di Alice Pisu
Lo sfondo della prima lotta è la spiaggia corsa di Calvi. È il 1962 e il piccolo Luc sperimenta un contatto fisico che assume i contorni del mito, con l’uomo che sarebbe diventato suo padre, gli avrebbe dato un cognome e che nel gioco avrebbe generato in quel bambino di sei anni la certezza di raggiungere l’essenza dell’infanzia, il cui motivo è la lotta. Alle soglie dei settant’anni Luc Lang rievoca anzitutto quel ricordo per comporre con Racconto della lotta (nella mirabile traduzione di Tommaso Gurrieri per Edizioni Clichy) un memoir atipico sul filo del rapporto col vuoto, con la caduta, definita il filo rosso della sua vita. Il rilievo di quella scena risiede nel potenziale racchiuso, nell’offerta implicita dell’insegnamento di una pratica che è passione e condotta di vita: il judo. Sarà il netto rifiuto della madre a sancire una distanza tra i corpi del padre e del figlio e a generare una dolorosa privazione protratta negli anni. L’aspetto linguistico si rivela lo spazio d’elezione per rivendicare un’appartenenza divisa e al contempo moltiplicata. La riflessione sulla genitorialità esperita da figlio e da padre, è narrata attraverso le diverse traduzioni del concetto di lotta: la lotta sociale e politica incarnata del padre nella scelta di non accettare la promozione a caporeparto in fabbrica per restare un operaio; la lotta vegetariana della madre (“con una sensibilità presocratica che avrebbe scoperto in sé più tardi”); la lotta di classe a Natale in famiglia, nel definire attraverso i costumi dei bambini una radicale scelta che illuminerà le consapevolezze dell’età adulta. La dimensione linguistica cela una ricerca lessicale aperta, in relazione al riconoscimento dell’unità del gesto e della parola. Il rapporto con la scrittura di Lang rivela un interesse a insinuarsi nel gorgo di equilibri labili, come il contrasto tra l’esperienza fisica di una nuova routine domestica e le fantasie di fuga, i desideri di assoggettamento e gli impulsi di libertà, aspetti affrontati negli anni in testi di natura diversa, che enfatizzano il grottesco, lambiscono il surreale, riconoscono nel comico uno strumento per amplificare i meccanismi alla base di una deviazione e i suoi esiti, precipitando in un quotidiano deformato che ricalca le nuove abitudini dei suoi soggetti, spesso vestiti di ridicolo nel cercare di salvaguardare torridi aneliti. Di particolare rilievo in Racconto della lotta è la forma individuata, che cela l’esigenza di provare a comprendere come abitare il tempo con una foggia personale tra il diario e la confessione, il saggio filosofico, il compendio di Estetica, secondo un fluire che riflette la natura frammentaria del ricordo e le incoerenze emotive, con un linguaggio legato all’urgenza che diventa pura esperienza, gesto, ricerca stilistica. Le pagine evocano sottilmente interrogativi sul tempo, sulla morte, sulla memoria, sull’amore, sul mancato riconoscimento reciproco, con un impianto formale che accoglie l’inganno insito nelle certezze. Lo scenario cambia di frequente e tratteggia dimore diverse, abitazioni precarie, rifugi come zone franche, per comporre un’opera che traduce i percorsi mentali di un assillo e celebra un’urgenza di libertà. L’architettura dell’opera segue uno studio formale e sonoro sulla scorta dell’ideale interconnessione dei kata, i racconti di lotta: un corpo unico composto in eguale misura da concretezza e ricchezza metaforica e allegorica. Se nella produzione narrativa di Lang risultano riconoscibili le sospensioni, le cesellature lessicali, le reiterazioni ossessive, i giochi al contrasto, le trasposizioni selvatiche di intrichi interiori nel tracciare l’evoluzione dolente del singolo e nel tradurre un tormento irrinunciabile, in Racconto della lotta l’autore sente la necessità di sezionare, incasellare, ordinare, domare eventi, luoghi, ricordi, per mostrarli nelle loro evoluzioni concrete e potenziali. Tale struttura si nutre di incoerenze apparenti attraverso un mosaico di storie emblematiche nell’innescare riflessioni sul peso dei vincoli di sangue; sui legami elettivi; sul significato dell’amore; sull’oppressione dell’autorità immanente materna; sul significato di legami interrotti definiti una “pienezza di mancanza”; sulla necessità vitale di imparare la caduta, nelle arti marziali come nella vita, accettando che lo squilibrio sia parte dell’esistenza stessa. A marcare il tempo della narrazione è l’attestazione di una marginalità condivisa legata alla vergogna, all’assenza di indulgenza verso sé stessi, al vincolo simbolizzato da un luogo, all’impossibilità di un reale ritorno, che porta le figure narrate a sviluppare una dipendenza fisica e emotiva reciproca. A partire da tali condizioni prendono forma meditazioni esistenziali filosofiche e morali in relazione alla scelta di intraprendere la via della cedevolezza. Coesistono in queste pagine il realismo, la lucidità ma al contempo una specie di utopia da difendere. Un amalgama di realtà concreta e visionarietà che solleva grandi interrogativi sul senso dell’esistere. All’origine di queste domande si scorgono le suggestioni evocate in particolare da Céline a proposito della relazione originaria tra la morte e l’immaginazione. In tale prospettiva la lotta è concepita come una maieutica, un dialogo finalizzato non alla vittoria ma all’interiorizzazione personale di potenza e energia entro un’arte.
Sulla dorsale della narrazione di sé rappresentata dalla metafora della cedevolezza, in che misura la forma del memoir traccia un’impellenza di scrittura e di vita e permette una personale riscrittura dell’irrequietezza esistenziale divenuta un racconto di consapevolezza?
[Luc Lang] Ho sempre problemi con la forma memoriale per la scrittura. Sono prima di tutto un romanziere, e preferisco inventare una storia per cui devo costruire tutto. Piuttosto che cogliere l'immensità di un passato che ho vissuto e per il quale è molto difficile trovare il giusto punto di vista e la giusta distanza.
Una costante della sua intera produzione letteraria è l’esatta raffigurazione di una impossibilità di essere, tra verità parziali o oscurate, che produce suggestioni opposte in merito alla realtà. Nel paesaggio interiore spesso reso come un ammasso di macerie, la rappresentazione dell’ignoto investe il privato e allaga l’immagine stessa del passato.
Che forma assume la memoria nell’opera in relazione al concetto di vuoto? È collegata alla ricerca dell’illusione come disperata idea di salvezza?
[L.L.] Sono un bergsoniano e, per me, non esiste mai l'oblio. Solo un'immensa memoria che non sappiamo mai dove sia annidata, e che si aggiorna continuamente, spesso in modo imprevedibile, sotto la pressione del presente.
Il rapporto paterno assume un ruolo centrale nella narrazione, è reso per dettagli, immagini, frammenti, oggetti, indumenti. Emblematica la riflessione sui due abiti appesi ad asciugare, la tuta blu e il completo bianco da judoka. In un punto scrive:
“In quel giorno del maggio ‘68 capisco tutta l’importanza e la necessità dell’abito da lavoro che segna, come un rituale, l’ingresso dentro una tecnica, una pratica, un’attività, un universo complesso di gesti, di parole, di affetti e di connivenze. Come chi, infilandosi perfettamente in uno scafandro, può sprofondare dentro inaccessibili profondità oceaniche.”
In che misura l’esempio paterno ha forgiato la sua visione politica?
[L.L.] La vita di mio padre e di mia madre ha plasmato totalmente la mia visione politica. Che è legata all'esperienza della loro vita, del loro tempo alienati al lavoro, ma anche perché per tutta la vita hanno cercato di sfuggire a questo mondo di alienazione leggendo, praticando le arti marziali, il vegetarianismo e, nel caso di mia madre, alcune delle pratiche mistiche più inverosimili.
Il primo grande strappo impone una ridefinizione di sé in relazione all’elaborazione di un duplice lutto, per la perdita della persona amata e per la perdita di una parte di sé, privata di prospettive sul futuro. Sarà il karate a definire una nuova attitudine alla vita. Ogni scena e ogni vicenda, anche in relazione alla mancanza, custodiscono innumerevoli versioni diverse del reale. L’intera opera si gioca su queste ambiguità, che però innescano nuove domande sul significato di amore inteso come un sentimento che si eleva, a partire dalle nuove consapevolezze personali. Colpisce la capacità di comporre storie in una sottile armonia che favorisce una coesistenza di passato e futuro, staticità e innovazioni.
Che posto occupa nell’opera la riflessione sull’identità in relazione alla raffigurazione di una mutevolezza rivelatrice?
[L.L.] Per me non c'è identità. Solo la costituzione di una storia, cioè di un tempo che per sua natura è mutevole, costantemente ridefinito, instabile, che dà forma a un essere in perpetua trasformazione. C'è una storia, ma non c'è identità, anche se siamo detentori di una «carta d'identità»…
Accanto alla raffigurazione del dojo come officina di pratica che prolunga il sensei nel rappresentare “la possibilità di un’isola”, ci sono luoghi che definiscono al contempo nuove visioni e sanciscono estromissioni (come il Giappone); ambienti di prigionia; angoli legati alla frenesia urbana che attestano lo sfaldamento; spazi domestici che simboleggiano un riparo; territori che incarnano un tormento ineludibile.
In che modo l’indagine fisica nell’opera traccia i dolorosi tentativi di rinascita collegati a un trauma? Che valore assume uno spazio in grado di permettere di dispiegare una personale geografia interiore?
[L.L.] Il valore di uno spazio è il luogo inteso in senso aristotelico. In altre parole, un luogo in cui si svolge una pratica impegnata e sovrana per un lungo periodo di tempo. Un luogo è uno spazio abitato secondo una o più liturgie che abbiamo plasmato, a volte senza nemmeno rendercene conto. Ma a un certo punto si impone come un luogo in cui abbiamo il nostro posto, lo teniamo e ci teniamo.
È emblematico il peculiare uso del linguaggio in particolare in alcune scene narrate, come il riferimento alle dinamiche quotidiane di un padre con quattro figli che si sposta da un capo all’altro della città tra peripezie, ritardi, imprevisti, o nel delicato e intenso racconto della fase finale della vita della madre, consumata da un’attesa perenne e vana amplificata dalla demenza senile. L’ironia racconta il rapporto inversamente proporzionale tra la convenzione socialmente accettata entro cui individui idealmente perfetti e cittadini probi dovrebbero sottostare, e il quotidiano reale di chi pare un funambolo perennemente in procinto di cadere. L’ironia diventa anche l’alibi per perpetuare dinamiche rifiutate a livello razionale.
Che ruolo assume questo espediente in una prosa che anzitutto rivendica una profonda ribellione alla retorica dell’adesione alla norma, ai proclami politici, ma che rivela al contempo la fragilità dell’individuo?
[L.L.] Volevo restituire la vita quotidiana con i bambini sullo stile di un film muto di Buster Keaton. Azione, gesto, movimento, comicità situazionale, senza una parola.
Per mia madre, era la parola dolorosa dell'impotenza a salvare le cose dal loro disintegrarsi. L'immobilità impotente di fronte al disastro di coloro che amiamo e che stanno affondando. Il contrario, insomma.
L’opera racchiude anche una riflessione sulla necessità di modelli che prescindono dai vincoli di sangue, come Robert, Luc Levannier, Serge Chouraqui, figure che in modi e ambiti diversi incarnano l’idea del sensei, definito il traghettatore che apre un mondo infinito di ricerca, a cui si potrebbero aggiungere altri riferimenti che in misura diversa illuminano il cammino: Socrate, Bergson, Deleuze, Merleau-Ponty, Michaux, Péguy.
Che ruolo assume l’idea di trasmissione della conoscenza e in che modo è possibile scorgere il proprio racconto per attualizzarlo come lotta?
[L.L.] La felice esperienza di un padre adottivo che è stato il mio San Cristoforo mi ha aiutato a capire che l'unica cosa che conta sono gli incontri, e che si trattava di accogliere altri esseri che potessero svolgere lo stesso ruolo di Robert. Per indicare la strada. Ho incontrato questi esseri nel corso della mia vita. Continuano a mostrarmi la strada, continuano a fare di me un figlio e un allievo. Allo stesso modo, ho voluto che i miei figli non avessero solo me come padre. Ma che avessero intorno a loro altri padri che gli permettessero di respirare e di trovare la loro strada. Jaume Xifra, Jacques Charmatz e Robert Lang, naturalmente.
In una delle sue opere più note, La tentazione, il mondo animale fa da contrappunto all’avventura umana: la costante allegoria della passione e morte del cervo è l’immagine su cui si fonda la narrazione di una realtà famigliare implosa. Curare quel che si è cercato di distruggere è la metafora che innerva l’intera opera, e nasce dall’improvvisa consapevolezza di una sproporzione del potere che genera predominio sull’altro. Al contempo ogni immagine feroce è contrapposta a un’idea di purezza, simboleggiata dallo spazio dell’infanzia, centrale nell’opera anzitutto per ridefinire la rappresentazione del tempo sulla base della sua accezione come una “intuizione euforica di un tempo aperto”. Christa Wolf affermò: “Chi vuole mettere mano alla propria infanzia non speri di procedere rapidamente”.
In che misura la dimensione famigliare, da sempre esplorata in misura diversa nelle sue opere, può essere concepita come osservatorio sullo smarrimento dell’individuo? E che spazio è riservato all’infanzia nella possibilità di acquisire un nuovo sguardo, in particolare nell’esperienza della paternità che favorisce “l’accoglienza del bambino nell’infanzia del padre”?
[L.L.] Gli animali sono, ovviamente, l'immagine assoluta dell'innocenza. Per noi umani. In modo diverso, lo sono i bambini. In altre parole, esseri che non hanno potere, che non possono difendersi e che sono aperti al mondo, pronti ad accoglierlo. Altrimenti il mondo è fatto di rumore e furore.
La famiglia è uno degli ecosistemi più intensi, il più emblematico di queste discrepanze. I greci non hanno sbagliato quando hanno creato ogni tragedia come un affare prima di tutto familiare.
Ci sono pagine memorabili dedicate alla madre, una donna raccontata negli impulsi di ribellione, nella carica vitale, nell’esigenza di emancipazione e libertà, nel rigore e nel paradosso della cura, nella ridefinizione nella malattia senile che la rende un’ “artista del quotidiano, deleteria e salvifica”, perennemente in procinto di trasferirsi con i suoi scatoloni, non appena sarebbe arrivato un fantomatico innamorato con un camion dei traslochi, per condurla in un’irreale dimora lussuosa in cui vivere felici. Colpisce la capacità di narrare una perdita ancor prima che questa avvenga in modo tangibile con la morte, ma resa nell’attenzione rivolta al verbo “lasciare”.
In che modo l’esperienza dolorosa e necessaria della scrittura, concepita come un abbandono attivo a una spinta del vivente, le ha permesso di ridisegnare il futuro e di imparare ad abitare la malattia altrui, quella che Susan Sontag definì una “una cittadinanza più gravosa”?
[L.L.] Tutto questo è raccontato approfonditamente in La madre, che spero un giorno sarà tradotto in italiano…
In che misura la riflessione sul significato dell’oblio di sé agisce come riparazione?
[L.L.] È proprio di questo che parla il capitolo: dell'oblio del sé. L'io è appesantito da tutto ciò che il mondo e gli altri ci fanno sopportare. Quando siamo nella tensione dell'attività portata alla sua perfezione, non siamo altro che movimento, azione, pulsazione; siamo solo tempo, durata in atto. E non identità, che è così opprimente...