a cura di Roberto Galofaro
A partire da Novena, la sua seconda raccolta di racconti, uscita ad aprile di quest’anno per Racconti edizioni, ho fatto qualche domanda a Marco Marrucci. Nelle sue generose risposte leggerete di geografie letterarie e della progettazione di un libro, di ritorsioni contro serie tv e di malattie polmonari dei cani, di Kafka e Buzzati, di Filippo Tuena (in pieno) e dei Radiohead (di sfuggita), di editing e di trucchi fecondi, oltreché di un certo Jorge e di un certo Julio. Buona lettura.
Tra le caratteristiche della tua scrittura ce n’è una che salta agli occhi: la distanza geografica tra i vari racconti. Sembra che tu abbia fatto un punto d’onore nel non richiamare due volte uno stesso luogo (con la sola eccezione dei racconti iniziale e finale nella raccolta precedente, Ovunque sulla Terra gli uomini, uscita sempre per Racconti edizioni nel 2018 [ne avevo scritto qui]). Come nasce l’idea di ambientare le storie – così diverse tra loro – in luoghi spesso esotici e sempre diversi? Io un’ipotesi ce l’avrei, ma non so quanto possa essere definitiva: è forse un modo per mettere in evidenza l’obliquità costitutiva della narrativa?
Le circostanze mi obbligano a essere molto più prosaico: si tratta di una casualità iniziale che poi è stata elevata a principio architettonico di entrambi i libri. Quando ancora non avevo in animo di scrivere una raccolta e mi accontentavo di tirar fuori qualche pagina almeno decente, il primo racconto a essere chiuso fu Punta Loma, California. Una vicenda di tradimento, infelicità repressa, omicidio e alienazione. La necessità di ambientarlo a Santa Barbara e dentro la famiglia di un pastore luterano era dettata dalla volontà di aumentare il gradiente di infamia e allo stesso tempo insozzare per vie oblique una serie TV americana che mia sorella guardava con incomprensibile avidità quando eravamo bambini, Seventh Heaven. (Sono certo che nessuno lo avrà notato – e questo certifica grande pulizia mentale – ma i nomi dell’assassino e della vittima sono quelli degli attori che impersonavano il reverendo Camden e sua moglie Annie.) La ricerca di un contesto puritano che funzionasse da moltiplicatore dello scandalo e l’antipatia ventennale nei confronti di quel family drama a matrice religiosa hanno attratto e ancorato gli avvenimenti nel luogo che mi pareva più congeniale. Il racconto successivo è stato Storia di Gombo e Tuya. Il meccanismo fondamentale su cui si regge è la doppiezza del simbolo e i rischi connessi all’incapacità di comprendere che non esiste per sé ma in supplenza o vicariato rispetto a qualcos’altro. Per rendere fattivo un congegno così esangue (per assicurarmi che ci fossero azioni e sviluppi e metamorfosi) avevo bisogno di trapiantarlo in una comunità nella quale la dimestichezza con la leggenda, il mito, la stregoneria e l’evocazione fosse un aspetto quotidiano e pervasivo, un’atmosfera di tale densità per cui non saperla respirare marcasse la divergenza e ottimizzasse il danno. Avevo da poco leggiucchiato un articolo a proposito dello sciamanesimo dei popoli altaici: Gombo e Tuya riconobbero la loro casa. Il terzo racconto s’intitolava Bocca d’Arno, e in confronto agli altri esibiva un carattere più ombelicale e geograficamente costumato. Allora decisi di interrompere la scrittura e di progettare una raccolta che incorporasse i lavori che esistevano con materie nuove e in qualche modo affini. Mi accorsi che era già disponibile un abbozzo di canone, una regola ordinatrice. Lo sparpagliamento dei racconti a diverse latitudini e su terre distanti poteva essere sfruttato come un paradigma di creazione che, mentre sbandierava la massima disomogeneità e il più confuso randagismo, era invece in grado di precisare un’identità, consolidare la struttura e conferire unità di metodo. Certo Piero Chiara non approverebbe, ma è da questo grembo che sono nati Ovunque sulla terra gli uomini e Novena.
Nei tuoi racconti è evidente uno studio accurato, fin delle nomenclature, viene da dire, allo scopo di riprodurre nel linguaggio i luoghi e le vicende. Si percepisce un’attenzione meditata alla ricchezza del lessico. Nel primo racconto di Novena, Noi che restiamo a Palmer, ti destreggi tra termini tecnici della nautica e di laboratorio, aumentando l’illusione di una spedizione scientifica in Antartide. Così sono impressionanti le notazioni accurate di veterinaria in Fogli rinvenuti in una gabbia per cani. Ci racconti qualcosa della documentazione che precede la stesura? E nello specifico: la precede o la accompagna?
Prima ho arrischiato il termine “progettazione” per delineare quel momento che s’incunea tra il barbaglio di un’idea e la penna che corre sul quaderno. Non sono sicuro che per tutti esista una divaricazione del genere (molti scrivono immaginando, o immaginano perché stanno scrivendo), né che tutti stendano la prima versione imbrattando inchiostri su un foglio anziché ticchettare davanti al computer. Tuttavia per la disciplina che mi sono inventato questo periodo di incubazione sprovvisto di carta e tastiera è inderogabile, e custodisce una quota ragguardevole del piacere che si porta dietro l’intera faccenda dello scodellare racconti. Lo misuro in un paio di mesi per ciascun titolo. La mossa d’avvio prevede di sceneggiare nel dettaglio la vicenda, distribuire i twist o i picchi di tensione o gli ambulacri dove è consentito rilassarsi, indovinare come le specificità del luogo possono influenzare gli accadimenti e il vocabolario, aggiustare la prospettiva (onniscienza, meraviglia, imparzialità, coinvolgimento), stabilire la forma (diario, resoconto giornalistico, pseudofiaba, dialogo serrato, bozzetto verista, soliloquio, narrazione classica in prima o terza persona, mescoliamo tutto e vediamo un po’ che succede), intuire quel che può restare nascosto e comunque premere tacitamente da fuori per sagomare i bordi del racconto. Se riesco ad arrivare fin qui con lo schema preparatorio mi sono già abbastanza evidenti la gamma e la severità delle mie lacune, e provvedo a tamponarle meglio che posso: enciclopedie, articoli specialistici, collegamenti ipertestuali, fotografie, consulenze gratuite estorte agli amici, Google maps, guide turistiche, atlanti. Nello specifico di Noi che restiamo a Palmer la scelta di quale stazione di ricerca eleggere a teatro degli eventi ha comportato parecchie ore di studio. Non volevo accontentarmi di un’indicazione generica e svogliata del tipo «in una remota base antartica» o «in un avamposto tra i ghiacci del sud» perché la verificabilità e l’esibita concretezza del luogo assicurano un ulteriore livello di immedesimazione in aggiunta a quello dovuto alle tecnicalità del lessico, e inoltre arroventano ancor di più il cortocircuito cognitivo tra messinscena realista e distorsioni fantastiche. Dopo una quindicina di scarti Palmer Station si è rivelato il candidato migliore in quanto erano disponibili un prospetto delle attività scientifiche, una planimetria facile da dedurre, immagini in abbondanza, una media delle temperature stagionali e delle ore di luce per ciascun mese, rapporti sulla differenza del numero degli abitanti in inverno e in estate (dato che mi sono permesso di abbassare mostruosamente per riguardo all’efficacia drammatica) e l’itinerario della rompighiaccio che fin dall’inizio volevo occupasse il blocco introduttivo con la sua mole e il suo ritorno alla civiltà. Questo per parlare della documentazione propedeutica. Ovviamente non tutto è calcolabile in anticipo e alla scrittura rimangono centinaia di bombe da disinnescare. Fogli rinvenuti in una gabbia per cani ospita un nutrito elenco di malanni e sciagure canine tra cui “la filariosi cardiopolmonare debellata con quattro settimane di melarsomina e riposo forzato”. Nell’imbastire questa carovana di memorie luttuose avvertivo l’esigenza di un formulario specialistico per incrementare la densità e la lucentezza della vita anteriore del protagonista: mi piace credere che di fronte a tanta prosopopea veterinaria un lettore giustifichi l’esubero di cultura medica dicendosi che un piazzista di aspirapolveri cinquantenne è in grado di maneggiare termini così bizantini perché la filariosi cardiopolmonare l’ha conosciuta davvero, l’ha patita insieme al suo cane, si è informato sulle cause e sul decorso letale e sulle possibili terapie, con mano tremante ha praticato le iniezioni, con sollecitudine ha evitato alla bestia ogni fatica. Insomma, volevo garantire a quest’imbonitore in disgrazia un passato credibile che riverberasse al di là della cornice del racconto, e un pedestre “mi ricordo quando il cane stava male” non sarebbe stato abbastanza affilato da scolpire e levigare un passato che fosse, indubitabilmente e irriducibilmente, il suo passato. Compreso che quella linea di testo imponeva un tecnicismo, restava da tuffarsi in articoli di zooiatria, siti web a tema cinofilo e abboccamenti con un allevatore esperto per guadagnare il massimo di verosimiglianza e non incorrere in strafalcioni.
Il primo racconto mi ha ricordato la vicenda di Shackleton, ovviamente, che con i compagni di spedizione nel paesaggio antartico aveva l’impressione di essere accompagnato da una presenza inafferrabile (un evento citato nei versi di Eliot de La terra desolata: «Who is the third who walks always beside you?»). Spettabile dottor Wainaina mi ha fatto pensare al Messaggio dell’imperatore di Kafka – declinato in maniera farsesca con un protagonista corriere-sottopagato (e per associazione m’è venuto in mente il video di Paul Thomas Anderson per il pezzo dei Radiohead Daydreaming, in cui Thom Yorke attraversa porte che lo immettono in ambienti improbabili, una dopo l’altra, all’infinito). Nella sospensione collettiva dell’immensa folla radunata intorno a un probabile pacco bomba (Possono colpire in qualsiasi momento), ho visto qualcosa di certi micro-racconti aggraziati e agghiaccianti di Roberto Wilcock, qualcosa del suo stupore surreale. Ci sono delle suggestioni del genere nel tuo processo creativo?
Il rimando a Shackleton è sacrosanto e inevitabile. Il terzo uomo evocato da Eliot ci cammina incontestabilmente a fianco. Ma per quanto riguarda Noi che restiamo a Palmer il leggendario esploratore inglese e il poeta di St. Louis vantano una paternità collaterale o un’ascendenza di secondo grado, perché il racconto nacque sotto l’incantesimo di Filippo Tuena e del suo memorabile Ultimo parallelo. Il romanzo s’incardina sulla fallita conquista del polo sud da parte di Robert Falcon Scott nel 1912, ma fin dal principio recupera la suggestione dell’uomo in più dai diari di Shackleton – la critica letteraria ammette con una certa sicurezza che il third man di Eliot altro non è che il traslato poetico di quell’ombra tra i ghiacci – e con una splendida ibridazione di fiction e documentario lascia che sia lui, “molto discreto, molto silenzioso, molto partecipe della loro sorte”, a raccontare la storia. Il kafkianesimo latente di Spettabile dottor Wainaina credo vada approcciato in termini più liquidi e diffusi: non avevo un riferimento esplicito ne Il messaggio dell’imperatore (semmai, volendo restare nella cerchia degli ambasciatori regali, ho memoria di aver riletto I sette messaggeri di Buzzati), ma ad essere generosi si può trovare che la stramberia e la reiterazione e l’insuperabilità delle stanze trasferiscano sul piano edilizio i paradossi burocratici de Il castello e quelli giuridici de Il processo. Notarella sui Radiohead. In rainbows l’ho consumato fino all’estenuazione. The king of the limbs mi intriga quasi esclusivamente nella tenuta Live from the basement perché il canzoniere ha più tiro e la band suona anche Staircase (aver escluso un pezzo di quella caratura dall’album è da sciagurati). A moon shaped pool l’ho ascoltato giusto un paio di volte e in preda a sontuose distrazioni, quindi mi sono dimenticato addirittura che esistesse. Il video di Daydreaming l’ho scoperto qualche settimana fa, e sempre a causa dell’irriguardosa similitudine con Spettabile dottor Wainaina. Grande amarezza e profonda delusione su Roberto Wilcock: di lui non ho letto niente.
Chi sono i tuoi autori di riferimento? E qual è, se c’è, la raccolta o il racconto che rappresenta per te il capolavoro inattingibile, la vetta della short story? O anche: nella tua formazione di lettore, qual è l’esperienza che più ti ha sorpreso, che ti ha fatto dire «questo è ciò che voglio scrivere anche io»?
Qualche anno fa la domanda sul capolavoro inattingibile mi avrebbe scoperto ottusamente infoiato nel dire Finzioni di Borges. Magari, per annacquare la trivialità e la bolsaggine della risposta, avrei cominciato ad arzigogolare sul fatto che Finzioni riunisce due raccolte separate, ovvero Il giardino dai sentieri che si biforcano e Artifici, e che la preferenza andrebbe accordata al primo titolo per via della maggiore coesione architettonica, del livello sempre altissimo della scrittura e della miracolosa assenza di racconti dimenticabili. Tuttavia ostinarsi a dirlo ancora oggi significherebbe rivangare un convincimento appassito. La verità è che non ho un nome. O ne ho troppi, antagonisti e commutabili. Invece sul fronte del «questo è ciò che voglio scrivere anche io» (e pietosamente tralasciamo il fatto che non mi sia riuscito) nessun dubbio: regionale Firenze-Pisa con discesa a San Miniato, grigiore mattutino, qualche accenno di temporale, vagone deserto, Julio Cortázar, Luogo chiamato Kindberg, sconfinata ammirazione e un briciolo d’invidia.
A me sembra che la tua scrittura si sia alleggerita e abbia guadagnato in rapidità e incisività. Cosa è cambiato dal tuo punto di vista tra il tuo primo libro e il secondo? C’è un cambio di rotta che hai voluto mettere in pratica, nel dare vita a questi testi?
Alla pubblicazione di Ovunque sulla terra gli uomini ha fatto immediatamente seguito un rialzo delle facoltà critiche e degli istinti punitivi. Nel momento esatto in cui il testo era diventato ineditabile, avevo imparato a stanare diverse magagne, falle e durezze che mi erano rimaste ignote fintanto che il documento word si conservava aperto a rettifiche e aggiustamenti. L’impotenza camminava sottobraccio a una nuova lucidità. Quei gesti si potevano rendere in una chiave più snella. L’ancheggiare di quella frase poteva essere meno civettuolo. Di quei due aggettivi in sequenza se ne poteva cassare uno. Quell’avverbio poteva farsi nascondere dentro un miglior termine d’azione. Con Novena ho tentato di strappare quell’acume di giudizio dal suo compito di rammarico ineffettuale e di piazzarlo invece a guida del processo di revisione. A questo praticantato vanno aggiunti i sacrosanti meriti di Emanuele Giammarco, che in veste di editor ha brevettato una strategia d’impatto che equilibra sapientemente liberalità e costrizione: se da una parte concede infinita autonomia su come risolvere un problema, dall’altra non accetta che venga aggirato o diminuito a una faccenda di gusto personale o scudato da gabole e lamentazioni di scrittore. Penso che il combinato disposto delle due forze – “combinato disposto” è politichese che fa male al cuore, alle orecchie e alla dignità; perciò non vedevo l’ora di usarlo – abbia dato buoni frutti. A più di due mesi dall’uscita di Novena mi trovo soddisfatto come quando ho licenziato la stesura finale.
Una delle questioni più delicate, per un raccontista, è la confezione di una raccolta che sia conclusa, che stia bene in piedi da sola. Che, insomma, trasmetta l’impressione di unità di un “libro”. Come sei arrivato ai testi che compongono questa Novena? Ci sono stati scarti, esclusioni, ripensamenti, oppure è stato un processo lineare?
Per me la densità e la quadratura di una raccolta di racconti funzionano da coordinate massime, hanno la pervicacia di un obbligo o di un’ossessione. D’altronde Ovunque sulla terra gli uomini, al netto di quella precoce terzina di scritti che mi hanno rassicurato a proposito della fattibilità dello scrivere, si è imposto come una griglia di titoli. L’indice preesisteva a qualsiasi bozza. Formula che si può anche intendere: il libro preesisteva a qualsiasi racconto. La metodologia si è trasferita inevitabilmente su Novena, e la circostanza allarga alla dimensione programmatica quel broglio di similarità che rendono le due opere un dittico o una sorta di gemellanza scaglionata. È onesto chiedersi se un’attitudine così severa dinanzi alla forma di coabitazione tra racconti sia legittima: la short story è un organismo che la brevità, l’autarchia, il concentrato di tensione e un flessuoso procedere ramingo bollerebbero come poco adatto alle limitazioni di un casellario rigido. La sua vita più autentica (se non altro una di quelle che più frequentemente conduce) germoglia su piattaforme diversificate e leggere come taccuini, siti web, riviste, collettanee assemblate dalla giuria di un premio letterario, reading, stornelli d’occasione e chissà quante decine di altre. Il libro, posto che abbia la voglia o il permesso di farlo, viene dopo, e nella maggioranza dei casi vestendo gli abiti dimessi del notaio o dell’aggregatrice di dati o del best of o del curatore museale o del guardiano del cimitero, limitandosi quindi a spigolare, a fascicolare e a conservare un lotto di pagine che hanno goduto – o in linea di principio e per la natura profonda del loro concetto avrebbero potuto godere – di un’esistenza anteriore e svincolata. E allora figurarsi una raccolta di racconti nella quale l’accento gravi ostinatamente sul polo “raccolta” anziché su quello “racconti” pare un estremismo dettato da acerbità, prospettiva fallace e manie di controllo. Tutti segni che non ho difficoltà a imputare a Ovunque sulla terra gli uomini e, con virulenza appena addolcita, a Novena. In ogni caso il secondo libro ha sfoggiato una minima capacità d’improvvisazione e quattro o cinque mute che somigliavano a tecniche di adattamento. I rilievi di Giammarco su pericolosissime farraginosità nel meccanismo di Torino blackout e di Fogli rinvenuti in una gabbia per cani hanno consentito a entrambi d’inventarsi una via più diretta per giungere al finale che si erano prefissati. Ancora a Emanuele si deve il merito di una contestazione talmente incisiva dell’originario racconto d’apertura – un confessionale domestico in cui l’arcano era svelato in partenza e tre derelitti disquisivano su come fosse possibile e narrabile quella situazione; sul fronte teorico l’abbassamento dell’enigma a incidente su cui appuntare glosse a margine continua a sembrarmi un trucco fecondo, ma è vero che la mia esecuzione era goffa e sbilanciata – da farmi decidere di liquidarlo in favore di un pezzo nuovo. Stimavo meno laborioso e più promettente ripartire da zero che accomodare le venti pagine che già avevo. Ne è uscito Noi che restiamo a Palmer, e sono grato che l’abbia fatto.