Sabrina & Corina. Intervista a Federica Gavioli

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di Debora Lambruschini

[…] colsi qualcosa di indecifrabile in Sabrina, una sorta di tristezza annidata dentro di sé, nel profondo, che si insinuava tra noi come una malattia. Da dove veniva? O forse c’era sempre stata, era cresciuta dentro di lei, le aveva riempito i polmoni con il suo peso liquido. «Sabrina» sussurrai, dandole un colpetto sulla spalla, ma stava già dormendo, e per la prima volta in vita mia sentii la mancanza di qualcuno che mi stava seduto proprio accanto.
(“Sabrina & Corina”, p. 51)

 

Ci sono molte ragioni per cui considerare Sabrina&Corina di Kali Fajardo-Anstine una delle raccolte di racconti più interessanti e vive lette quest’anno e che, sono abbastanza certa, rimarrà nel tempo. Potremmo andare alla ricerca di ragioni letterarie, influenze, rimandi, stratificazioni, ma ciò che rende questi racconti tanto valevoli di interesse è molto semplice e complesso insieme. Fanno quello che a mio parere dovrebbe sempre fare la letteratura: far sentire scomodo il lettore. Kali Fajardo-Anstine racconta un mondo di donne, fragili e forti insieme, bellissime e tragiche – e proprio dalla straordinaria bellezza arriva la tragedia – , di una società multietnica e attraversata da sottili eppure profonde divisioni; dentro questi racconti prende vita la comunità nativa americana, il richiamo della tradizione, la ricerca della propria identità, il sentimento di casa, gli affetti. Storie di gentrificazione e di una società che spesso esclude, minimizza una cultura che non si sforza nemmeno di comprendere, violenta e distrugge.
Ecco, Kali Fajardo-Anstine dà voce e corpo a queste donne, creando sulla pagina un microcosmo di cui è quasi possibile avvertire distintamente ogni singola voce, odore, colore.
Pubblicate in Italia da Racconti Edizioni, sono mirabilmente tradotte da Federica Gavioli con la quale ci siamo interrogati su traduzione, sui dualismi che attraversano la raccolta, sulla sua stratificazione culturale e sulla ricerca di un equilibrio tra fedeltà, aderenza all’originale e resa in traduzione.


 Come sei approdata alla traduzione di “Sabrina & Corina”?

Questa è la seconda raccolta che traduco per Racconti, dopo La felicità è come l'acqua di Chinelo Okparanta, uscito nel 2019. Avevo letto il libro e mi era sembrato di valore, così ne avevo parlato con Andrea Sirotti, che avevo conosciuto a Traduttori in movimento (quei seminari e laboratori splendidi organizzati in estate da Ilide Carmignani) e che stimavo moltissimo per le sue traduzioni, in particolare di quell’area letteraria che per comodità potremmo definire postcoloniale. Gli avevo chiesto un consiglio su qualche casa editrice a cui presentare la proposta, e lui mi aveva indirizzata verso Racconti. In casa editrice avevano già in mente l’autrice e così ci siamo in qualche modo trovati. Poi all'inizio dell’estate 2020 mi hanno proposto di tradurre la raccolta di Kali Fajardo-Anstine e chiaramente ho accettato con grande entusiasmo. Mi sembra che tradurre storie di questo genere dia un senso alla direzione che ho seguito negli anni della mia formazione, tra deviazioni e inciampi. Dopo essermi laureata in antropologia culturale a Bologna ed essermi resa conto che forse uno studio così sistematico delle culture non faceva per me, per quanto la materia mi appassionasse molto, ho deviato su Mediazione linguistica alla scuola per interpreti e traduttori di Forlì, per poi sfuggire – momentaneamente – dalla traduzione tecnica frequentando il corso di specializzazione in traduzione editoriale alla scuola tuttoEUROPA di Torino, forse per me l'anno più bello e più importante dal punto di vista umano e formativo. Penso che una parte in apparenza marginale della mia formazione, quella antropologica (da non intendersi però come fascinazione per l'esotico, piuttosto come profondo interesse per l'altro) mi abbia spinto a leggere, ad avvicinarmi e ad andare a cercare storie marginali rispetto al centro, che illuminassero zone ancora in ombra, che è proprio il motivo per cui scrittrici come Fajardo-Anstine scrivono: per colmare dei vuoti di rappresentazione.




Quali sono state le sfide principali di questa traduzione?

Leggendo il libro per la prima volta ricordo di aver avuto l’idea di una raccolta molto coerente ed equilibrata. Tutte le storie, pur nella loro diversità, sono in qualche modo intrecciate, implicitamente e in modo sottile. C’è una voce familiare che ritorna, un equilibrio di contenuti e di forma. Penso che mantenere una certa coerenza anche nella traduzione fosse importante, forse anche complesso trattandosi di una raccolta di racconti, in cui la continuità non è sempre così marcata. Può sembrare banale, perché il testo originale è la traccia da seguire, ma la traduzione è un lavoro minuzioso, quasi ossessivo; a volte quando si passano ore su una frase, o anche solo su una parola, è facile perdere di vista l’insieme, la voce del testo. In Sabrina & Corina Kali Fajardo-Anstine si muove sempre tra due poli, insiste molto sui dualismi, che sono una sorta di argine dentro cui scorrono le storie: rapporto madre-figlia, zia-nipote, due cugine, due sorelle ecc., e anche tra due luoghi: la città reale (Denver) e la cittadina immaginaria (Saguarita). Dentro questi due poli c’è molto spazio e i racconti cercano proprio di esplorare questo spazio che separa o avvicina, confonde o collega le due estremità. Ecco, spero di essere riuscita a stare dentro a questo equilibrio, a rispettare la coerenza che si percepisce distintamente nell’originale.

 

Qualche settimana fa c’è stato un certo fermento intorno alla traduzione olandese della raccolta poetica di Amanda Gorman, che ha scatenato una serie di proteste perché affidata a una persona bianca; il traduttore è certamente un ponte fra voce originale e lettori, ma quanto è importante, se è importante, un background condiviso fra autore e traduttore? Secondo te tale polemica si anima per via delle specifiche tematiche trattate (black lives matter e questione razziale) o è una riflessione più ampia?

Su questa vicenda si sono dette tantissime cose, e mi sembra di capire che si sia finito per distorcere i motivi della provocazione iniziale. Era in sostanza una richiesta di visibilità e inclusione avanzata da chi si sente spesso tagliato fuori, in questo caso specifico dai meccanismi dell’editoria. Se stiamo quindi parlando di white privilege, la provocazione mi pare sacrosanta, ed è una questione strutturale che va ben al di là dell'ambito editoriale. Poi il discorso ha preso altre direzioni, per quella specie di effetto “telefono senza fili” per cui più le notizie rimbalzano da una testata all’altra più si modificano, per di più da un paese all’altro. Io penso che il background comune possa essere un vantaggio, anche se in questo caso specifico dubito che una voce nera europea possa corrispondere esattamente a una voce nera statunitense e perché poi bisogna intendersi bene sui termini. Un background condiviso non è comunque necessariamente sinonimo di traduzione migliore, ed è ovvio che la regola dell’identità totale tra chi scrive e chi traduce non sia ammissibile in un orizzonte di contaminazione totale come quello della traduzione, ma appunto, mi pare che la polemica si sia allontanata dalle intenzioni di chi l’ha cominciata.

 


Come è stato il tuo approccio al testo? Come hai affrontato eventuali sfide gergali, l’intero apparato culturale di cui è intrisa la raccolta?

Dopo la prima lettura del libro e mentre cominciavo a tradurre sono andata a ripescare alcuni autori chicani, in particolare le storie di Woman Hollering Creek di Sandra Cisneros (ripubblicato tra l’altro l’anno scorso con un nuovo titolo, Piccoli miracoli, sempre nella traduzione di Riccardo Duranti per La Nuova Frontiera), e Bless me, Ultima di Rudolfo Anaya (Giunti, traduzione di Roberto Serrai), più che altro mi interessava rileggerli in traduzione. In Sabrina & Corina c’è una notevole stratificazione culturale, che emerge nei riferimenti, nei miti o nei racconti orali presenti in molte storie della raccolta; ricordo ad esempio la ghost sickness che dà il titolo all’ultimo racconto e che mi ha dato non poco filo da torcere, non esistendo un traducente consolidato in italiano per questo disturbo specifico della cultura navajo. In alcuni racconti poi ho dovuto lavorare sulla fluidità di certi dialoghi, e penso in particolare a Tomi, nel rapporto tra la zia appena uscita dal carcere e il nipote adolescente, e a Ogni suo nome, in cui si inserisce il gergo dei writers e in generale un linguaggio più marcatamente giovanile. In questo senso trovo davvero prezioso e stimolante il confronto con il revisore, che spinge a ripensare certe scelte troppo neutre, o magari opache, e soprattutto a ritornare sul testo con altri occhi.

 

 

Il ruolo di traduttrice influisce nel tuo personale modo di leggere?

Sì, inevitabilmente. Influisce sul modo di leggere e in generale sull’attenzione alla lingua che mi circonda in altre forme, nei film/serie, in tv, alla radio. Notare piccoli vizi, nuovi usi, fenomeni emergenti. E poi sicuramente influisce su cosa leggo. Molti autori italiani, o buone traduzioni di autori stranieri. E ovviamente molti testi in lingua. In un certo senso sono due movimenti complementari, tradurre influenza il modo di leggere e ciò che si legge influenza il modo in cui si traduce. O almeno dovrebbe.

 

 

Come percepisci venga considerato il lavoro di traduttore oggi? 

Negli ultimi anni casi analoghi a quello di Gorman, di certo con una minore risonanza mediatica, hanno illuminato lo spazio in ombra del traduttore. Ricordo ad esempio il dibattito sulla traduzione inglese del libro La vegetariana di Han Kang, che ha riaperto una questione di lungo corso sulle traduzioni dalle lingue ponte e sul più recente predominio dell’inglese come lingua veicolare nel mondo globalizzato (sul sito della rivista Tradurre si può leggere una splendida ricognizione storica di Norman Gobetti sul tema). In generale credo ci sia una maggiore consapevolezza del ruolo del traduttore, c’è più curiosità anche tra i non addetti ai lavori, tra i lettori e le persone che seguono i dibattiti letterari. E poi ci sono, o almeno c’erano prima della pandemia, tante occasioni in più per sentir parlare di traduzione (festival, incontri dedicati alle fiere dell’editoria ecc.). In modo molto concreto invece, sul fronte dei diritti e della sensibilizzazione, il sindacato dei traduttori editoriali, Strade, sta facendo da anni un lavoro enorme.

 

 

Ultimamente molte raccolte (non solo antologie ma anche raccolte di un unico autore) sono affidate alla voce di più traduttori. Che cosa ne pensi di questa pratica?

Forse bisognerebbe distinguere casi diversi. A volte la scelta di più traduttori è dovuta alle logiche editoriali, che impongono tempi sempre più stretti e spingono a velocizzare tutte le fasi di pubblicazione di un libro, soprattutto se è un titolo molto atteso. Diverso è quando i traduttori lavorano insieme per scelta, perché ci sono vere e proprie affinità, una collaborazione collaudata; questa mi sembra un’ottima occasione di confronto e un buon antidoto alla solitudine del traduttore. Ho letto che la traduzione in tedesco di Gorman è stata affidata a tre voci diverse, in questo caso tenendo particolarmente conto del background e delle competenze di ciascuna. Mi sembra una soluzione interessante, anche se, appunto, credo che molto dipenderà dall’affinità tra le tre traduttrici.

 


La fedeltà al testo, un tema sempre presente quando si parla di traduzione, insieme alla capacità di rimanere in ombra dietro al testo originale: tu che cosa ne pensi, quale il tuo approccio? 

Per riprendere il discorso della prima domanda, nella traduzione ci si muove idealmente sempre dentro degli argini, dei vincoli che non si possono ignorare, e questo è l’aspetto rassicurante (c’è un testo da cui partire, un’altra lingua in cui deve essere scritto ecc.), ma poi la pratica porta sempre a riformulare e a mettere in crisi la teoria. Più traduco più mi sembra difficile trovare delle regole fisse, anche perché la traduzione in realtà è una cosa molto pratica, è qualcosa che si fa, che si impara (strada) facendo, e che genera di continuo dubbi, ripensamenti, esitazioni. Di certo si traduce avendo sempre in mente, per quanto inconsciamente, quelle poche sicurezze (la fedeltà al testo, ma anche alla lingua di arrivo, a chi leggerà ecc.), e si traduce di conseguenza, per quanto mi sembra che il mio approccio al testo sia inizialmente molto istintivo, ma poi quell’istinto si trasforma nella materia di mille riflessioni, cambia di stesura in stesura, a ogni rilettura e poi di nuovo durante la revisione. Solo che quando ci sei dentro non te ne accorgi, ed è bello avere l’occasione di pensarci con un certo distacco come in questo momento.

 

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