenti nel ricordo, dialoghi immaginari e verosimili, che spaziano da riflessioni sull’innamoramento, all’esplorazione fisica, all’imperscrutabilità del destino, all’abbaglio generato da ogni vana certezza. In un capolavoro come L’ora e l’ombra, risulta centrale il rapporto con il passato reso nell’idea del ritorno a un luogo che rappresenta anche un tempo preciso, pur sfumando nei contorni. In che modo in opere così diverse l’esplorazione del tema del ritorno può favorire una riappacificazione con sentimenti contrastanti, costituiti in egual misura da tenerezza e da crudeltà?

L’ora e l’ombra è la storia di un uomo che costruisce la sua vita su un’ipotesi, ed è quel che io faccio sempre, mostro persone che costruiscono la loro vita su qualcosa di irreale. Nel Viaggio del divano letto non ci sono ricordi in grado di riappacificare, c’è la solitudine dello scrittore che si scontra di continuo con esperienze concrete, andando incessantemente appresso alle cose. Non è il ricordo stesso, è la letteratura piuttosto, ad avere questo potere di riappacificare, perché crea quel fil rouge tra le cose della realtà. Oggi c’è questa idea che la letteratura sia mossa da un senso di vittimismo, da un disagio. La condizione necessaria per gli scrittori pare essere quella di aver vissuto violenze o aver trascorso una vita mesta. Per quel che mi riguarda, anche di fronte a storie forti, è necessario rintracciare una forma di leggerezza, data anche dall’umorismo.

 

Emerge infatti nelle sue opere una straordinaria capacità di usare il comico per affrontare con una levità dai toni cupi il significato dell’appartenenza, il complesso legame materno, le nevrosi familiari, l’inganno della memoria e indagare la perdita. Per scorgere la natura tragica e dissacrante dei suoi scritti occorre allinearsi al suo uso peculiare del comico come strategia per amplificare il reale. In che misura il gusto per il paradosso, la sottile malinconia, l’uso dell’ironia, il grottesco celato dietro le immagini di un quotidiano remoto e feroce, connaturano gli interrogativi esistenziali delle sue opere?

In tutti i miei libri l’aspetto comico è centrale, si è mostrato fondamentale in ogni circostanza, anche quando ho dovuto affrontare la morte di mio figlio. A differenza di quanti concepiscono le cose esattamente per come sono, come questo tavolo ad esempio, io tendo a problematizzarle. Utilizzo l’umorismo a partire da un banale oggetto, come questo, per vedere qualcos’altro, aprire nuovi scenari. Per questo mi interessa misurarmi con il comico e il fantastico: sono i miei espedienti per far tremare la percezione del reale, per fare in modo che non sia così netta. Questo è il mio ideale. Il compito che si era proposto Borges era di mettere insieme una letteratura fantastica e metafisica, il mio intento è di dare forma a una letteratura comico-metafisica.

 

L’uso del comico e del fantastico si mostrano centrali anche in opere drammatiche, come La prima pietra, un testo dalla marcata matrice politica nel sollevare interrogativi sulla letteratura e sulla sua forza dirompente. Interessante il modo in cui nei suoi libri l’uso di questi strumenti sia funzionale allo studio della vergogna, emblematica nel descrivere lo scarto tra l’estraneo e il noto. Come lambire con la scrittura una distanza irrisolvibile tra la personale nostalgica suggestione infantile e l’impressione di intrusione in uno spazio “sovraccarico di limiti invisibili”?

Rielaboro costantemente la nostalgia dell’infanzia perché nell’infanzia è racchiuso tutto: lo struggimento per la morte risiede già nella dimensione originaria dell’infanzia. È un aspetto che mi ha sempre reso irrequieto. Da giovane non riuscivo ad affrontarlo, mi sembrava un errore, qualcosa di cui era meglio non parlare. Ho capito negli anni che la letteratura è in qualche modo anche un metodo per non parlare. Questo senso di vergogna che mi sono portato dentro per lungo tempo cela una forzatura, porta a sentirsi come un clown, come un bambino che in modo ridicolo cerca di continuo di attirare l’attenzione dei suoi genitori. Difficile fare i conti con un senso di fondo come la vergogna, perché è latente, e credo che uno degli scopi della letteratura sia quello di provare a sbarazzarsi di questo senso di vergogna.

 

Quel senso di vergogna si riconnette al rapporto con il paesaggio, in opere che indagano una personale geografia sentimentale. Come misurare quell’inscindibilità tra il sentimento di un luogo e l’idea di perdita?

In fondo, come sosteneva Heidegger, l'esistenza umana è trascendenza, l'uomo non è una presenza ma un disegno, un piano concepito all’interno di una rete di scenari e soggetti. Quando scrivo compio costantemente dei viaggi, e anche in questo caso, nel Viaggio del divano letto, progredisco in senso fisico, avanzo, attraverso città e paesi, ma in realtà vado all’indietro, verso una situazione primordiale, ripercorro il passato nonostante io stia avanzando verso l’avvenire.

 

È tra le voci realmente dissonanti della letteratura francese contemporanea, una voce demistificante che non ha mai avuto timore di dichiarare l’insofferenza verso le incoerenze del mondo editoriale contemporaneo, le ipocrisie dei premi letterari, gli spettacoli grotteschi delle fiere, l’egocentrismo degli scrittori, la complicità della critica nel generare fenomeni letterari inconsistenti. Ha dedicato il pamphlet La littérature sans estomac proprio a questo tema. Tornano alla mente le parole di Giaime Pintor, che attaccò a più riprese la pavidità retorica e la vacuità di una parte del mondo letterario del suo tempo, sostenendo la necessità di una rivoluzione operata da pittori e poeti in grado di comprendere la loro parte. Che ruolo ritiene che l’intellettuale dovrebbe rivendicare oggi per contribuire a una controtendenza e immaginare una reale rivoluzione culturale che rompa meccanismi tossici?

Non mi definisco un rivoluzionario, ma un critico. Nella mia vita ho incontrato tanti scrittori che si etichettano rivoluzionari e fuori dal sistema, vivono su questo immaginario comune cristallizzato dalla metà del Novecento, e mostrano di non avere consapevolezza di quel che dovrebbe essere uno scrittore e un intellettuale. Oggi i giornalisti culturali rivendicano libertà di espressione ma sono i primi a non pronunciarsi con giudizi negativi, come se il libro sia un oggetto sacro di cui non si può parlare male. Quel silenzio rispettoso è concepibile solo in un cimitero: annullare il dibattito attorno a un libro significa considerare quel libro morto. Mi sono trovato a condividere un convegno con altri scrittori, ho rivolto a loro questa domanda, gli ho chiesto se si ritenessero davvero rivoluzionari, o forse piuttosto semplici scrittori che avrebbero ricevuto tutti lo stesso compenso dal sindaco. Anche durante una commissione di Stato mentre si discutevano gli aiuti da erogare agli scrittori, nel dossier si riportava la posizione di uno scrittore convintamente contro un sistema di sussistenza, disposto idealmente a bruciare tutto, ma che in fondo non si aspettava altro che essere pagato. Da questo punto di vista bisogna essere marxisti, avere una idea concreta su quel che si può fare considerando che gli scrittori e gli artisti in genere devono concepirsi all’interno di un’economia reale. Apprezzo che in Francia ci sia sostegno agli scrittori, credo che sia uno dei pochi antidoti al predominio della produzione industriale. L’altro aspetto fondamentale è la necessità di prendere coscienza dello stato attuale della letteratura. Quel che è terribile è che la letteratura è stata a lungo legata a una visione morale, fino alla metà del XIX secolo ci sono state pesanti imposizioni in tal senso. Oggi stiamo vivendo un ritorno a tutto questo: agli scrittori è richiesto di scrivere testi virtuosi, in linea con un’idea morale. Ciò che mi muove risiede nella necessità di denuncia, il mio senso critico è direzionato qui.

La scrittura è una dimensione collettiva, intervista a Guadalupe Nettel


di Debora Lambruschini

L’infanzia non finisce tutta in una volta come avremmo voluto da bambini. Rimane lì, rintanata e silenziosa nei nostri corpi maturi, poi appassiti, finché un bel giorno, dopo molti anni, quando crediamo che il carico di amarezza ci abbia irrimediabilmente trasformato in adulti, ricompare con la rapidità e la potenza di un lampo, ferendoci con la sua freschezza, con la sua innocenza, con la sua dose infallibile di ingenuità, ma soprattutto con la certezza che quello sia stato, davvero, l’ultimo barlume che ne abbiamo avuto.

(Albatri vaganti, incipit, p. 119, da La vita altrove)

 

Incontro Guadalupe Nettel, tra le voci più importanti della narrativa breve contemporanea, a Genova in un pomeriggio di questa estate; lei è qui per presentare al pubblico la sua ultima raccolta di racconti, La vita altrove, tradotta da Federica Niola, edita come sempre da La nuova frontiera, in un mini tour che l’ha portata qualche giorno in giro per l’Italia. Grazie alla casa editrice ho avuto la possibilità di dialogare a tu per tu con lei, prima del suo intervento pubblico, per questa intervista in esclusiva per Cattedrale. Tenevo molto a quest’incontro, non solo perché mi affascina la scrittura potente di Nettel, ma anche perché come troverò confermato nelle sue parole, ci sono molti punti di contatto tra il suo modo di intendere la scrittura, la forma breve e il nostro osservatorio sul racconto.

La vita altrove è una raccolta di racconti pura, composta da nove storie attraversate ognuna da un differente grado di inquietudine e ambiguità, in cui l’autrice riesce a intrecciare istanze del realismo, della distopia, del perturbante. I personaggi delle storie si trovano di fronte a un ribaltamento del quotidiano e alla fatica quindi di adattarsi a circostanze inaspettate, un cambio di rotta spesso traumatico. Nel racconto eponimo – che apre a una miriade di spunti e altre letture intorno al tema della casa e dell’altro – un attore dalla scarsa fortuna si insinua nella vita di un collega e nella vita che avrebbe desiderato condurre, nella casa cui lui e la compagna hanno rinunciato e che resta quindi una sorta di possibilità mancata. La vita altrove del titolo sono appunto le diverse possibilità che si presentano, ma anche il simbolo di una progressiva distanza dalla propria. Anomalie e distanza tra la vita immaginata e quella che invece è la quotidianità caratterizzano diversi racconti, tra cui La porta rosa, Albatri vaganti – con la bellissima metafora dell’uccello migratore – e Il torpore. In quest’ultimo al discorso sulla pandemia si innesca il distopico, immaginando una realtà profondamente mutata dal virus e nella quale la reclusione è diventata uno stato di cose permanente.

 

Circa quindici anni fa il mondo è cambiato completamente e siamo passati alla “modalità confinata”, all’esistenza intra muros che conduciamo da quando è comparso il virus.

(Il torpore, p. 140)

 

La pandemia è presente, in forma diversa, anche in Giocare col fuoco, racconto caratterizzato da un’inquietudine crescente, in cui sfumano i confini tra reale e fantastico. Dopotutto i confini, di genere e forma, sono etichette che paiono stare strette a Nettel, che si misura sempre con narrazioni diverse.  

Parto da qui, quindi, dalla scrittura, che Nettel plasma ora in racconti ora in romanzi: tre raccolte pubblicate (Bestiario sentimentale, Petali e altri racconti e La vita altrove), tre romanzi (Quando finisce l’inverno, La figlia unica, Il corpo in cui sono nata), passando agilmente da una forma all’altra, dando l’impressione di un fluire piuttosto naturale.

G.N. Io vivo nel mondo della letteratura, delle lettere, leggo costantemente narrativa, ma anche poesia. Quindi credo che questa cosa sia come hai detto tu, molto naturale. Avevo voglia, anzi no, avevo necessità, urgenza, di parlare della pandemia per esempio, di quelle che erano le esperienze più importanti: quando ci sono esperienze così importanti ho la necessità di convertirle in qualcosa di letterario; tutto quello che vivo, determinate esperienze, tendo a convertirle in qualcosa di letterario, per lo più finzioni, non necessariamente autobiografia. La pandemia ma anche il cambiamento climatico, che è qualcosa che preoccupa davvero tanto me ma anche i miei figli.

 

Resto ancora un attimo sulla naturalezza con cui passa tra una forma e l’altra ed è molto interessante apprendere di nuovo quanto la componente più importante della scrittura sia per un autore sempre e solo una: osservare. Qualcosa di così semplice eppure allo stesso tempo complesso. L’osservazione che si lega all’ascolto.

Leggo, ascolto e trascrivo i miei pensieri su un taccuino, una specie di diario; se sento delle conversazioni su qualcosa che mi interessa me le appunto. Dopodiché decido se scrivere un saggio o un racconto; per me i racconti sono delle rivelazioni, partono dalla vita quotidiana, è qualcosa che vedo come di già definito, più rotondo, della vita quotidiana appunto. Invece un romanzo è una decisione un po’ più grande, un po’ più complessa, ha bisogno di più ricerca, di più tempo.

 

Efficace questa idea del racconto come una rivelazione, è qualcosa che si lega al concetto di frammento, di moment of truth per dirlo con le parole di Mary Louise Pratt, teorica del racconto. Ed è interessante osservare ancora una volta che a decidere se ciò che si scrive avrà la forma del romanzo o del racconto è, in fondo, la storia stessa, una particolare postura dello sguardo.

Osservare è qualcosa che, in forma e con intenti diversi, facciamo anche a Cattedrale che appunto nasce come «osservatorio sul racconto». Spesso trascurato dagli editori stessi e dai professionisti della lettura, il racconto è una forma che si poggia su una lunga tradizione, anche in Italia. Il contesto culturale entro cui si muove Nettel ha tratti diversi e la distinzione tra romanzo e racconto è meno netta e problematica, tanto per gli scrittori che per i lettori. La sua scrittura si sviluppa in un contesto dalla lunga e florida tradizione cuentista:

Sì, è vero che c’è una grandissima tradizione latinoamericana e sono cresciuta leggendo autori e autrici di racconti come Cortazar, Amparo Dàvila e anche tanti stranieri. Ma una cosa molto importante è che frequentavo un corso di racconti nel quale si lavorava sui propri testi: si leggevano, si criticavano; molto spesso capitava che si distruggessero i racconti uno dell’altro. È stata una vera e propria palestra. Mi sono formata scrivendo racconti, molto più che come romanziera, anzi se lo possiamo dire come romanziera mi sono praticamente lanciata nel vuoto. Esistono tantissimi tipi di racconto: i micro relatos (racconti molto brevi, ndt), il racconto alla Carver, oppure la tradizione nordamericana che sono come fulmini praticamente. Ma il tipo di racconto in cui mi trovo più comoda sono quei racconti lunghi che sembrano quasi micro romanzi, romanzi condensati.

 

Un approccio alla scrittura che comprendiamo molto bene: fondamentale leggere e discutere i lavori propri e degli altri, confrontarsi. C’è molta artigianalità nel mestiere di scrivere e, soprattutto, nello scrivere racconti.

Moltissimo e mi piace che tu abbia parlato di artigianalità. Per questo mi piace tantissimo anche la parola “taller”, “officina”, perché rimanda a tutto un mondo di artigianalità, officina di scrittura.

 

La scrittura per Nettel diventa quindi qualcosa di collettivo, un processo condiviso:

Mi piace molto questa dimensione collettiva in cui qualcuno ti dice «togli quella frase, scrivila in quest’altro modo…» perché è una sorta di editing collettivo in cui sì, c’è un autore, c’è una dimensione personale, però il risultato finale è qualcosa di collettivo; in questo senso ancora più che con l’artigianato ha a che fare con l’architettura. Grazie a questo lavoro collettivo si arriva a un risultato ancora migliore: se facesse tutto una sola persona dall’inizio alla fine il racconto non sarebbe così, non si arriverebbe a una forma tanto bella.

Un'impronta vocale. Intervista a Susanna Basso su Alice Munro

di Rossella Milone

Per prima cosa comincerei da un punto: il tempo, visto che Munro utilizza in modo acrobatico il tempo dei suoi personaggi e delle loro vite all’interno del microcosmo del racconto. Quando hai capito di voler diventare una traduttrice? E quando hai tradotto Munro per la prima volta?

Ho capito di voler diventare una traduttrice leggendo Cesare Pavese e di Cesare Pavese. Avevo 17 anni. Non ho mai smesso di volerlo fare. E l'ho fatto.
Ho inaugurato il millennio traducendo la raccolta The Love of a Good Woman di Alice Munro.
Non ricordo come mai la casa editrice scelse di utilizzare per la versione italiana il titolo dell'ultimo racconto (Il sogno di mia madre) anziché del primo. Incominciava il millennio e aveva inizio la stagione più felice del mio lavoro. Tradurre ha significato per me amare le frasi di libri che, come lettrice, forse non avrei amato completamente. Nasce una relazione particolare traducendo, fatta di sentimenti linguistici che modificano la percezione dei testi. Funziona sempre, o ha funzionato sempre per me. Ma con Munro è stato diverso. Le 14 raccolte di racconti che ho tradotto per Einaudi e per il Meridiano Mondadori, sono state un'esperienza impagabile, la più coinvolgente che il mestiere mi abbia riservato. Diciamo che ho amato le frasi di Munro come lettrice, e poi le ho amate lentamente e devotamente come traduttrice. Molti racconti di Munro si mescolano nella mia memoria - pochi rimangono isolati, sotto forma di singola narrazione (Potrei citare Danza delle Ombre Felici; The Bear Came Over the Mountain; Buche Profonde; la trilogia composta da Fatalità, Fra Poco, Silenzi; Bambinate; Scherzi del Destino; La Stagione dei Tacchini; La Fortuna di Simon...  Qualche altro forse; possono sembrare tanti, ma non lo sono, considerando che nel complesso sono più di centocinquanta quelli su cui ho lavorato a intermittenza per un arco di circa dodici anni.)
Ma Alice Munro è entrata nelle vene della mia lingua, ha innervato il tessuto delle frasi che ho proposto traducendo le sue.

 

Hai citato alcuni dei racconti che sono sedimentati profondamente anche dentro di me, come La danza delle ombre felici e The Bear Came Over the Mountain, due racconti durissimi, ma, nello stesso tempo così pieni della densa umanità che Munro sa infondere nelle sue storie. Hai parlato di devozione, e forse hai colto il punto centrale sia di chi scrive, sia di chi traduce (quindi, della letteratura): riuscire a sgranarsi sulla pagina come individuo e, pur rimanendo solidi, essere devoti solo alle parole. Come funziona questa devozione quando si prendono in carica le parole degli altri, soprattutto quelle così precise di Munro? Quali sono le gioie, e quali i pericoli?

La devozione contiene dedizione grata, rispetto, e una generosa offerta di tempo. Prendere in carica le parole altrui, Rossella, vuol dire poco per volta riconoscerne il ritmo inconfondibile -, il timbro della voce che sentiamo leggendo Munro, ad esempio - perché è questo che soprattutto cerchiamo di salvare in traduzione. Ebbene, credo che il primo passo verso il rispetto di quella voce sia rassegnarsi felicemente all'idea che ne abbiamo una a nostra volta. Ogni traduttore (umano) ha un'impronta vocale. Ecco, devozione per me è esserci, risvegliare la consapevolezza dei limiti e delle qualità della lingua che mettiamo a disposizione delle parole altrui.

 

E dimmi, a proposito di ritmo e di timbro di voce - definizione che mi piace moltissimo - e di come un traduttore sia tenuto a riconoscerli e a salvarli nella traduzione: come definiresti e cosa hai scoperto del ritmo e del timbro specifico di Munro? 

Alice Munro consuma le storie come fossero scarpe. Ci cammina dentro, le porta lontano. A conclusione della sua ultima raccolta (Uscirne vivi) c'è una sezione che opportunamente si intitola FINALE. Comprende quattro pezzi: L'occhio; Notte; Voci e Uscirne vivi, appunto. Così li introduce Munro stessa: "I quattro pezzi finali di questo libro non sono proprio storie. Formano un capitolo a sé, autobiografico nel sentire sebbene non, talvolta, interamente nei fatti. Credo siano le prime e le ultime cose - e le più private- che ho da dire sulla mia vita". Se "La pace di Utrecht" è il suo primo racconto "necessario" intorno alla interminabile ricerca sul mistero della madre, Munro ha lavorato per più di mezzo secolo sulle cose che aveva da dire senza abbassare mai di un millimetro il livello della qualità narrativa. Le sue frasi sono irregolari per lunghezza e andamento sintattico: spolpano la grammatica e saccheggiano il lessico del quotidiano in modi ogni volta diversi. Senza geometrie, a volte brusche, a volte dolcissime, come la vita. Munro costruisce i ponteggi intorno all'edificio di ogni racconto e poi, a un giro di frase, sfila tutto e lascia il lettore, e il traduttore, davanti alla storia nuda. Nessuno lo fa come lei.

 

Irregolarità sintattica, grammatica spolpata, lessico quotidiano ardentemente lavorato: entrare così in intimità nella lingua di una scrittrice mi pare sia, in modo privilegiato, una sorta di cammino a ritroso, verso l'origine, la sorgente della sua necessità narrativa. In Munro hai notato una particolare ossessione? Un demone, o più di uno, che ti sembra possa muovere dalle viscere la sua intenzione affabulatoria?

Nel caso di Munro direi che la sua pratica narrativa procede parallela all'osservazione e all'analisi severa del discorso stesso. Ho avuto il privilegio di seguire quel percorso per tanti anni e tante raccolte, di ritrovare talvolta anche la stessa storia scritta e riscritta alla luce di nuove consapevolezze, smascherata dall'autrice nei suoi facili espedienti. Non ho avuto bisogno di fare alcuno sforzo: Munro è in contatto continuo con ciò che la muove a narrare e lo dichiara, che si tratti della sua ossessione per quella che definisce la "madre gotica", o della geologia dell'Ontario, del tema della scomparsa, o delle voci roche e dei mormorii del suo privato perturbante. Mi piacerebbe poterti dire che sono entrata in contatto con le sue sorgenti, ma se è accaduto è stato solo perché lei mi ha accompagnata dove intendeva portarmi.

 

Questo contatto attivo e vivo che muove Munro, come dici tu, che le permette di arrivare al cuore pulsante di ogni sua storia, mi pare sia la cifra essenziale che qualsiasi scrittore di narrativa debba possedere, e che sia cruciale nella riuscita di un testo. Forse questo aspetto è ancora più visibile nei racconti, forma in cui nessun autore può permettersi di indugiare ma che, anzi, viene chiamato a fare i conti con il proprio materiale narrativo in modo più denso e diretto - altrimenti il racconto non lievita. Pensi che Munro abbia una particolare affinità col racconto per questo? 

Per tutta la sua lunga vita professionale, vale a dire per oltre sessant'anni, editori, critici, recensori hanno cercato in vario modo di chiedere a Alice Munro di passare dal racconto al romanzo. Gli unici a non farlo credo siano stati i lettori, e questo mi dà gioia. Munro comunque non ha mai ceduto, anche quando ha sperimentato la scrittura intorno allo sviluppo di un unico personaggio con ‘La vita delle ragazze e delle donne’, l'ha fatto frammentando il presunto romanzo di Del Jordan in capitoli che isolano le vicende, rifiutando l'amalgama. Sotto la parvenza di un cedimento alle pressioni editoriali, Munro ci consegna una splendida frode. ‘La vita delle ragazze e delle donne’, con buona pace degli editori che si sono affannati a presentarlo come il tanto atteso "romanzo" di Alice Munro, non è di fatto più romanzo di qualunque altra sua raccolta di storie.
La motivazione espressa dall'accademia di Svezia nel conferirle il Premio Nobel la definisce "maestra del racconto" avvicinandone l'arte a quella di Čechov; con le sue centinaia di storie di misura generosa (dalle quindici fino alle oltre ottanta pagine) Munro ha creato un mondo immaginario che comunica l'essenza assoluta e profonda di luoghi reali (l'Ontario soprattutto, ma anche la piovosa Vancouver), di un tempo ( la seconda metà del ventesimo secolo) e di una galassia di donne, ragazze, bambine. Il racconto impegna a una scrittura senza digressioni; il sistema-racconto rinuncia alla dimensione tentacolare e sceglie semmai di trasformare ogni oggetto, o momento, o situazione nel centro di una rete che non ci sarà, e dovrà essere calcolata a partire da quel centro narrativo. Sfido chiunque, leggendo una storia di Munro, a provare nostalgia per quella rete.

 

Nella filiera e nel panorama editoriale in generale, il racconto ha sempre avuto una particolare forma di discriminazione sia da parte di alcuni editori sia dei lettori - ovviamente è un cane che si morde la coda, e l'Osservatorio Cattedrale è nato proprio per sviscerare questi problemi più in dettaglio e in maniera sistematica. Ultimamente si nota un interesse maggiore intorno alla forma breve: sono nate case editrici specifiche, collane, moltissime buone riviste online che pare possano ritornare a fare da crocevia per alcuni autori e alcune forme più screditate come, appunto, il racconto. Che idea ti sei fatta tu da questo punto di vista? Come pensi se la stia passando il racconto in Italia di questi tempi?

Non ho risposta alla tua ultima domanda, Rossella. Non so dire come stia funzionando il racconto nel panorama editoriale italiano di oggi. Non conosco i dati, perciò rischio di dire sciocchezze. So però che al momento sto ritraducendo per Einaudi la formidabile raccolta di racconti di Strout ‘Olive Kitteridge’; che, appena potrò, insieme alla collega Daniela Fargione mi dedicherò alla traduzione dei racconti di Julian Barnes, di cui ho già tradotto anni fa la raccolta ‘Cross Channel’; che l'anno scorso ho tradotto per la collana Gli Struzzi il meraviglioso racconto di Joseph Conrad ‘Amy Foster’. So che ogni volta che raccontiamo una storia o che ce la facciamo raccontare, e a qualsiasi età, non è un romanzo che abbiamo in mente, e nemmeno un poema, e nemmeno un dialogo teatrale, ma solo e sempre un racconto.

Dodici storie del Wisconsin. Intervista a Butler e D'Antona.

di Debora Lambruschini

«Tutte le storie sono storie d’amore», recita l’incipit di Eureka Street, di Robert McLiam Wilson. Lo è questa mia nei confronti di due autori, Nickolas Butler e Giulio D’Antona, con il loro sguardo sulla scrittura e il Midwest. E, forse, lo sarà anche un po’ la vostra dopo la lettura di questo dialogo con entrambi, in occasione dell’uscita di Storie dal Wisconsin, da poco pubblicato per Black Coffee e tradotto da Federica Principi.
Perché il Wisconsin? Per gli autori che compongono la raccolta è il luogo da chiamare casa, per noi lettori è quello da scoprire meglio, il Midwest raccontato con dovizia di particolari, spunti, che ci permette di superare un po’ dei tanti stereotipi che ingabbiano la nostra percezione degli Stati Uniti e della sua letteratura.
Ne è nata una raccolta polifonica e potente, che mette insieme alcune delle voci più interessanti del panorama letterario contemporaneo del luogo.

L’idea di un saggio sul Wisconsin parte da te, Giulio. Puoi raccontarci le ragioni dietro questa scelta, la collaborazione con Butler (al quale sappiamo ti lega anche profonda amicizia) e il percorso editoriale di questa raccolta?

[Giulio D’Antona] Il Wisconsin è lo stato che probabilmente più di tutti è stata una sorpresa per me. Sono convinto che incarni un’idea di americanità che non esiste più da nessun’altra parte. Inizialmente, ho proposto a Nick di scovare degli scrittori del Midwest e mettere insieme una raccolta, ma ben presto abbiamo virato sul solo Wisconsin, dove di voci ce ne sono tante e varie, e ci sembrava il modo migliore per raccontare uno spaccato d’America senza tradirne la diversità. Riguardo alla collaborazione: siamo amici, penso che lui abbia uno spiccato senso per la scrittura: oltre a essere un ottimo narratore è un ottimo cercatore di storie, e infatti ha scovato qualche gemma per questa raccolta. Black Coffee è stata la prima scelta, ed è stata semplice come scegliere di lavorare con Nick: mi piaceva il loro lavoro, erano amici, erano contenti di fare il libro. Esiste una condizione lavorativa migliore?

Nickolas, la prima volta che ci siamo parlati è stato nel 2015, in occasione dell’uscita in Italia del tuo romanzo Shotgun Lovesongs. Ricordo il tuo stupore pensando al pubblico italiano, lontanissimo dai luoghi delle tue narrazioni, che aveva accolto con grande entusiasmo il libro. Questa sensazione ti accompagna ancora?  

[Nickolas Butler] Sono assolutamente sbalordito e terribilmente grato a Black Coffee Edizioni per aver pubblicato questa raccolta di saggi sul mio stato d'origine, il Wisconsin. Inizialmente l'idea era di pubblicare una raccolta sul Midwest americano, ma ho spinto per il Wisconsin. Quando l'idea è stata accettata, ho spinto per una collezione specifica su Eau Claire, Wisconsin! Ma penso che siamo arrivati a una via di mezzo molto buona e accettabile.

Sì, sono ancora sbalordito dalla generosità e dalla curiosità dei lettori, della stampa e dell'editoria italiane. Sono sempre tremendamente grato, indipendentemente dal successo del libro. Non do nulla per scontato.

 

La selezione dei testi qui raccolti è davvero interessante per polifonia, sguardi, postura autoriale. Ma è per forza di cose una selezione, che implica dei criteri organizzativi precisi, delle esclusioni. Come sono state operate queste scelte?

[Giulio D’Antona] Volevamo che, in qualche modo, fosse rappresentata una complessità: di genere, di provenienza, di lingua, di poetica, di storie raccontate. Per questo abbiamo pescato nei bacini più vari, basandoci sulle esperienze dalle quali sapevamo che venivano gli scrittori. Prendi Jay Gilbertson, credo che la sua esperienza di farming nel Wisconsin rurale sia di per sé uno spaccato incredibilmente interessante della realtà dello stato; Josh Swanson, che costruisce barche su un lago remoto; Lopa Basu, che è venuta in Wisconsin da un’esperienza travagliatissima… Insomma, ci piaceva che le voci dei nostri autori fossero dense di vissuto. Credo, spero, che lo siano state.

Leggendo le storie e le parole che le accompagnano emerge l’idea di un luogo complesso, che non può essere ridotto a scarni elementi stereotipati e troppo facili semplificazioni. Quali sono a tuo parere gli stereotipi più resistenti nella narrazione del Wisconsin?

[Nickolas Butler] Ottima domanda. Penso che nel Midwest americano, e forse nel Wisconsin in particolare, ci venga insegnato che nessuno è speciale: siamo tutti uguali. Non è una virtù per noi voler troppo attirare l’attenzione o essere audaci, fieri o farci troppa autopromozione. Penso che questo porti a un tono di scrittura più tranquillo, o forse a un tono di scrittura autoironico. Invece di celebrare l'individuo, penso che molti scritti del Wisconsin riguardino la natura o la comunità.
Il Wisconsin è anche un luogo (come l'Italia rurale) dove il passato e il presente sono in stretta conversazione, e per me a volte sembra di vivere in una parte dell'America che è francamente più legata al 1923 o addirittura al 1823, piuttosto che al 2023. Lo intendo sia nel bene che nel male, ovviamente.

 

Tante le curiosità, le tradizioni e gli aspetti culturali e comunitari emersi dalla lettura, in un ritratto davvero affascinante di questo luogo. Molte cose sono lontanissime dal nostro immaginario e ci sorprendono. Qual è un aspetto caratteristico del Wisconsin che a tuo avviso è più difficile da far comprendere a un lettore straniero?

[Nickolas Butler] Una caratteristica della scrittura del Wisconsin che potrebbe essere difficile da comprendere per un lettore straniero…. Ebbene, anche se qualcosa è estraneo o strano, penso che già l'idea che un lettore abbia acquistato un libro di narrativa straniera o abbia tentato di leggere quel libro sia un atto di straordinaria curiosità e apertura. Sono sicuro che ci sono aspetti della vita e della scrittura del Wisconsin che potrebbero sembrare strani a un italiano, ma non impenetrabili, spero. Mettiamola così: quando ho letto “Le otto montagne” di Paolo Cognetti, non sapevo nulla delle Alpi italiane. Non sapevo nulla dei rifugi di montagna. Mi sono aperto per esplorare un'altra parte del mondo. Questa è la meraviglia e il miracolo della lettura, ovviamente. La possibilità di viaggiare senza uscire di casa.

Il tuo legame con il territorio è fortissimo, si avverte in ogni parola che scrivi. Che cosa significa per te essere uno scrittore del Wisconsin? Una cosa mi ha molto colpita, quella che chiami «mancanza di vanità» ed egocentrismo delle persone, che si riflette anche nel mondo editoriale. Secondo te questo approccio ha un riflesso anche sulla scrittura?

[Nickolas Butler] Penso che almeno per me essere uno scrittore del Wisconsin significhi riferire in modo responsabile e accurato del mio posto su questo pianeta, in modi sia adoranti che realistici. Ma immagino che questo approccio sia abbastanza universale, o almeno spero che lo sia. Quando mi siedo per scrivere, penso ai personaggi, al luogo e alla storia, ma soprattutto alla storia. Sto solo cercando di raccontare una bella storia; è il mio lavoro. Le mie preoccupazioni intellettuali, le mie preoccupazioni politiche, la mia estetica - tutto ciò è secondario e a sostegno della storia.
Hai parlato di “mancanza di vanità”…. e se questo influisce sulla scrittura? Bene, penso che una certa fiducia sia assolutamente necessaria per perseguire l'idea assurda di una vita nelle lettere, ma la vanità penso che aiuti solo nell'editoria, non nello scrivere. L'editoria preferirebbe assolutamente una personalità roboante che può essere commercializzata. Ma quella vanità non ha davvero nulla a che fare con la buona arte. So che questo è vero, assolutamente. Alcuni dei miei migliori insegnanti all'Iowa Writer's Workshop erano persone incredibilmente umili e senza vanità. Sapevano come scrivere libri senza tempo, ma su Twitter o Instagram avrebbero fatto completamente schifo; un pensiero davvero deprimente e una triste dichiarazione del nostro tempo.

 

Il Wisconsin è un luogo che nel tempo hai imparato a conoscere, come spazio concreto e come spazio letterario. Dal punto di vista strettamente narrativo che cosa ti colpisce della produzione contemporanea e qual è nella tua esperienza la ricezione da parte del pubblico italiano? Penso soprattutto alla forma racconto, dal Wisconsin a più in generale il Midwest.

[Giulio D’Antona] Credo che in generale la narrazione della provincia americana sia la più interessante, oggi. Le grandi città le hanno scritte tutti ed è come se si fossero svuotate della loro carica narrativa, ma la provincia è viva, vibrante, pregna. Larry Watson, che abbiamo avuto la fortuna di avere tra i nostri, è un esempio virtuoso di narrazione costante della provincia selvaggia. E voci relativamente nuove come quelle di Mike Perry e Chloe Benjamin hanno la stessa potenza perché esplorano un territorio estremamente interessante. In Italia la letteratura americana è sostanzialmente recepita in massa, con grande attenzione ma anche con grande “bulimia letteraria”; credo che questo appiattisca un pochino l’esperienza e renda difficile, qualche volta, riconoscere le sfumature e immergersi davvero in un territorio o in una narrazione.

Una delle cose più interessanti di queste storie a mio avviso è il ritratto complesso e vivido del luogo e della sua comunità, non edulcorato. Non si manca, per esempio, di raccontarne le disuguaglianze sociali e razziali, di fare i conti con il passato. Ci sono cose che forse non comprendiamo fino in fondo (il culto dei Packers, la caccia al cervo, la leggenda dell’Hodag, i supper club) ma sono proprio quelle che ci permettono di scoprire la realtà del Wisconsin lontana dagli stereotipi.

[Nickolas Butler] Questo è divertente. Penso che il primo posto che abbia mai visitato in Italia sia stato Ivrea, per il meraviglioso festival del libro - La Grande Invasione. Ho saputo che a Ivrea c'era un festival in cui tutti si lanciavano arance, indossavano costumi, ecc. In Wisconsin non esiste niente del genere! Ma ho trovato l'idea assolutamente incredibile. Mi piacerebbe visitare Ivrea in quel periodo. Spero che questa raccolta faccia sentire i lettori italiani allo stesso modo riguardo al Wisconsin. Quindi non capisci i Green Bay Packers? Ma cosa succederebbe se facessi lo sforzo di guardare una partita in TV? E se ti piacesse? E se un giorno visitassi Lambeau Field e vedessi una partita? Non sarebbe un'esperienza straordinaria forgiata dalla lettura?

 

A Cattedrale il nostro sguardo è tutto rivolto alla narrativa breve: racconti puri ma anche le diverse forme ibride che negli ultimi anni si vanno sviluppando. Questa antologia già dal titolo pare indicare una certa direzione, una forma ibrida di testi che si collocano tra il saggio e il racconto. Che cosa ne pensi?

[Giulio D’Antona] Penso che il racconto della realtà sia la forma di narrativa che trovo più avvincente e più interessante in questo momento. Per mettere assieme una raccolta sul Wisconsin, per descrivere un luogo in un momento, il fatto di lasciare agli autori la libertà di pescare dal proprio mondo è fondamentale. Tutte le storie raccolte nel nostro libro sono reali, per quanto ne sappiamo. La sfumatura narrativa sta nell’abilità degli scrittori di renderle avvincenti.

 

In occasione di un’altra nostra chiacchierata ricordo che avevi detto: «Più a lungo scrivo, più cerco di essere invisibile come scrittore». Come si concilia secondo te questo desiderio con la necessita di raccontare qualcosa di personale e quotidiano come in questa raccolta?  

[Nickolas Butler] Ho avuto un meraviglioso insegnante di nome James Alan McPherson che spesso consigliava ai suoi studenti: "Fai ciò che è giusto per la storia". Consigli molto basilari, ma assolutamente veri ed edificanti. La maggior parte dei miei guadagni arriva dalla pubblicazione di romanzi. Ma a volte ho un'idea che non va bene per un romanzo. È una poesia o un saggio o un racconto. Se avessi cercato di esercitare la mia volontà su quell'idea, avrei rovinato l'essenza di ciò che mi era stato dato dal mondo: il dono di una bella storia. Quindi penso che l'invisibilità sia una grande virtù in uno scrittore. L'importante è sempre la storia. Sempre la storia. Sono un canale attraverso il quale passano le storie. Anche un grande libro di memorie, penso, non riguarda necessariamente l'individuo, ma piuttosto le storie che hanno informato l'individuo e la comunità. Essere invisibile permette anche allo scrittore di essere un supplicante e una spia. Piuttosto che dimorare costantemente all'interno, uno scrittore invisibile cercherà e ascolterà sempre nuove storie.

La via delle sorelle. Intervista a Gaia Manzini


di Debora Lambruschini

Si cammina da sole. Ma solo appaiate si trova un ritmo.
Posso raccontarmi solo a patto di raccontare altre donne, solo riconoscendo la mia vita dentro altre vite. Riconoscersi rispecchiandosi. […] Ho voluto scrivere questo viaggio al centro di me stessa, rievocando le sorelle che mi hanno accompagnato dall’infanzia all’età adulta.
L’amicizia è una strada verso il proprio cuore.

 

La via delle sorelle, edito da Bompiani, è un testo ibrido, tra memoir e racconto, una sorta di «autobiografia collettiva» che indaga le molte facce dell’amicizia femminile, partendo dall’esperienza personale per poi aprirsi alla riflessione sui legami tra donne del passato, intellettuali, artiste, scrittrici. Perché in quel rapporto con l’altro c’è molto di noi stesse.
Abbiamo intervistato l’autrice Gaia Manzini, ne è nato un dialogo su scrittura, rapporti, esperienze.


Da dove nasce l’urgenza di queste storie, come si fonde il racconto personale all’esperienza dei personaggi selezionati?

Volevo raccontare del mio percorso identitario, della mia formazione di donna. Ognuna di noi costruisce il proprio femminile dal confronto con le altre: qualcuno di questi incontri segna la nostra esistenza in modo decisivo. Ho voluto scrivere una sorta di autobiografia collettiva, raccontando della mia vita attraverso le amicizie che l’hanno segnata.
Le “sorelle” sono quelle presenze amiche che sono state determinanti nella mia crescita personale. Ci sono le amiche dell’infanzia, quelle con cui ho imparato a sognare e a desiderare, quelle nelle quali mi sono identificata, quelle con cui ho progettato qualcosa di appassionante, quelle che mi hanno fatto conoscere parti di me e che mi hanno indicato una strada. La forma del personal essay mi ha consentito di mescolare il racconto autobiografico al racconto di altre donne della letteratura e dell’arte. È una scelta stilistica che nasce da un’esigenza personale – quella di non voler peccare di egolalia, e poter così cambiare discorso, nidificandomi in altre donne, raccontando di me ma per analogia e parallelismi. Il personal essay è per me soprattutto un esercizio di pudore. Ma non solo: c’è anche un’esigenza tematica. Se racconto del mio percorso di donna, da scrittrice, non posso escludere da questa avventura anche coloro che attraverso le loro opere mi hanno insegnato e formato. Virginia Woolf, Sylvia Plath, Antonia Pozzi e le altre sono autrici e artiste di riferimento. Tuttavia non ho voluto raccontarle per le loro opere, ma soprattutto per i rapporti che le hanno legate ad altre donne (in alcuni casi, amiche famose; in altri, sconosciute al pubblico). Sforzandomi di capire loro mi è sembrato di capire meglio le dinamiche tra me e le mie amiche, e viceversa.

 

La narrazione quindi intreccia esperienza personale, memoria, e racconto di altre donne, altri legami di amicizia, tra scrittrici, artiste, intellettuali. Come ha trovato questo equilibrio, arrivava prima la riflessione personale o la scelta delle artiste e scrittrici da raccontare? E di questi ultimi quale rapporto l’ha colpita in modo particolare tra quelli inseriti nel libro?

Sapevo che avrei raccontato di me, ma prima ho fatto una lunga ricerca viaggiando tra le biografie, i diari, le raccolte di lettere delle autrici che cito: mi sono messa in ascolto della loro esistenza privata. Ho raccolto informazioni, ho tentato delle interpretazioni il più possibile verosimili. Ogni volta che mi sono seduta a scrivere ho deciso in modo istintivo se iniziare a raccontare un aneddoto privato oppure uno legato a queste donne. Quello che sapevo fin dall’inizio era a quale età della vita un’amicizia letteraria o artistica sarebbe stata affiancata. L’amicizia tra Natalia Ginzburg e Angela Zucconi, per esempio, è un legame nato sul luogo di lavoro che si approfondisce quando entrambe decidono di progettare insieme una rivista. Mi è subito sembrata un’amicizia “adulta”, legata a una progettualità più consapevole. Oltre alla loro storia, mi è piaciuto molto raccontare dell’artista Pippa Bacca e della sua amica Silvia Moro: queste due donne sono partite insieme nel 2008 per un viaggio performance attraverso l’Europa dell’Est e poi il Medio Oriente. Sono partite vestite da sposa, in una sorta di sposalizio con la vita, di viaggio della purezza che sfida la violenza del mondo. Da un punto di vista simbolico però partire in due mi è subito apparso un errore: una sola sposa che cammina al lato di una strada, e di tanto in tanto fa l’autostop, è un’immagine molto più evocativa di due spose. In un capitolo del libro ho cercato di comprendere quel gesto: volevo mettere a fuoco il movimento psicologico di una donna che decide di coinvolgere un’amica nel progetto più importante della sua vita. Non c’entra solo la condivisione, c’entra anche la paura.

 

L’amicizia, il riconoscimento, tra Marilyn ed Ella Fitzgerald è forse quella che personalmente mi ha colpita maggiormente e quello che nel libro diventa anche il racconto più letterario, autonomo da tutto il resto, con un’identità propria, in cui la commistione tra fiction e non fiction trova un equilibrio ideale. «Non si sa niente di quell’incontro, lo si può solo immaginare»: e in quel momento scatta appunto la scrittura. Che cosa ha significato per lei questo racconto? Dal punto di vista personale e letterario?

Ella Fitzgerald non aveva mai suonato nel prestigioso locale Mocambo, a Los Angeles. Era famosa, la chiamavano “first lady of song”, era la voce femminile più venerata del panorama artistico americano, eppure in quel locale famoso, frequentato dalla più importanti star di Hollywood non era mai stata invitata. È facile immaginarne le ragioni: non era ancora scoppiata la protesta contro le leggi di segregazione che gravavano sugli afroamericani e anche le decisioni dei direttori artistici potevano manifestare forme di razzismo. Ma a Marilyn non importava. Lei era una fan di Ella, si conoscevano pochissimo; una volta l’attrice si era complimentata con lei, le aveva espresso la sua devozione. È stata Marilyn Monroe a convincere il direttore del Mocambo a portare Ella Fitzgerald a Los Angeles: ci riuscì perché promise di sedere in prima fila per tutte le repliche del concerto. Le due protagoniste di questo racconto sono già per ognuno di noi dei personaggi: figure plasmate dalla narrazione che ne ha fatto lo star system americano. In certo senso è una narrazione già avviata, ma come dimostra Joyce Carol Oates, che su Marilyn ha scritto un romanzo straordinario -Blonde -, è nella contraddizione tra immagine pubblica, venata di mito, con quella privata di cui si sa sempre pochissimo che prende vita qualcosa di letterariamente interessante: proprio laddove queste figure note ai più si mostrano nella loro fragilità, nel loro essere umane. Mi sono immaginata queste due donne diversissime ma in fondo simili - sempre osservate, sempre giudicate, sempre incasellate in una cornice d’oro - che scambiano due parole come donne qualsiasi che si fanno i complimenti reciproci, e una esprime all’altra il desiderio di rivederla e in quel desiderio la mette nella condizione di realizzare qualcosa d’importante. Perché portare una cantante di colore al Mocambo significava mostrare al mondo che le leggi Jim Crow avevano fatto il loro tempo. Gli altri, gli amici e le amiche spesso servono ad aggiustare il racconto che abbiamo di noi stessi: ci mostrano delle possibilità diverse, delle qualità che non credevamo d’avere, ci dicono che è giunto il tempo per noi di fare un passo in più. Si fanno promotori di un’epifania personale che ci fa rinascere un’altra volta. Chiunque sia agente di una nostra nuova agnizione personale non può che essere annoverato tra gli amici, non sarà mai una presenza trascurabile della nostra esistenza, ma qualcuno che per un attimo ci ha fatto brillare. Forse Ella Fitzgerald non aveva bisogno che Marilyn le esprimesse la sua ammirazione, ma quella ammirazione le ha fatto credere possibile di esibirsi in un locale che forse non le avrebbe mai aperto il cuore.

 Dell’amicizia femminile racconta diverse sfumature, nel tentativo di renderla pienamente, tracciando una mappa sentimentale che accompagna lungo tutta la vita: il sostegno e l’affetto profondo, ma anche le distanze, la fugacità di certi rapporti, le incomprensioni. Sarebbe stato più facile scrivere un’ode all’amicizia femminile, alla sorellanza, farne un racconto edulcorato: invece lei fa una scelta diversa, molto più aderente alla realtà, raccontandone anche i lati più oscuri, le incomprensioni, la condivisione di un solo pezzo di strada.

C’è un tono di voce che accompagna un po’ tutto il libro che è quello dello stupore. Mi sono sempre cercata per tutta la vita. Il mio è stato un percorso annodato, difficile, pieno di errori, spesso accompagnato da angoscia. Ma dopo molti anni, in questo momento, posso dire che il cercarmi mi ha portato a un godimento di me: mi piace la mia vita, mi piace stare dentro i miei panni. Questo ha un effetto sullo sguardo che cerca di ritrovare lo stupore e l’incanto rivolgendosi alla vita passata. Nel mio libro, insieme ai legami luminosi, ho raccontato anche di ombre, di esperienze non positive, di tradimenti, perché la storia dei rapporti è molto spesso frastagliata; ma ho cercato di farlo sempre con stupore, sempre con accoglienza, perché anche gli incontri difficili, a riguardarli adesso, sono stati motivo di conoscenza, spinta di crescita personale e di consapevolezza.  L’incanto verso il passato si trasforma poi in quello verso il futuro: in questo momento sento una fiducia nuova – la certezza di poter sempre incontrare anime che ci corrispondono, che ci danno gioia. Il viaggio verso noi stesse non finisce mai.

 

Uno spunto particolarmente interessante è il racconto dell’amicizia tra coloro che scrivono, sul quale apre a molte riflessioni e spunti che restano al lettore. In generale la sensazione durante la lettura è stata proprio questa, di una sorta di interazione tra autore e lettore, che è chiamato a colmare gli spazi vuoti della narrazione, rintracciare la storia sommersa, come insito nella forma racconto. E farsi toccare nel profondo dalla lettura, aggiungendo alle pagine la propria di esperienza personale, un ulteriore specchiamento.

Mi piace pensare che quello sia il terzo movimento del libro. Il primo è il racconto autobiografico, il secondo quello delle amicizie di donne del passato, il terzo quello a cui il lettore contribuisce attivamente. Tutti noi abbiamo avuto un percorso fatto di incontri: tutti noi siamo il frutto delle relazioni che abbiamo avuto. Cercare di comprendere quelle relazioni è qualcosa che facciamo di continuo. Il libro diventa la messa in moto di un meccanismo che è già proprio di ciascuno. Un’amica leggendo queste pagine mi ha scritto una bella lettera, facendomi molti complimenti anche per come avevo trattato la figura e i riferimenti a Cristina Campo. Ma Cristina Campo nel mio libro non c’è, non viene raccontata. Evidentemente è parte della formazione intellettuale della mia amica che, immedesimandosi nel mio percorso, non ha potuto che evocare anche le sue sorelle intellettuali, quelle che sono state decisive nella sua di formazione. Mi piace molto che la lettura di questo libro sia un’interazione con il lettore: è come un dialogo aperto e vivo fatto in nome della sorellanza. È come una festa di amiche a cui si aggiungono sempre nuove invitate.

 

Un testo di questo genere, a confine tra memoir e racconto, significa anche mettersi a nudo, esporre sé stessi. E, in certi casi, perdonarsi, per non aver capito o per essere state così severe con noi stesse?

Cercare di comprendere è già una forma di perdono. Il “capire” esce dalla dinamica della colpevolizzazione perché impone una distanza critica: ci si trova davanti solo dei dati di fatto. Le cose sono andate così, ma anche se hanno provocato dolore o sono state degli errori, rimangono tappe fondamentali del percorso verso me stessa. In questo momento riguardo alle tante versioni di me più giovane e provo un senso di tenerezza, e di rispetto.

 

Se potesse scegliere di inserire ancora un racconto, ancora due amiche scrittrici/artiste, quale vorrebbe raccontarci?

Mi piacerebbe approfondire il rapporto tra Maria Callas e Giovanna Lomazzi. Giovanna Lomazzi, scopritrice di talenti nel mondo dell’opera e da anni vice presidente del Teatro Sociale di Como, ha incontrato Maria Callas per caso nel 1953 al Biffi Scala quando aveva solo diciotto anni. Sono diventate subito molto amiche nonostante la differenza di età. La “divina” la considerava una sorella. Giovanna ha assistito alla trasformazione dell’artista in un vero e proprio mito vivente. Negli anni l’ha accompagnata in tutte le tappe della sua carriera. Come si preserva l’amicizia aldilà della fama, dell’esposizione, dei riflettori? È un aspetto che mi interessa, che mi piacerebbe indagare.

Vive! Storie di eroine. Intervista ad Alessandra Sarchi

di Debora Lambruschini

 

Un testo ibrido, fra saggio critico e racconto, rilettura appassionata e tributo a dieci eroine tragiche della letteratura occidentale; ma anche un progetto che abbraccia due modalità espressive differenti, la narrazione scritta e l’audio. Con Vive!, prima un podcast per Storie Libere e ora un libro pubblicato da Harper Collins Italia, Alessandra Sarchi crea una narrazione partecipe e puntuale nel tentativo di superare uno degli stereotipi letterari più antichi: il destino tragico delle protagoniste femminili che non si adeguano alla morale del loro tempo. Dieci figure letterarie ben impresse nel nostro immaginario collettivo – Didone, Emma Bovary, Ofelia, Ersilia Drei, Hedda Gabler, la Nouvelle Héloïse Julie, Francesca da Rimini, Anna Karenina, Marguerite Gautier, Albertine – la cui morte tragica rappresentava il solo epilogo possibile per essere infine libere dalle gabbie che le imprigionavano, condannate da regole e costrutti sociali del proprio tempo. Ma che cosa accadrebbe, immagina Sarchi, se non morissero, se qualcosa del loro destino mutasse? Quali strade alternative potrebbero percorrere? Strade di cui i testi originali portano già traccia, talvolta appena accennata, altre più riconoscibile come se già nelle intenzioni degli autori – tutti uomini non a caso – si fosse insinuata l’idea di un finale altro, di una libertà possibile, ma che il tempo, le convenzioni, hanno impedito.

 

A scanso di equivoci: immaginare un destino diverso per queste eroine è un atto letterario che non vuole giudicare né cancellare il disegno originale con cui sono state concepite,
 ma sviluppare uno spazio nuovo, possibile.
(introduzione, p. 21)

 

Uno spazio nuovo, possibile, di cui Sarchi rincorre le tracce nel testo, strutturando per ogni protagonista una narrazione in due parti: un breve saggio critico con il quale contestualizzare la figura letteraria e l’opera conducendo il lettore tra gli aspetti più caratterizzanti del testo e della sua protagonista; poi, dare voce a essa, mediante l’invenzione letteraria, e diventando di volta in volta pensiero e parole: di Emma Bovary che trova un modo a lei congeniale per sopravvivere all’insoddisfazione e all’ipocrisia della società, di Didone trincerata dietro la maschera della regina indomita che medita vendetta contro chi l’ha tanto profondamente ferita, della sempre obbediente Ofelia perfetta vittima sacrificale che trova nel caso la propria libertà, di Anna e la sua condanna a una società bigotta salvata dalla solidarietà delle amicizie, delle perpetue incarnazioni di Marguerite signora delle Camelie…
Quella operata da Sarchi è già una selezione molto interessante e a partire dal comune destino tragico ci porta a interrogare l’autrice per capire quale particolare rapporto la leghi proprio a questi testi:   

 

Sarchi: La scelta di queste dieci eroine è stata dettata dal fatto che fossero tutte accomunate da una morte tragica a seguito di un amore infelice o impossibile. Il connubio – amore/morte - è così tanto un luogo comune della letteratura, per quanto riguarda le donne, da diventare anche un punto cieco: per le eroine, se si escludono quelle dei poemi cavallereschi come L’Orlando innamorato o L’Orlando Furioso, non è prevista altra forma di gloria o di rilevanza. Ciascuna di loro, poiché si tratta di eroine molto famose e piuttosto paradigmatiche della condizione femminile, è stata determinante nella mia crescita, al tempo stesso ho cominciato a provare una certa insofferenza per il destino tragico cui erano condannate proprio perché mi sembrava un topos letterario, frutto di una certa inerzia e di una visione della donna, del suo ruolo e delle sue possibilità, oggi non più condivisibile.

 

In queste storie, in questi racconti, c’è molto spazio per l’invenzione letteraria, ma moltissimo era presente già nel testo originale, il destino immaginato per queste eroine tragiche è in fondo una delle possibilità di cui i testi erano disseminati. Sentieri già accennati che Sarchi sceglie di far percorrere alle sue eroine.

 

Sarchi: Già Ovidio nelle sue Eroidi aveva immaginato di concedere voce e spazio alle eroine della mitologia e della letteratura greco-romana, ma non aveva rotto – e come avrebbe potuto? – le convenzioni che vedevano comunque nella donna una moglie e una madre principalmente.
Duemila anni dopo possiamo andare oltre. Possiamo aprire le porte intravviste e subito richiuse dagli autori stessi, in questo senso la figura che mi pare di aver portato alla sua massima realizzazione è Albertine di Proust, che nella Recherche è un’ambigua unione di tratti maschili e femminili e che oggi potrebbe definirsi tranquillamente una creatura queer.

 

Le figure letterarie qui presentate oltre ad appartenere a dieci capisaldi della letteratura occidentale rappresentano anche un dialogo ininterrotto con la contemporaneità: specchio dell’epoca e del contesto sociale entro cui si muovono, ma le passioni, i muri e le convenzioni contro cui si scontrano sono riflesso di limiti mutati ma ancora riconoscibili nel contemporaneo.

 

Sarchi: In ciascuna di loro ho ravvisato una parte di me stessa, ma anche la possibilità di un superamento, perché la condizione femminile, nonostante oggi se ne parli molto, è ancora stretta da cogenti strutture patriarcali. Queste eroine  hanno tutte tratti di modernità, basti pensare alla signora delle Camelie che applica al suo nuovo amante le stesse condizioni di fedeltà e autonomia che le donne vedono applicate a se stesse, o a Ersilia Drei che fa emergere la mania di manipolazione maschile, anche quando è celata sotto cosiddette premure paterne, ma nelle opere originali sono tenute sempre un passo indietro rispetto a un gesto di liberazione che è esattamente quello che mi sono permessa di far compiere a loro. Credo che faccia parte della possibilità di tenere vivi i classici la loro riscrittura o rilettura: è evidente che con l’Iliade, ad esempio, si possono fare tante cose dalla ricerca filologica, a quella storica, fino alla rilettura in chiave contemporanea. Non sono operazioni sempre riuscite, dipende da tanti elementi, ma fanno parte di un dialogo col passato che è imprescindibile per chi scrive o si esprime in qualsiasi forma artistica.

 

Ma è soprattutto il corpo uno dei fili rossi che lega questi ritratti. Perché il corpo delle donne è così spesso e pericolosamente oggettivizzato, confrontato con altri, trattato come una merce; è identità, colpa se non conforme, ma anche mezzo potentissimo di espressione, denuncia. Una condizione sublimata nella figura di Francesca:

 

Quel che ci strazia è l’essere senza peso e in preda al vento di Francesca. Se penso a Francesca provo il desiderio di restituirle un corpo.
(p. 56)

 

Ridarle un corpo è la possibilità che nel testo a lei dedicato Sarchi esplora con grande slancio. Un discorso similare sul corpo vale anche, in forme diverse, per Anna Karenina, Marguerite Gautier (perfino il suo corpo senza vita è ancora oggetto dell’attenzione dell’amante), la smaterializzazione del corpo di Ofelia la cui morte avviene fuori scena…

 

Sarchi: Mi trovo del tutto concordo con questa tua osservazione e te ne sono grata. Pensare alla voce reincarnata di queste eroine ha voluto dire prima di tutto immaginarle in carne e ossa, donne vive non di carta. Donne concrete: ridare loro un corpo vuol anche dire che non è così semplice sbarazzarsene, quando la trama inclina inevitabilmente in quella direzione. Nel corpo e nella voce di ciascuna di loro io vedo iscritta una forma di unicità che è già di per sé un riscatto. La reificazione del corpo non è solo il portato di uno sguardo maschile, mosso prevalentemente dal desiderio ma anche dal disprezzo per il corporeo cui il femminile è associato; bisogna infatti ricordare che tutta la cultura occidentale da Platone in poi ha condannato il corpo come luogo vile, come luogo delle particolarità da contrapporre all’universalità del logos e del pensiero. Ma noi sappiamo che esistono nella letteratura, come nella vita, solo corpi unici e storie particolari.

 

Ma è quando gli uomini, la società, non riescono a etichettarle, quando similmente a Hedda Gabler non rientrano in una delle scatole entro cui il patriarcato vorrebbe confinarle – moglie, madre devota – che le donne diventano un problema. Ognuna di queste dieci figure femminili, letterarie sì ma così tangibili, rappresenta la ribellione a quel sistema e, ahimè, la loro morte tragica la punizione, l’unica forma di libertà possibile. Ecco quindi che l’invenzione di Sarchi assume un valore ulteriore, non di semplice riscrittura, ma esplorazione delle altre vie possibili.

Sarchi: Walter Benjamin diceva che è sempre possibile immaginare l’ulteriore continuazione di un racconto e io credo avesse ragione perché la fine o il finale sono sempre qualcosa di fittizio e di arbitrario con cui si pone termine a una storia. Le storie come la vita sono infinite.
Vero è che non tutte le storie sono possibili in un certo momento storico, ad esempio per Tolstoj la morte di Anna Karenina, oltre a essere la sigla di un destino tragico, è anche l’unico modo che concepisce per una figura di adultera che la società dell’epoca stigmatizzava e isolava. Quante Anna Karenina ci sono anche oggi? Eppure in un contesto sociale mutato e con maggiori diritti acquisiti, le donne che si separano da un primo marito e hanno un figlio con un altro uomo, in genere, non finiscono sotto un treno. Per non allontanarmi troppo da Tolstoj, quello che ho concesso alla mia Anna Karenina è la comprensione delle sue simili, la loro fiducia e supporto. Se Anna avesse avuto la piena amicizia di Kitty e Dolly, forse non si sarebbe suicidata, perché non è solo la gelosia e l’inaffidabilità di Vronskj a provocare la sua disperazione, ma l’isolamento, la solitudine e il non trovare delle sorelle che le tendano la mano.

Su queste infinite possibilità si reincarnano Ofelia, Francesca, Anna e le altre, scegliendo di percorrere una strada alternativa al tragico destino pensato per loro dalla mano che le ha create. E in quelle infinite possibilità risiede appunto il cuore della narrazione: testi che trascendono il tempo e lo spazio, sui quali è possibile operare molteplici riletture, pronti ad accogliere le istanze del tempo in cui si muovono.

Quattro. L'invisibile. Tetra-. Tre nuove realtà che danno voce al racconto

La Redazione di Cattedrale incontra tre editori che negli ultimi mesi hanno dato vita, in modi diversi, ad altrettante realtà che si occuperanno di narrativa breve o lunga, in ogni caso della forma racconto nelle sue svariate vesti: dal racconto breve, a quello lungo alla novella. Attenti, come Osservatorio, ai movimenti e alle nuove formule che si muovono intorno alla narrativa breve, siamo andati a intervistare i tre artefici di queste nuovissime realtà, per porre loro qualche domanda, ma non solo: mettere a confronto le loro risposte, individuare nei loro specifici tratti identitari e lavorativi le peculariaità di ciascun progetto, far emergere il pensiero che indirizza i loro percorsi, ci sembra un buon modo per radiografare lo stato del racconto contemporaneo, in Italia, e, soprattutto, offrire ai lettori sempre più ampi e variegati spazi di lettura.

Abbiamo intervistato
Cecilia Mutti, direttrice editroiale di Nuova Editrice Berti, che ha dato vita a QUATTRO, lo spazio di carta per raccontare storie inedite.
Martino Baldi, direttore di The Florence Review e direttore della neo collana di Industria e Letteratura editore, L’Invisibile, che da spazio al racconto lungo.
Roberto Venturini, direttore editoriale di Tetra-, casa editrice che ogni 4 del mese pubblica 4 racconti di 4 scrittrici e scrittori.

Di seguito trovate l’intervista condivisa.

Buona lettura!



 Prima di tutto, prova a presentarci il vostro progetto con una definizione.

 

Cecilia Mutti: Quattro recupera la nobile tradizione dei racconti su giornale e rivista, un tempo vere fucine di talenti, dedicando uno spazio di carta alla buona scrittura. È un foglio letterario che esce quattro volte all’anno, indipendente, con distribuzione nazionale: per ogni numero, sono selezionati quattro racconti tra quelli ricevuti dai partecipanti al bando.

 

Martino Baldi: Pubblicare una collana di libri brevi con dentro tutto quello che troviamo di solito nei libri lunghi.

 

Roberto Venturini: Tetra- è una sfida. Un progetto nato dalla volontà di avvicinare autori importanti e lettori a un genere, il racconto lungo, inspiegabilmente poco considerato nel panorama editoriale del nostro Paese.

  

Come mai avete scelto come campo di approfondimento proprio la narrativa breve?

 

Cecilia Mutti: Penso che il racconto breve sia un terreno difficile con cui confrontarsi, nonché una palestra utilissima per esercitare la buona scrittura. È una cartina tornasole del talento molto efficace, e per un editore non c’è sfida più grande che scoprire un grande talento, o dare il giusto spazio a un talento dimenticato.

 

Martino Baldi: 1. Perché credo che sia quella in cui c’è al momento un margine di originalità praticabile più ampio; 2. perché è una misura in cui ho una esperienza che penso di poter mettere a frutto; 3. perché per dedicarmi a misure più ampie non avrei avuto altrettanta competenza né tempo a sufficienza; 4. perché posso coinvolgere autori che ammiro ma che pubblicano altrove le loro opere “maggiori”.


Roberto Venturini:
La scelta di concentrarci sulla narrativa breve è la logica conseguenza dell’amore che abbiamo nei confronti del racconto. Genere letterario che è nel dna dei più grandi scrittori del nostro paese  e che è stato in grado di influenzare e contaminare altri media. Si pensi al cinema e nello specifico alla Commedia all’italiana e non solo.

 

 Gli ambiti legati al racconto e alla narrativa breve, fino a poco tempo fa, erano pochi e poco efficaci. Da qualche anno, soprattutto dopo il lavoro specifico di alcune realtà editoriali e del web, si nota un certo movimento intorno al racconto. Come siete arrivati a concepire l’idea del vostro progetto?

 

Cecilia Mutti: Non credo molto nelle antologie collettive, che per anni hanno svilito il racconto, facendolo diventare “raccontino” inglobato in progetti a tema spesso mal concepiti. Tutt’altra cosa sono le raccolte di racconti, che nel caso di alcuni scrittori (per me molto amati) sono dei veri capolavori. Il giornale mi sembra però uno spazio particolarmente felice per accogliere i racconti, più lieve, perché ne valorizza lo scopo primario, ovvero intrattenere il lettore.

 

Martino Baldi: Questo progetto è la confluenza del mio lavoro degli ultimi anni come editor della rivista The Florence Review (ex The FLR) e come direttore del festival “L’anno che verrà”, nonché delle mie passioni di lettore. Volevo fare qualcosa in cui avere maggior libertà rispetto alla rivista, con una misura di lunghezza secondo me più interessante, e allo stesso tempo fare cose con autori che ho imparato a stimare. A una certa età si impara soprattutto che la cosa più importante per la propria qualità della vita è scegliersi bene le compagnie, almeno per me è così.

 

Qual è il tratto specifico che caratterizza il vostro progetto?

 

Cecilia Mutti: I racconti sono valutati dal comitato editoriale in forma anonima: niente scorciatoie, scegliamo i più convincenti con grande, trasparente democrazia.

 

Martino Baldi: Quello che caratterizza “L’invisibile” è ciò a cui ambisce, che è ben raffigurato dal nostro animale totemico nel logo: un cervo che esce fuori dal suo spazio. Il cervo è animale che per eccellenza vive nel nascondimento ma che, quando si manifesta, lo fa con una magnificenza unica e il suo apparire cambia completamente il senso di ciò che lo circonda.  L’apparizione del cervo sconvolge l’equilibrio della nostra conoscenza. Che è un po' quello che fa anche la grande letteratura. Che è un po’ quello che in piccolo vorrebbe fare “L’invisibile”.

Roberto Venturini: Tetra- vorrebbe essere un’arena dove gli autori possano sperimentare con la massima libertà. Non imponiamo una tematica agli scrittori, entro la gabbia delle 50/70 mila battute hanno assoluto campo libero.

 

Raccontateci brevemente una giornata tipo legata al vostro progetto sul racconto: cosa fate, come vi organizzate, come è strutturato il lavoro.


Cecilia Mutti:
Innanzi tutto i racconti ricevuti vengono archiviati, quindi condivisi in forma anonima (senza firme, solo numerati) con il comitato editoriale, che sceglie i quattro migliori. I membri del comitato non si relazionano tra loro, ma a lettura completata si interfacciano con la redazione, che raccoglie le valutazioni.

 

Martino Baldi: Cerco di parlare di persona con gli autori che mi interessano, quindi approfitto delle occasioni come festival, fiere, presentazioni, oppure faccio qualche incursione “a sorpresa”.  Mettiamo a punto insieme un’idea e poi la facciamo germogliare con i tempi che ogni idea richiede, diversi per ognuna, anche in base agli altri impegni degli autori. Mi occupo in prima persona dell’editing e della fase preliminare dei contratti, prima di passarli all’editore Gabriel Del Sarto. Mi relaziono con Alessandro Golfieri, il nostro art director, per mettere a punto la copertina e gli altri aspetti grafici. Se c’è bisogno di una mano in fase di redazione, mi aiuta il nostro esplosivo factotum Demetrio Marra. Da Alessandro Besselva, della rivista “Rumore”, giungono i suggerimenti per la colonna sonora del libro, che è una delle nostre sorprese e, come avrete visto, occupa una paginetta finale del volume.

Roberto Venturini: La linea editoriale è quella di mescolare nelle quartine autori maturi, con alle spalle pubblicazioni con alcuni dei maggiori gruppi editoriali, e le nuovissime voci che si stanno imponendo nel panorama letterario italiano. Inizialmente si contattano gli autori e gli si spiega loro il progetto poi con ogni scrittore si lavora in maniera diversa. Alcuni sviluppano un’idea con l’editor, altri consegnano racconti nella più completa autonomia che vengono editati con particolare cura.

 
Prima di questa nuova esperienza, come vi relazionavate al racconto? 



Cecilia Mutti: Ho sempre amato i racconti, e trovo che abbiano avuto un’età felicissima negli anni Trenta del Novecento. Nella nostra collana delle “Matite” abbiamo pubblicato diversi racconti brevi di autori classici  spesso rimasti inediti in Italia perché considerati produzioni minori. Al contrario, credo possano essere particolarmente evocativi e rappresentativi di un certo immaginario e modo di scrivere. Possano anche diventare un ottimo strumento per avvicinare i lettori più giovani: funzionano come un assaggio, lasciando poi lo spazio per approfondire.

 

Martino Baldi: Sono sempre stato un lettore di racconti ed è anche l’unica forma narrativa che ho sperimentato scrivendo in prima persona. Ultimamente, dico la verità, mi ero un po’ stancato per una certa serialità della proposta, forse per questo ho cercato di creare uno spazio in cui far esistere quello che avrei voluto trovare. In pratica però l’unica differenza cospicua è che non mi ero mai immerso così tanto nelle dinamiche dell’editing del lavoro altrui.

 

Roberto Venturini: Il racconto per me è sempre stato un antidoto per il blocco del lettore. Spesso mi capita di leggere narrativa breve tra una lettura impegnativa e un’altra.

 

 Secondo voi di che salute godono il racconto, e la narrativa breve in generale, nel panorama editoriale italiano?

 

Cecilia Mutti: Purtroppo non buona, e temo sia per mancanza di pubblico: i cosiddetti lettori forti sono in calo, quelli occasionali sono da anni in caduta libera e questo abbassa il livello della proposta, che tende a essere sempre più omologata. Gli scrittori in realtà non mancano, ma non sempre la qualità è all’altezza. Le case editrici più grandi investono sempre meno nel lavoro delle loro redazioni e, per paura di fare buchi nell’acqua, vanno sul sicuro proponendo romanzi e racconti che possano assecondare le mode e i gusti mainstream. Un po’ più di libertà di manovra c’è nella piccola e media editoria, e forse anziché copiare quello che fanno i “grandi” varrebbe la pena rivendicare la propria autonomia e cogliere l’opportunità di scoprire voci nuove, fuori dal coro. A volte anche fuori moda.

 

Martino Baldi: Non così terribile come si racconta. Stanno crescendo nuove iniziative, nascono sempre nuovi spazi sul web e resistono alcune riviste cartacee che danno spazio ai racconti, e nuove ne stanno arrivando. Il racconto è inoltre anche un sempre più frequente strumento di scouting. La nascita di una casa editrice come Racconti non è rimasta un’esperienza isolata e non è un caso se, mentre stavamo ideando “L’invisibile” era in incubazione anche una iniziativa per certi versi simile (e per molti diversa) come il progetto di Tetra. Casomai il problema è quello del “successo” editoriale ma quello è un problema molto complesso, che non riguarda solo la narrativa breve.

 

Roberto Venturni: Esiste una crepa tra l’amore dei lettori italiani e l’offerta dei maggiori gruppi editoriali nei confronti dei racconti. Oggi però qualcosa si sta smuovendo e di questo ne sono felice.

 

Dal vostro punto di vista, qual è l’anello debole nelle dinamiche editoriali (dalla scrittura, alla distribuzione, alla comunicazione) che penalizza il racconto? Dove bisognerebbe intervenire?

 

Cecilia Mutti: Sono tutti anelli di una stessa catena: se mal comunicato, un libro resta invisibile ai suoi fruitori finali, che sono librai e lettori. Il racconto incontra ancora più difficoltà perché permane una certa diffidenza di fronte alla sua brevità e, nel caso delle antologie, all’eterogeneità. Credo che l’unico modo per intervenire sia puntare sulla comunicazione diretta: ci vogliono librai entusiasti e preparati, che consiglino buoni libri e facciano rete con gli editori, e anche i gruppi di lettura sono realtà interessanti con cui confrontarsi. Ma soprattutto bisogna promuovere e riprendere l’abitudine alla lettura nelle famiglie, posando cellulari e tablet qualche volta in più.

 

Martino Baldi: Non saprei, non ho risposte, ho solo qualche dubbio. Penso però che non abbia senso parlare del racconto come una cosa a sé ma in generale del clima generale di proposta e di ascolto, così appiattito negli ultimi anni. L’editore che dice “ah, ma sono racconti, allora non se ne fa niente” è lo stesso che dice a un romanziere “questo romanzo è troppo difficile, non si vende”; il lettore che dice a se stesso “ah, questi sono racconti, allora non li compro” è lo stesso che sceglie le letture in base a chi vince i premi, a chi è ai primi posti della classifica, a quanto è famoso l’autore. Poi c’è, è vero, anche il lettore che nelle proprie corde ha proprio le letture lunghe ma d’altro canto ci saranno anche quelli che hanno nelle proprie corde le letture brevi, quelli che hanno nelle proprie corde la poesia o la drammaturgia. Purtroppo ci muoviamo in un mondo sempre più piatto, in cui l’editoria cosiddetta maggiore sta purtroppo tendendo a rafforzare l’appiattimento facendo scelte sempre meno coraggiose. E la stampa, che altro non è che un braccio dello stesso organismo, contribuisce a un clima non certo favorevole allo sviluppo della curiosità. Insomma se la cantano e se la suonano, ma la canzone sempre più spesso, a mio modesto parere, non è un granché.

 

Roberto Venturini: Esistono pregiudizi insensati attorno alla narrazione breve. Ad esempio il racconto è tacciato di scarsa letterarietà: stupidaggine assoluta. Molti autori amano questo “esercizio di scrittura” e i lettori grazie anche all’educazione alla serialità che viene da altri media gradisco molto questo genere. Probabilmente si dovrebbe lavorare meglio sul piano della comunicazione.

 

 Il vostro nuovo progetto può, in questo senso, aiutare o sostenere il racconto italiano? 

 

Cecilia Mutti: Spero, speriamo di sì. Sia lasciando il terreno libero da ogni logica commerciale o ruffianeria, sia dando spazio a voci nuove, che potrebbero così incontrare l’editore giusto. Speriamo soprattutto di diventare un punto di riferimento, per scrittori e lettori curiosi.

 

Martino Baldi: Non lo so. Il mio obiettivo non è aiutare qualcuno ma fare cose che mi fanno stare bene e dare al lettore la certezza che non stiamo sprecando il suo tempo. Io poi in fondo in fondo non so se quelli che pubblichiamo sono veramente racconti o cos’altro: infatti la collana si chiama, più ambiguamente, “di narrativa breve (ma non troppo)”. Comunque, se un aiuto può darlo, forse è nel sostenere con l’esempio una concezione del racconto come opera ambiziosa e autoportante, e non come la perlina di una collana; la narrativa breve non deve essere confusa con una scatola di biscottini.

 

Roberto Ventuirni: Cercare di pubblicare autori che rappresentano l’eccellenza dell’editoria italiana contemporanea a un prezzo accessibile ritengo sia un tentativo affabulatorio che possa incentivare i lettori ad avvicinarli ancora di più a questo piccolo grande genere letterario. Noi ci si prova.

Perché l'America, intervista a Matthew Baker

di Fabrizia Gagliardi

Anziani che dall’età di settant’anni devono annunciare il proprio rito suicida come fosse una responsabilità civile per non gravare sulla comunità. Un ragazzo che comunica alla famiglia di voler abbandonare il proprio corpo per caricare la coscienza nell’etere digitale. Un pregiudicato scopre che la condanna per i crimini che ha commesso comporta la cancellazione di una parte della memoria e dovrà cercare di adattarsi di nuovo alla sua vita con un programma di reinserimento. Il valore dei matrimoni è definito dall’importanza dello sponsor che accetta di prenderne parte.
Sono solo alcune delle suggestioni più interessanti di Perché l’America, una raccolta di tredici racconti di Matthew Baker, pubblicata da Sellerio con la traduzione di Veronica Raimo e Marco Rossari.
Non è difficile incasellare i racconti nella distopia, anche se il genere risulta stranamente inquietante quando le storture future iniziano a far parte del presente.
Matthew Baker diluisce i presagi più cupi con capacità inventiva sfruttando suggestioni familiari del contemporaneo. Molto spesso gli esperimenti speculativi combaciano con un realismo più scarno e spietato in cui anche un minimo scostamento dalla norma è utile a creare e sottolineare il paradosso. Succede per esempio in Apparizione dove un anziano e il nipote deportano periodicamente oltre i confini dello stato i cosiddetti Indesiderati: esseri non molto diversi dagli umani caratterizzati da una pelle chiara, quasi trasparente, e capelli bianchi come la pelle. In Anime perse il problema della sovrappopolazione si presenta quando, senza una spiegazione plausibile, nascono bambini vuoti, privi di qualsiasi segno di coscienza, che muoiono pochi istanti dopo.
Molto spesso nella scrittura di Baker si riconosce l’immaginazione di George Saunders o l’ironia di David Foster Wallace, senza arrivare davvero a un’opera derivativa. Lì dove i personaggi di altri autori erano fermi in involuzioni stilistiche che densificavano un’interiorità profonda e mostravano il lento fagocitare della realtà paradossale, in Baker sono meno riflessivi e a volte più trasparenti rispetto alla cura meticolosa dedicata alla costruzione del mondo.

Abbiamo intervistato l’autore per capire da dove nascono storie che, grazie ad atmosfere tra l’attualità e un futuro distopico, hanno affascinato anche produzioni televisive e cinematografiche (Netflix, Amazon, FX e Fox Searchlight hanno acquisito i diritti di otto racconti di Perché l’America). 

 

Hai presentato il libro come una guida agli Stati Uniti, tredici racconti uno per ogni striscia della bandiera americana. Una guida bizzarra e particolare che a luoghi geografici familiari come i Grandi Laghi, gli Appalachi, le Grandi Pianure, affianca una cultura americana guardata sotto la lente della speculative fiction. Qual è lo scopo della speculative fiction nella tua raccolta? E perché non hai scelto una narrazione realista?

In qualsiasi società umana, avere una conversazione costruttiva su questioni sociali o politiche può essere difficile e gli Stati Uniti oggi sono una società così pericolosamente polarizzata che a volte il paese sembra essere sull'orlo di una guerra civile. È diventato impossibile parlare delle questioni che contano. Se provi a conversare con qualcuno su un argomento come i profughi di guerra o la riforma carceraria, immediatamente si alzano questi muri, queste barriere psicologiche spesse come mattoni, che impediscono qualsiasi scambio genuino di idee. In un ambiente del genere l'unico modo per parlare di ciò di cui vuoi parlare è mascherare il problema. Coprire il problema in un'altra forma. Mi sono rivolto alla narrativa speculativa nella speranza di dare ai lettori uno spazio per confrontarsi genuinamente con le idee alla base di questi problemi e per accedere sinceramente alle emozioni coinvolte.

 

Nel corso delle storie ogni stato americano appare almeno una volta, citato tramite i suoi monumenti e i suoi punti di riferimento. Credo che racchiudere la grande varietà geografica e antropologica degli Stati Uniti sia un lavoro mastodontico. La vedo dal punto di vista di un’italiana, abituata ad aree geografiche densamente popolate, senza quel senso di apertura, libertà estrema, abbandono di spazi sconfinati del territorio americano. Quanto credi che incida questo territorio sull’identità americana? E come sei riuscito a uscire dal tuo luogo ed esplorare tutti gli altri nella fiction?

Gli americani sono fondamentalmente ossessionati dalla "libertà" e dall'"indipendenza" e questo, in una certa misura, è probabilmente ispirato dal senso di vivere in un territorio sconfinato. Ho una grande famiglia, geograficamente lontana, parenti che vivono in Michigan, Virginia, Texas, Nevada, Montana, Florida, Illinois, Ohio, Kentucky, California, New York, così che la natura apparentemente sconfinata del territorio mi è rimasta impressa in giovane età, attraversando grandi distanze con i miei genitori e le mie sorelle in un minivan nelle estati per visitare i cugini che vivevano in culture radicalmente diverse, che tuttavia erano tutte in qualche modo semplicemente componenti di una cultura più grande - l'ubercultura degli Stati Uniti. In un certo senso, è stato allora che ho iniziato a scrivere il libro: quelle estati esplorando la campagna con la mia famiglia, con mappe stradali, binocoli e macchine fotografiche usa e getta, in un minivan arrugginito.

 

Come nascono le idee per le tue storie?

Sognando ad occhi aperti, di solito, seduto su un treno o su un autobus o girovagando per le gallerie di un museo.

 

In alcuni racconti della raccolta ho notato che le derive speculative erano molto affascinanti, così suggestive da lasciare da parte l’approfondimento di alcuni personaggi, come se fossi più concentrato sul concetto trasmesso dal racconto e non sull’interiorità dei personaggi. Durante la scrittura c’è stato qualche racconto che ti ha messo in difficoltà sotto questo aspetto? E come fare per superare il conflitto tra l’ispirazione letteraria e il desiderio di far prevalere un concetto sostanziale del racconto?

In termini di personaggio, la storia più difficile della raccolta è stata Perché l'America, dato che in quella storia il protagonista non è semplicemente una persona ma un'intera città. Il tentativo di costruire un arco narrativo per la comunità stessa e allo stesso tempo archi narrativi per i singoli membri di quella comunità sono state una sfida tremenda. Un'impresa apparentemente impossibile. Ma questo è ciò che mi ha entusiasmato della storia. Che era una sfida. Come artista, preferisco fallire in modo spettacolare mentre provo qualche nuovo trucco piuttosto che riuscire ancora una volta a fare qualche vecchia mossa che ho già eseguito.

A tratti nei tuoi racconti s’intravede l’ironia di David Foster Wallace e le atmosfere di alcuni racconti di George Saunders. Volevo però sapere dal tuo punto di vista quali sono state le opere importanti nel tuo percorso artistico e a quali ti sei ispirato per la raccolta?

La prima opera di letteratura contemporanea che abbia mai letto è stato il romanzo di Haruki Murakami La fine del mondo e il paese delle meraviglie. Ero incantato. Ho sviluppato rapidamente un'ossessione per Murakami, leggendo ogni libro che avesse mai scritto. I romanzi di Murakami   L'uccello che girava le viti del mondo e Norwegian Wood in particolare hanno avuto un'enorme influenza su di me come giovane scrittore: ho letto ciascuno di quei romanzi almeno sei o sette volte nell'arco di forse solo due o tre anni. Il romanzo di Salvador Plascencia Gente di carta è stato un altro testo fondamentale per me, insieme a Collected Fictions di Jorge Luis Borges, Le città invisibili di Italo Calvino, il Codex Seraphinianus di Luigi Serafini, Un signore molto vecchio con delle ali enormi di Gabriel García Márquez. Ma per questa raccolta di racconti in particolare le più grandi ispirazioni per me sono state opere di fantascienza sociale/politica come Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood e Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro e I reietti dell'altro pianeta. Ho passato molto tempo a pensare alla creazione del mondo in graphic novel come Il Garage Ermetico di Jean Giraud e L’approdo di Shaun Tan. Le dinamiche narrative dei film Her e Se mi lasci ti cancello. Il sentimentalismo leonino della puntata “San Junipero” [della serie tv Black Mirror ndr.]. L'intellettualismo temerario del videogioco BioShock.

 

In un’intervista hai affermato che i tuoi lettori ideali sono tutti i veri americani. Quali sono le contraddizioni, gli aspetti più evidenti della cultura e dell’essere americano che hai voluto sottolineare nei racconti? Ti poni come un monito alla cultura americana per cambiare le cose o un semplice osservatore del cambiamento?

Lo sciovinismo e il bigottismo e la vanità e l'avidità. I dogmi colossali, abbastanza potenti da distruggere ogni logica, abbastanza potenti da distruggere ogni compassione, abbastanza potenti da distruggere anche il clima del mondo. Non un "avvertimento", non un "osservatore": a dire il vero, ho scritto il libro con lo stesso fervore folle che potrebbe provare un rivoluzionario preparando una bottiglia molotov prima di lanciarla contro un carro armato.

Storie di vite diverse. Intervista a Tiziana Lo Porto

di Debora Lambruschini

Diciamo spesso, in riferimento a certi testi e autori, della cura per la parola con cui taluni racconti sono costruiti; della capacità di osservazione che è requisito fondamentale per uno scrittore grazie alla quale si ri-crea sulla pagina una possibile forma di realtà. A volte, di rado, si parla anche di voci del passato, cadute nell’oblio, soffocate dal peso di una tradizione ingombrante, poi qualche volta recuperate e pronte a incontrare i lettori come se apparissero per la prima volta, senza perdere un grammo del loro peso letterario. Sono tutte considerazioni che possiamo legare a “Storie di vite diverse”, undici racconti di Bette Howland per la prima volta accessibili al pubblico italiano, ma anche al mestiere stesso del traduttore, artigiano della parola quanto lo scrittore e forse, per certi versi, anche di più. In Italia questi racconti sono pubblicati da Sem editore, nella puntuale traduzione di Tiziana Lo Porto, scrittrice e traduttrice di lunga esperienza, che ringraziamo per questo scambio davvero molto denso di spunti.

 

La storia editoriale di Bette Howland è una storia di mancanze: tre libri, premi importanti, poi la rinuncia alla pubblicazione e l’oblio; la riscoperta casuale e fulminante. In Italia viene tradotta ora, per la prima volta. Può raccontarci come siete arrivati, lei e l’editore Sem, a scegliere di tradurre questa raccolta? Come si colloca, a suo parere, nel dialogo letterario contemporaneo?

La scelta di tradurre il libro di Bette Howland è esclusivamente della casa editrice, e in particolare dell’editor straniera di Sem, Maria Giulia Castagnone, che oltre a essere una bravissima editor è anche una grande traduttrice. Sono stata contattata dopo che il libro era stato acquistato per essere tradotto in Italia. Un privilegio. Conoscevo i racconti di Howland, ma traducendo si raggiunge un’intimità con l’autore che nemmeno la lettura o rilettura di un libro ti consente di ottenere.

 

I rapporti famigliari, le complessità dell’animo umano, le solitudini e le miserie quotidiane, la vecchiaia, il disagio: lo sguardo di Howland si posa su questi aspetti, indaga le pieghe, le zone d’ombra, e sorprende per l’ironia che traspare, mai feroce. Ne deriva una scrittura estremamente particolare, in bilico fra realismo concreto e frammentarietà del racconto, densa e stratificata. Che cosa ne pensa e quali altri aspetti secondo lei caratterizzano questi racconti?

Sono assolutamente d’accordo. Trovo poi che ci sia una capacità di osservazione, che precede la scrittura dei racconti, che arriva al lettore, quasi mostrando il tempo in cui lo sguardo di Howland si è attardato su certi luoghi ed eventi, consapevole o meno che poi ne avrebbe scritto e li avrebbe raccontati. E c’è una esattezza rara nella scelta delle parole, nella composizione delle frasi. Spero di averla restituita.

 

Storie di vite diverse raccoglie undici racconti scritti fra il 1962 e il 1999, una distanza temporale piuttosto importante, eppure queste storie non sembrano invecchiate di un giorno, tanto per tematiche e spunti quanto per la voce dell’autrice. Ecco, su quest’ultimo aspetto, quanto ha inciso la traduzione?

La traduzione cerca di essere fedele alla pagina, alla singola pagina, per cui se fai un buon lavoro la resa dovrebbe rispecchiare il contenuto iniziale, e soprattutto la voce dell’autrice. Howland ha una scrittura assolutamente contemporanea, e anche le tematiche che affronta (mi viene in mente il razzismo, ma anche lo sguardo attento verso le disparità sociali) già nel 1962 sono assolutamente contemporanee. La traduzione poi viene fatta oggi, nel 2021 nel caso di questo libro, e questo è un dato da cui non si può prescindere. È impossibile azzerare la contemporaneità del traduttore, anche quando traduce un manoscritto del settecento. Il lavoro che fa è trovare il giusto equilibrio, sparire del tutto è impossibile, ma ci si può abbandonare all’altro, per certi versi affidarsi alla scrittura dell’altro, dell’autore che si traduce, entrare nella sua testa e stare per un po’ dentro la sua vita. In questo il mestiere del traduttore somiglia a quello dell’attore.

 

Chicago, con i suoi quartieri operai, è a mio avviso protagonista al pari dei personaggi che popolano queste storie. Quanto è profondo secondo lei, nei racconti in questione, il legame tra la città, le vite dei protagonisti e le loro scelte? Quanto ne sono condizionati? Secondo lei ha impatto anche sulla scrittura stessa?

Il legame con la città è essenziale, anche per la scrittura. Howland aveva una grande capacità di ascolto, ascoltava la gente, i loro discorsi, anche di sconosciuti, o dei suoi parenti, per poi rimettere in scena con quello che prima hai definito giustamente “realismo concreto” nei suoi racconti. Ed è necessaria a questo tipo di scrittura (un lavoro simile lo fa Eve Babitz, che ho tradotto negli ultimi anni per Bompiani, con la città di Los Angeles) la conoscenza e il controllo del territorio, la fedeltà alla geografia, alla topografia, alle distanze e ai tempi di percorrenza (per esempio in autobus, da un quartiere all’altro di Chicago, bisogna sapere quanto ci si mette per capire quanto tempo si ha disposizione per i dialoghi e i pensieri della Howland mentre viaggia dentro il racconto). Chicago incide sulle vite dei protagonisti, ed è inevitabile, ma è interessante osservare come la città abbia inciso anche sulla scrittura di Howland. 

 

Nelle interviste e riflessioni sulla traduzione dice spesso che la parte più interessante del suo lavoro è trascorrere molto tempo «dentro la testa dell’autore»: in questo caso, con Bette Howland, che cosa ha comportato? E come si è approcciata alla traduzione del testo?

Sì, e in effetti l’ho detto anche prima in una risposta… Ci torno spesso perché è una delle cose che amo di più della traduzione (insieme all’uso quasi compulsivo dei dizionari, in particolare sinonimi e contrari, per esplorare le possibilità della lingua, anche di quella italiana). Entrare nella testa dell’autore ti permette di sospendere il tempo in cui vivi, e in certe circostanze non solo è utile, ma ti permette di sopravvivere. Nel caso di Howland ha comportato sapere qualcosa di più sulla vita, immaginare meglio Chicago (non ci sono mai stata, ma alla fine era come se fossi là), cose così. Di lei mi affascinava il fatto che pur essendo una magnifica scrittrice è come se la scrittura fosse e non fosse la sua priorità. Scrivere le veniva naturale come bere l’acqua o fare una passeggiata, ma non ha mai avuto le ambizioni che hanno la maggior parte degli scrittori. Sembra che anche per lei fosse una cosa non solo utile, ma che ti permette di sopravvivere.

 

Entrare nella testa dell’autore incide profondamente nel modo di leggere il suo testo, di comprenderlo; l’atto di traduzione è qualcosa di complesso, stratificato, intimo perfino. Per lei è importante sentirsi vicini all’autore e/o al testo da tradurre? Quanta distanza invece è necessaria per la riuscita della traduzione?

L’equilibrio tra le due cose, tra il restare se stessi (comunque il traduttore ha il controllo della lingua di arrivo – l’italiano è una lingua quasi sempre sconosciuta per l’autore tradotto, sempre che sia vivo e possa dire la sua), e l’essere vicini o fedeli all’autore, è una cosa più intuitiva che ragionata. L’eccesso di ragionamento a volte danneggia il testo. Per esempio, là dove posso evito di leggere un libro prima di tradurlo: leggo e traduco contemporaneamente. Perché mentre traduco voglio provare e restituire l’emozione dell’autore nel momento in cui scriveva. È quello che Kerouac chiamava “telepatic shock”, parlando della scrittura, ovvero della capacità che deve avere lo scrittore di intrappolare nella pagina l’emozione che prova in quel momento per restituirla e farla provare al lettore. Quella capacità lì deve averla anche il traduttore.

 

L’opera di Howland sembra rifuggire etichette e inquadramenti, e i racconti qui presentati ne sono un esempio: spunti autobiografici, fiction, non fiction, per quel che riguarda la forma; ma anche una ricchezza tematica e una polifonia di fondo che rendono l’opera assai interessante e stratificata. Qual è la sua idea a riguardo?

Penso che la scrittura debba sempre essere così. Non debba avere o mettersi dei limiti per definizione. Debba sempre rifuggire etichette e inquadramenti. È l’unico modo per non ripetere qualcosa che è stato già fatto, detto, scritto. In questo Howland è bravissima.

 

Nella sua carriera ha tradotto autori, autrici e testi molto diversi fra loro ma legati a mio avviso da un elemento: sono tutti, in qualche modo, outsiders. E Bette Howland ne è la summa, tanto per il suo lungo confinamento ai margini del panorama editoriale quanto per l’anima stessa delle sue storie, dei suoi protagonisti. È d’accordo?

Sì, assolutamente. Gli outsiders sono interessanti. Per certi versi hanno un maggiore margine di libertà.

 

Personalmente non amo troppo le divisioni fra letteratura maschile e femminile – per me semplicemente si può parlare di buona e cattiva letteratura – ma riguardo la traduzione mi incuriosisce sapere se secondo lei la coincidenza di genere fra autore/autrice del testo e traduttore/traduttrice influenza in qualche modo il lavoro.

Assolutamente no. Che sia uomo o donna l’autore, il lavoro ha bisogno della stessa attenzione e richiede la stessa fatica. Entri nella testa dell’autore, ti immedesimi in lui, a prescindere dal fatto che sia maschio o femmina. E tra l’altro se si tratta di finzione ti immedesimi in tutti i personaggi. D’altronde non tutte le donne sono uguali, non potrà mai essere la stessa cosa tradurre Emily Dickinson o Patricia Highsmith o Lena Dunham. Lo stesso vale per gli uomini. Ogni scrittore scrive a modo suo. Trovo insensata a tal proposito la battaglia (che per fortuna mi sembra si sia spenta da sé) portata avanti qualche tempo fa affinché si mantenesse una sorta di purezza di razza nel tradurre. Lo trovo profondamente razzista. La letteratura dovrebbe, tra le altre cose, aiutare a capire l’altro, a conoscere, ad abbattere barriere e creare ponti. E pensare che un traduttore non abbia sufficiente capacità di empatia o padronanza della lingua è anche un pensiero un po’ ignorante. Solo chi non sa cosa significhi tradurre può pensare una cosa del genere. Una delle traduzioni che mi ha dato maggiore soddisfazione e che ho amato di più fare è “La promessa” di Damon Galgut, che è un uomo, sudafricano, e bianco. Passare del tempo dentro la sua testa e dentro quella dei suoi personaggi è stato interessante.

Racconti giapponesi. Intervista ad Antonietta Pastore

di Debora Lambruschini

 

La conoscenza profonda di una cultura distante dalla propria, acquisita dalla lunga permanenza e immersione totale, dai legami con le persone e, soprattutto, dallo sguardo attento e pieno di grazia con cui si vive il Paese scelto: dialogare con Antonietta Pastore – scrittrice e traduttrice dal giapponese – è spalancare una porta su un mondo complesso e ricco di fascino che racconta ai suoi interlocutori con instancabile gentilezza e puntualità. Principale voce italiana di Murakami Haruki e traduttrice di autori quali, per esempio, Natsume Sōseki, Inoue Yasushi, Kawakami Hiromi, del Giappone e delle sue complessità ha scritto in molti dei suoi libri, restituendone un ritratto non stereotipato, attento.
È da poco in libreria per Einaudi la raccolta Racconti del Giappone, una selezione da lei curata di testi di scrittori e scrittrici di tutto il mondo ed epoche differenti nati dal «desiderio di osservare e comprendere» una realtà tanto stratificata e affascinante, cui si aggiungono alcune voci prettamente giapponesi. La polifonia intrinseca della raccolta e la ricchezza di tematiche permettono di realizzare un quadro piuttosto ampio di un Paese la cui fascinazione ha sempre coinvolto l’immaginario collettivo, come tuttavia gli stereotipi e i fraintendimenti nati dalla distanza culturale. Ma è anche grazie alla letteratura, alla ricerca e al dialogo con chi quella realtà la conosce e frequenta da sempre, che possiamo conoscere la parte più vera di una società ricchissima e multiforme.


Ha operato una scelta editoriale davvero interessante: per raccontare il Giappone ha raccolto voci molto diverse per provenienza e stile narrativo da tutto il mondo, tra cui si inseriscono solo alcuni autori prettamente giapponesi. Partiamo da qui, come mai è approdata a questa scelta e che cosa ha comportato?

Quando ho iniziato a selezionare i testi da inserire nella raccolta, mi sono presto resa conto che la scelta temporale si imponeva, perché erano perlopiù impressioni di scrittori e scrittrici sul Paese e la sua gente, la fiction mancava quasi del tutto. Quindi ho pensato che fosse molto interessante, per i lettori, vedere come la percezione del popolo giapponese da parte degli autori occidentali andasse cambiando nel tempo. Dai primi incontri all’inizio del ventesimo secolo fino ai giorni nostri.  

 

Nella prefazione al testo dice, a proposito dei testi selezionati, che ad accomunarli è il «desiderio di osservare e comprendere» il mondo nipponico da parte degli autori; non turisti quindi, ma veri viaggiatori, che ne osservano le complessità culturali: quali sono a suo avviso i principali fraintendimenti circa la società e la letteratura giapponese? E come la letteratura può correggere questa discrepanza?

Noto due modi di fraintendere la cultura giapponese. Uno consiste nel vederne solo i due aspetti stereotipati e contrastanti – da una parte il mito del samurai (coraggio, violenza), dall’altra quello della geisha e dei fiori di ciliegio (grazia, delicatezza) – che i media continuano tutt’oggi a rafforzare. Un altro fraintendimento è l’idea che i giapponesi siano persone fredde e anaffettive, un’impressione generata dal loro comportamento spesso rigido, da una facciata di impeccabile cortesia aldilà della quale è difficile intuire cosa si nasconda. Quando però si riesce a oltrepassare questa barriera, si capisce che in realtà i giapponesi sono molto sentimentali e partecipi della sofferenza altrui, e inoltre che sono persone capaci di grandi passioni – passioni che spesso sono costretti a soffocare per rispettare le convenzioni sociali. La letteratura aiuta a comprendere questi sentimenti profondi che spesso restano celati nel loro animo. Per fare un esempio, la scoperta dei grandi autori giapponesi – Natsume Sōseki, Taniguchi, Kawabata... – mi ha permesso di aprire una porta che senza la lettura sarebbe probabilmente rimasta chiusa. Dove avrebbero potuto trovare, mi sono chiesta, questi autori, tutte le emozioni e le passioni che mettevano in scena nelle loro opere, se non le avessero provate personalmente, se non le avessero constatate e riconosciute in altre persone?

 

Da un punto di vista più strettamente narrativo, notiamo – come sottolinea lei per prima nella prefazione – che la maggior parte degli autori stranieri qui selezionati hanno raccontato il Giappone mediante la saggistica, il reportage di viaggio, mentre solo pochi, oltre agli scrittori giapponesi, si sono dedicati alla fiction. Da cosa dipende a suo avviso questo scarto, quali sono le ragioni di tale scelta, negli autori e nella selezione qui operata?

Se gli autori che hanno scritto del Giappone si sono quasi sempre limitati al racconto dei loro viaggi e delle loro impressioni, evitando la fiction, credo che sia per la difficoltà di ambientare un’opera di fantasia in un contesto mal conosciuto, e per molti spiazzante. Come ho scritto nella prefazione al libro, tutto quello che vedevano intorno a sé, in Giappone, costituiva un materiale narrativo sufficiente per stimolare la creatività di un autore o un’autrice, per “riempire le pagine”. Solo pochi avevano sufficiente familiarità con la società giapponese da ambientarvi un racconto, e anche in quel caso – La carne e lo specchio di Angela Carter, ad esempio – si tratta di opere che hanno una forte impronta autobiografica.

 

In “Attraverso le città in fiamme”, Paul Claudel riflettendo sulle catastrofi naturali che colpiscono il Giappone, a un certo punto dice: «Il giapponese, lui, non perde mai il senso del mistero pericoloso che lo circonda. Il suo paese gli ispira un amore ardente, ma non gli ispira fiducia. Bisogna fare sempre attenzione». Secondo lei questo sentire influenza anche la letteratura? Se sì, in quale misura e con quali risultati, in termini di forme narrative?

Secondo me il popolo giapponese è abituato a convivere con il pericolo costituito dalla natura che lo circonda, e più che temerlo, è sempre pronto a farvi fronte e ricominciare da capo dopo un disastro. In altri termini, ha sviluppato nei secoli un forte spirito di resilienza che gli permette di superare le avversità e rinascere dalle sue ceneri. Questo si riflette naturalmente nel carattere dei personaggi che incontriamo nelle opere letterarie, senza che gli autori ne siano necessariamente consapevoli. Prendo ad esempio Natsuke Sōseki: i suoi protagonisti raramente sono felici, quasi tutti si trovano ad affrontare delusioni e tragedie, ma il dolore, invece di portarli a gesti estremi, viene da loro accettato come un elemento inevitabile della vita. “Non c’è nulla da fare” è una delle frasi che ricorrono più spesso sulla bocca dei giapponesi, che non sono portati alla ribellione e tendono a rassegnarsi al il destino. Attenzione però: questo non è visto come un segno di debolezza, anzi di forza. Infatti il suicidio non è quasi mai motivato dalla disperazione, ma dal desiderio di salvare l’onore proprio e della propria famiglia (o clan, impresa, paese...) Questa mentalità, profondamente radicata nell’inconscio collettivo, si rivela naturalmente nel carattere dei personaggi che troviamo nelle opere letterarie e teatrali.
Detto ciò, non possiamo fare a meno di considerare che un gran numero di scrittori giapponesi si è suicidato. Qui però entriamo in un terreno sconosciuto, legato alla sfera privata di ognuno di loro, di cui non ho i mezzi per analizzare più approfonditamente.

 

Le case da tè, le abitazioni private e i giardini, le strade, le botteghe: i luoghi sono molto presenti in queste narrazioni, ma più di ogni cosa per raccontare «l’irriducibile elemento di mistero» che è la cultura giapponese mi pare che l’attenzione sia concentrata soprattutto – e in modo assai efficace – sulle persone, sul loro comportamento. È qui secondo lei che possiamo cogliere il vero spirito del Giappone? Ed è qui, quindi, che si concentra la narrazione, in un fil rouge a legare i testi di questa raccolta?

Sì, è qui che si è preservato lo spirito del Giappone antico, la forza e anche l’orgoglio, direi, della tradizione. I panorami urbani hanno conservato poco delle atmosfere di altri tempi, le possiamo ritrovare solo in campagna, oppure nei templi e nei pochi palazzi rimasti; ma i paesaggi, se possono infondere emozioni, non hanno la forza di trasmettere l’originalità, anzi l’unicità della mentalità, e di conseguenza della cultura e della società giapponese, solo le persone sono in grado di farlo. Malgrado il Giappone sia simile all’occidente in molti aspetti – forse più di qualunque altro paese d’oriente –, è al tempo stesso, nel comportamento dei suoi abitanti, il più distante. Credo che questo sia dovuto al fatto che non è mai stato colonizzato, nel corso della sua storia, da nessun paese occidentale; solo dopo la Seconda Guerra Mondiale ha subito l’influenza della cultura americana e poi europea, ma soprattutto negli aspetti esteriori. L’interiorità dei giapponesi – un’interiorità che si manifesta poi nelle abitudini e nei gesti quotidiani – resta a mio parere molto condizionata dalla cultura tradizionale.   

 

In questa antologia trovano spazio autori molto diversi, appartenenti a contesti sociali e momenti storici differenti. Tale scelta rappresenta un modo molto efficace per tentare di leggere i mutamenti sociali e culturali del Paese in un arco di tempo piuttosto ampio, ma ci danno anche la misura di quanto profonda sia la fascinazione che il Sol Levante esercita nell’immaginario collettivo. Qual è secondo lei il periodo in cui si è intensificato l’interesse per il Giappone da parte del mondo occidentale? E questo che cosa ha comportato per il Paese?

A partire dalla fine degli anni Settanta, inizio Ottanta, quando diversi prodotti giapponesi hanno cominciato ad arrivare sui mercati occidentali. Poi, con la diffusione sempre crescente di manga e anime – fumetti e cartoni animati –, l’attrazione per il Giappone è dilagata, diventando un fenomeno di massa. Per il Giappone, che non aveva mai smesso di interessarsi all’occidente e aveva sempre continuato, da quando nel 1868 aprì le sue frontiere, a importare mode e prodotti, questo ha costituito un grande vantaggio perché ha permesso di invertire il flusso e diventare così esportatore. Cosa che è stata ed è tuttora di grande aiuto all’economia, naturalmente, perché ha costituito una solida sponda alla crisi economica determinata, all’inizio degli anni Novanta, dallo sgonfiarsi della bolla finanziaria e dal conseguente stallo dell’industria.

 

Un’antologia è anche il mezzo ideale per esplorare scritture diverse, scoprire autori e riflettere da prospettive differenti intorno a un topos comune. In un’ipotetica antologia di voci contemporanee dal Giappone, quali sono gli autori che considererebbe?

Se vogliamo limitarci alla letteratura successiva agli anni Ottanta – cioè quella nata dopo la svolta imposta dalle opere di Murakami Haruki e Yoshimoto Banana –, io considererei, oltre a questi due autori, Kirino Natuo, Murakami Ryū, Kawakami Hiromi, Ogawa Yōko, Ogawa Ito, Furukawa Hideo. Per citare solo i più noti.

Case inquiete. Intervista ad Alessandra Sarchi

di Roberto Galofaro

Dopo Il dono di Antonia (Einaudi, 2020), Alessandra Sarchi torna in libreria con minimum fax con la raccolta Via da qui. L’abbiamo intervistata sui temi dei cinque racconti e sulla sua concezione della forma breve.

 

Il suo esordio era avvenuto nel segno del racconto con Segni sottili e clandestini (Diabasis, 2008); suoi racconti sono apparsi anche in antologie, su giornali e riviste, perciò vorrei cominciare con una domanda specifica e generica insieme: è giusto definire questo nuovo libro come un “ritorno” alla forma breve? Non è piuttosto una pratica costante, fatta di composizione e scomposizione, meditazione, scatti e ripensamenti, tagli, riscritture, che si prolunga per un tempo assai lungo?

Non nascondo di avere una predilezione per il genere del racconto e mi dispiace che in Italia l’editoria sia così poco incline a pubblicarne. Non ho mai smesso di scrivere narrazioni brevi e dalla mia prima raccolta, pur essendomi misurata con la lunga distanza del romanzo in quattro occasioni, ho mantenuto il gusto e lo spazio mentale per la densità, la sintesi, e la sperimentazione anche linguistica che la forma breve consente. Ho capito che difficilmente, per quanto mi riguarda, riesco a trasformare un racconto in un romanzo. Il racconto ha una vita sua che non può essere diluita o travasata in un contenitore più ampio, per certi aspetti meno intuitivo e più ponderato, quale è il romanzo.

 

Il tempo come durata è stato al centro di una sua riflessione, pubblicata qui su Cattedrale. Nei racconti il tempo appare spesso come una trama di relazioni attraversate, una tessitura di incontri, di momenti condivisi che si fanno storia personale, di ricordi che mettono in prospettiva il presente. Anche i cinque testi di Via da qui sono strutturalmente costituiti in maniera da danzare con la cronologia, quasi a manifestare la modalità interiore dei personaggi di riviversi e individuarsi, alla ricerca di un equilibro tra ciò che sono stati e ciò che stanno per diventare. Penso per esempio a come nel primo racconto (La tana) si intrecciano il dolore della protagonista e la rievocazione della passata e perduta felicità. Non trova anche lei che una delle sfide formali poste dal racconto sia quella di rendere quasi contemporanei presente e passato?

La condensazione della forma breve consente di assecondare il ritmo della memoria che non è mai lineare e procede per salti. Senza memoria non c’è nozione temporale e senza tempo non c’è narrazione. La dimensione del trascorrere del tempo è dunque fondamentale per i miei personaggi, è solo tra i salti e gli inganni della memoria che riescono a dire di sé. Tutti e cinque i racconti di Via da qui si svolgono nell’arco di qualche giorno, ma si estendono ben di più nell’interiorità delle protagoniste e dei protagonisti, ciascuno di loro infatti ha modo di ampliare un dettaglio del presente per riconnettersi al passato o immaginare un possibile futuro. Non so se la forma del racconto in sé dia la possibilità di rendere contemporanei passato e presente, ma è certamente più vicina del romanzo al ritmo franto e diseguale della vita, in cui a fatica si riesce a vedere il disegno complessivo e illusoriamente progressivo che viceversa presuppone la narrazione romanzesca.

 

Una qualità della sua scrittura mi ha sempre colpito: la capacità di mostrare le forme concrete che prendono un sentimento o una sensazione quando si fanno evidenti in un gesto, e insieme l’interesse per l’indeterminato che accompagna ogni intenzione e ogni scelta. Oltre che nelle scene (cioè nella drammatizzazione) il racconto condensa in immagini il vissuto emotivo. Così negli oggetti si annidano significati, cristallizzati o polverizzati, granitici o impalpabili. Come gli anni trascorsi e l’aria addensata nei frammenti di una vernice che si scrosta (La tana) o il pulviscolo che si fa visibile nel taglio di una luce intensa (Il palazzo della principessa). Qualcosa che resta attaccato o sospeso. Se dovesse optare per una definizione, direbbe che quello della sua scrittura è un moto verso o un moto da un correlativo oggettivo? O entrambi?

Quando scrivo ho bisogno di ‘vedere’ le cose, gli spazi e i personaggi di cui parlo. Ogni porzione di mondo che racconto deve avere la sua caratterizzazione, per il racconto Cherry Street, ad esempio, è la luce bellissima e accecante della California, per Il palazzo della principessa è la polvere dei muri e degli intonaci scrostati di un antico palazzo signorile, per Fondamenta della Misericordia è l’acqua torbida ma viva dei canali veneziani. Credo che i miei personaggi vivano in uno scambio continuo con lo spazio in cui li immergo, per cui il movimento è dalla loro interiorità verso l’esterno e viceversa. Non sempre è un incontro confortante, ad esempio la protagonista di Cherry Street vorrebbe qualcosa di solido a cui appigliarsi, mentre avverte che il suo matrimonio sta franando, guarda il concrete sotto i suoi piedi, ma anche quel duro cemento si sfalda.

 

Arriviamo al filo rosso che unisce i racconti della raccolta: l’abitare. Molti libri recenti hanno a che fare con le case (i finalisti allo Strega Bajani e Caminito su tutti); si sono succeduti di recente saggi di grande interesse sul senso filosofico e storico dell’abitare (Coccia, Molinari). Forse le restrizioni imposte per arginare la pandemia hanno spinto noi lettori a guardare con occhi più attenti al confine esterno più intimo che ci ritroviamo. Abbiamo così scoperto o riconsiderato il fatto che abitare non è né riposante né statico, che è insieme comodo e scomodo, è un attraversare, non è uno stare. Quanto, con i suoi racconti e con il titolo Via da qui, voleva programmaticamente indagare questa sensibilità?

I racconti di “Via da qui” sono stati scritti ben prima dell’arrivo della pandemia da Covid19 e quindi hanno davvero poco a che vedere con l’ossessione casalinga che imperversa negli ultimi due anni.

Piuttosto quello dell’abitare come forma e proiezione di una visione del mondo è un tema che mi accompagna fin dal mio primo romanzo Violazione (2012) che ruotava tutto intorno all’acquisto di una sospirata casa in mezzo al verde. Quando, a metà degli anni ’90 vivevo a Los Angeles, città in cui in molte zone le abitazioni hanno un’area di verde davanti ma non cancelli o siepi, una delle mie distrazioni preferite era spiare le case da fuori e cercare di immaginare le vite di chi vi abitava. Stessa cosa mi è capitata ad Amsterdam, dove le grandi finestre accolgono la luce e lo sguardo di chi passa. Per me una casa è sempre un oggetto di archeologia, pieno di sedimentazioni e strati da sollevare con cura e studiare, ha una dimensione materiale imprescindibile che però ne proietta molte altre a livello simbolico altrettanto importanti.

 

Mi è sembrato significativo che quasi fin dai titoli dei racconti ci troviamo di fronte a una lista di possibili connotazioni di ciò che denotiamo con il termine “casa”. Li elenco per chi non avesse l’indice a portata di mano: La tana, ovvero il rifugio degli affetti domestici, al riparo dal mondo di fuori; L’argine, che è – per la protagonista – un luogo metaforico di confine tra nostalgia del passato e nuovo inizio; Il palazzo della principessa, dove il possibile scenario fiabesco è in realtà uno scalcinato edificio in restauro; Cherry Street, dove in un’assolata dimora a Los Angeles matura il disincanto di una relazione incerta; Fondamenta della Misericordia, in cui un attico a Venezia è il teatro di una (mancata) resa dei conti tra vecchi amici. Come ha tracciato l’itinerario di questo attraversamento molteplice di spazi e geometrie umane?

Sono convinta che i luoghi ci abitino non meno di quanto noi abitiamo loro. Appartengo a una generazione che per vari motivi, di studio e di passioni umane, ha avuto la fortuna di poter viaggiar e vivere in luoghi diversi. I luoghi dettano l’atmosfera e il mood delle nostre giornate, perché agiscono sul nostro corpo e sulla psiche. A Bologna non posso fare a meno di avvertire il peso del Medioevo perché tutto il centro storico ne è improntato con le sue vie strette, le torri, le bocche di lupo dei palazzi che esalano ombra e umidità anche quando ci sono 40 gradi. Posso anche non pensarci consapevolmente, ma l’idea di convivenza urbana e di umanità che ogni luogo mi rimanda è uno stimolo costante. A Venezia, ad esempio, l’assenza di auto, la necessità di spostarsi sempre a piedi o su acqua con “democratici” vaporetti, la promiscuità della vita nei campielli e nelle calli, dove la distanza si riduce a quasi niente, fa sì che si sia mantenuta un’idea di comunità che altrove è del tutto assente. Quello che mi interessava attraversare, però, con questi racconti era una geografia in fuga: in nessuno di questi luoghi i personaggi dei miei racconti si sentono del tutto radicati. In un mondo globalizzato il desiderio delle radici ha sempre come contropartita un suo rifiuto o comunque a una sostanziale messa in discussione.

Scrivere è un po’ come scoperchiare appartamenti: mettere in evidenza ciò che è nascosto e privato, lo stato in cui versano le stanze condivise, la memoria che gli oggetti conservano e restituiscono. Però lei dice anche che l’intimità familiare è un «mercanteggiare continuo tra quello che chi ti conosce dalla nascita crede tu sia, e ciò che il mondo esterno ha contribuito a farti diventare». In questo commercio, mi pare di leggere, il rischio che si corre è in piccola parte l’incomunicabilità, in massima parte l’equivocare sé stessi, l’ingabbiarsi in schemi da cui si fatica a scappare e che il mondo, indifferente, sembra ignorare. Ma il punto mi pare, ed è elegante e onesto, è che la sua letteratura non è prescrittiva né riduttiva. E i finali dei cinque racconti stanno lì a dichiararlo, lasciando insieme sciolti alcuni dei nodi e ben stretti molti altri. Quanto conta per lei, nella costruzione di un buon finale, la sottrazione, l’ellissi?

L’ellissi è una delle mie strategie narrative preferite, così come la lacuna che le è sorella. Ma per arrivare a questo, a una chiusa come «la sventurata rispose» tanto per intenderci, bisogna aver tracciato una trama e personaggi molto ben congegnati prima. Perciò è importante per me scrivere avendo in mente la complessità e la prismaticità del reale, solo fornendo al lettore elementi anche contradditori ma significativi si può concedere lo spazio di immaginazione ulteriore rispetto a quanto la pagina contiene, che poi secondo me è sempre la forza vera di una narrazione. Ciò che io scrivo è solo la punta dell’iceberg, ma attraverso quelle parole il lettore deve immaginare e avere paura o incantamento per il restante colosso immerso.

 

Lei non ha mai avuto paura di affrontare temi scomodi (come la maternità surrogata, nel romanzo Il dono di Antonia, Einaudi, 2020). Anche tra i cinque racconti circolano grandi questioni: la convivenza omosessuale che la legge non riconosce e non tutela; l’aborto; l’occupazione abitativa; la violenza domestica. Eppure, la modalità con cui sono tirati in ballo lascia un’impressione di leggerezza. Possiamo definire un atto politico la sua ricerca di questa naturalezza?

Non so se sia un atto politico, qualunque scrittura in qualche modo lo è, e non perché scelga o non scelga l’impegno, ma perché scrivere è di per sé costruire modelli del mondo, che lo si voglia o meno. Credo che nel mio caso sia soprattutto una questione di stile. Prendiamo un articolo di giornale: possiamo trovarci molti temi che interessano l’umanità, ma non per questo si tratta di letteratura. Trovare una forma, un punto di vista, e soprattutto una lingua con cui raccontarli fa la differenza. Per quanto mi riguarda, siccome mi interessano tutte le situazioni che mettono alla prova la costruzione di un’identità culturale vs una cosiddetta naturale, non posso che adottare uno stile che contiene e argina il pathos. Siamo attraversati da tragedie e drammi quotidiani, ma li viviamo perlopiù in sordina. Ecco, forse ciò che ho voluto riprodurre in questi racconti è la sordina che ogni giorno mettiamo al dolore, al rimpianto, alla disillusione, per sopravvivere.

Fiabe nere. Intervista a Marco Mancassola

 di Roberto Galofaro

 

Tra le raccolte italiane di racconti, Non saremo confusi per sempre di Marco Mancassola è una delle poche che sopravvivono al tempo: la prima edizione (Einaudi) è del 2011, nel 2018 è tornata in libreria per i tipi di La Nave di Teseo. Nel 2017 Fabio Grassadonia e Antonio Piazza hanno tratto, dal racconto Un cavaliere bianco, il poetico film Sicilian Ghost Story. E quando, con la redazione di Cattedrale, abbiamo proposto uno dei racconti per il gruppo di lettura Sacrestia, i partecipanti si sono dichiarati sorpresi, colpiti, entusiasti davanti a una vera e propria scoperta.
Spinti dall’apparente perpetua attualità di questo libro, abbiamo deciso di intervistare l’autore, Marco Mancassola, che ha al suo attivo numerose altre pubblicazioni, tradotte anche all’estero: Il mondo senza di me (2001, 2003); Qualcuno ha mentito (2004); Last Love Parade (2005, 2012); Il ventisettesimo anno (2005); La vita erotica dei superuomini (2008); Gli amici del deserto (2013).

 

Non saremo confusi per sempre rappresenta un unicum per la connessione tra fatti di cronaca (estesamente coperti dai media, e perciò noti e commentati) e fiaba. Vorrei partire proprio dall’origine: com’è nata l’idea di innestare la fiaba sulla cronaca? Come, cioè, tra fiction e non-fiction le è venuta in mente questa terza via, capace di affascinare, incantare i lettori pur rimanendo distante dalle narrazioni a cui ci ha abituato il new journalism, da Capote a Didion? Aveva un modello letterario preciso?

Non avevo un modello. I primi due racconti della raccolta nacquero come testi inediti che leggevo nei teatri, nei reading che in quel periodo mi capitava di tenere. Il modello dunque era quello di una narrazione teatrale, forse. Soltanto in seguito ho seguito la traccia della “fiaba”. Non ricordo se volevo intenzionalmente ibridare cronaca e fiaba ma credo che quelle storie di cronaca fossero già, in un certo modo, fiabe nere nella coscienza collettiva. Storie di giovani personaggi che incontravano il male, l’ingiustizia radicale, ma storie senza lieto fine e quindi senza catarsi.
L’operazione che ho fatto credo resti slegata da altre indagini letterarie nella cronaca, un genere che in Italia e altrove ha continuato a fiorire in questi anni. La struttura dei miei racconti era di una semplicità trasparente: i capitoletti di resoconto della cronaca e quelli di invenzione si alternavano con ordine, non si mescolavano, il lettore conservava la mappa fra reale e letterario, un confine che invece in molti lavori si tende a sfumare. In ultima, credo che il mio fosse un modello di indagine nella coscienza, se vogliamo chiamarlo così. Desideravo l’effetto di quando, svegliandoti, sai bene di aver fatto un sogno e che la realtà è più drammatica, ma lo stesso trovi un calore utile in quel sogno.

 

Di fronte al racconto di un fatto reale come di fronte a quello di un fatto inventato, in fondo, siamo comunque posti a confronto con una realtà che è interna alla finzione, che è lo specifico della letteratura. Per citare quell’«Al lupo! Al lupo!» di cui parlava Nabokov: che il lupo esista realmente o no, l’enunciato ha un effetto “magico” in chi lo recepisce. E, di fatto, le soluzioni fantastiche che lei ha adottato consentono al lettore di conservare sia il dolore che lo stupore, senza che l’uno prevalga sull’altro. Quando scriveva o limava questo libro, aveva in mente di ricercare un equilibrio specifico tra invenzione e resoconto?

Sì, doveva essere per metà resoconto e per metà invenzione, e le due parti dovevano essere ben riconoscibili – anche per rispetto verso chi di quella realtà era stato vittima vera, reale. Quando senti il morso della morte forse ti importa poco di certi discorsi da scrittore.
La parte di resoconto era basata sul materiale disponibile a tutti: il giornalismo che ha parlato di quei fatti. La parte di finzione era basata invece su forme letterarie, la fiaba, l’autofiction, il racconto metaletterario, la riscrittura di famosi romanzi. La conoscenza dei fatti e il sogno intorno ai fatti. Il primo per rendere testimonianza di fatti veri successi a persone vere, il secondo invece per applicare un balsamo letterario allo stupore e al disagio che abbiamo provato noi, gli altri, gli spettatori, quando quei fatti hanno intasato il discorso pubblico. Capisco bene che dentro un testo siamo dentro una simile sostanza, ma la legittimità dell’operazione per me era legata al confine fra le due parti. Se poi il confine arrivava a volte a essere trasceso, il lettore poteva sempre però, grazie alla struttura a parti alterne, capire da che parte era.

 

Vorrei riportare un esempio a testimonianza dell’attualità del libro: sulla storia di Alfredino, il bambino precipitato nel 1981 in un pozzo artesiano a Vermicino (a cui è dedicato il racconto Un bambino al centro della Terra), dopo un numero enorme di saggi che ripercorrevano la vicenda (c’è persino un libro di Veltroni), nel 2021 abbiamo avuto una serie tv (Alfredino. Una storia italiana, SkyItalia) e un romanzo (Alfredino, laggiù, di Enrico Iannello, Feltrinelli). Qual è la ragione di un interesse così vasto e, in particolare, qual è stato il suo interesse, nella storia di Vermicino?

Un interesse generazionale (avevo sette anni quando successe); un interesse verso la storia della coscienza collettiva italiana, diciamo così, e il modo in cui la televisione l’ha plasmata; un interesse verso gli archetipi devastanti evocati da quel fatto. Ma soprattutto, il senso di ingiustizia quasi metafisica, senza redenzione (non c’è nemmeno un responsabile preciso da processare) incarnato da quell’evento. Cosa si può dire di fronte a quella storia? La mia risposta nel libro è ricorrere a una storia di Jules Verne: una delle storie per ragazzi che più mi hanno fatto compagnia, che mi hanno sentire meno solo quando ero bambino.

 

Credo si possa dire che la sua soluzione (ibridare la tragedia di Vermicino con Viaggio al centro della Terra di Verne) sia un perfetto esempio della libertà che la finzione può prendersi e allo stesso tempo della sua responsabilità. Con la fantasia, è riuscito ad amplificare le vibrazioni emotive suscitate dalla vicenda, generando un’empatia del tutto sfrondata del peso dell’indignazione che spesso accompagna i commenti e certe polarizzazioni dei fatti controversi. Uno dei partecipanti al gruppo di lettura ha parlato, per questo racconto, di una rappresentazione dell’indicibile. È stata questa, in effetti la sua intenzione?

Forse in un certo senso. Indicibile è la morte. Più una morte ci sembra ingiusta, più diventa indicibile. Ecco allora l’idea che quel pozzo freddo e bagnato fosse invece un cunicolo che andava da un’altra parte, un altro viaggio nelle viscere della terra. Mentre scrivevo il libro mi interessavo di viaggi sciamanici e stati di coscienza; forse c’è stato qualcosa, inconsapevolmente, che mi ha portato a immaginare una sorta di piccolo Bardo, il viaggio avventuroso in un modo sotterraneo che si rivela, alla fine, l’accettazione del morire. Di nuovo, però, è importante per me ricordare che la parte di invenzione riguarda noi, il nostro bisogno di consolazione rispetto a una storia così traumatica. Nella parte di realtà, si tratta di ricordare quel bambino e rispettarlo in silenzio.

 

In uno dei racconti (Il cavaliere bianco, incentrato sul rapimento e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo ordinato dal mafioso Giovanni Brusca), uno dei personaggi chiede all’altra protagonista del racconto, Silvia: «Si può sapere perché ti ossessiona tanto?». Giro a lei la domanda: c’è un’ossessione, dietro la composizione di questi racconti?

Nessuna ossessione. Nel mio lavoro di autore questo libro è un’eccezione. C’era un peso, ecco, che sentivo quando pensavo a quelle famose storie di cronaca, e sapevo che tanti lo sentivano (era il presupposto per i reading teatrali di cui ho parlato prima). Non erano storie che mi riguardavano personalmente, anche se alcune richiamavano aspetti che mi interpellavano (il racconto sulla violenza poliziesca, quello sul fine vita, e più in generale, per mia storia personale, le figure di genitori in lutto coinvolti in tutte le storie).
C’era anche forse il fastidio per come quelle storie erano diventate cibo per gli avvoltoi della retorica, per il baccano mediatico, per la sistematica mancanza di rispetto verso le vittime. Non era certo nelle mie facoltà rimediare a questo. Non era mio dovere né affare mio occuparmi di quelle storie. Da autore letterario però potevo guardarle e lavorare, intorno a esse, sul piano dell’immaginario e del linguaggio. Forse questo era legittimo, o almeno così spero.

 

Vorrei chiudere con una domanda sulla funzione dell’“io” in questi racconti. A volte lei si chiama in causa, come testimone obliquo (in un caso il narratore partecipa a un progetto di messa in scena dell’omicidio colposo commesso dal principe in esilio Vittorio Emanuele di Savoia; in un altro chi-dice-io si reca a Udine per scrivere un reportage sugli ultimi giorni di Eluana Englaro), a volte si ricorre al “noi”, una prima persona plurale che identifica una collettività nazionale, animata da sentimenti condivisi. Tirarsi dentro, con la delicatezza con cui qui lei è riuscito a farlo, è sembrato un atto di coraggio, di fede nella parola. Quanto peso ha avuto nella composizione dei racconti la sua testimonianza diretta, non finzionale, rielaborata o reinventata che fosse?

Sì, ci sono un paio di accenni quasi di autofiction, in cui mi immagino coinvolto in storie che si legano, a qualche livello, a quelle accadute. È un io-testimone occasionale. Il “noi” forse è più importante. C’è un “tirarsi dentro” ma anche un “tirarsi indietro”, credo, che di fatto passa soprattutto attraverso il linguaggio del libro: un linguaggio piano, volutamente senza picchi, che cerca di restarsene il più possibile discreto. L’io di un autore passa tutto per la sua prosa. Tenere a bada la prosa è stata la cosa più difficile, ma sembrava necessario per questo libro.

 

Memorie dalla A alla Z. Intervista a Ugo Cornia


di Giordana Restifo

Quanti elenchi si fanno per mettere ordine nella propria vita? Quante liste?

Ugo Cornia ne ha scritta una, fantastica e reale. Un’enciclopedia della memoria in ordine alfabetico che mette insieme ricordi e aneddoti personali ripresentatisi durante il periodo del lockdown. «È incredibile quanta roba ci stia in una vita (questo concetto “vita” per fortuna è un concetto quanto più vago possibile, anzi, non è neanche un concetto, ma è questa cosa che ci capita a tutti noi viventi). Ti arriva addosso di continuo qualcosa da dovunque e tutti questi qualcosa quasi sempre non hanno la minima infrastruttura logica che li armonizzi e li renda funzionali a una specie di destino».

La vita in ordine alfabetico, pubblicato all’inizio di ottobre da La nave di Teseo, narra di uomini e di animali, di piccole e grandi storie ambientate nella provincia emiliana ma che, per certi versi, potrebbero svolgersi in una delle tante provincie italiane.

 

 

Leggendo il tuo ultimo libro, La vita in ordine alfabetico, appena pubblicato da La Nave di Teseo, si direbbe che la pandemia abbia dato vita anche a un periodo proficuo per molti autori; d’altronde, ce lo confessi anche tu nelle prime pagine, grazie al lockdown sei riuscito, dopo più di un anno che non buttavi giù nemmeno una riga, a mettere insieme le voci che compongono questo “dizionario ragionato della tua vita”. Come è iniziato questo lavoro di ricerca interiore; sono servite pale, scopette e cazzuole (magari quella regalata da tuo nonno Ugo) per scavare nella memoria o sono parole che avevi a galla e serviva solo un po’ di quiete per imprimerle sul foglio?

 

In Emilia la scuola è stata chiusa prestissimo, direi tre settimane prima che ci chiudessero in casa e non c’erano ancora dati spaventosi sui morti, quindi ci sono state due o tre settimane che sembravano di festa, se passavi di fianco a un bar era pieno di vecchi che bevevano cappuccini, non c’era ancora il clima nefasto. Il sabato prima che annunciassero la chiusura della scuola io ero a Guzzano e per caso mi sono messo a scrivere, e c’era questa cimice che col caldo della stufa si era risvegliata dal letargo e mi girava intorno (come scritto nel libro da qualche parte) e avevo buttato giù qualcosa. Poi il giorno dopo han detto che chiudevano le scuole e ci sono state queste giornate allegre e libere e avevo tempo per scrivere. Poi ci hanno chiuso in casa, è partita la dad a tempo ridotto, e per fortuna avevo qualcosa da scrivere se no mi sarei impiccato. Io abito solo e quindi era come se fossi in isolamento. Ma era cambiata l’aria ormai. Per fortuna mi veniva ogni tanto da scrivere.

 

In Animali (topi gatti cani e mia sorella) ci parli del silenzio che regna a Guzzano, sull’Appennino bolognese, dove si trova la tua casa di famiglia e dove hai scritto buona parte del tuo nuovo libro, «va anche detto che a Guzzano c’è un silenzio tale che i rumori più minimi di notte ci esplodono dentro; in mezzo a questo silenzio quasi totale, in cui l’unico rumore che si sente è quello della fontana, questi rumori si dilatano in intensità in un modo tale da diventare anche rumori difficilmente quantificabili e identificabili perché hai perso il parametro». Questo silenzio ha aiutato la tua scrittura? E ciò che accade con i rumori (che esplodono dentro) avviene anche con i ricordi?

Io a Guzzano scrivo pochissimo e ci starò al massimo 60/70 giorni all’anno. Scrivo quasi sempre a Modena, dove risiedo normalmente. Per il resto, i silenzi abissali un po’ mi turbano e spaventano, anche perché dove c’è molto silenzio ci sono dei continui rumorini inspiegabili. Delle volte quando sono a Guzzano a letto, ho spento la luce ma non dormo ancora, sento continuamente sti rumorini e mi chiedo se sia uno scorpione che cammina due stanze più in là. Se sono in casa da solo direi che più che altro mi inquietano. Forse tre giorni dopo, a Modena, scrivo cose da uno un po’ inquietato dal silenzio. L’unica cosa che invece mi dà una botta di energia è quando ci sono i cervi in amore, che vai a letto, e loro continuano tutta la notte a fare ogni due minuti quel loro verso a metà tra il grugnito e il muggito, che è veramente orrendo. Una notte, saranno state le due, sono uscito e gli ho urlato: “Allora, la smettiamo? Basta”. E devo dire che per cinque minuti hanno smesso. Poi hanno ripreso. A Modena c’è quello splendido inquinamento acustico continuo, dove dopo un po’ non senti più niente.

 

Proviamo a superare la, quanto mai fallimentare, retorica del “ne usciremo migliori” o “andrà tutto bene”, e il proliferare di bandiere con il tricolore italiano (conservate nei cassetti dal 2006 - anno dell’ultimo mondiale vinto dall’Italia - e tirate fuori per l’occasione pandemica), pensi che qualcosa di buono sia scaturito da quest’anno e mezzo a livello umano? O abbia favorito più l’esplosione di sentimenti di odio e malessere?

Non saprei, non sono in grado di rispondere. È stata una cosa faticosa da sopportare. E spesso mi sembrava che ci raccontassero un sacco di balle. E ci bombardassero con un sacco di dati molto male analizzati e quindi quasi insensati. Inoltre io dal lato economico ero ben coperto, ma alcuni miei amici hanno avuto qualche problemino (anche se superabili). Comunque, dalle sfighe in genere si esce peggiori, non mi sembra che sia mai successo che si esce migliori. Forse

  

Passi dalla scrittura del romanzo - Animali (topi gatti cani e mia sorella) - alla forma del racconto - Favole da riformatorio - con nonchalance, ma come definiresti quest’ultimo lavoro, La vita in ordine alfabetico? Un ibrido? Inoltre, domanda d’obbligo, preferisci scrivere e leggere raccolte di racconti o romanzi?

Preferisco leggere cose belle, che siano romanzi o racconti non mi interessa. Anche se devo dire che per esempio la grande novellistica italiana tra tre e cinquecento, esempio Boccaccio, La Novella del Grasso Legnaiolo, Sacchetti, Sermini, Straparola e così via, Bandello, che ogni tanto leggo, li trovo veramente belli. La storia di Ganfo pellicciaio (Sermini?) mi sembra un capolavoro. Ma anche lo Zibaldone o Spinoza, quando li leggo li trovo bellissimi. Quindi non saprei cosa dire. Ci sono cose che diventano favole, cose che diventano racconti, cose che diventano romanzi.

 

Che sia romanzo o racconto, c’è un tema immancabile nelle tue opere: gli animali. Probabilmente perché ti hanno accompagnato per tutta la vita (anche se non vuoi più averne di domestici e vuoi tenere la tua vita ben separata da quella del mondo animale) e perché da piccolo volevi fare il veterinario. Al riguardo, non hai mai pensato di scrivere un “bestiario” con i racconti (fantastici o reali, che nel caso della tua scrittura si potrebbero sovrapporre benissimo) della fauna che ben conosci? Un “bestiario guzzanese” magari? O, forse, il tuo bestiario lo hai già pubblicato e si tratta di Favole da riformatorio?

Questa estate è arrivato a casa mia a Guzzano un gatto arancione, e ci ha proprio chiesto da mangiare, si capiva. Tra l’altro mangia come un cane, non annusa, si butta su quello che gli dai e lo butta giù. E quindi ha preso l’abitudine di passare tutte le sere alle 9, ti rompeva finché non gli davi da mangiare, poi spariva due ore, poi ritornava e voleva ancora da mangiare. E un po’ così, ogni tanto passano degli animali. Adesso è un po’ che sono a Modena, andrà a scroccare da Lorenzo, il mio vicino. Gli animali di Favole da riformatorio erano un po’ degli animali e un po’ dei devianti o degli emarginati, in un certo senso erano favole a sfondo morale, anche se di morali un po’ devianti.

 

La cifra dei tuoi scritti mi ha fatto pensare a La mia famiglia e altri animali (Adelphi) di Gerald Durrell. Anzitutto per il tema della zoologia, secondariamente per il tono umoristico che assume in alcuni passaggi il naturalista e zoologo britannico e per alcune delle vicende strampalate che lo riguardano in prima persona. Da questa autobiografia, pubblicata per la prima volta nel 1956, sembra che a Corfù, dove ha vissuto Durrell per parte della sua infanzia, non ci si annoi mai e possa accadere di tutto. È un’impressione che ho avuto anche di Guzzano leggendoti, magari sbaglio! La domanda è: dopo questo anno e mezzo, pensi sia possibile una vita a un ritmo più lento, riscoprendo il mondo animale e quello vegetale, andando a ripopolare quei posti destinati, altrimenti, a scomparire?

Non lo so, non credo. Io perlomeno quando posso scappo da Modena e vado a Guzzano, ma dopo tre giorni torno a Modena scappando da Guzzano. D’estate ci vado magari venticinque giorni di seguito e sto benissimo, e poi dico “basta, basta, basta” e il giorno dopo torno a Modena. Per me è un po’ così. Magari fra dieci anni cambia tutto e lascio Modena e mi stabilisco a Guzzano, però per adesso ho bisogno di fare tutti i giorni due passi in città. Certo per dieci anni andare tutto il giorno su e giù per i fossi a caccia e pesca tra rane, bisce d’acqua, vipere, pesci e gamberi mi piaceva. Vedremo come si evolve il lavoro e la possibilità di trovare da lavorare in quei posti. Da quando esisto io (56 anni) a Guzzano sono passati da trecento a tredici. E dieci anni prima ci stavano settecento persone. Tredici è veramente pochissimo. Per quanto riguarda Durrell, me lo hanno detto in tanti ma è un libro che non ho ancora letto.

 

Un’ultima domanda di rito, per noi di Osservatorio Cattedrale, ci vuoi dire tre dei tuoi racconti preferiti?

Trovo bellissimi certi passi di Lenz di Buchner, come ho già detto la novellistica, Centuria di Manganelli, e così via. Domani ne direi di sicuro degli altri.

Nove racconti e uno scrittore. Intervista a Marco Marrucci

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a cura di Roberto Galofaro

A partire da Novena, la sua seconda raccolta di racconti, uscita ad aprile di quest’anno per Racconti edizioni, ho fatto qualche domanda a Marco Marrucci. Nelle sue generose risposte leggerete di geografie letterarie e della progettazione di un libro, di ritorsioni contro serie tv e di malattie polmonari dei cani, di Kafka e Buzzati, di Filippo Tuena (in pieno) e dei Radiohead (di sfuggita), di editing e di trucchi fecondi, oltreché di un certo Jorge e di un certo Julio. Buona lettura.

 Tra le caratteristiche della tua scrittura ce n’è una che salta agli occhi: la distanza geografica tra i vari racconti. Sembra che tu abbia fatto un punto d’onore nel non richiamare due volte uno stesso luogo (con la sola eccezione dei racconti iniziale e finale nella raccolta precedente, Ovunque sulla Terra gli uomini, uscita sempre per Racconti edizioni nel 2018 [ne avevo scritto qui]). Come nasce l’idea di ambientare le storie – così diverse tra loro – in luoghi spesso esotici e sempre diversi? Io un’ipotesi ce l’avrei, ma non so quanto possa essere definitiva: è forse un modo per mettere in evidenza l’obliquità costitutiva della narrativa?

Le circostanze mi obbligano a essere molto più prosaico: si tratta di una casualità iniziale che poi è stata elevata a principio architettonico di entrambi i libri. Quando ancora non avevo in animo di scrivere una raccolta e mi accontentavo di tirar fuori qualche pagina almeno decente, il primo racconto a essere chiuso fu Punta Loma, California. Una vicenda di tradimento, infelicità repressa, omicidio e alienazione. La necessità di ambientarlo a Santa Barbara e dentro la famiglia di un pastore luterano era dettata dalla volontà di aumentare il gradiente di infamia e allo stesso tempo insozzare per vie oblique una serie TV americana che mia sorella guardava con incomprensibile avidità quando eravamo bambini, Seventh Heaven. (Sono certo che nessuno lo avrà notato – e questo certifica grande pulizia mentale – ma i nomi dell’assassino e della vittima sono quelli degli attori che impersonavano il reverendo Camden e sua moglie Annie.) La ricerca di un contesto puritano che funzionasse da moltiplicatore dello scandalo e l’antipatia ventennale nei confronti di quel family drama a matrice religiosa hanno attratto e ancorato gli avvenimenti nel luogo che mi pareva più congeniale. Il racconto successivo è stato Storia di Gombo e Tuya. Il meccanismo fondamentale su cui si regge è la doppiezza del simbolo e i rischi connessi all’incapacità di comprendere che non esiste per sé ma in supplenza o vicariato rispetto a qualcos’altro. Per rendere fattivo un congegno così esangue (per assicurarmi che ci fossero azioni e sviluppi e metamorfosi) avevo bisogno di trapiantarlo in una comunità nella quale la dimestichezza con la leggenda, il mito, la stregoneria e l’evocazione fosse un aspetto quotidiano e pervasivo, un’atmosfera di tale densità per cui non saperla respirare marcasse la divergenza e ottimizzasse il danno. Avevo da poco leggiucchiato un articolo a proposito dello sciamanesimo dei popoli altaici: Gombo e Tuya riconobbero la loro casa. Il terzo racconto s’intitolava Bocca d’Arno, e in confronto agli altri esibiva un carattere più ombelicale e geograficamente costumato. Allora decisi di interrompere la scrittura e di progettare una raccolta che incorporasse i lavori che esistevano con materie nuove e in qualche modo affini. Mi accorsi che era già disponibile un abbozzo di canone, una regola ordinatrice. Lo sparpagliamento dei racconti a diverse latitudini e su terre distanti poteva essere sfruttato come un paradigma di creazione che, mentre sbandierava la massima disomogeneità e il più confuso randagismo, era invece in grado di precisare un’identità, consolidare la struttura e conferire unità di metodo. Certo Piero Chiara non approverebbe, ma è da questo grembo che sono nati Ovunque sulla terra gli uomini e Novena.

 

Nei tuoi racconti è evidente uno studio accurato, fin delle nomenclature, viene da dire, allo scopo di riprodurre nel linguaggio i luoghi e le vicende. Si percepisce un’attenzione meditata alla ricchezza del lessico. Nel primo racconto di Novena, Noi che restiamo a Palmer, ti destreggi tra termini tecnici della nautica e di laboratorio, aumentando l’illusione di una spedizione scientifica in Antartide. Così sono impressionanti le notazioni accurate di veterinaria in Fogli rinvenuti in una gabbia per cani. Ci racconti qualcosa della documentazione che precede la stesura? E nello specifico: la precede o la accompagna?

Prima ho arrischiato il termine “progettazione” per delineare quel momento che s’incunea tra il barbaglio di un’idea e la penna che corre sul quaderno. Non sono sicuro che per tutti esista una divaricazione del genere (molti scrivono immaginando, o immaginano perché stanno scrivendo), né che tutti stendano la prima versione imbrattando inchiostri su un foglio anziché ticchettare davanti al computer. Tuttavia per la disciplina che mi sono inventato questo periodo di incubazione sprovvisto di carta e tastiera è inderogabile, e custodisce una quota ragguardevole del piacere che si porta dietro l’intera faccenda dello scodellare racconti. Lo misuro in un paio di mesi per ciascun titolo. La mossa d’avvio prevede di sceneggiare nel dettaglio la vicenda, distribuire i twist o i picchi di tensione o gli ambulacri dove è consentito rilassarsi, indovinare come le specificità del luogo possono influenzare gli accadimenti e il vocabolario, aggiustare la prospettiva (onniscienza, meraviglia, imparzialità, coinvolgimento), stabilire la forma (diario, resoconto giornalistico, pseudofiaba, dialogo serrato, bozzetto verista, soliloquio, narrazione classica in prima o terza persona, mescoliamo tutto e vediamo un po’ che succede), intuire quel che può restare nascosto e comunque premere tacitamente da fuori per sagomare i bordi del racconto. Se riesco ad arrivare fin qui con lo schema preparatorio mi sono già abbastanza evidenti la gamma e la severità delle mie lacune, e provvedo a tamponarle meglio che posso: enciclopedie, articoli specialistici, collegamenti ipertestuali, fotografie, consulenze gratuite estorte agli amici, Google maps, guide turistiche, atlanti. Nello specifico di Noi che restiamo a Palmer la scelta di quale stazione di ricerca eleggere a teatro degli eventi ha comportato parecchie ore di studio. Non volevo accontentarmi di un’indicazione generica e svogliata del tipo «in una remota base antartica» o «in un avamposto tra i ghiacci del sud» perché la verificabilità e l’esibita concretezza del luogo assicurano un ulteriore livello di immedesimazione in aggiunta a quello dovuto alle tecnicalità del lessico, e inoltre arroventano ancor di più il cortocircuito cognitivo tra messinscena realista e distorsioni fantastiche. Dopo una quindicina di scarti Palmer Station si è rivelato il candidato migliore in quanto erano disponibili un prospetto delle attività scientifiche, una planimetria facile da dedurre, immagini in abbondanza, una media delle temperature stagionali e delle ore di luce per ciascun mese, rapporti sulla differenza del numero degli abitanti in inverno e in estate (dato che mi sono permesso di abbassare mostruosamente per riguardo all’efficacia drammatica) e l’itinerario della rompighiaccio che fin dall’inizio volevo occupasse il blocco introduttivo con la sua mole e il suo ritorno alla civiltà. Questo per parlare della documentazione propedeutica. Ovviamente non tutto è calcolabile in anticipo e alla scrittura rimangono centinaia di bombe da disinnescare. Fogli rinvenuti in una gabbia per cani ospita un nutrito elenco di malanni e sciagure canine tra cui “la filariosi cardiopolmonare debellata con quattro settimane di melarsomina e riposo forzato”. Nell’imbastire questa carovana di memorie luttuose avvertivo l’esigenza di un formulario specialistico per incrementare la densità e la lucentezza della vita anteriore del protagonista: mi piace credere che di fronte a tanta prosopopea veterinaria un lettore giustifichi l’esubero di cultura medica dicendosi che un piazzista di aspirapolveri cinquantenne è in grado di maneggiare termini così bizantini perché la filariosi cardiopolmonare l’ha conosciuta davvero, l’ha patita insieme al suo cane, si è informato sulle cause e sul decorso letale e sulle possibili terapie, con mano tremante ha praticato le iniezioni, con sollecitudine ha evitato alla bestia ogni fatica. Insomma, volevo garantire a quest’imbonitore in disgrazia un passato credibile che riverberasse al di là della cornice del racconto, e un pedestre “mi ricordo quando il cane stava male” non sarebbe stato abbastanza affilato da scolpire e levigare un passato che fosse, indubitabilmente e irriducibilmente, il suo passato. Compreso che quella linea di testo imponeva un tecnicismo, restava da tuffarsi in articoli di zooiatria, siti web a tema cinofilo e abboccamenti con un allevatore esperto per guadagnare il massimo di verosimiglianza e non incorrere in strafalcioni.

 

Il primo racconto mi ha ricordato la vicenda di Shackleton, ovviamente, che con i compagni di spedizione nel paesaggio antartico aveva l’impressione di essere accompagnato da una presenza inafferrabile (un evento citato nei versi di Eliot de La terra desolata: «Who is the third who walks always beside you?»). Spettabile dottor Wainaina mi ha fatto pensare al Messaggio dell’imperatore di Kafka – declinato in maniera farsesca con un protagonista corriere-sottopagato (e per associazione m’è venuto in mente il video di Paul Thomas Anderson per il pezzo dei Radiohead Daydreaming, in cui Thom Yorke attraversa porte che lo immettono in ambienti improbabili, una dopo l’altra, all’infinito). Nella sospensione collettiva dell’immensa folla radunata intorno a un probabile pacco bomba (Possono colpire in qualsiasi momento), ho visto qualcosa di certi micro-racconti aggraziati e agghiaccianti di Roberto Wilcock, qualcosa del suo stupore surreale. Ci sono delle suggestioni del genere nel tuo processo creativo?

Il rimando a Shackleton è sacrosanto e inevitabile. Il terzo uomo evocato da Eliot ci cammina incontestabilmente a fianco. Ma per quanto riguarda Noi che restiamo a Palmer il leggendario esploratore inglese e il poeta di St. Louis vantano una paternità collaterale o un’ascendenza di secondo grado, perché il racconto nacque sotto l’incantesimo di Filippo Tuena e del suo memorabile Ultimo parallelo. Il romanzo s’incardina sulla fallita conquista del polo sud da parte di Robert Falcon Scott nel 1912, ma fin dal principio recupera la suggestione dell’uomo in più dai diari di Shackleton – la critica letteraria ammette con una certa sicurezza che il third man di Eliot altro non è che il traslato poetico di quell’ombra tra i ghiacci – e con una splendida ibridazione di fiction e documentario lascia che sia lui, “molto discreto, molto silenzioso, molto partecipe della loro sorte”, a raccontare la storia. Il kafkianesimo latente di Spettabile dottor Wainaina credo vada approcciato in termini più liquidi e diffusi: non avevo un riferimento esplicito ne Il messaggio dell’imperatore (semmai, volendo restare nella cerchia degli ambasciatori regali, ho memoria di aver riletto I sette messaggeri di Buzzati), ma ad essere generosi si può trovare che la stramberia e la reiterazione e l’insuperabilità delle stanze trasferiscano sul piano edilizio i paradossi burocratici de Il castello e quelli giuridici de Il processo. Notarella sui Radiohead. In rainbows l’ho consumato fino all’estenuazione. The king of the limbs mi intriga quasi esclusivamente nella tenuta Live from the basement perché il canzoniere ha più tiro e la band suona anche Staircase (aver escluso un pezzo di quella caratura dall’album è da sciagurati). A moon shaped pool l’ho ascoltato giusto un paio di volte e in preda a sontuose distrazioni, quindi mi sono dimenticato addirittura che esistesse. Il video di Daydreaming l’ho scoperto qualche settimana fa, e sempre a causa dell’irriguardosa similitudine con Spettabile dottor Wainaina. Grande amarezza e profonda delusione su Roberto Wilcock: di lui non ho letto niente.

 

Chi sono i tuoi autori di riferimento? E qual è, se c’è, la raccolta o il racconto che rappresenta per te il capolavoro inattingibile, la vetta della short story? O anche: nella tua formazione di lettore, qual è l’esperienza che più ti ha sorpreso, che ti ha fatto dire «questo è ciò che voglio scrivere anche io»?

Qualche anno fa la domanda sul capolavoro inattingibile mi avrebbe scoperto ottusamente infoiato nel dire Finzioni di Borges. Magari, per annacquare la trivialità e la bolsaggine della risposta, avrei cominciato ad arzigogolare sul fatto che Finzioni riunisce due raccolte separate, ovvero Il giardino dai sentieri che si biforcano e Artifici, e che la preferenza andrebbe accordata al primo titolo per via della maggiore coesione architettonica, del livello sempre altissimo della scrittura e della miracolosa assenza di racconti dimenticabili. Tuttavia ostinarsi a dirlo ancora oggi significherebbe rivangare un convincimento appassito. La verità è che non ho un nome. O ne ho troppi, antagonisti e commutabili. Invece sul fronte del «questo è ciò che voglio scrivere anche io» (e pietosamente tralasciamo il fatto che non mi sia riuscito) nessun dubbio: regionale Firenze-Pisa con discesa a San Miniato, grigiore mattutino, qualche accenno di temporale, vagone deserto, Julio Cortázar, Luogo chiamato Kindberg, sconfinata ammirazione e un briciolo d’invidia.

 

A me sembra che la tua scrittura si sia alleggerita e abbia guadagnato in rapidità e incisività. Cosa è cambiato dal tuo punto di vista tra il tuo primo libro e il secondo? C’è un cambio di rotta che hai voluto mettere in pratica, nel dare vita a questi testi?

Alla pubblicazione di Ovunque sulla terra gli uomini ha fatto immediatamente seguito un rialzo delle facoltà critiche e degli istinti punitivi. Nel momento esatto in cui il testo era diventato ineditabile, avevo imparato a stanare diverse magagne, falle e durezze che mi erano rimaste ignote fintanto che il documento word si conservava aperto a rettifiche e aggiustamenti. L’impotenza camminava sottobraccio a una nuova lucidità. Quei gesti si potevano rendere in una chiave più snella. L’ancheggiare di quella frase poteva essere meno civettuolo. Di quei due aggettivi in sequenza se ne poteva cassare uno. Quell’avverbio poteva farsi nascondere dentro un miglior termine d’azione. Con Novena ho tentato di strappare quell’acume di giudizio dal suo compito di rammarico ineffettuale e di piazzarlo invece a guida del processo di revisione. A questo praticantato vanno aggiunti i sacrosanti meriti di Emanuele Giammarco, che in veste di editor ha brevettato una strategia d’impatto che equilibra sapientemente liberalità e costrizione: se da una parte concede infinita autonomia su come risolvere un problema, dall’altra non accetta che venga aggirato o diminuito a una faccenda di gusto personale o scudato da gabole e lamentazioni di scrittore. Penso che il combinato disposto delle due forze – “combinato disposto” è politichese che fa male al cuore, alle orecchie e alla dignità; perciò non vedevo l’ora di usarlo – abbia dato buoni frutti. A più di due mesi dall’uscita di Novena mi trovo soddisfatto come quando ho licenziato la stesura finale.

 

Una delle questioni più delicate, per un raccontista, è la confezione di una raccolta che sia conclusa, che stia bene in piedi da sola. Che, insomma, trasmetta l’impressione di unità di un “libro”. Come sei arrivato ai testi che compongono questa Novena? Ci sono stati scarti, esclusioni, ripensamenti, oppure è stato un processo lineare?

Per me la densità e la quadratura di una raccolta di racconti funzionano da coordinate massime, hanno la pervicacia di un obbligo o di un’ossessione. D’altronde Ovunque sulla terra gli uomini, al netto di quella precoce terzina di scritti che mi hanno rassicurato a proposito della fattibilità dello scrivere, si è imposto come una griglia di titoli. L’indice preesisteva a qualsiasi bozza. Formula che si può anche intendere: il libro preesisteva a qualsiasi racconto. La metodologia si è trasferita inevitabilmente su Novena, e la circostanza allarga alla dimensione programmatica quel broglio di similarità che rendono le due opere un dittico o una sorta di gemellanza scaglionata. È onesto chiedersi se un’attitudine così severa dinanzi alla forma di coabitazione tra racconti sia legittima: la short story è un organismo che la brevità, l’autarchia, il concentrato di tensione e un flessuoso procedere ramingo bollerebbero come poco adatto alle limitazioni di un casellario rigido. La sua vita più autentica (se non altro una di quelle che più frequentemente conduce) germoglia su piattaforme diversificate e leggere come taccuini, siti web, riviste, collettanee assemblate dalla giuria di un premio letterario, reading, stornelli d’occasione e chissà quante decine di altre. Il libro, posto che abbia la voglia o il permesso di farlo, viene dopo, e nella maggioranza dei casi vestendo gli abiti dimessi del notaio o dell’aggregatrice di dati o del best of o del curatore museale o del guardiano del cimitero, limitandosi quindi a spigolare, a fascicolare e a conservare un lotto di pagine che hanno goduto – o in linea di principio e per la natura profonda del loro concetto avrebbero potuto godere – di un’esistenza anteriore e svincolata. E allora figurarsi una raccolta di racconti nella quale l’accento gravi ostinatamente sul polo “raccolta” anziché su quello “racconti” pare un estremismo dettato da acerbità, prospettiva fallace e manie di controllo. Tutti segni che non ho difficoltà a imputare a Ovunque sulla terra gli uomini e, con virulenza appena addolcita, a Novena. In ogni caso il secondo libro ha sfoggiato una minima capacità d’improvvisazione e quattro o cinque mute che somigliavano a tecniche di adattamento. I rilievi di Giammarco su pericolosissime farraginosità nel meccanismo di Torino blackout e di Fogli rinvenuti in una gabbia per cani hanno consentito a entrambi d’inventarsi una via più diretta per giungere al finale che si erano prefissati. Ancora a Emanuele si deve il merito di una contestazione talmente incisiva dell’originario racconto d’apertura – un confessionale domestico in cui l’arcano era svelato in partenza e tre derelitti disquisivano su come fosse possibile e narrabile quella situazione; sul fronte teorico l’abbassamento dell’enigma a incidente su cui appuntare glosse a margine continua a sembrarmi un trucco fecondo, ma è vero che la mia esecuzione era goffa e sbilanciata – da farmi decidere di liquidarlo in favore di un pezzo nuovo. Stimavo meno laborioso e più promettente ripartire da zero che accomodare le venti pagine che già avevo. Ne è uscito Noi che restiamo a Palmer, e sono grato che l’abbia fatto.

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Intervista a Isabella Zani, traduttrice di Eudora Welty

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a cura di Debora Lambruschini

Una «scrittrice intrepida»: è questa la definizione molto efficace con cui Isabella Zani parla di Eudora Welty. Una scrittrice a cui lei ha dato voce in italiano molte volte e che incontriamo proprio in occasione della recente pubblicazione di questa nuova edizione e traduzione de Le mele d’oro, per Racconti.

 

Welty crea un microcosmo denso di spunti e rimandi, personaggi dalla lingua e punto di vista peculiare, in cui costruisce quella mitologia del Sud che la contraddistingue: un universo che tu conosci bene e con il quale ti sei confrontata già in precedenza, con la traduzione sempre per Racconti di altre due celebri raccolte, Una coltre di verde e Un attimo immobile, e anche con alcuni testi di non fiction. Come ci si destreggia da traduttrice dentro questo mondo e quali sono gli appigli principali per il lettore?

Spero di non apparire troppo superficiale se dico che nel mondo di Eudora Welty ci si destreggia come in ogni mondo plasmato da una scrittura molto consapevole e sicura di sé, e cioè lasciandosi guidare principalmente dal testo, in termini di senso, di andamento e di suono. Non avendo una specifica formazione da americanista, all’inizio – ormai piuttosto lontano – della mia frequentazione con Welty non mi sono accostata al suo universo da “esperta” del Deep South e della sua letteratura, anzi ci sono entrata con un bagaglio davvero leggerino, fatto solo di letture giovanili come Le avventure di Huckleberry Finn o Via col vento, del mio orecchio di traduttrice e della mia curiosità, quindi mi sono affidata per forza di cose alle sue parole. Va da sé che nel caso di un’autrice forse non notissima al pubblico italiano, ma che negli Usa è un monumento, nel corso degli anni la lettura di una minima parte della critica a lei dedicata – perché la mole di testi che la riguardano è enorme – e della sua biografia mi è stata di grande aiuto per comprenderne meglio le fonti, le influenze e la poetica, e perciò prendere le mie decisioni da traduttrice con maggiore cognizione di causa.

In sintesi, è stato un processo: traducendo Welty ho “imparato” meglio il Sud, e capendo meglio il Sud ho imparato a tradurre meglio Welty. Tuttavia non sono così certa che al lettore servano davvero appigli diversi da quelli necessari ad affrontare qualunque scrittura letteraria: se è vero che lo sfondo dell’opera di Welty è quasi sempre un luogo molto specifico – quel Sud, appunto, prima schiavista e poi “solo” segregato, ma tragicamente razzista e conservatore ancora oggi – è altrettanto vero che il suo oggetto è niente meno che l’esistenza umana nel suo complesso, come lei stessa afferma più volte: «...chi scrive... sta solo scrivendo della vita», e «...tutti gli scrittori parlano di, e parlano a, emozioni che sono eternamente identiche in tutti noi: amore, terrore e pietà non fanno preferenze e non risparmiano nessuno». Essere umani e in grado di provare “amore, terrore e pietà” può bastare per diventare lettori di Eudora Welty. E anche per quanto riguarda lo sfondo, per immedesimarsi e comprendere certi personaggi, il loro modo di rapportarsi alla piccola comunità in cui vivono e le loro reazioni alle vicende che li toccano, come punto di partenza può bastare avere una generica idea di “provincia”, perché a mio modo di vedere le province si somigliano tutte.

 

Questa – come altre sempre inerenti l’opera di Welty – non è la tua prima traduzione de Le mele d’oro, già pubblicata anni fa per Fazi. Come è stato ritrovarti di nuovo dentro questo testo e fare i conti con una tua stessa traduzione?

A parte l’immaginabile piacere di ritrovare personaggi e vicende già note, credo che l’espressione giusta sia «bagno di umiltà», e sarò sempre grata agli amici di Racconti per avermi dato questa possibilità di rileggermi a fondo e correggermi (molto). Quando ho affrontato The Golden Apples per la prima volta, quindici anni fa, come traduttrice ero molto più spavalda che rodata, e al tempo stesso pativo il timore tipico degli esordi di staccarmi troppo dalla lettera del testo. Adesso le proporzioni si sono invertite, a tutto beneficio del libro: sono più cauta e più paziente con l’inglese di Welty, e insieme più coraggiosa nel cercare e trovare «l’italiano di quell’inglese». Non arriverei a dire che i lettori della prima edizione hanno letto un libro diverso, ma voglio pensare che questa nuova versione restituisca meglio l’abilità di Welty nel creare immagini tanto limpide quanto imprevedibili (le pale di un ventilatore «glassate di bianco come una torta», l’aria «grezza come una tela di sacco», una ragazzina che dorme «ricurva come una conchiglia») e nel maneggiare una grande varietà di registri.

 

A vent’anni dalla sua scomparsa, l’opera di Welty continua ad affascinare lettori e critica, pur restando particolarmente legata al proprio tempo e ai luoghi entro cui si è sviluppata. Quali sono secondo te le ragioni di tale fascinazione?

Per come la vedo io, Eudora Welty è soprattutto una scrittrice intrepida: armata della parola, non ha paura di niente. Afferma che la sua materia prima è la vita e, fedele a questa asserzione, non esclude dalle proprie storie nessuna esperienza umana: solo limitandoci alle sette che compongono Le mele d’oro ci imbattiamo in vicende di tradimento e abbandono coniugale, di stupro (infra- e interrazziale), di solitudine, orfanità, alienazione mentale, attrazione omosessuale, suicidio... e allo stesso tempo, nello stesso libro e talvolta nello stesso racconto, troviamo passaggi trasognati sulla potenza della fantasia infantile, passaggi commoventi sul lutto e sulla memoria, passaggi luminosi sulla maestà della natura e anche passaggi francamente comici. Questo coraggio di “dire tutto” mi pare uno degli elementi che hanno fatto di Welty l’autrice importante che è; insieme all’audacia di dirlo in una lingua che non ritiene necessario spiegare niente, anche a rischio di risultare sibillina. Rischio che Welty corre perché a suo avviso «suggerire è lo scopo di ogni parola che si mette in un’opera di finzione», ma «[da] lettori voi siete liberi di pensare quello che volete, naturalmente». Si propone esplicitamente di stabilire, con la scrittura narrativa, una comunicazione, ma non a costo della sua libertà di autrice e della nostra libertà di lettori—cosa che evidentemente continua a essere percepita e apprezzata.

 

Il realismo che si intreccia alla mitologia del Sud e al folklore, la dimensione colloquiale, il gusto per l’oralità; le immagini, la vena introspettiva. Da un punto di vista lessicale, di scrittura, quali sono secondo te la basi su cui si poggia l’universo immaginifico di Welty e, quindi, le sfide, le peculiarità della traduzione?

Rispetto all’opera di un’autrice tanto antologizzata, insegnata, analizzata e studiata, perlomeno in patria – e che ha scritto la sua propria autobiografia letteraria – sarebbe presuntuoso da parte mia dire quali siano secondo me queste basi. Welty è stata per tutta la vita una donna di ottime e abbondanti letture, e lei stessa indica come scaturigine della propria vocazione al mestiere la passione per la mitologia classica e per le fiabe dei Grimm; al tempo stesso, leggendola appare chiaro che sia stata non solo un’attenta ascoltatrice degli interlocutori in conversazione – in una società e un’epoca in cui la conversazione era un fine in sé, una specifica fonte di intrattenimento – ma anche un’avida origliatrice di conversazioni altrui, altrimenti non si spiegherebbe la maestria con la quale crea narrazioni in prima persona e dialoghi nei registri più diversi e lontani da quelli che le si attribuirebbero naturalmente dati il suo ceto e il suo livello culturale. Quanto al mio compito, tutto questo significa da una parte prestare la massima attenzione ai rimandi intertestuali, cercando di stanarli e colmando per quanto possibile le lacune rispetto alle fonti, e dall’altra fare appello a tutte le lingue dell’italiano per tentare di rendere giustizia a ogni sfaccettatura, dalla citazione esplicita o nascosta, al dialogo tra signore della buona società bianca durante una partita di bridge, agli scambi tra personaggi diversi per censo e colore della pelle, ai passaggi più lirici... senza dimenticare i riferimenti culturali specifici che oggi, in qualche caso, risultano oscuri anche al lettore di lingua originale, e che quindi forse non è superfluo spiegare qualche volta in nota.

 

Ognuna di queste storie segue un percorso proprio in una narrazione non necessariamente lineare, dai punti di vista e sguardi molteplici, ma alla fine della raccolta scopriamo una certa circolarità: si apre con la nascita, si chiude con la morte. E di dualismi è disseminata la raccolta tutta, di contrasti fra bellezza e brutalità, realtà e immaginazione, curiosità e pregiudizio. Che cosa pensi di queste forze contrastanti?

Più che di circolarità quanto al filo narrativo che tiene insieme le sette storie di queste Mele d’oro mi piace usare la stessa parola che usò Welty nel parlarne, e cioè «confluenza». Di fatto, la narrazione si svolge all’incirca tra il 1905 e i tardi anni ’40 del secolo scorso, secondo una progressione lineare; la voce del primo racconto è Katie Rainey, giovane madre di una Virgie ancora piccola che sarà poi, da ultraquarantenne, protagonista dell’ultimo racconto della collezione; e i personaggi che vi ricorrono crescono, invecchiano e in alcuni casi muoiono, di racconto in racconto, con il normale procedere del tempo. Welty però non parte strutturando così il libro fin dal principio: comincia a scrivere («Lo sanno tutti») nell’estate del 1946 e termina («I viandanti») nell’autunno del 1948, ma solo alla fine del 1947 ha intuito che alcune storie già scritte – e in qualche caso già pubblicate su rivista, con titoli diversi e diversi nomi per luoghi e personaggi – possono confluire, per l’appunto, nel racconto di una cittadina di provincia che nel volgere di meno di cinquant’anni cambia faccia radicalmente. Il risultato di quest’intuizione è un intenso lavoro di sviluppo e revisione delle storie già compiute e la stesura di altre, che tutte insieme diventano Morgana, il palcoscenico sul quale Welty può mettere in scena, tornando alla domanda, tutti i dualismi che la interrogano come persona e la stimolano come autrice: quello tra il passato – i ricordi d’infanzia nel Saggio di giugno – e il presente della deforestazione e dello spopolamento rurale in cui si allude nei Viandanti; tra la familiarità della provincia e l’esaltazione della grande città («Musica spagnola» le viene ispirato da concerto di Andrés Segovia a cui assiste in occasione di un lungo soggiorno a San Francisco); tra la magnificenza e la monotonia del paesaggio abituale... Dualismi che a loro volta contengono dualismi: la provincia è insieme rassicurante e oppressiva, solidale e pettegola, indulgente con chi è “dentro” la convenzione accettata (i maschi MacLain, ma anche Jinny Love Stark) e inflessibile con chi è “fuori” (Miss Eckhart), laddove la metropoli al contrario trabocca di opportunità e varietà, ma è anche irrimediabilmente anonima e mercantile. A noi oggi non può non apparire chiarissimo che sulla sua scena grava il dualismo ultimo, o forse il contrasto originale, tra bianco e nero, tra la segregazione che non finisce e l’integrazione che non comincia o procede a passi troppo lenti, stentati e continuamente ostacolati; Welty ne è consapevole come e forse più di noi, ma è anche convinta che non sia compito della narrativa schierarsi in termini militanti o, meglio ancora, che quanto si schiera in termini militanti non sia narrativa, né sulla questione razziale né su altre (in proposito si può vedere il saggio breve «Il romanziere alle crociate?»). La posizione si può condividere o meno; ma il fatto stesso che introduca un dualismo tra narrativa e qualcosa di diverso – saggistica, giornalismo, satira – dimostra che il contrasto tra forze è sempre, e non solo per Welty, all’origine della scrittura.

 

Oltre a quanto citato, qual è secondo te la chiave di lettura con cui tentare di entrare in questa raccolta e nel mondo letterario di Welty?

Difficile rispondere, per me che ho goduto del privilegio di passare molto tempo in sua compagnia e tra l’altro voglio molto bene proprio a questo libro ibrido, a questo “romanzo a forma di racconti”. Penso però che i lettori più attratti dalla forma-romanzo tradizionale apprezzeranno senz’altro Nozze sul Delta e La figlia dell’ottimista, da poco ripubblicati da minimum fax dopo essere passati per le abilissime mani di Simona Fefè; mentre gli appassionati di short stories potrebbero seguire l’originale ordine di pubblicazione in volume e cominciare quindi da Una coltre di verde—che tra l’altro contiene il racconto «Com’è che abito all’ufficio postale», forse il più celebre di Welty in assoluto.

 

Nella tua carriera di traduttrice ti sei confrontata con autori differenti ma anche con forme espressive diverse: come cambia, se cambia, il tuo approccio dal romanzo al racconto, in generale e nel caso specifico di Welty?

Di nuovo, a rischio di apparire superficiale rispondo che il mio “approccio al lavoro” non cambia se per lavoro intendiamo il compito che mi è stato affidato, allestire una traduzione, e per approccio la sequenza di azioni da svolgere per portarlo a termine. Ma ogni testo è diverso per forma e sostanza e quindi tutto cambia sempre, perché se il traduttore possiede un minimo di competenza è il testo a dirgli come vuole essere tradotto, e questo è forse il maggior elemento di fascino e piacere in questo mestiere: si affronta ogni nuovo incipit armati di tutto quello che si è imparato sul tradurre fino a quel momento, e allo stesso tempo si ricomincia ogni volta da capo non sapendo nulla di quello che ci aspetta, anche nel caso di Eudora Welty. Come scrive lei stessa: «...di certo, la stesura di ogni racconto spalancherà una nuova prospettiva, porterà un nuovo problema; e non c’è storia già scritta che sia in evidente relazione con una storia nuova o possa fornire alcun tipo di aiuto [...] Ciascun racconto, a parer mio, si sviluppa rigoglioso dalla scrittura solo se dà l’impressione di vivere di vita propria». Lei parla ovviamente della composizione, ma penso valga anche per la traduzione, che è uno dei tanti “modi” della scrittura.

 

Si parla abbastanza spesso del rapporto-dialogo (quando possibile) fra scrittore e traduttore, ma so che tu sei grande sostenitrice anche del confronto con gli altri traduttori: puoi dirci qualcosa di più a riguardo, anche in relazione al progetto Strade, il sindacato dei traduttori editoriali?

«Molto male viene dal fatto che si va soli. Se si è in parecchi, è già un’altra cosa» scrive Döblin in Berlin Alexanderplatz. E io non sarei una traduttrice ragionevolmente sicura dei propri mezzi, oggi, se non avessi avuto fin dall’inizio gli insegnamenti, la solidarietà, l’appoggio e la fiducia di molti altri traduttori (fra noi ci diciamo spesso, tra il serio e il faceto, che “la cosa migliore di questo mestiere sono i colleghi”), malgrado tutta la retorica che circola sulla traduzione come luogo della solitudine e dell’isolamento. Il mestiere di per sé ha bisogno di silenzio, di quiete e di tempo (e spesso quest’ultimo elemento sfugge al controllo del traduttore, afflitto da richieste di consegne sempre più rapide), ma le persone che lo fanno hanno voglia e necessità di scambiarsi esperienze e dubbi, aiuto e incoraggiamento come in qualunque altra professione, e da quando esiste la comunicazione digitale possono farlo senza ostacoli. Io ho avuto la fortuna di cominciare a fare la traduttrice quando questa comunicazione era già un fatto scontato, e mi è stato chiaro fin da subito che l’impegno a migliorarmi come professionista doveva andare di pari passo con l’impegno a fare rete con i colleghi. Di lì la mia adesione, più o meno attiva a seconda dei momenti ma costante fin dagli esordi, a Strade—che, mi sento di dire, ha smesso da tempo di essere un progetto: con oltre trecento tesserati, efficienti servizi di consulenza contrattuale, legale e fiscale, una mutua sanitaria pensata su misura per i traduttori e un coordinamento nazionale capace, nell’anno della pandemia, di far emergere le necessità della categoria, di chiedere e ottenere “ristori” importanti e di aprire il dialogo con le istituzioni sulla creazione di un fondo strutturale a sostegno della professione, è ormai una solida realtà associativa per tutti i traduttori editoriali, esordienti e navigati che siano.

Il canone breve di Flannery O'Connor. Intervista a Gaja Cenciarelli.

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di Debora Lambruschini

C’è un’ironia feroce nei racconti di Flannery O’Connor che spesso esplode in aperta violenza, brutale e inattesa. Rileggerla di volta in volta, significa rendersi conto più chiaramente di quanto profonda sia stata l’influenza esercitata attraverso un numero dopotutto esiguo di pagine lasciate nel corso della sua breve – ma fulminante – carriera letteraria. Distante e disinteressata alle mode del momento, O’Connor si impone sulla scena culturale del tempo con racconti e romanzi diventati immediatamente canone letterario, intrisi di profondo realismo, ironia, di vissuto. È il Sud, l’ambiente rurale in cui è cresciuta e che rivive in ogni narrazione, lo sfondo ideale su cui si muovono gli uomini e le donne di O’Connor, profondamente ancorati al proprio tempo storico ma, in qualche modo, capaci di arrivare al lettore contemporaneo ancora intatti. È innegabile l’influenza che Flannery O’Connor continua a esercitare e, forse, di quella brutalità improvvisa che squarcia la pagina siamo particolarmente consapevoli, al pari dell’attenzione con cui ci lasciamo guidare dentro storie stratificate, dense di spunti; lo sguardo di O’Connor scandaglia senza timore anche gli angoli più oscuri e controversi dell’animo umano, mette a nudo le nostre mancanze, meschinità e debolezze e l’innocenza è una virtù che sembra non appartenere appieno a nessuno, nemmeno ai bambini.

 

Rimase immobile, tesa, in ascolto, e in lontananza riuscì a cogliere alcune grida di gioia alte e selvagge, come se i profeti stessero danzando nella fornace rovente, nel cerchio che l’angelo aveva sgombrato per loro.

(Un cerchio nel fuoco, p. 169)

 A quasi cento anni dalla nascita, O’Connor è ancora tra le scrittrici statunitensi più citate nel campo della forma breve e la sua intera produzione è in corso di pubblicazione per minimum fax in una nuova edizione e traduzione, affidata alla voce esperta di Gaja Cenciarelli, che bene ne conosce l’universo letterario. È da poco in libreria Un brav’uomo è difficile da trovare, dieci racconti magistrali che riprendono vita anche grazie all’ottima traduzione di Cenciarelli.

Raccontare O’Connor, tentare di indagarne il mistero, è un percorso accidentato: tematiche, spunti, ambientazioni ricorrenti nei suoi testi, non sembrano in grado o sufficienti a spiegare la fascinazione che subiamo nei confronti della sua scrittura. I dialoghi vividi, il dettaglio con cui vengono tratteggiati personaggi e ambienti, il particolare evocativo, le increspature sulla superficie e la violenza brutale che infine esplode sulla pagina; il realismo feroce della narrazione, la rappresentazione di un mondo che non esiste più ma di cui possiamo ancora ben riconoscere i tratti principali e certe istanze arrivate fino a noi; il rapporto con il proprio tempo e l’ambiente in cui è cresciuta; e la religione, la fede cattolica di cui ogni pagina pare intrisa ma da cui O’Connor riesce a non farsi soffocare – e il lettore con lei. Sono moltissimi gli spunti dati dalla lettura ed è un piacere, quindi, confrontarsi con Gaja Cenciarelli a proposito di polisemia del testo e approccio alla traduzione, allo scandaglio del politicamente corretto, al dialogo con la contemporaneità.

Come sei approdata a questa nuova traduzione, quale dal tuo punto di vista la spinta verso una rilettura dei racconti di Flannery O’Connor?

Ho tradotto questi racconti nello stesso modo in cui ho tradotto Il cielo è dei violenti: con umiltà e impegno. Rispettando l’autrice. Faticando molto. Impegnandomi. Ovviamente conoscere l’autrice e il contesto letterario mi ha aiutato: la sensibilità di O’ Connor è imprescindibile per tradurre la sua opera, che verrà ritradotta tutta da minimum fax.

 

Ho sempre pensato, forse erroneamente, che una delle sfide principali per un traduttore sia la polisemia del testo: personalmente potrei arrovellarmi un tempo infinito nello scegliere un termine a discapito di un altro, finendo comunque col pensare di aver perso qualcosa. Qual è stata per te la sfida maggiore, la particolarità, nella traduzione di queste storie? 

La polisemia del testo è una delle difficoltà, soprattutto se traduci dall’inglese. In questo caso, la sfida è rappresentata dalla monumentalità dei racconti che contengono vari registri, e dallo sguardo spietato e asciutto dell’autrice.

 

Come cambia, se cambia, il tuo approccio a una traduzione inedita o a una nuova traduzione di un autore già presente nel panorama editoriale italiano? C’è una differenza di responsabilità o approccio? 

La responsabilità è sempre la stessa: quando traduci, o ritraduci, il testo è nelle tue mani. Non è un lavoro più leggero. Anzi, il confronto con le titaniche traduttrici dell’edizione precedente prevede un’attenzione maggiore.

 

In un saggio narrativo pubblicato nel 2017 sulla Paris Review, Claire Dederer riflette su una questione particolarmente attuale e controversa: «Per il pubblico l’uomo [Roman Polanski] e la sua creazione sembrano essere la stessa cosa. Ma è così? Non dovremmo cercare di separare l’arte dall’artista, il creatore dal creato?». Una questione che si riallaccia, per esempio, al caso della discussa biografia di Philip Roth e al suo autore, Blake Baley. Con le dovute differenze, anche l’opera di Flannery O’Connor non è del tutto immune allo scandaglio del politicamente corretto, in relazione soprattutto al contesto socio culturale cui apparteneva l’autrice, all’uso di una terminologia e un immaginario che oggi potremmo considerare problematico a tratti, fino alle considerazioni sulla sfera privata. Che cosa ne pensi di tale questione, soprattutto per quel che riguarda O’Connor? Come traduttrice in che modo ti poni di fronte a problematiche di questo tipo?

O’ Connor è figlia del suo tempo: i “negro” contenuti nel testo sono stati mantenuti. 
Tutte le persone di colore che punteggiano le sue opere non sono mai colpevoli: le nefandezze sono sempre opera dei bianchi. I neri sopravvivono, i neri sono saggi. In questo caso, trovo il politicamente corretto (laddove con questo si indichi un giudizio negativo nei confronti dell’autrice) insensato.

 

Nell’interessante postfazione alla raccolta, Joyce Carol Oates riflette sulla particolarità della prosa e della sensibilità letteraria di O’Connor: i suoi racconti dall’ironia feroce sono quasi sempre intessuti di messaggio morale e religioso o, quantomeno, permeati dalla fede cattolica dell’autrice, lontani quindi dalle mode letterarie del Novecento secolare e materialista. Eppure, a mio avviso, O’Connor riesce anche a mettere in discussione i dogmi della fede, di cui ne avverte – e sottolinea nei suoi racconti – le contraddizioni, le derive, le difficoltà. Ed è riuscita fin da principio a imporsi sulla scena letteraria, nonostante l’ambientazione rurale e, appunto, “lo sguardo cattolico” dei suoi racconti, così distanti dalla moda urbana e secolare imperversante. La potenza della scrittura ne ha decretato l’immediato successo, l’appartenenza al canone americano. Che cosa pensi a riguardo? 

In realtà, l’unico messaggio morale e religioso di O’ Connor è il messaggio sociale. O’ Connor scrive del Male, perché è solo attraverso il Male che si arriva alla Grazia. Dunque la fede è l’unica via alla scrittura e alla rappresentazione spietata della Vita, quella sociale e quella interiore.

 

 

«Sarebbe stata anche una brava donna», disse Il Balordo, «se solo qualcuno le avesse sparato ogni minuto della sua vita».

(Un brav’uomo è difficile da trovare, p. 38)

 

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Sabrina & Corina. Intervista a Federica Gavioli

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di Debora Lambruschini

[…] colsi qualcosa di indecifrabile in Sabrina, una sorta di tristezza annidata dentro di sé, nel profondo, che si insinuava tra noi come una malattia. Da dove veniva? O forse c’era sempre stata, era cresciuta dentro di lei, le aveva riempito i polmoni con il suo peso liquido. «Sabrina» sussurrai, dandole un colpetto sulla spalla, ma stava già dormendo, e per la prima volta in vita mia sentii la mancanza di qualcuno che mi stava seduto proprio accanto.
(“Sabrina & Corina”, p. 51)

 

Ci sono molte ragioni per cui considerare Sabrina&Corina di Kali Fajardo-Anstine una delle raccolte di racconti più interessanti e vive lette quest’anno e che, sono abbastanza certa, rimarrà nel tempo. Potremmo andare alla ricerca di ragioni letterarie, influenze, rimandi, stratificazioni, ma ciò che rende questi racconti tanto valevoli di interesse è molto semplice e complesso insieme. Fanno quello che a mio parere dovrebbe sempre fare la letteratura: far sentire scomodo il lettore. Kali Fajardo-Anstine racconta un mondo di donne, fragili e forti insieme, bellissime e tragiche – e proprio dalla straordinaria bellezza arriva la tragedia – , di una società multietnica e attraversata da sottili eppure profonde divisioni; dentro questi racconti prende vita la comunità nativa americana, il richiamo della tradizione, la ricerca della propria identità, il sentimento di casa, gli affetti. Storie di gentrificazione e di una società che spesso esclude, minimizza una cultura che non si sforza nemmeno di comprendere, violenta e distrugge.
Ecco, Kali Fajardo-Anstine dà voce e corpo a queste donne, creando sulla pagina un microcosmo di cui è quasi possibile avvertire distintamente ogni singola voce, odore, colore.
Pubblicate in Italia da Racconti Edizioni, sono mirabilmente tradotte da Federica Gavioli con la quale ci siamo interrogati su traduzione, sui dualismi che attraversano la raccolta, sulla sua stratificazione culturale e sulla ricerca di un equilibrio tra fedeltà, aderenza all’originale e resa in traduzione.


 Come sei approdata alla traduzione di “Sabrina & Corina”?

Questa è la seconda raccolta che traduco per Racconti, dopo La felicità è come l'acqua di Chinelo Okparanta, uscito nel 2019. Avevo letto il libro e mi era sembrato di valore, così ne avevo parlato con Andrea Sirotti, che avevo conosciuto a Traduttori in movimento (quei seminari e laboratori splendidi organizzati in estate da Ilide Carmignani) e che stimavo moltissimo per le sue traduzioni, in particolare di quell’area letteraria che per comodità potremmo definire postcoloniale. Gli avevo chiesto un consiglio su qualche casa editrice a cui presentare la proposta, e lui mi aveva indirizzata verso Racconti. In casa editrice avevano già in mente l’autrice e così ci siamo in qualche modo trovati. Poi all'inizio dell’estate 2020 mi hanno proposto di tradurre la raccolta di Kali Fajardo-Anstine e chiaramente ho accettato con grande entusiasmo. Mi sembra che tradurre storie di questo genere dia un senso alla direzione che ho seguito negli anni della mia formazione, tra deviazioni e inciampi. Dopo essermi laureata in antropologia culturale a Bologna ed essermi resa conto che forse uno studio così sistematico delle culture non faceva per me, per quanto la materia mi appassionasse molto, ho deviato su Mediazione linguistica alla scuola per interpreti e traduttori di Forlì, per poi sfuggire – momentaneamente – dalla traduzione tecnica frequentando il corso di specializzazione in traduzione editoriale alla scuola tuttoEUROPA di Torino, forse per me l'anno più bello e più importante dal punto di vista umano e formativo. Penso che una parte in apparenza marginale della mia formazione, quella antropologica (da non intendersi però come fascinazione per l'esotico, piuttosto come profondo interesse per l'altro) mi abbia spinto a leggere, ad avvicinarmi e ad andare a cercare storie marginali rispetto al centro, che illuminassero zone ancora in ombra, che è proprio il motivo per cui scrittrici come Fajardo-Anstine scrivono: per colmare dei vuoti di rappresentazione.




Quali sono state le sfide principali di questa traduzione?

Leggendo il libro per la prima volta ricordo di aver avuto l’idea di una raccolta molto coerente ed equilibrata. Tutte le storie, pur nella loro diversità, sono in qualche modo intrecciate, implicitamente e in modo sottile. C’è una voce familiare che ritorna, un equilibrio di contenuti e di forma. Penso che mantenere una certa coerenza anche nella traduzione fosse importante, forse anche complesso trattandosi di una raccolta di racconti, in cui la continuità non è sempre così marcata. Può sembrare banale, perché il testo originale è la traccia da seguire, ma la traduzione è un lavoro minuzioso, quasi ossessivo; a volte quando si passano ore su una frase, o anche solo su una parola, è facile perdere di vista l’insieme, la voce del testo. In Sabrina & Corina Kali Fajardo-Anstine si muove sempre tra due poli, insiste molto sui dualismi, che sono una sorta di argine dentro cui scorrono le storie: rapporto madre-figlia, zia-nipote, due cugine, due sorelle ecc., e anche tra due luoghi: la città reale (Denver) e la cittadina immaginaria (Saguarita). Dentro questi due poli c’è molto spazio e i racconti cercano proprio di esplorare questo spazio che separa o avvicina, confonde o collega le due estremità. Ecco, spero di essere riuscita a stare dentro a questo equilibrio, a rispettare la coerenza che si percepisce distintamente nell’originale.

 

Qualche settimana fa c’è stato un certo fermento intorno alla traduzione olandese della raccolta poetica di Amanda Gorman, che ha scatenato una serie di proteste perché affidata a una persona bianca; il traduttore è certamente un ponte fra voce originale e lettori, ma quanto è importante, se è importante, un background condiviso fra autore e traduttore? Secondo te tale polemica si anima per via delle specifiche tematiche trattate (black lives matter e questione razziale) o è una riflessione più ampia?

Su questa vicenda si sono dette tantissime cose, e mi sembra di capire che si sia finito per distorcere i motivi della provocazione iniziale. Era in sostanza una richiesta di visibilità e inclusione avanzata da chi si sente spesso tagliato fuori, in questo caso specifico dai meccanismi dell’editoria. Se stiamo quindi parlando di white privilege, la provocazione mi pare sacrosanta, ed è una questione strutturale che va ben al di là dell'ambito editoriale. Poi il discorso ha preso altre direzioni, per quella specie di effetto “telefono senza fili” per cui più le notizie rimbalzano da una testata all’altra più si modificano, per di più da un paese all’altro. Io penso che il background comune possa essere un vantaggio, anche se in questo caso specifico dubito che una voce nera europea possa corrispondere esattamente a una voce nera statunitense e perché poi bisogna intendersi bene sui termini. Un background condiviso non è comunque necessariamente sinonimo di traduzione migliore, ed è ovvio che la regola dell’identità totale tra chi scrive e chi traduce non sia ammissibile in un orizzonte di contaminazione totale come quello della traduzione, ma appunto, mi pare che la polemica si sia allontanata dalle intenzioni di chi l’ha cominciata.

 


Come è stato il tuo approccio al testo? Come hai affrontato eventuali sfide gergali, l’intero apparato culturale di cui è intrisa la raccolta?

Dopo la prima lettura del libro e mentre cominciavo a tradurre sono andata a ripescare alcuni autori chicani, in particolare le storie di Woman Hollering Creek di Sandra Cisneros (ripubblicato tra l’altro l’anno scorso con un nuovo titolo, Piccoli miracoli, sempre nella traduzione di Riccardo Duranti per La Nuova Frontiera), e Bless me, Ultima di Rudolfo Anaya (Giunti, traduzione di Roberto Serrai), più che altro mi interessava rileggerli in traduzione. In Sabrina & Corina c’è una notevole stratificazione culturale, che emerge nei riferimenti, nei miti o nei racconti orali presenti in molte storie della raccolta; ricordo ad esempio la ghost sickness che dà il titolo all’ultimo racconto e che mi ha dato non poco filo da torcere, non esistendo un traducente consolidato in italiano per questo disturbo specifico della cultura navajo. In alcuni racconti poi ho dovuto lavorare sulla fluidità di certi dialoghi, e penso in particolare a Tomi, nel rapporto tra la zia appena uscita dal carcere e il nipote adolescente, e a Ogni suo nome, in cui si inserisce il gergo dei writers e in generale un linguaggio più marcatamente giovanile. In questo senso trovo davvero prezioso e stimolante il confronto con il revisore, che spinge a ripensare certe scelte troppo neutre, o magari opache, e soprattutto a ritornare sul testo con altri occhi.

 

 

Il ruolo di traduttrice influisce nel tuo personale modo di leggere?

Sì, inevitabilmente. Influisce sul modo di leggere e in generale sull’attenzione alla lingua che mi circonda in altre forme, nei film/serie, in tv, alla radio. Notare piccoli vizi, nuovi usi, fenomeni emergenti. E poi sicuramente influisce su cosa leggo. Molti autori italiani, o buone traduzioni di autori stranieri. E ovviamente molti testi in lingua. In un certo senso sono due movimenti complementari, tradurre influenza il modo di leggere e ciò che si legge influenza il modo in cui si traduce. O almeno dovrebbe.

 

 

Come percepisci venga considerato il lavoro di traduttore oggi? 

Negli ultimi anni casi analoghi a quello di Gorman, di certo con una minore risonanza mediatica, hanno illuminato lo spazio in ombra del traduttore. Ricordo ad esempio il dibattito sulla traduzione inglese del libro La vegetariana di Han Kang, che ha riaperto una questione di lungo corso sulle traduzioni dalle lingue ponte e sul più recente predominio dell’inglese come lingua veicolare nel mondo globalizzato (sul sito della rivista Tradurre si può leggere una splendida ricognizione storica di Norman Gobetti sul tema). In generale credo ci sia una maggiore consapevolezza del ruolo del traduttore, c’è più curiosità anche tra i non addetti ai lavori, tra i lettori e le persone che seguono i dibattiti letterari. E poi ci sono, o almeno c’erano prima della pandemia, tante occasioni in più per sentir parlare di traduzione (festival, incontri dedicati alle fiere dell’editoria ecc.). In modo molto concreto invece, sul fronte dei diritti e della sensibilizzazione, il sindacato dei traduttori editoriali, Strade, sta facendo da anni un lavoro enorme.

 

 

Ultimamente molte raccolte (non solo antologie ma anche raccolte di un unico autore) sono affidate alla voce di più traduttori. Che cosa ne pensi di questa pratica?

Forse bisognerebbe distinguere casi diversi. A volte la scelta di più traduttori è dovuta alle logiche editoriali, che impongono tempi sempre più stretti e spingono a velocizzare tutte le fasi di pubblicazione di un libro, soprattutto se è un titolo molto atteso. Diverso è quando i traduttori lavorano insieme per scelta, perché ci sono vere e proprie affinità, una collaborazione collaudata; questa mi sembra un’ottima occasione di confronto e un buon antidoto alla solitudine del traduttore. Ho letto che la traduzione in tedesco di Gorman è stata affidata a tre voci diverse, in questo caso tenendo particolarmente conto del background e delle competenze di ciascuna. Mi sembra una soluzione interessante, anche se, appunto, credo che molto dipenderà dall’affinità tra le tre traduttrici.

 


La fedeltà al testo, un tema sempre presente quando si parla di traduzione, insieme alla capacità di rimanere in ombra dietro al testo originale: tu che cosa ne pensi, quale il tuo approccio? 

Per riprendere il discorso della prima domanda, nella traduzione ci si muove idealmente sempre dentro degli argini, dei vincoli che non si possono ignorare, e questo è l’aspetto rassicurante (c’è un testo da cui partire, un’altra lingua in cui deve essere scritto ecc.), ma poi la pratica porta sempre a riformulare e a mettere in crisi la teoria. Più traduco più mi sembra difficile trovare delle regole fisse, anche perché la traduzione in realtà è una cosa molto pratica, è qualcosa che si fa, che si impara (strada) facendo, e che genera di continuo dubbi, ripensamenti, esitazioni. Di certo si traduce avendo sempre in mente, per quanto inconsciamente, quelle poche sicurezze (la fedeltà al testo, ma anche alla lingua di arrivo, a chi leggerà ecc.), e si traduce di conseguenza, per quanto mi sembra che il mio approccio al testo sia inizialmente molto istintivo, ma poi quell’istinto si trasforma nella materia di mille riflessioni, cambia di stesura in stesura, a ogni rilettura e poi di nuovo durante la revisione. Solo che quando ci sei dentro non te ne accorgi, ed è bello avere l’occasione di pensarci con un certo distacco come in questo momento.

 

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La memoria dell'uguale. Intervista ad Alfredo Zucchi

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di Andrea Cafarella

Alfredo Zucchi è stato uno dei redattori di Cattedrale per diversi anni. È stato poi anche uno dei direttori di CrapulaClub e i suoi testi sono apparsi in molte riviste di settore. Nel 2018 è stato pubblicato il suo primo romanzo: La bomba voyeur (Rogas edizioni). Adesso lavora inoltre come editor per Wojtek edizioni. Credo che in questo caso non si possa prescindere da tutto questo instancabile labor limae del quale Zucchi si fa carico da tempo e che pervade le pagine dei suoi libri. In un’intervista si diceva, per esempio, che La bomba voyeur è un libro per scrittori, poiché, effettivamente, richiede al lettore una serie di conoscenze pregresse che possano rendere il testo intellegibile, arricchendolo di rimandi fruttiferi e lasciando emergere così le riflessioni più profonde e più letterarie. Che sono alla fin fine il nucleo e le colonne portanti del romanzo.
Da qualche giorno potete trovare nelle librerie italiane il suo secondo libro. S’intitola La memoria dell’uguale e lo pubblica Polidoro editore. Si tratta di una raccolta di nove racconti legati insieme con grande sapienza dal tono, dalla voce dell’autore, ma soprattutto da quello che lo stesso Zucchi chiama il colore. Potremmo dire, usando una delle frasi fatte dell’editoria, che hanno una stessa atmosfera. Eppure, non è solo questo. Partecipano della stessa deformità. Non sono distorti da una deform (azione) esterna ma partecipano allo stesso paradosso, interno al mondo che in essi viene evocato.
Per l’occasione abbiamo pensato di fare una chiacchierata con l’autore intorno ai temi che costellano queste potenti narrazioni.

La memoria dell’uguale rispetto a La bomba voyeur è un libro sicuramente per lettori (si diceva nell’intervista che menzionavo pocanzi) e lo si nota già dall’incipit – che invito tutti a leggere prendendo in mano questo libro. Il primo racconto, in effetti, è una sorta di portone d’accesso, o sarebbe meglio dire: una porticina sbilenca nel retro di una chiesa abbandonata. Serve per avere accesso al mondo deforme nel quale si svolgono i racconti. La chiave di questa porta si trova, secondo me, nel secondo capoverso: «L’avventore è sacro». Appare questo personaggio (il cui nome rimanda a una serie di estranei senza nome proprio apparsi nella letteratura di tutti i tempi) ed è come se sporgesse le braccia nel nostro mondo per trascinarci nel suo. Inoltre «L’avventore è sacro poiché la sua azione è rigeneratrice». Chi è l’avventore? Da dove viene e dove vuole portarci?

Alfredo Zucchi: L’avventore è una funzione del caso – è un uomo che si spoglia dei gingilli umani per incarnare la funzione dell’imprevisto. Nel racconto “Il dono” gli avventori sono un gruppo dallo statuto codificato: hanno un loro linguaggio (come i musicanti meridionali avevano la parlesia per sfuggire alle retate notturne delle forze dell’ordine), sono parte di una sorta di ordine. La loro azione ha un valore rituale: incarnando l’imprevisto, agendo l’imprevisto, essi tentano di scongiurare il rischio che il mondo finisca nella palude della ripetizione. Spesso, ma non sempre, la palude della ripetizione richiede in cambio un pegno di sangue per interrompersi. Accade dunque questo nel primo racconto, credo: da un lato entra l’avventore, uomo schiacciato quanto più possibile alla propria funzione (estraneo, in questo, non solo agli altri ma persino a se stesso); dall’altro accade un’inversione del principio di causa e effetto: l’azione rituale degli avventori non basta, qualcosa di più grave è andato storto – c’è un’altra forza in gioco e da qui in poi la scena in cui accadono gli eventi, direbbe Freud, è “un’altra scena”.

 

Superata questa sorta di «porta dell’inferno» cosa potrebbe succederci e come cambia la grammatica del mondo che viene rappresentato, e perché?

Ho seguito l’esempio di Finzioni di Borges. “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius” sancisce un ribaltamento del principio di causalità. A partire da questo ribaltamento si apre, come dici, un portale: le altre storie vi entrano a cascata – vi entrano, tuttavia, plasmate daquesto ribaltamento. Siamo dunque in una sorta di causalità magica (o, come hanno notato Siviero e Marinelli, nella causalità totalmente probabilistica del mondo del microscopico). Questa casualità magica ha un doppio segno: è una forza schiacciante, in alcuni casi; in altri casi, nel miniciclo di racconti del Ghetto ad esempio, è la leva che aziona la sommossa simbolica. In ognuno di questi casi, tuttavia, narratori e personaggi devono farsi carico di una “realtà” intrisa di una forza che li schiaccia, li confonde e li supera – per affrontare questa forza devono invocare, chi da una posizione chi dall’altra, il gran cerimoniere dell’inevitabile: la morte.

 

Vorrei evitare di raccontare le trame dei singoli racconti perché: primo, in questo caso non avrebbe senso; e secondo, desidero lasciare il piacere al lettore di perdersi nel ritmo incalzante degli eventi-non-eventi. Accennerò tuttavia a dei piccoli dettagli che mi sono utili per introdurre le domande. In questo caso dirò solo che nel racconto «Il ponte» appare un libro molto particolare ed è il primo rimando esplicito alla tradizione meta-bibliografica finzionale, chiamiamola così: in particolare a Danilo Kiš e Jorge Luis Borges. (Mi interessa anche il ruolo delle epigrafi che aprono ognuno dei racconti, in questo senso). Ci sono testi che dialogano tra loro e contemporaneamente con altri testi che esistono solo nei mondi dell’immaginazione e della letteratura. (Ricordiamo inoltre che diversi pezzi di critica letteraria di Alfredo Zucchi si rivolgono a questa peculiarità di certe opere). Qual è il ruolo di questi testi e non-testi, di questo Archivio, ne La memoria dell’uguale?

La letteratura che dialoga con se stessa, che deforma e manipola se stessa, aziona meccanismi combinatori microscopici che possono provocare effetti dirompenti – non sempre, è ovvio: il rischio dell’innocuo (o ermetico) esercizio di stile è grande. In La memoria dell’uguale, almeno nelle intenzioni, c’era il disegno di usare questi procedimenti combinatori in modo lieve e come fuori campo, per azionare leve che finissero col creare una membrana in grado di tenere uniti i racconti al di là della loro comunicazione letterale – una membrana ambigua eppure effettiva; un effetto di accumulazione, di unità contraddittoria.
Nel racconto che citi, “Il ponte”, la funzione del libro che vi compare è più vicina al caso di “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius” che non a quelli di “La morte e la bussola” di Borges (Finzioni) o di “Il libro dei re e degli sciocchi” di Kiš (Enciclopedia dei morti): il libro non è solo un vettore di frizione tra realtà e finzione, è un oggetto magico in sé – non provoca, come in alcuni dei casi citati, la possibilità del ribaltamento del principio di causalità, ribaltamento che poi si compie nel finale del racconto (come chiusa del racconto e risultato del processo, come  sua epifania): esso incarna questo ribaltamento fin dall’inizio, fin dalla sua comparsa; se è così, se la narrazione si trova così spinta verso il limite (della logica, dell’insieme finito di possibilità dell’intreccio), introdurre un oggetto del genere nel racconto, con queste funzioni e caratteristiche, è soprattutto una sfida per chi scrive, per capire fin dove uno è in grado di spingere le cose, o fino a che punto è capace di adeguare le proprie idee alle direzioni che il racconto sembra indicare. Si trova dunque che quel libro magico, alla fine, non è propriamente un libro ma una sonda o una bussola.

 

In diversi dei racconti della raccolta si sente una forte eco sudamericana. I nomi abbreviati e il Detective mi fanno pensare a Bolaño, certe idee mi riportano a Cortázar, un certo gusto per l’investigazione come movimento della voce sembra suggerire quanto teorizzato e messo in pratica da Ricardo Piglia. Mi pare come se questi racconti, presenti evidentemente in una dimensione sospesa, nel vuoto, quasi onirica, possano scaturire solo dall’ombra di certe atmosfere fantasmagoriche tipicamente sudamericane.

Credo che in questo libro ci sia una forte influenza della cosiddetta letteratura fantastica rioplatense (Borges, Cortázar, Onetti, per dirla sommariamente), quella che prende alcune figure del genere gotico/fantastico (il racconto di fantasmi) e le fa deviare, dando loro forse un respiro più universale, forse un peso più speculativo: così, il fantasma diventa lo specchio, il labirinto o il nastro di Moebius.
Di certo la mia ricerca nella letteratura ha preso una forte virata quando, nel 2010, a Barcellona, ho incontrato da una parte Bolaño e Rulfo (li ho incontrati in un seminario tenuto da Juan Villoro sul romanzo breve latinoamericano, dunque come autori di nouvelles: Stella distante e Pedro Páramo); dall’altra Ricardo Piglia che legge Borges (in Formas breves, principalmente). Il peso di quest’ultimo incontro mi ha interrogato a lungo (condivido questo cruccio con Luca Mignola), e oggi mi spinge a tornare sull’esperienza del primo formalismo russo – quella tensione parossistica dello sguardo che tende a fare del testo letterario una forma autonoma, un a parte distinto e irriducibile, una “forma che pensa” per dirla con Godard.
Tuttavia il germe di questi racconti viene anche da un’altra matrice. Ricordo precisamente di aver desiderato concepire una narrazione che andasse ostinatamente – allegramente – per la sua strada, senza curarsi delle contraddizioni, nutrendosi di esse, come mi pareva avesse fatto solo David Lynch. Ricordo anche di aver sbattuto ripetutamente contro un muro: non riuscivo ad abbandonare una certa attitudine analitica – fredda, in qualche modo. Solo allora, dopo varie testate nel muro, mi ha colto il pathos di “La lotteria di Babilonia” di Borges.

 

La sensazione preponderante, per me, leggendo questi racconti è quella del pericolo. Proprio Roberto Bolaño diceva che la letteratura è pericolosa. Secondo te: è un pericolo per te o per gli altri, o per entrambi?

Bolaño ha un’idea molto precisa di questo pericolo – la esprime ad esempio Arturo Belano quando, sul finale di La letteratura nazista in America, si vede coinvolto nelle indagini della polizia intorno all’infame Ramírez Hoffman: egli vi partecipa, è utile alle forze dell’ordine in quanto poeta (anche il soldato e nazista Ramírez Hoffman è un poeta). È un’idea di pericolo simile a quella espressa da Poe quando, ne La lettera trafugata, traccia un legame tra il poeta e il criminale: Dupin è l’unico a capire dove il ministro ha nascosto la lettera perché Dupin e il ministro sono entrambi “capaci di ogni cosa, degna o indegna di un uomo”: entrambi sono poeti.
Credo che in questi racconti la cosa stia in modo leggermente diverso: il pericolo è la condizione della presa di parola, ma è anche la fonte di ogni meraviglia. Tutti, però, indistintamente, parlano e prendono la parola, non solo “i poeti”, né tantomeno solo io: questo rischio dunque ci riguarda.

 

In una splendida recensione, Andrea Siviero ha scritto che secondo lui, per lui, la «frase capace di restituire al lettore il senso completo dell’opera» in La memoria dell’uguale è questa: «Se fossi il demone di Maxwell, conoscerei tutte le variabili, sarei in grado di sciogliere il nodo dell’entropia e dell’irreversibilità del tempo, eviterei l’inevitabile». C’è qui condensato, di certo, uno dei temi portanti del libro. Ovvero quella che io chiamerò, per intenderci, inevitabilità. In tutti i racconti è come se i personaggi si trovassero davanti a un percorso impossibile da evitare. Sembra quasi che l’unica soluzione possa essere l’accettazione del rituale ripetersi di questo andare degli eventi. Cosa significa questa irreparabilità destinale?

In questi racconti si evoca costantemente la morte. La morte sembra l’unico inevitabile. A guardare bene (a guardare a ritroso, come il protagonista di un racconto memorabile di Alberto Laiseca, “Analisi di guerra”, in Uccidendo nani a bastonate), inevitabile è la freccia del tempo, ovvero il modo in cui il calore si trasmette dai corpi caldi a quelli freddi – a guardare bene, ancora, come argomenta il narratore di “Sul bordo di un evento”, l’entropia non è una proprietà dei sistemi osservati, ma di chi li osserva, e se io avessi informazioni adeguate, potrei disporre le particelle calde e quelle fredde in un sistema chiuso in modo tale da evitare l’inevitabile.
Gran parte dei soggetti in questione, personaggi e narratori, desiderano spezzare la catena dell’inevitabile. Questo desiderio impossibile è la loro ultima parola – con qualche eccezione: l’impresario di “Un uomo come tanti”, ad esempio, supera questo schema e riesce a trarre l’unico profitto possibile da questa inspiegabile, assurda concordanza di caso e necessità: molta pecunia.

 

«La forma della memoria è la memoria stessa»: il libro è continuamente punteggiato da illuminazioni di questo tipo. Dovessi definirlo in pochissime parole direi che è una raccolta filosofica di racconti. Nonostante le narrazioni siano dinamiche e perlopiù fatte di azioni, piuttosto che di speculazioni. A me fa venire in mente Bataille o Girard, in qualche strano modo. Qual è il tuo rapporto – e il rapporto de La memoria dell’uguale – con certi pensatori, e quale è la metafisica dalla quale sgorgano e che inevitabilmente evocano i tuoi racconti?

Con Bataille, nel mio piccolo, ho fatto a cazzotti molti anni fa, per via di Nietzsche: lui diceva “Nietzsche è mio” e io dicevo “non ti permettere”. Due anni fa, quando è uscita La bomba voyeur, Antonio Russo De Vivo mi ha consigliato di riprendere Bataille. La rilettura e la distanza mi hanno lasciato vedere cose nuove. Rileggendo la sua Pratica della gioia dinanzi alla morte (nel quinto numero della rivista Acéphale, “Follia, guerra e morte”, giugno 1939) mi è sembrato di sentire la stessa lingua, lo stesso sguardo del poema aereo che l’infame Ramirez Hoffman, il nazista in America di Bolaño, diffonde per i cieli di Santiago all’indomani del colpo di stato di Pinochet. Il poeta e il nazista si appartengono? Questa domanda mi ha sorpreso, questa sorpresa ha guidato certe mie ricerche (alcune delle quali hanno trovato espressione: questo saggio insieme a Federica Arnoldi, ad esempio); questa sorpresa, in senso narrativo, cioè in un senso che precede la lucida digestione analitica – questo misto di sorpresa e paura è l’immagine con cui si apre La memoria dell’uguale.

 

 

Intervista a M. M. Driessen, l'uomo che vive sul fiume

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di Andrea Cafarella
traduzione a cura di Stefano Musilli


Martin Michael Driessen è un autore poco conosciuto in Italia ma parecchio affermato in Olanda (il paese in cui è nato) e in altri paesi. Sbarca nel nostro panorama editoriale nel 2015 con il suo Padre di Dio, pubblicato da Del Vecchio e tradotto da Stefano Musilli. Da qualche mese possiamo trovare in libreria anche il suo Fiumi che nel 2016 gli è valso il prestigioso premio letterario ECI. Sempre edito da Del Vecchio e con una limpida postfazione del traduttore, Stefano Musilli. Due libri molto diversi tra loro, eppure accomunati da una voce molto precisa e sicuramente anacronistica. Anacronistica in senso buono: Driessen non cerca mai l’artificio, il post-moderno, il perturbante, l’avanguardia, il memoir. Non è incline alle mode del momento. Eppure, per uno strano giro di ruota improbabile, Fiumi è uno dei libri più illuminanti che io abbia letto negli ultimi anni per ciò che concerne il momento storico attuale. La sua voce ha un tono antico che mi fa tornare in mente alcuni dei classici più noti. In particolare, mi sembra evidente la sua spiccata propensione alla tanto cara ‘descrizione paesaggistica’ che oggigiorno tendiamo a individuare come quella parte “noiosa” dei classici di cui dicevo sopra. Invece, nella scrittura di Driessen, questo soffermarsi sui movimenti del paesaggio diviene – o meglio: ridiventa – il modo, l’unico, di far parlare anche le altre forme di esistenza che ruotano attorno all’essere umano. Quando ci si interroga sul come rappresentare le altre forme di vita, romanzescamente – come fa da anni Jeff VanderMeer, per esempio – bisognerebbe interrogare e analizzare questo tipo di narrazioni. La voce di Driessen, pur non concentrandosi precipuamente su come decostruire la narrazione antropocentrica, riesce a far parlare – come se mettesse in pratica le lezioni di Descola – la Natura.
Sono quindi molto felice di poter intervistare Driessen a partire da questo libro che, a distanza di quattro anni dalla sua prima pubblicazione olandese, risulta oggi essenziale per una lettura profonda di questo strano e interessante presente, collettivo e intimo, di ogni essere umano e del lettore attento che vorrà solcare il suo fluire, guadandone i molti strati.

 

È già il titolo a dare immediatamente la chiara idea della preponderanza di una figura concreta e simbolica che scorre tra le pagine, quella del Fiume. Il libro si compone di tre racconti lunghi ambientati prevalentemente attorno a uno o più fiumi. Non solo: tutti i protagonisti di questi racconti sembrano affrontare in qualche modo anche il simbolo del fiume: passaggio, confine, soglia. Non sempre questo movimento dei personaggi corrisponde a una prevedibile crescita, come nel più classico dei romanzi di formazione, eppure c’è sempre questo sconfinamento nel territorio del selvaggio – rappresentato appunto dal fiume – che inevitabilmente viene a generare una trasformazione. Cosa significa effettivamente, sia all’interno dei racconti che in un contesto più ampio e/o più personale, questo percorso da una condizione verso una nuova e diversa esperienza di sé?

L'ha espresso benissimo - i tre racconti parlano di avventure che cambiano la vita dei protagonisti. Nel corso della nostra vita alcuni cambiamenti si insinuano di soppiatto, anno dopo anno, e altri sono più immediati e violenti. In Fiumi si trovano ambedue gli esempi. L'attore senza nome del primo racconto viene inghiottito dal fiume nel breve lasso di tempo di un viaggio in canoa; le storie di Konrad e Julius si sviluppano più lentamente, attraversando un'intera generazione; e in Pierre e Adèle, il fardello di una travagliata storia condivisa è rischiarato da sprazzi di introspezione da entrambe le parti.
A dirla tutta l'argomento che mi è sempre interessato è il cambio di paradigma che può avvenire nella mente di un uomo o una donna. E ho pensato che potesse essere una buona idea contrapporlo a un tema così arcaico come il perpetuo e mutevole corso dei fiumi.

 

Di recente ho letto una recensione del libro in cui si sottolineava molto la componente psicologica dei suoi racconti, citando addirittura Jung che aveva una precisa interpretazione della simbologia legata all’acqua. In che modo è coinvolta nella sua scrittura la figura simbolica e in quale maniera essa va a interagire con la psicologia dei personaggi e del racconto stesso?

Profondamente… Quando un soggetto si dimostra così potente nella nostra percezione da raggiungere lo stato di simbolo - e cioè, qualcosa che sia riconoscibile da tutti - sarebbe stupido non sfruttarlo in letteratura. Faccio sempre interagire i miei personaggi con le immagini che si sono costruiti di loro stessi e del mondo che li circonda. Questa è, a parer mio, l'essenza della vita e il suo significato.

 

Leggendo Fiumi mi sono venuti subito in mente i classici di Jack London e alcuni racconti di William Faulkner, allo stesso tempo ho riflettuto molto sul modo che aveva Horacio Quiroga di rappresentare la natura selvaggia. E non ho potuto non pensare al Fiume senza sponde di Juan José Saer, seppure c’entri poco o niente. Trovo che possa essere davvero interessante individuare alcune qualità della scrittura di tutti questi autori che hanno saputo esplorare il selvaggio e si sono distinti in questa direzione. Lei come vede la sua opera in relazione a questi o altri scrittori che hanno raccontato la Natura o hanno scelto dei luoghi lontani dalle città per ambientare i loro racconti?

Provo molto affetto per autori come Jack London, Patrick O’Brian e Robert Louis Stevenson, i cui eroi si mettono in viaggio per terre lontane lasciandosi alle spalle il mondo confortante di tutti i giorni.
Questo passo nell'immaginazione - proiettare il comportamento umano in circostanze diverse da quelle a cui siamo abituati - è indispensabile per me, come autore.  Così come si può trasporre un brano musicale degno di nota, allo stesso modo una buona storia si dimostra tale se risulta convincente; che si svolga in un qui e ora più o meno lontano dal nostro non fa differenza.
Descrivere quello che ci circonda è qualcosa che può fare chiunque, più o meno accuratamente. Si può aprire un blog o scrivere una rubrica. Ma questa non è arte. L'arte inizia se si compie un ulteriore passo in avanti: quando si trasforma una percezione iniziale in qualcosa che trascende il qui e ora di scrittore e lettore.
Puccini non è mai stato in Cina o in Giappone, eppure ci ha regalato la Turandot e la Madama Butterfly. L'appropriazione culturale è la linfa vitale e l'anima della civilizzazione, per come la vedo io. Non sono un insegnante, né tantomeno incline a dare lezioni; ma se dovessi dare un consiglio ai giovani autori li incoraggerei, contrariamente al pensiero comune, a non scrivere della loro vita o di esperienze personali, ma di qualcosa che possono immaginare. Li incoraggerei a scrivere una storia pensata per Omero, Dante, Boccaccio e Goldoni.

 

Ovviamente per tutto il tempo non ho fatto altro che pensare al discorso che si sta sviluppando in ambito antropologico riguardo alla distanza tra Natura e Cultura che è poi confluito in quello che Eduardo Viveiros De Castro chiama Prospettivismo. Semplifico all’estremo: l’idea principale è che potremmo trovare nuove prospettive, appunto, per un vivere ecologicamente sostenibile, se guardassimo alle concezioni del mondo di alcune popolazioni indigene con l’intento di comprenderne le istanze. Ora, in Fiumi il protagonista del primo racconto, «Fleuve Sauvage», a un certo punto riflette su cosa significhi la vita nella natura selvaggia e arriva alla conclusione che essa corrisponda a un «ritorno alle origini». Cosa vuole intendere il personaggio e cosa è per lei «il senso della vita nella natura»?

 Beh… l'uomo in Fleuve Sauvage è un illuso. Non è in nessun modo alla ricerca di un ‘ritorno alle origini’. Si ubriaca fino alla morte e la sua sedicente lotta contro le forze della natura è tutta una farsa.  Cerca di innalzare la sua sordida fine a eroica battaglia contro la Natura, ma in effetti soccombe alla sua stessa debolezza.
Cos'è per me, personalmente…? Non penso che durerei a lungo in un confronto di qualsiasi tipo con la Natura, anche se mi piace spacciarmi per un tipo avventuroso.

 

Mi incuriosiva molto un minuscolo dettaglio del secondo racconto. Il protagonista possiede esclusivamente sei libri, tutti di Jules Verne. «Gli sembrava che il loro contenuto fosse di un valore così inestimabile da poter bastare per una vita intera». Non so, vorrei saperne di più.

Sì, capisco il punto. Penso che gli orizzonti mentali e intellettuali di ognuno di noi siano, necessariamente, moto limitati. La portata ovviamente è definita dall'istruzione e dalle opportunità della vita. Siamo quindi esperti solo in un campo molto ristretto. E da quel piccolissimo campo deriviamo la nostra identità, e cioè: la rivendicazione di una certa posizione nel grande mondo sconosciuto che ci circonda. Di conseguenza, scegliamo con chi vogliamo confrontarci e gli amici e i nemici con cui, di volta in volta, avere a che fare. Per sopravvivere, devi sapere quando smettere di pensare.
Quindi, da autore, ho fatto in modo che Konrad si limitasse esclusivamente a sei libri. Si tratta di una deliberata esagerazione.

 

Rispetto a quanto scrivevo all’inizio dell’intervista, riguardo quello che il traduttore del libro, Stefano Musilli, definisce «un piacere antico» della narrazione, io ho subito pensato a un autore di cui si parla molto in questi ultimi anni: J.R.R. Tolkien. Nella sua scrittura è evidente il piacere atavico della descrizione e del mostrare. Come costruisci i tuoi paesaggi? Quanto hanno a che fare con la realtà e quanto invece si lascia plasmare dal fantastico? Dove porta l’esplorazione del paesaggio e lei come si mette in cammino con lo sguardo nel fitto di questi luoghi dell’immaginazione?

Mi piacciono le escursioni - una volta, quando ero più giovane, sono partito dai Vosgi, allora vivevo lì, e sono arrivato in Italia a piedi, ispirato dal libro di Hilaire Belloc, ‘La via di Roma’ - e, mentre girovagavo da un paese all'altro, ho collezionato ricordi indimenticabili di paesaggi bellissimi e intriganti, molti dei quali sono poi confluiti nei miei racconti.
Ovviamente spesso li trasformo, per adattarli ai miei scopi narrativi, più o meno come facevo a teatro quando mettevo in scena commedie e opere liriche.
In Fiumi tutto ciò è particolarmente evidente in Pierre e Adèle, dove ho creato il fiume Issou che divide i territori delle due famiglie rivali e che in Bretagna non c'è. Ma, per il resto, questo paesaggio inventato è fedele alla realtà.
In altri miei libri mi sono spinto più in là con la fantasia, nell'esplorare il potenziale drammatico del paesaggio ho incluso anche degli improbabili fenomeni naturali: in Gars, tra le altre cose, c'è una vallata nell'oceano e il Mongolia, un monte formatosi da una pila di Unni uccisi; in Padre di Dio c'è un lago che viene misteriosamente ricoperto da due lastre di ghiaccio e il vascello di Gesù finisce per essere risucchiato nel mezzo. Ovviamente mi sono divertito parecchio a descrivere  la separazione delle acque, quando Giosuè attraversa il fiume Giordano…
Nel mio romanzo più recente, De Heilige [Il santo], per il protagonista ho immaginato una fortezza nella città di Metz che fungesse da prigione, il che è reale quanto i disegni di Piranesi.
Creare un senso di appartenenza è essenziale per me. Non riuscirei a scrivere di un personaggio senza avere chiaro dentro di me il paesaggio in cui si muove.
Potrebbe anche esserci una ragione psicologica più profonda alla base della mia ossessione di scrivere e ricreare con le parole i paesaggi che vedo nella mia mente. Forse è un modo per essere certo che questo mondo non possa più svanire - per salvarlo dall'oblio. Come tutto ciò che scrivo, forse è il mio modo di esprimere la ‘rabbia contro il morire della luce’, per dirla alla Dylan Thomas. O, tirando in ballo André Malraux, ‘Ogni arte è una rivolta contro il fato’.

 

Nella bandella è espresso palesemente che lei abita «in una casa galleggiante nel cuore della campagna olandese», dato rassicurante, considerando le ambientazioni di Fiumi. Questa caratteristica biografica mi fa venire in mente certi libri di Bjorn Larsson (che abita in una barca a vela) ambientati in mare. Inoltre, in questi ultimi mesi, almeno in Italia, fioriscono testi, soprattutto biografici o autobiografici, che raccontano la scelta di vivere lontano dalle città. In questo ambito la figura di Henry David Thoreau è preponderante. Cosa vuol dire vivere in una casa galleggiante? È una scelta che ha a che fare con una visione filosofica, prima ancora che politica, oppure si tratta di una condizione derivata da una serie di concomitanze che poco hanno a che fare con la scelta drastica che portò il filosofo all’arcinoto lago Walden?

Vivere in una casa galleggiante significa che c'è la possibilità che affondi - come mi è successo quest'anno, cosa che ha comportato la perdita della mia intera biblioteca. Nonostante ciò lasciarmi la città alle spalle e scegliere questo posticino tranquillo sull'acqua è stata una decisione di cui non mi sono mai pentito. Prima ho vissuto in una fattoria isolata nella Foresta Nera e in un piccolo villaggio francese.
Si tratta di una preferenza personale, comunque, più che di una questione filosofica. Ho bisogno di silenzio e di un'esistenza solitaria per scrivere.

 

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