Storie di vite diverse. Intervista a Tiziana Lo Porto

di Debora Lambruschini

Diciamo spesso, in riferimento a certi testi e autori, della cura per la parola con cui taluni racconti sono costruiti; della capacità di osservazione che è requisito fondamentale per uno scrittore grazie alla quale si ri-crea sulla pagina una possibile forma di realtà. A volte, di rado, si parla anche di voci del passato, cadute nell’oblio, soffocate dal peso di una tradizione ingombrante, poi qualche volta recuperate e pronte a incontrare i lettori come se apparissero per la prima volta, senza perdere un grammo del loro peso letterario. Sono tutte considerazioni che possiamo legare a “Storie di vite diverse”, undici racconti di Bette Howland per la prima volta accessibili al pubblico italiano, ma anche al mestiere stesso del traduttore, artigiano della parola quanto lo scrittore e forse, per certi versi, anche di più. In Italia questi racconti sono pubblicati da Sem editore, nella puntuale traduzione di Tiziana Lo Porto, scrittrice e traduttrice di lunga esperienza, che ringraziamo per questo scambio davvero molto denso di spunti.

 

La storia editoriale di Bette Howland è una storia di mancanze: tre libri, premi importanti, poi la rinuncia alla pubblicazione e l’oblio; la riscoperta casuale e fulminante. In Italia viene tradotta ora, per la prima volta. Può raccontarci come siete arrivati, lei e l’editore Sem, a scegliere di tradurre questa raccolta? Come si colloca, a suo parere, nel dialogo letterario contemporaneo?

La scelta di tradurre il libro di Bette Howland è esclusivamente della casa editrice, e in particolare dell’editor straniera di Sem, Maria Giulia Castagnone, che oltre a essere una bravissima editor è anche una grande traduttrice. Sono stata contattata dopo che il libro era stato acquistato per essere tradotto in Italia. Un privilegio. Conoscevo i racconti di Howland, ma traducendo si raggiunge un’intimità con l’autore che nemmeno la lettura o rilettura di un libro ti consente di ottenere.

 

I rapporti famigliari, le complessità dell’animo umano, le solitudini e le miserie quotidiane, la vecchiaia, il disagio: lo sguardo di Howland si posa su questi aspetti, indaga le pieghe, le zone d’ombra, e sorprende per l’ironia che traspare, mai feroce. Ne deriva una scrittura estremamente particolare, in bilico fra realismo concreto e frammentarietà del racconto, densa e stratificata. Che cosa ne pensa e quali altri aspetti secondo lei caratterizzano questi racconti?

Sono assolutamente d’accordo. Trovo poi che ci sia una capacità di osservazione, che precede la scrittura dei racconti, che arriva al lettore, quasi mostrando il tempo in cui lo sguardo di Howland si è attardato su certi luoghi ed eventi, consapevole o meno che poi ne avrebbe scritto e li avrebbe raccontati. E c’è una esattezza rara nella scelta delle parole, nella composizione delle frasi. Spero di averla restituita.

 

Storie di vite diverse raccoglie undici racconti scritti fra il 1962 e il 1999, una distanza temporale piuttosto importante, eppure queste storie non sembrano invecchiate di un giorno, tanto per tematiche e spunti quanto per la voce dell’autrice. Ecco, su quest’ultimo aspetto, quanto ha inciso la traduzione?

La traduzione cerca di essere fedele alla pagina, alla singola pagina, per cui se fai un buon lavoro la resa dovrebbe rispecchiare il contenuto iniziale, e soprattutto la voce dell’autrice. Howland ha una scrittura assolutamente contemporanea, e anche le tematiche che affronta (mi viene in mente il razzismo, ma anche lo sguardo attento verso le disparità sociali) già nel 1962 sono assolutamente contemporanee. La traduzione poi viene fatta oggi, nel 2021 nel caso di questo libro, e questo è un dato da cui non si può prescindere. È impossibile azzerare la contemporaneità del traduttore, anche quando traduce un manoscritto del settecento. Il lavoro che fa è trovare il giusto equilibrio, sparire del tutto è impossibile, ma ci si può abbandonare all’altro, per certi versi affidarsi alla scrittura dell’altro, dell’autore che si traduce, entrare nella sua testa e stare per un po’ dentro la sua vita. In questo il mestiere del traduttore somiglia a quello dell’attore.

 

Chicago, con i suoi quartieri operai, è a mio avviso protagonista al pari dei personaggi che popolano queste storie. Quanto è profondo secondo lei, nei racconti in questione, il legame tra la città, le vite dei protagonisti e le loro scelte? Quanto ne sono condizionati? Secondo lei ha impatto anche sulla scrittura stessa?

Il legame con la città è essenziale, anche per la scrittura. Howland aveva una grande capacità di ascolto, ascoltava la gente, i loro discorsi, anche di sconosciuti, o dei suoi parenti, per poi rimettere in scena con quello che prima hai definito giustamente “realismo concreto” nei suoi racconti. Ed è necessaria a questo tipo di scrittura (un lavoro simile lo fa Eve Babitz, che ho tradotto negli ultimi anni per Bompiani, con la città di Los Angeles) la conoscenza e il controllo del territorio, la fedeltà alla geografia, alla topografia, alle distanze e ai tempi di percorrenza (per esempio in autobus, da un quartiere all’altro di Chicago, bisogna sapere quanto ci si mette per capire quanto tempo si ha disposizione per i dialoghi e i pensieri della Howland mentre viaggia dentro il racconto). Chicago incide sulle vite dei protagonisti, ed è inevitabile, ma è interessante osservare come la città abbia inciso anche sulla scrittura di Howland. 

 

Nelle interviste e riflessioni sulla traduzione dice spesso che la parte più interessante del suo lavoro è trascorrere molto tempo «dentro la testa dell’autore»: in questo caso, con Bette Howland, che cosa ha comportato? E come si è approcciata alla traduzione del testo?

Sì, e in effetti l’ho detto anche prima in una risposta… Ci torno spesso perché è una delle cose che amo di più della traduzione (insieme all’uso quasi compulsivo dei dizionari, in particolare sinonimi e contrari, per esplorare le possibilità della lingua, anche di quella italiana). Entrare nella testa dell’autore ti permette di sospendere il tempo in cui vivi, e in certe circostanze non solo è utile, ma ti permette di sopravvivere. Nel caso di Howland ha comportato sapere qualcosa di più sulla vita, immaginare meglio Chicago (non ci sono mai stata, ma alla fine era come se fossi là), cose così. Di lei mi affascinava il fatto che pur essendo una magnifica scrittrice è come se la scrittura fosse e non fosse la sua priorità. Scrivere le veniva naturale come bere l’acqua o fare una passeggiata, ma non ha mai avuto le ambizioni che hanno la maggior parte degli scrittori. Sembra che anche per lei fosse una cosa non solo utile, ma che ti permette di sopravvivere.

 

Entrare nella testa dell’autore incide profondamente nel modo di leggere il suo testo, di comprenderlo; l’atto di traduzione è qualcosa di complesso, stratificato, intimo perfino. Per lei è importante sentirsi vicini all’autore e/o al testo da tradurre? Quanta distanza invece è necessaria per la riuscita della traduzione?

L’equilibrio tra le due cose, tra il restare se stessi (comunque il traduttore ha il controllo della lingua di arrivo – l’italiano è una lingua quasi sempre sconosciuta per l’autore tradotto, sempre che sia vivo e possa dire la sua), e l’essere vicini o fedeli all’autore, è una cosa più intuitiva che ragionata. L’eccesso di ragionamento a volte danneggia il testo. Per esempio, là dove posso evito di leggere un libro prima di tradurlo: leggo e traduco contemporaneamente. Perché mentre traduco voglio provare e restituire l’emozione dell’autore nel momento in cui scriveva. È quello che Kerouac chiamava “telepatic shock”, parlando della scrittura, ovvero della capacità che deve avere lo scrittore di intrappolare nella pagina l’emozione che prova in quel momento per restituirla e farla provare al lettore. Quella capacità lì deve averla anche il traduttore.

 

L’opera di Howland sembra rifuggire etichette e inquadramenti, e i racconti qui presentati ne sono un esempio: spunti autobiografici, fiction, non fiction, per quel che riguarda la forma; ma anche una ricchezza tematica e una polifonia di fondo che rendono l’opera assai interessante e stratificata. Qual è la sua idea a riguardo?

Penso che la scrittura debba sempre essere così. Non debba avere o mettersi dei limiti per definizione. Debba sempre rifuggire etichette e inquadramenti. È l’unico modo per non ripetere qualcosa che è stato già fatto, detto, scritto. In questo Howland è bravissima.

 

Nella sua carriera ha tradotto autori, autrici e testi molto diversi fra loro ma legati a mio avviso da un elemento: sono tutti, in qualche modo, outsiders. E Bette Howland ne è la summa, tanto per il suo lungo confinamento ai margini del panorama editoriale quanto per l’anima stessa delle sue storie, dei suoi protagonisti. È d’accordo?

Sì, assolutamente. Gli outsiders sono interessanti. Per certi versi hanno un maggiore margine di libertà.

 

Personalmente non amo troppo le divisioni fra letteratura maschile e femminile – per me semplicemente si può parlare di buona e cattiva letteratura – ma riguardo la traduzione mi incuriosisce sapere se secondo lei la coincidenza di genere fra autore/autrice del testo e traduttore/traduttrice influenza in qualche modo il lavoro.

Assolutamente no. Che sia uomo o donna l’autore, il lavoro ha bisogno della stessa attenzione e richiede la stessa fatica. Entri nella testa dell’autore, ti immedesimi in lui, a prescindere dal fatto che sia maschio o femmina. E tra l’altro se si tratta di finzione ti immedesimi in tutti i personaggi. D’altronde non tutte le donne sono uguali, non potrà mai essere la stessa cosa tradurre Emily Dickinson o Patricia Highsmith o Lena Dunham. Lo stesso vale per gli uomini. Ogni scrittore scrive a modo suo. Trovo insensata a tal proposito la battaglia (che per fortuna mi sembra si sia spenta da sé) portata avanti qualche tempo fa affinché si mantenesse una sorta di purezza di razza nel tradurre. Lo trovo profondamente razzista. La letteratura dovrebbe, tra le altre cose, aiutare a capire l’altro, a conoscere, ad abbattere barriere e creare ponti. E pensare che un traduttore non abbia sufficiente capacità di empatia o padronanza della lingua è anche un pensiero un po’ ignorante. Solo chi non sa cosa significhi tradurre può pensare una cosa del genere. Una delle traduzioni che mi ha dato maggiore soddisfazione e che ho amato di più fare è “La promessa” di Damon Galgut, che è un uomo, sudafricano, e bianco. Passare del tempo dentro la sua testa e dentro quella dei suoi personaggi è stato interessante.