Racconti giapponesi. Intervista ad Antonietta Pastore

di Debora Lambruschini

 

La conoscenza profonda di una cultura distante dalla propria, acquisita dalla lunga permanenza e immersione totale, dai legami con le persone e, soprattutto, dallo sguardo attento e pieno di grazia con cui si vive il Paese scelto: dialogare con Antonietta Pastore – scrittrice e traduttrice dal giapponese – è spalancare una porta su un mondo complesso e ricco di fascino che racconta ai suoi interlocutori con instancabile gentilezza e puntualità. Principale voce italiana di Murakami Haruki e traduttrice di autori quali, per esempio, Natsume Sōseki, Inoue Yasushi, Kawakami Hiromi, del Giappone e delle sue complessità ha scritto in molti dei suoi libri, restituendone un ritratto non stereotipato, attento.
È da poco in libreria per Einaudi la raccolta Racconti del Giappone, una selezione da lei curata di testi di scrittori e scrittrici di tutto il mondo ed epoche differenti nati dal «desiderio di osservare e comprendere» una realtà tanto stratificata e affascinante, cui si aggiungono alcune voci prettamente giapponesi. La polifonia intrinseca della raccolta e la ricchezza di tematiche permettono di realizzare un quadro piuttosto ampio di un Paese la cui fascinazione ha sempre coinvolto l’immaginario collettivo, come tuttavia gli stereotipi e i fraintendimenti nati dalla distanza culturale. Ma è anche grazie alla letteratura, alla ricerca e al dialogo con chi quella realtà la conosce e frequenta da sempre, che possiamo conoscere la parte più vera di una società ricchissima e multiforme.


Ha operato una scelta editoriale davvero interessante: per raccontare il Giappone ha raccolto voci molto diverse per provenienza e stile narrativo da tutto il mondo, tra cui si inseriscono solo alcuni autori prettamente giapponesi. Partiamo da qui, come mai è approdata a questa scelta e che cosa ha comportato?

Quando ho iniziato a selezionare i testi da inserire nella raccolta, mi sono presto resa conto che la scelta temporale si imponeva, perché erano perlopiù impressioni di scrittori e scrittrici sul Paese e la sua gente, la fiction mancava quasi del tutto. Quindi ho pensato che fosse molto interessante, per i lettori, vedere come la percezione del popolo giapponese da parte degli autori occidentali andasse cambiando nel tempo. Dai primi incontri all’inizio del ventesimo secolo fino ai giorni nostri.  

 

Nella prefazione al testo dice, a proposito dei testi selezionati, che ad accomunarli è il «desiderio di osservare e comprendere» il mondo nipponico da parte degli autori; non turisti quindi, ma veri viaggiatori, che ne osservano le complessità culturali: quali sono a suo avviso i principali fraintendimenti circa la società e la letteratura giapponese? E come la letteratura può correggere questa discrepanza?

Noto due modi di fraintendere la cultura giapponese. Uno consiste nel vederne solo i due aspetti stereotipati e contrastanti – da una parte il mito del samurai (coraggio, violenza), dall’altra quello della geisha e dei fiori di ciliegio (grazia, delicatezza) – che i media continuano tutt’oggi a rafforzare. Un altro fraintendimento è l’idea che i giapponesi siano persone fredde e anaffettive, un’impressione generata dal loro comportamento spesso rigido, da una facciata di impeccabile cortesia aldilà della quale è difficile intuire cosa si nasconda. Quando però si riesce a oltrepassare questa barriera, si capisce che in realtà i giapponesi sono molto sentimentali e partecipi della sofferenza altrui, e inoltre che sono persone capaci di grandi passioni – passioni che spesso sono costretti a soffocare per rispettare le convenzioni sociali. La letteratura aiuta a comprendere questi sentimenti profondi che spesso restano celati nel loro animo. Per fare un esempio, la scoperta dei grandi autori giapponesi – Natsume Sōseki, Taniguchi, Kawabata... – mi ha permesso di aprire una porta che senza la lettura sarebbe probabilmente rimasta chiusa. Dove avrebbero potuto trovare, mi sono chiesta, questi autori, tutte le emozioni e le passioni che mettevano in scena nelle loro opere, se non le avessero provate personalmente, se non le avessero constatate e riconosciute in altre persone?

 

Da un punto di vista più strettamente narrativo, notiamo – come sottolinea lei per prima nella prefazione – che la maggior parte degli autori stranieri qui selezionati hanno raccontato il Giappone mediante la saggistica, il reportage di viaggio, mentre solo pochi, oltre agli scrittori giapponesi, si sono dedicati alla fiction. Da cosa dipende a suo avviso questo scarto, quali sono le ragioni di tale scelta, negli autori e nella selezione qui operata?

Se gli autori che hanno scritto del Giappone si sono quasi sempre limitati al racconto dei loro viaggi e delle loro impressioni, evitando la fiction, credo che sia per la difficoltà di ambientare un’opera di fantasia in un contesto mal conosciuto, e per molti spiazzante. Come ho scritto nella prefazione al libro, tutto quello che vedevano intorno a sé, in Giappone, costituiva un materiale narrativo sufficiente per stimolare la creatività di un autore o un’autrice, per “riempire le pagine”. Solo pochi avevano sufficiente familiarità con la società giapponese da ambientarvi un racconto, e anche in quel caso – La carne e lo specchio di Angela Carter, ad esempio – si tratta di opere che hanno una forte impronta autobiografica.

 

In “Attraverso le città in fiamme”, Paul Claudel riflettendo sulle catastrofi naturali che colpiscono il Giappone, a un certo punto dice: «Il giapponese, lui, non perde mai il senso del mistero pericoloso che lo circonda. Il suo paese gli ispira un amore ardente, ma non gli ispira fiducia. Bisogna fare sempre attenzione». Secondo lei questo sentire influenza anche la letteratura? Se sì, in quale misura e con quali risultati, in termini di forme narrative?

Secondo me il popolo giapponese è abituato a convivere con il pericolo costituito dalla natura che lo circonda, e più che temerlo, è sempre pronto a farvi fronte e ricominciare da capo dopo un disastro. In altri termini, ha sviluppato nei secoli un forte spirito di resilienza che gli permette di superare le avversità e rinascere dalle sue ceneri. Questo si riflette naturalmente nel carattere dei personaggi che incontriamo nelle opere letterarie, senza che gli autori ne siano necessariamente consapevoli. Prendo ad esempio Natsuke Sōseki: i suoi protagonisti raramente sono felici, quasi tutti si trovano ad affrontare delusioni e tragedie, ma il dolore, invece di portarli a gesti estremi, viene da loro accettato come un elemento inevitabile della vita. “Non c’è nulla da fare” è una delle frasi che ricorrono più spesso sulla bocca dei giapponesi, che non sono portati alla ribellione e tendono a rassegnarsi al il destino. Attenzione però: questo non è visto come un segno di debolezza, anzi di forza. Infatti il suicidio non è quasi mai motivato dalla disperazione, ma dal desiderio di salvare l’onore proprio e della propria famiglia (o clan, impresa, paese...) Questa mentalità, profondamente radicata nell’inconscio collettivo, si rivela naturalmente nel carattere dei personaggi che troviamo nelle opere letterarie e teatrali.
Detto ciò, non possiamo fare a meno di considerare che un gran numero di scrittori giapponesi si è suicidato. Qui però entriamo in un terreno sconosciuto, legato alla sfera privata di ognuno di loro, di cui non ho i mezzi per analizzare più approfonditamente.

 

Le case da tè, le abitazioni private e i giardini, le strade, le botteghe: i luoghi sono molto presenti in queste narrazioni, ma più di ogni cosa per raccontare «l’irriducibile elemento di mistero» che è la cultura giapponese mi pare che l’attenzione sia concentrata soprattutto – e in modo assai efficace – sulle persone, sul loro comportamento. È qui secondo lei che possiamo cogliere il vero spirito del Giappone? Ed è qui, quindi, che si concentra la narrazione, in un fil rouge a legare i testi di questa raccolta?

Sì, è qui che si è preservato lo spirito del Giappone antico, la forza e anche l’orgoglio, direi, della tradizione. I panorami urbani hanno conservato poco delle atmosfere di altri tempi, le possiamo ritrovare solo in campagna, oppure nei templi e nei pochi palazzi rimasti; ma i paesaggi, se possono infondere emozioni, non hanno la forza di trasmettere l’originalità, anzi l’unicità della mentalità, e di conseguenza della cultura e della società giapponese, solo le persone sono in grado di farlo. Malgrado il Giappone sia simile all’occidente in molti aspetti – forse più di qualunque altro paese d’oriente –, è al tempo stesso, nel comportamento dei suoi abitanti, il più distante. Credo che questo sia dovuto al fatto che non è mai stato colonizzato, nel corso della sua storia, da nessun paese occidentale; solo dopo la Seconda Guerra Mondiale ha subito l’influenza della cultura americana e poi europea, ma soprattutto negli aspetti esteriori. L’interiorità dei giapponesi – un’interiorità che si manifesta poi nelle abitudini e nei gesti quotidiani – resta a mio parere molto condizionata dalla cultura tradizionale.   

 

In questa antologia trovano spazio autori molto diversi, appartenenti a contesti sociali e momenti storici differenti. Tale scelta rappresenta un modo molto efficace per tentare di leggere i mutamenti sociali e culturali del Paese in un arco di tempo piuttosto ampio, ma ci danno anche la misura di quanto profonda sia la fascinazione che il Sol Levante esercita nell’immaginario collettivo. Qual è secondo lei il periodo in cui si è intensificato l’interesse per il Giappone da parte del mondo occidentale? E questo che cosa ha comportato per il Paese?

A partire dalla fine degli anni Settanta, inizio Ottanta, quando diversi prodotti giapponesi hanno cominciato ad arrivare sui mercati occidentali. Poi, con la diffusione sempre crescente di manga e anime – fumetti e cartoni animati –, l’attrazione per il Giappone è dilagata, diventando un fenomeno di massa. Per il Giappone, che non aveva mai smesso di interessarsi all’occidente e aveva sempre continuato, da quando nel 1868 aprì le sue frontiere, a importare mode e prodotti, questo ha costituito un grande vantaggio perché ha permesso di invertire il flusso e diventare così esportatore. Cosa che è stata ed è tuttora di grande aiuto all’economia, naturalmente, perché ha costituito una solida sponda alla crisi economica determinata, all’inizio degli anni Novanta, dallo sgonfiarsi della bolla finanziaria e dal conseguente stallo dell’industria.

 

Un’antologia è anche il mezzo ideale per esplorare scritture diverse, scoprire autori e riflettere da prospettive differenti intorno a un topos comune. In un’ipotetica antologia di voci contemporanee dal Giappone, quali sono gli autori che considererebbe?

Se vogliamo limitarci alla letteratura successiva agli anni Ottanta – cioè quella nata dopo la svolta imposta dalle opere di Murakami Haruki e Yoshimoto Banana –, io considererei, oltre a questi due autori, Kirino Natuo, Murakami Ryū, Kawakami Hiromi, Ogawa Yōko, Ogawa Ito, Furukawa Hideo. Per citare solo i più noti.