Intervista a Isabella Zani, traduttrice di Eudora Welty

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a cura di Debora Lambruschini

Una «scrittrice intrepida»: è questa la definizione molto efficace con cui Isabella Zani parla di Eudora Welty. Una scrittrice a cui lei ha dato voce in italiano molte volte e che incontriamo proprio in occasione della recente pubblicazione di questa nuova edizione e traduzione de Le mele d’oro, per Racconti.

 

Welty crea un microcosmo denso di spunti e rimandi, personaggi dalla lingua e punto di vista peculiare, in cui costruisce quella mitologia del Sud che la contraddistingue: un universo che tu conosci bene e con il quale ti sei confrontata già in precedenza, con la traduzione sempre per Racconti di altre due celebri raccolte, Una coltre di verde e Un attimo immobile, e anche con alcuni testi di non fiction. Come ci si destreggia da traduttrice dentro questo mondo e quali sono gli appigli principali per il lettore?

Spero di non apparire troppo superficiale se dico che nel mondo di Eudora Welty ci si destreggia come in ogni mondo plasmato da una scrittura molto consapevole e sicura di sé, e cioè lasciandosi guidare principalmente dal testo, in termini di senso, di andamento e di suono. Non avendo una specifica formazione da americanista, all’inizio – ormai piuttosto lontano – della mia frequentazione con Welty non mi sono accostata al suo universo da “esperta” del Deep South e della sua letteratura, anzi ci sono entrata con un bagaglio davvero leggerino, fatto solo di letture giovanili come Le avventure di Huckleberry Finn o Via col vento, del mio orecchio di traduttrice e della mia curiosità, quindi mi sono affidata per forza di cose alle sue parole. Va da sé che nel caso di un’autrice forse non notissima al pubblico italiano, ma che negli Usa è un monumento, nel corso degli anni la lettura di una minima parte della critica a lei dedicata – perché la mole di testi che la riguardano è enorme – e della sua biografia mi è stata di grande aiuto per comprenderne meglio le fonti, le influenze e la poetica, e perciò prendere le mie decisioni da traduttrice con maggiore cognizione di causa.

In sintesi, è stato un processo: traducendo Welty ho “imparato” meglio il Sud, e capendo meglio il Sud ho imparato a tradurre meglio Welty. Tuttavia non sono così certa che al lettore servano davvero appigli diversi da quelli necessari ad affrontare qualunque scrittura letteraria: se è vero che lo sfondo dell’opera di Welty è quasi sempre un luogo molto specifico – quel Sud, appunto, prima schiavista e poi “solo” segregato, ma tragicamente razzista e conservatore ancora oggi – è altrettanto vero che il suo oggetto è niente meno che l’esistenza umana nel suo complesso, come lei stessa afferma più volte: «...chi scrive... sta solo scrivendo della vita», e «...tutti gli scrittori parlano di, e parlano a, emozioni che sono eternamente identiche in tutti noi: amore, terrore e pietà non fanno preferenze e non risparmiano nessuno». Essere umani e in grado di provare “amore, terrore e pietà” può bastare per diventare lettori di Eudora Welty. E anche per quanto riguarda lo sfondo, per immedesimarsi e comprendere certi personaggi, il loro modo di rapportarsi alla piccola comunità in cui vivono e le loro reazioni alle vicende che li toccano, come punto di partenza può bastare avere una generica idea di “provincia”, perché a mio modo di vedere le province si somigliano tutte.

 

Questa – come altre sempre inerenti l’opera di Welty – non è la tua prima traduzione de Le mele d’oro, già pubblicata anni fa per Fazi. Come è stato ritrovarti di nuovo dentro questo testo e fare i conti con una tua stessa traduzione?

A parte l’immaginabile piacere di ritrovare personaggi e vicende già note, credo che l’espressione giusta sia «bagno di umiltà», e sarò sempre grata agli amici di Racconti per avermi dato questa possibilità di rileggermi a fondo e correggermi (molto). Quando ho affrontato The Golden Apples per la prima volta, quindici anni fa, come traduttrice ero molto più spavalda che rodata, e al tempo stesso pativo il timore tipico degli esordi di staccarmi troppo dalla lettera del testo. Adesso le proporzioni si sono invertite, a tutto beneficio del libro: sono più cauta e più paziente con l’inglese di Welty, e insieme più coraggiosa nel cercare e trovare «l’italiano di quell’inglese». Non arriverei a dire che i lettori della prima edizione hanno letto un libro diverso, ma voglio pensare che questa nuova versione restituisca meglio l’abilità di Welty nel creare immagini tanto limpide quanto imprevedibili (le pale di un ventilatore «glassate di bianco come una torta», l’aria «grezza come una tela di sacco», una ragazzina che dorme «ricurva come una conchiglia») e nel maneggiare una grande varietà di registri.

 

A vent’anni dalla sua scomparsa, l’opera di Welty continua ad affascinare lettori e critica, pur restando particolarmente legata al proprio tempo e ai luoghi entro cui si è sviluppata. Quali sono secondo te le ragioni di tale fascinazione?

Per come la vedo io, Eudora Welty è soprattutto una scrittrice intrepida: armata della parola, non ha paura di niente. Afferma che la sua materia prima è la vita e, fedele a questa asserzione, non esclude dalle proprie storie nessuna esperienza umana: solo limitandoci alle sette che compongono Le mele d’oro ci imbattiamo in vicende di tradimento e abbandono coniugale, di stupro (infra- e interrazziale), di solitudine, orfanità, alienazione mentale, attrazione omosessuale, suicidio... e allo stesso tempo, nello stesso libro e talvolta nello stesso racconto, troviamo passaggi trasognati sulla potenza della fantasia infantile, passaggi commoventi sul lutto e sulla memoria, passaggi luminosi sulla maestà della natura e anche passaggi francamente comici. Questo coraggio di “dire tutto” mi pare uno degli elementi che hanno fatto di Welty l’autrice importante che è; insieme all’audacia di dirlo in una lingua che non ritiene necessario spiegare niente, anche a rischio di risultare sibillina. Rischio che Welty corre perché a suo avviso «suggerire è lo scopo di ogni parola che si mette in un’opera di finzione», ma «[da] lettori voi siete liberi di pensare quello che volete, naturalmente». Si propone esplicitamente di stabilire, con la scrittura narrativa, una comunicazione, ma non a costo della sua libertà di autrice e della nostra libertà di lettori—cosa che evidentemente continua a essere percepita e apprezzata.

 

Il realismo che si intreccia alla mitologia del Sud e al folklore, la dimensione colloquiale, il gusto per l’oralità; le immagini, la vena introspettiva. Da un punto di vista lessicale, di scrittura, quali sono secondo te la basi su cui si poggia l’universo immaginifico di Welty e, quindi, le sfide, le peculiarità della traduzione?

Rispetto all’opera di un’autrice tanto antologizzata, insegnata, analizzata e studiata, perlomeno in patria – e che ha scritto la sua propria autobiografia letteraria – sarebbe presuntuoso da parte mia dire quali siano secondo me queste basi. Welty è stata per tutta la vita una donna di ottime e abbondanti letture, e lei stessa indica come scaturigine della propria vocazione al mestiere la passione per la mitologia classica e per le fiabe dei Grimm; al tempo stesso, leggendola appare chiaro che sia stata non solo un’attenta ascoltatrice degli interlocutori in conversazione – in una società e un’epoca in cui la conversazione era un fine in sé, una specifica fonte di intrattenimento – ma anche un’avida origliatrice di conversazioni altrui, altrimenti non si spiegherebbe la maestria con la quale crea narrazioni in prima persona e dialoghi nei registri più diversi e lontani da quelli che le si attribuirebbero naturalmente dati il suo ceto e il suo livello culturale. Quanto al mio compito, tutto questo significa da una parte prestare la massima attenzione ai rimandi intertestuali, cercando di stanarli e colmando per quanto possibile le lacune rispetto alle fonti, e dall’altra fare appello a tutte le lingue dell’italiano per tentare di rendere giustizia a ogni sfaccettatura, dalla citazione esplicita o nascosta, al dialogo tra signore della buona società bianca durante una partita di bridge, agli scambi tra personaggi diversi per censo e colore della pelle, ai passaggi più lirici... senza dimenticare i riferimenti culturali specifici che oggi, in qualche caso, risultano oscuri anche al lettore di lingua originale, e che quindi forse non è superfluo spiegare qualche volta in nota.

 

Ognuna di queste storie segue un percorso proprio in una narrazione non necessariamente lineare, dai punti di vista e sguardi molteplici, ma alla fine della raccolta scopriamo una certa circolarità: si apre con la nascita, si chiude con la morte. E di dualismi è disseminata la raccolta tutta, di contrasti fra bellezza e brutalità, realtà e immaginazione, curiosità e pregiudizio. Che cosa pensi di queste forze contrastanti?

Più che di circolarità quanto al filo narrativo che tiene insieme le sette storie di queste Mele d’oro mi piace usare la stessa parola che usò Welty nel parlarne, e cioè «confluenza». Di fatto, la narrazione si svolge all’incirca tra il 1905 e i tardi anni ’40 del secolo scorso, secondo una progressione lineare; la voce del primo racconto è Katie Rainey, giovane madre di una Virgie ancora piccola che sarà poi, da ultraquarantenne, protagonista dell’ultimo racconto della collezione; e i personaggi che vi ricorrono crescono, invecchiano e in alcuni casi muoiono, di racconto in racconto, con il normale procedere del tempo. Welty però non parte strutturando così il libro fin dal principio: comincia a scrivere («Lo sanno tutti») nell’estate del 1946 e termina («I viandanti») nell’autunno del 1948, ma solo alla fine del 1947 ha intuito che alcune storie già scritte – e in qualche caso già pubblicate su rivista, con titoli diversi e diversi nomi per luoghi e personaggi – possono confluire, per l’appunto, nel racconto di una cittadina di provincia che nel volgere di meno di cinquant’anni cambia faccia radicalmente. Il risultato di quest’intuizione è un intenso lavoro di sviluppo e revisione delle storie già compiute e la stesura di altre, che tutte insieme diventano Morgana, il palcoscenico sul quale Welty può mettere in scena, tornando alla domanda, tutti i dualismi che la interrogano come persona e la stimolano come autrice: quello tra il passato – i ricordi d’infanzia nel Saggio di giugno – e il presente della deforestazione e dello spopolamento rurale in cui si allude nei Viandanti; tra la familiarità della provincia e l’esaltazione della grande città («Musica spagnola» le viene ispirato da concerto di Andrés Segovia a cui assiste in occasione di un lungo soggiorno a San Francisco); tra la magnificenza e la monotonia del paesaggio abituale... Dualismi che a loro volta contengono dualismi: la provincia è insieme rassicurante e oppressiva, solidale e pettegola, indulgente con chi è “dentro” la convenzione accettata (i maschi MacLain, ma anche Jinny Love Stark) e inflessibile con chi è “fuori” (Miss Eckhart), laddove la metropoli al contrario trabocca di opportunità e varietà, ma è anche irrimediabilmente anonima e mercantile. A noi oggi non può non apparire chiarissimo che sulla sua scena grava il dualismo ultimo, o forse il contrasto originale, tra bianco e nero, tra la segregazione che non finisce e l’integrazione che non comincia o procede a passi troppo lenti, stentati e continuamente ostacolati; Welty ne è consapevole come e forse più di noi, ma è anche convinta che non sia compito della narrativa schierarsi in termini militanti o, meglio ancora, che quanto si schiera in termini militanti non sia narrativa, né sulla questione razziale né su altre (in proposito si può vedere il saggio breve «Il romanziere alle crociate?»). La posizione si può condividere o meno; ma il fatto stesso che introduca un dualismo tra narrativa e qualcosa di diverso – saggistica, giornalismo, satira – dimostra che il contrasto tra forze è sempre, e non solo per Welty, all’origine della scrittura.

 

Oltre a quanto citato, qual è secondo te la chiave di lettura con cui tentare di entrare in questa raccolta e nel mondo letterario di Welty?

Difficile rispondere, per me che ho goduto del privilegio di passare molto tempo in sua compagnia e tra l’altro voglio molto bene proprio a questo libro ibrido, a questo “romanzo a forma di racconti”. Penso però che i lettori più attratti dalla forma-romanzo tradizionale apprezzeranno senz’altro Nozze sul Delta e La figlia dell’ottimista, da poco ripubblicati da minimum fax dopo essere passati per le abilissime mani di Simona Fefè; mentre gli appassionati di short stories potrebbero seguire l’originale ordine di pubblicazione in volume e cominciare quindi da Una coltre di verde—che tra l’altro contiene il racconto «Com’è che abito all’ufficio postale», forse il più celebre di Welty in assoluto.

 

Nella tua carriera di traduttrice ti sei confrontata con autori differenti ma anche con forme espressive diverse: come cambia, se cambia, il tuo approccio dal romanzo al racconto, in generale e nel caso specifico di Welty?

Di nuovo, a rischio di apparire superficiale rispondo che il mio “approccio al lavoro” non cambia se per lavoro intendiamo il compito che mi è stato affidato, allestire una traduzione, e per approccio la sequenza di azioni da svolgere per portarlo a termine. Ma ogni testo è diverso per forma e sostanza e quindi tutto cambia sempre, perché se il traduttore possiede un minimo di competenza è il testo a dirgli come vuole essere tradotto, e questo è forse il maggior elemento di fascino e piacere in questo mestiere: si affronta ogni nuovo incipit armati di tutto quello che si è imparato sul tradurre fino a quel momento, e allo stesso tempo si ricomincia ogni volta da capo non sapendo nulla di quello che ci aspetta, anche nel caso di Eudora Welty. Come scrive lei stessa: «...di certo, la stesura di ogni racconto spalancherà una nuova prospettiva, porterà un nuovo problema; e non c’è storia già scritta che sia in evidente relazione con una storia nuova o possa fornire alcun tipo di aiuto [...] Ciascun racconto, a parer mio, si sviluppa rigoglioso dalla scrittura solo se dà l’impressione di vivere di vita propria». Lei parla ovviamente della composizione, ma penso valga anche per la traduzione, che è uno dei tanti “modi” della scrittura.

 

Si parla abbastanza spesso del rapporto-dialogo (quando possibile) fra scrittore e traduttore, ma so che tu sei grande sostenitrice anche del confronto con gli altri traduttori: puoi dirci qualcosa di più a riguardo, anche in relazione al progetto Strade, il sindacato dei traduttori editoriali?

«Molto male viene dal fatto che si va soli. Se si è in parecchi, è già un’altra cosa» scrive Döblin in Berlin Alexanderplatz. E io non sarei una traduttrice ragionevolmente sicura dei propri mezzi, oggi, se non avessi avuto fin dall’inizio gli insegnamenti, la solidarietà, l’appoggio e la fiducia di molti altri traduttori (fra noi ci diciamo spesso, tra il serio e il faceto, che “la cosa migliore di questo mestiere sono i colleghi”), malgrado tutta la retorica che circola sulla traduzione come luogo della solitudine e dell’isolamento. Il mestiere di per sé ha bisogno di silenzio, di quiete e di tempo (e spesso quest’ultimo elemento sfugge al controllo del traduttore, afflitto da richieste di consegne sempre più rapide), ma le persone che lo fanno hanno voglia e necessità di scambiarsi esperienze e dubbi, aiuto e incoraggiamento come in qualunque altra professione, e da quando esiste la comunicazione digitale possono farlo senza ostacoli. Io ho avuto la fortuna di cominciare a fare la traduttrice quando questa comunicazione era già un fatto scontato, e mi è stato chiaro fin da subito che l’impegno a migliorarmi come professionista doveva andare di pari passo con l’impegno a fare rete con i colleghi. Di lì la mia adesione, più o meno attiva a seconda dei momenti ma costante fin dagli esordi, a Strade—che, mi sento di dire, ha smesso da tempo di essere un progetto: con oltre trecento tesserati, efficienti servizi di consulenza contrattuale, legale e fiscale, una mutua sanitaria pensata su misura per i traduttori e un coordinamento nazionale capace, nell’anno della pandemia, di far emergere le necessità della categoria, di chiedere e ottenere “ristori” importanti e di aprire il dialogo con le istituzioni sulla creazione di un fondo strutturale a sostegno della professione, è ormai una solida realtà associativa per tutti i traduttori editoriali, esordienti e navigati che siano.