di Debora Lambruschini
C’è un’ironia feroce nei racconti di Flannery O’Connor che spesso esplode in aperta violenza, brutale e inattesa. Rileggerla di volta in volta, significa rendersi conto più chiaramente di quanto profonda sia stata l’influenza esercitata attraverso un numero dopotutto esiguo di pagine lasciate nel corso della sua breve – ma fulminante – carriera letteraria. Distante e disinteressata alle mode del momento, O’Connor si impone sulla scena culturale del tempo con racconti e romanzi diventati immediatamente canone letterario, intrisi di profondo realismo, ironia, di vissuto. È il Sud, l’ambiente rurale in cui è cresciuta e che rivive in ogni narrazione, lo sfondo ideale su cui si muovono gli uomini e le donne di O’Connor, profondamente ancorati al proprio tempo storico ma, in qualche modo, capaci di arrivare al lettore contemporaneo ancora intatti. È innegabile l’influenza che Flannery O’Connor continua a esercitare e, forse, di quella brutalità improvvisa che squarcia la pagina siamo particolarmente consapevoli, al pari dell’attenzione con cui ci lasciamo guidare dentro storie stratificate, dense di spunti; lo sguardo di O’Connor scandaglia senza timore anche gli angoli più oscuri e controversi dell’animo umano, mette a nudo le nostre mancanze, meschinità e debolezze e l’innocenza è una virtù che sembra non appartenere appieno a nessuno, nemmeno ai bambini.
Rimase immobile, tesa, in ascolto, e in lontananza riuscì a cogliere alcune grida di gioia alte e selvagge, come se i profeti stessero danzando nella fornace rovente, nel cerchio che l’angelo aveva sgombrato per loro.
(Un cerchio nel fuoco, p. 169)
A quasi cento anni dalla nascita, O’Connor è ancora tra le scrittrici statunitensi più citate nel campo della forma breve e la sua intera produzione è in corso di pubblicazione per minimum fax in una nuova edizione e traduzione, affidata alla voce esperta di Gaja Cenciarelli, che bene ne conosce l’universo letterario. È da poco in libreria Un brav’uomo è difficile da trovare, dieci racconti magistrali che riprendono vita anche grazie all’ottima traduzione di Cenciarelli.
Raccontare O’Connor, tentare di indagarne il mistero, è un percorso accidentato: tematiche, spunti, ambientazioni ricorrenti nei suoi testi, non sembrano in grado o sufficienti a spiegare la fascinazione che subiamo nei confronti della sua scrittura. I dialoghi vividi, il dettaglio con cui vengono tratteggiati personaggi e ambienti, il particolare evocativo, le increspature sulla superficie e la violenza brutale che infine esplode sulla pagina; il realismo feroce della narrazione, la rappresentazione di un mondo che non esiste più ma di cui possiamo ancora ben riconoscere i tratti principali e certe istanze arrivate fino a noi; il rapporto con il proprio tempo e l’ambiente in cui è cresciuta; e la religione, la fede cattolica di cui ogni pagina pare intrisa ma da cui O’Connor riesce a non farsi soffocare – e il lettore con lei. Sono moltissimi gli spunti dati dalla lettura ed è un piacere, quindi, confrontarsi con Gaja Cenciarelli a proposito di polisemia del testo e approccio alla traduzione, allo scandaglio del politicamente corretto, al dialogo con la contemporaneità.
Come sei approdata a questa nuova traduzione, quale dal tuo punto di vista la spinta verso una rilettura dei racconti di Flannery O’Connor?
Ho tradotto questi racconti nello stesso modo in cui ho tradotto Il cielo è dei violenti: con umiltà e impegno. Rispettando l’autrice. Faticando molto. Impegnandomi. Ovviamente conoscere l’autrice e il contesto letterario mi ha aiutato: la sensibilità di O’ Connor è imprescindibile per tradurre la sua opera, che verrà ritradotta tutta da minimum fax.
Ho sempre pensato, forse erroneamente, che una delle sfide principali per un traduttore sia la polisemia del testo: personalmente potrei arrovellarmi un tempo infinito nello scegliere un termine a discapito di un altro, finendo comunque col pensare di aver perso qualcosa. Qual è stata per te la sfida maggiore, la particolarità, nella traduzione di queste storie?
La polisemia del testo è una delle difficoltà, soprattutto se traduci dall’inglese. In questo caso, la sfida è rappresentata dalla monumentalità dei racconti che contengono vari registri, e dallo sguardo spietato e asciutto dell’autrice.
Come cambia, se cambia, il tuo approccio a una traduzione inedita o a una nuova traduzione di un autore già presente nel panorama editoriale italiano? C’è una differenza di responsabilità o approccio?
La responsabilità è sempre la stessa: quando traduci, o ritraduci, il testo è nelle tue mani. Non è un lavoro più leggero. Anzi, il confronto con le titaniche traduttrici dell’edizione precedente prevede un’attenzione maggiore.
In un saggio narrativo pubblicato nel 2017 sulla Paris Review, Claire Dederer riflette su una questione particolarmente attuale e controversa: «Per il pubblico l’uomo [Roman Polanski] e la sua creazione sembrano essere la stessa cosa. Ma è così? Non dovremmo cercare di separare l’arte dall’artista, il creatore dal creato?». Una questione che si riallaccia, per esempio, al caso della discussa biografia di Philip Roth e al suo autore, Blake Baley. Con le dovute differenze, anche l’opera di Flannery O’Connor non è del tutto immune allo scandaglio del politicamente corretto, in relazione soprattutto al contesto socio culturale cui apparteneva l’autrice, all’uso di una terminologia e un immaginario che oggi potremmo considerare problematico a tratti, fino alle considerazioni sulla sfera privata. Che cosa ne pensi di tale questione, soprattutto per quel che riguarda O’Connor? Come traduttrice in che modo ti poni di fronte a problematiche di questo tipo?
O’ Connor è figlia del suo tempo: i “negro” contenuti nel testo sono stati mantenuti.
Tutte le persone di colore che punteggiano le sue opere non sono mai colpevoli: le nefandezze sono sempre opera dei bianchi. I neri sopravvivono, i neri sono saggi. In questo caso, trovo il politicamente corretto (laddove con questo si indichi un giudizio negativo nei confronti dell’autrice) insensato.
Nell’interessante postfazione alla raccolta, Joyce Carol Oates riflette sulla particolarità della prosa e della sensibilità letteraria di O’Connor: i suoi racconti dall’ironia feroce sono quasi sempre intessuti di messaggio morale e religioso o, quantomeno, permeati dalla fede cattolica dell’autrice, lontani quindi dalle mode letterarie del Novecento secolare e materialista. Eppure, a mio avviso, O’Connor riesce anche a mettere in discussione i dogmi della fede, di cui ne avverte – e sottolinea nei suoi racconti – le contraddizioni, le derive, le difficoltà. Ed è riuscita fin da principio a imporsi sulla scena letteraria, nonostante l’ambientazione rurale e, appunto, “lo sguardo cattolico” dei suoi racconti, così distanti dalla moda urbana e secolare imperversante. La potenza della scrittura ne ha decretato l’immediato successo, l’appartenenza al canone americano. Che cosa pensi a riguardo?
In realtà, l’unico messaggio morale e religioso di O’ Connor è il messaggio sociale. O’ Connor scrive del Male, perché è solo attraverso il Male che si arriva alla Grazia. Dunque la fede è l’unica via alla scrittura e alla rappresentazione spietata della Vita, quella sociale e quella interiore.
«Sarebbe stata anche una brava donna», disse Il Balordo, «se solo qualcuno le avesse sparato ogni minuto della sua vita».
(Un brav’uomo è difficile da trovare, p. 38)